Nei giorni scorsi si sono moltiplicati i lanci d’agenzie stampa e gli articoli giornalistici sull’ultimo rapporto del Censis sulla salute degli italiani e i relativi costi, destando qualche perplessità di vari tipo tra gli addetti ai lavori (della sanità e dell’informazione) nonché tra cittadini e pazienti. Per questi ultimi, è stata una presa d’atto, se non la conferma, di una situazione di seria difficoltà delle persone a curarsi, specie in tempi di difficoltà economiche e limiti alla spesa pubblica. Per altri una ripetuta esagerazione.
Il rapporto dice che gli italiani sono stati costretti, nel 2016, a spendere di tasca propria (per gli alti costi e le estenuanti liste d’attesa) la cifra di ben 37,3 miliardi di euro, mentre la spesa pubblica nel settore, in rapporto al Pil, è rimasta assai inferiore agli altri Paesi europei: da noi è al 6,8%, in Germania arriva al 9. L’esito ultimo, in tempi di bassi salari e disoccupazione, è che il numero degli italiani che rinunciano alle cure almeno una volta l’anno per mancanza di denari è salito a 12,2 milioni, ben 1,2 milioni in più rispetto all’anno precedente.
Dati talmente pesanti che lo stesso Ministero della Salute ha ritenuto di dover puntualizzare. Anzitutto notando come si trattasse di “dati vecchi”, già divulgati due mesi fa (e infatti pubblicati anche da noi). E poi contestando la cifra delle persone che rinunciano alle terapie. “E’ solo una proiezione su un’indagine campionaria, ed è in evidente contrasto con due precedenti indagini Istat su vastissima scala”, obietta il dicastero, argomentando che il dato reale corrisponderebbe solo a un terzo di quello indicato dal Censis.
Puntualizzazioni a parte, il problema c’è, fossero anche solo 4 milioni quelli che non possono permettersi di curarsi. E’ un problema esteso, che richiama anche la priorità etica di ricordare la possibilità di ricorso ai farmaci equivalenti, di accertata efficacia e sicurezza terapeutica. E ricade inoltre sulla qualità dell’alimentazione, in un circolo vizioso per la salute.
Una ricerca molisana, dell’Istituto Irccs Neuromed di Pozzilli, ha infatti accertato che “la dieta mediterranea fa bene, ma solo ai benestanti”. A parità di consumo di pesce, frutta, cereali “buoni” che hanno fatto la fama mondiale, oltre che la salute, delle nostre tradizioni, inciderebbe tantissimo la qualità (e quindi il costo) dei prodotti acquistati, sul nostro benessere. E’ un problema drammatico. Che coinvolge la scelta (per cause economiche) dei cibi, freschi o non freschi, ma, si badi, non riguarda invece affatto la scelta tra medicinali di marca o meno. Su questo la differenza di prezzo dipende solo dalla scadenza del brevetto del brand, nient’affatto dalla qualità.