E’ a malapena nel nostro vocabolario, eppure è una patologia diffusa e letale, tanto da contagiare circa 250mila italiani l’anno (e circa 26 milioni di persone nel mondo), uccidendone circa un quarto. Si tratta di un’infezione diffusa, che può colpire in una sorta di paralisi gli organi essenziali, dal cervello ai polmoni, dai vasi sanguigni al cuore, e non assolve gli ambiti ospedalieri, tanto da coinvolgere anzi, fino al 7%, i pazienti ricoverati, per le resistenze e le contaminazioni ivi attivate.
E’ chiamata anche “sepsi”, dall’eloquente termine greco che indicava la “putrefazione”, quale reazione infiammatoria all’invasione dell’organismo di microrganismi patogeni, un fenomeno che, seppur largamente sconosciuto, ha tassi di mortalità superiori perfino a disgrazie diffuse come l’infarto o l’ictus.
Pericolosità tali che addirittura, lo scorso maggio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha decretato la setticemia come “emergenza sanitaria globale”. Non lo è più il virus Zika, per esempio, lo è la “sepsi”, seppure non rappresenti una “nuova” patologia, ma un’infezione antica. Il problema principale, a detta degli esperti stessi, è la scarsa conoscenza, a fronte per giunta di costi di cura e ospedalizzazione enormi, oltre i 25mila euro a paziente.
Può colpire chiunque, anche se le categorie deboli, anziani e bambini, restano le più esposte. Con tassi di mortalità appunto elevatissimi, che si innalzano dell’8% per ogni ora di ritardo nel trattamento.
Il tema è pubblico, e rivolto anche ai pazienti, tant’è che nei giorni scorsi è ricorsa la “Giornata Mondiale”, con eventi informativi in varie città italiane, ma il messaggio è anzitutto rivolto agli addetti ai lavori. Si tratta di usare per bene gli antibiotici, riconoscere i sintomi, prescrivere i farmaci più adeguati a ridurre le resistenze attivate dalla malattia che alimentano le infezioni. L’informazione pubblica è anche qui essenziale, ma il salto di qualità nell’attenzione è in questo caso richiesto soprattutto ai medici.