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Sulla lebbra si sono fatti passi da gigante nell’ultimo mezzo secolo ma ha torto chi pensa che il mondo abbia chiuso i conti con la patologia.

No, non è finita. Sulla lebbra si sono fatti passi da gigante nell’ultimo mezzo secolo ma ha torto chi pensa che il mondo abbia chiuso i conti con la patologia.

La lebbra esiste ancora in più zone del pianeta, in particolare in India e in Brasile, per un totale di oltre 216mila casi l’anno (cifra 2016)  e perfino il nostro Paese non ne è esente, con alcune decine di diagnosi annue. Insomma uno “spauracchio” apparentemente del passato che tuttavia reclama ancora attenzione, anche e forse soprattutto, per quel che rivela, dall’antichità a oggi, sul nostro modo di pensare al tema generale della salute.

Tecnicamente, ogni due minuti una persona ne è colpita, sostiene l’Associazione Amici di Raoul Follerau, che prende il nome dallo scrittore e attivista francese che ne promosse dal 1954 la Giornata mondiale, osservata anche nella scorsa ultima domenica di gennaio con la campagna #maipiù, per dire basta alla malattia ma anche “all’indifferenza”. Il tema cruciale è infatti questo: l’ostacolo ritenuto più grave è proprio il permanere di discriminazioni, pregiudizi e reticenze, a danno anzitutto della fascia più colpita, quella dei bambini, e a discapito della loro esistenza sociale oltre che delle possibilità di diagnosi e cura.

Attenzione, perché qua siamo al cuore non solo di un problema sanitario ma anche  della cristianità segnata dal Nuovo Testamento: lo stigma sul lebbroso era ampiamente presente nella letteratura biblica  e fu solo con l’arrivo di Gesù che si cambiò completamente rotta.

Come spiegano i sacerdoti e i filosofi, Gesù “purificò” il lebbroso, e lo fece “toccandolo”. Non fu solo una guarigione, dunque, ma anzitutto una vera e propria liberazione e rivoluzione culturale. Abolì la separazione netta tra “il puro e l’impuro”, che ordinava il pensiero dell’epoca e, a tutt’oggi ed esplicitamente, le società di miliardi di persone, a iniziare da quella dell’India, gerarchizzata in funzione alla “purezza” di ciascuno (abitudini e professioni incluse), ossia alla sua lontananza dalle possibilità di contatto con le fonti organiche di “inquinamento”.

Insomma, noi europei saremmo culturalmente liberati dal pregiudizio verso la malattia, ma la realtà è che non è proprio così. La stessa India, paradossalmente, ci insegna qualcosa, perché, pur nell’esplicitare ancora il pregiudizio, non lo nasconde, né nasconde la patologia e la morte, anzi ne fa oggetto di espliciti riti e discorsi quotidiani sull’ordinaria condizione umana. Noi quel pregiudizio verso i malati l’avremmo superato da un pezzo, da oltre duemila anni, ma dobbiamo fare ancora un passo in più per la piena e attiva integrazione sociale di chi è malato, senza reclusioni, esclusioni e diffidenze. La lebbra è solo il caso limite, il problema coinvolge tutte le malattie e le debolezze umane.

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