Lo chiamano oramai così, il “diabete urbano”. Non è una variante della patologia ma una drammatica presa d'atto di quanto essa coinvolga primariamente le città, tanto da suscitare in questi giorni analisi, convegni (uno al Senato, organizzato dal “think tank” Health City Institute), e perfino un appello che l'Associazione Nazionale Comuni Italiani ha rivolto a se stessa, ossia ai sindaci, per sensibilizzarli al problema.
L'impatto della malattia in Italia ha raggiunto cifre impressionanti: nei conteggi ufficiali sono 3,3 milioni le persone colpite, secondo l'Istat, ossia il 5,4% della popolazione, e molte di loro sono esposte ad altri rischi sanitari. Si stima ad esempio, che ogni 7 minuti un diabetico abbia un attacco cardiaco, ogni 10 un altro sviluppi un problema serio alla vista, mentre solo la metà dei pazienti consegue un buon controllo glicemico.
Tra i tantissimi pazienti, ci sono molti che si curano male, non seguono per bene le terapie o le indicazioni alimentari, e ci sono anche quelli (come l'amato Paolo Villaggio) che scelgono perfino di non curarsi affatto. E poi c'è un nodo ulteriore, rappresentato dal fatto che tali cifre sono solo una sottostima dell’entità del problema, tant'è che si calcola che c’è un altro milione di italiani affetti da diabete senza saperlo.
Se poi si scompone tale dato su base territoriale, balza appunto agli occhi il problema delle città. Oltre la metà dei diabetici italiani vive nei cento più grandi centri urbani. A Roma, ad esempio, l'incidenza della patologia sale, dalla citata media nazionale del 5,4%, al 6,5%. E se si mette la lente sul rapporto tra centro e periferie, si vede che in queste ultime la proporzione si impenna al 7,3%. “Una chiara evidenza dell'impatto dell'ambiente sullo sviluppo della malattia”, nota Chiara Frontoni, presidente del Comitato scientifico dell’Italian Barometer Diabetes & Obesity Forum.
Al di là degli aspetti terapeutici, e dei progressi scientifici in materia, il tema chiama dunque in causa l'assistenza in senso lato. Il diabete è una “pandemia sociale”, nella definizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, e come tale va “curato”. Coinvolge selettivamente le aree urbane, specie quelle più disagiate, nonché le fasce deboli, a iniziare dagli anziani. E lo fa in almeno due aspetti, incidendo sia sul rischio di ammalarsi (stili di vita, qualità dell'aria, alimentazione), sia sulla difficoltà a curarsi, data la solitudine in cui si trovano in città moltissimi pazienti, soprattutto in età avanzata. “Le campagne di comunicazione per migliorare i comportamenti privati di prevenzione sono fallimentari”, ha ammesso anche il presidente della Società Italiana di Medicina Generale, Claudio Cricelli. Si tratta invece di non lasciare le persone sole. E questo è un tema non solo sanitario.