Una semplice modifica delle modalità di somministrazione degli antibiotici ai pazienti colpiti da sepsi, una condizione potenzialmente letale, potrà salvare migliaia di vite. Un gruppo di ricercatori dell’Università del Queensland e del George Institute for Global Health ha scoperto che la somministrazione endovenosa continua di antibiotici è in grado di curare le infezioni in proporzione maggiore rispetto alla pratica standard di infusioni multiple brevi. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of the American Medical Association.
“La sepsi rappresenta una grande sfida nei reparti di terapia intensiva di tutto il mondo”, spiega il direttore scientifico del George Institute for Global Health, Jason Roberts. “Negli ospedali la si affronta somministrando l’antibiotico tre volte al giorno come infusione di 30 minuti”. L’intervento proposto dai ricercatori è di somministrare la stessa quantità totale di farmaco in un giorno, ma come infusione continua. La sperimentazione clinica ha comportato l’analisi di oltre quattro milioni di punti dati raccolti da 7000 pazienti in sette paesi, il che la rende uno degli studi randomizzati sugli antibiotici finora condotti.
“Abbiamo scoperto che somministrando queste dosi di antibiotico ad infusione continua – spiega Roberts – possiamo mantenere la concentrazione dell’antibiotico nel sangue e nei tessuti del paziente e uccidere i batteri a un ritmo maggiore”. Aggiunge Naomi Hammond, responsabile del programma di terapia intensiva presso il George Institute: “I dati combinati hanno mostrato un beneficio molto significativo con l’uso di un’infusione continua, salvando una vita ogni 26 pazienti trattati”. I risultati di questo lavoro arrivano in un periodo in cui le sepsi sono in aumento, osservano i ricercatori. In Australia, ad esempio, muoiono per sepsi più persone che per incidenti di traffico. “Data la natura semplice dei risultati e delle conversazioni che stiamo avendo tra gli ospedali, prevediamo che la maggior parte adotterà immediatamente questi cambiamenti”, concludono i ricercatori.