È possibile trattare gli invalidanti sintomi della malattia di Parkinson agendo sull'intestino. Più precisamente sul microbiota intestinale, tramite l'utilizzo di specifici batteri probiotici. Ci ha provato con successo, almeno a livello sperimentale, un gruppo di ricercatori della Georgia Research Alliance presso l’Università della Georgia (UGA) in uno studio presentato all’incontro dell’American Society for Pharmacology and Experimental Therapeutics.
Nel dettaglio i ricercatori hanno progettato batteri probiotici in grado di sintetizzare una proteina che potrebbe essere impiegata nel trattamento del Parkinson. I probiotici sono stati creati per sintetizzare il precursore della dopamina L-DOPA, un potente trattamento di base per la malattia del Parkinson. I test preclinici, riportano gli autori, mostrano un buon profilo di sicurezza e tollerabilità. Questo approccio, infatti, non si è dimostrato associato agli effetti collaterali che possono svilupparsi quando la proteina viene somministrata per via orale. L’assunzione di L-DOPA è infatti parte del trattamento base del Parkinson da oltre sei decenni, ma è associata a una serie di complicazioni.
“Sfruttare la capacità metabolica dei microbi benefici che vivono nell’intestino – afferma da Anumantha Kanthasamy, che ha coordinato lo studio – ci permette di sintetizzare una molecola importante per il trattamento del Parkinson. Questa tecnica di bioingegneria microbica è progettata in modo che i pazienti possano produrre L-DOPA direttamente all’interno del proprio organismo”. Aggiunge Piyush Padhi, studente di dottorato presso il laboratorio di Kanthasamy e altra firma dell’articolo: “Abbiamo agito su una tecnologia di somministrazione di farmaci basata sul microbioma intestinale in questo modo è possibile ottimizzare il trattamento affinché il corpo possa produrre la dose necessaria di proteina”. Gli scienziati hanno utilizzato un modello murino per valutare l’efficacia del trattamento, e i risultati preliminari sono stati molto incoraggianti. “Attualmente stiamo esplorando l’impiego di questo approccio per fornire trattamenti per altre condizioni – conclude Kanthasamy – ad esempio il morbo di Alzheimer e la depressione. Attendiamo l’approvazione della Food and Drugs Administration (FDA) per avviare i test clinici sull’uomo”.