Qualcuno la chiama il “mal di testa del suicidio”, tanto è dolorosa, assidua e invalidante. Sulla cefalea a grappolo cronica – come peraltro per altri disturbi alla testa – le conoscenze mediche e i rimedi sono ancora parziali, a dispetto della gravità del problema. Una speranza arriva proprio dal nostro Paese, con la sperimentazione di una serie di anticorpi (alcuni prossimi alla commercializzazione) che, come annunciato all’ultimo congresso della Società Italiana di Neurologia a Napoli, addiverrebbero a risultati fin qui sconosciuti.
La ricerca è stata centrata su un piccolo “peptide”, chiamato Calcitonin Gene Related Peptide (CGRP), coinvolto nella trasmissione dei segnali dolorosi. “I suoi livelli aumentano in concomitanza delle crisi e tornano alla normalità quando l’attacco si risolve”, spiegano gli studiosi. Bloccandone l’azione, si arriverebbe quindi a disinnescare o a prevenire la crisi.
Ed è con tale obiettivo che si è tentata la strada degli anticorpi monoclonali. Sono in corso attualmente quattro sperimentazioni, che hanno finora fornito segnali assai promettenti. Il più vicino all’impiego clinico (su cui è già stata presentata domanda di autorizzazione al commercio presso l’apposita Agenzia europea), denominato Erenumab, a detta dei ricercatori è capace di “ridurre in media del 70% la frequenza e l’intensità degli attacchi di emicrania cronica con una sola iniezione sottocute al mese”.
La previsione è che i nuovi farmaci saranno utili soprattutto ai pazienti più gravi, ossia in presenza di cefalea cronica (oltre 14 attacchi al mese da almeno tre mesi) o episodica ma senza rispondenza dalle terapie farmacologiche standard. “Nella nostra casistica ci sono perfino pazienti che hanno di fatto risolto il mal di testa liberandosi dalle crisi”, riferiscono gli scienziati.
La speranza è dunque concreta e in un orizzonte temporale stimato abbastanza corto. Nel frattempo, come è emerso anche all’ultimo Congresso Europeo delle Cefalee a Glasgow, permane un problema che riguarda i farmaci preventivi, ed è il loro mancato utilizzo, stimato al 90% dei casi. Omissioni terapeutiche da superare con urgenza, considerando anche l’ampiezza del disturbo, che coinvolgerebbe circa l’1% della popolazione, che merita di essere curato.