Perfino il New York Times ha rilanciato in questi giorni la storia di un bimbo napoletano di meno di tre anni, sepolto quasi mezzo secolo fa a Napoli, nella basilica di San Domenico Maggiore, e naturalmente mummificato nell’aria secca degli anfratti della chiesa, sui cui resti una squadra di ricercatori internazionali ha effettuato approfondimenti molecolari che hanno radicalmente modificato gli esiti iniziali dell’“autopsia”.
Gli ultimi risultati scientifici sono pubblicati sulla rivista Plos Pathogens, la firma è della McMaster University di Hamilton, con collaborazioni perfino da un istituto australiano, nonché dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, la stessa che trent’anni fa scoprì la piccola mummia in un’esplorazione nella basilica, ipotizzando che il bimbo fosse stato ucciso dal vaiolo, in una forma che avrebbe preceduto i suoi effetti pandemici dei secoli successivi.
Sembrava insomma un caso d’esordio di quella patologia. Invece si trattava di tutt’altro: fu solo un’epatite B dicono le evidenze degli odierni esami del Dna sui tessuti del bambino. Le pustole preservate sul suo volto che avevano suggerito la diagnosi di vaiolo non hanno trovato conferma nelle successive analisi. Dagli approfondimenti è emerso che tale sintomatologia può essere compatibile con l’epatite, patologia che, pur con qualche perdurante margine di dubbio ed errore, agli ultimi riscontri è risultata la più plausibile.
Per la storia, il piccolo – che indossava una veste monastica in seta molto ricca – proveniva senz’altro da una famiglia opulenta al pari delle altre mummie rinascimentali ritrovate nella Basilica. “Pensiamo appartenga alla casa ducale degli Aragona, duchi di Montalto: i test al radiocarbonio ci hanno permesso di datare i resti alla metà del Cinquecento, e anche l'abito corrisponde”, spiega il paleopatologo Gino Fornaciari.
Per la medicina, il tema è altrettanto intrigante. Si stima che oltre 350 milioni di persone oggi abbiano infezioni croniche da epatite B, e addirittura un terzo della popolazione odierna ne sia stata prima o poi infettata, almeno in forma lieve. Quel che ci dice la piccola salma è che il codice genetico di tale malattia, diffusissima in Italia anche all’epoca, è mutato pochissimo, a differenza di altre. Essendo trasmessa perlopiù per via sessuale e non tramite vettori animali, il virus non avrebbe avuto necessità di “adattarsi”. La notizia è che non è mutato, e nuoce ancora. “Comprendere l’evoluzione dei patogeni è la quintessenza per scovare il modo di sradicarli”, concludono gli studiosi.