“Il tumore della cervice è una delle forme più prevenibili e trattabili del cancro”, ricordava lo scorso maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità, lanciando un appello globale all’azione, data l’ampiezza del problema (una donna muore di tale malattia ogni due minuti) e al contempo la disponibilità appunto degli strumenti per combatterlo. La dimostrazione concreta arriva ora dall’Australia che, come riferisce la rivista Lancet, si avvia a diventare il primo Paese pressoché “libero” da questo tumore.
Il traguardo sarà tecnicamente raggiunto, si stima, nel 2028. Nel dettaglio, entro il 2022 ci saranno meno di 6 casi ogni 100mila abitanti (riducendosi al novero dei “tumori rari”), 6 anni più tardi si scenderà a 4, e le morti saranno ridotte a meno di una su 100mila entro il 2035 a condizione che – e qui sta la spiegazione del successo – “saranno mantenute l’alta copertura vaccinale e l’adesione agli screening”. Nel Paese oceanico, un programma di screening su questi tumori è infatti attivo dal 1991, e la vaccinazione da papillomavirus (Hpv) ha raggiunto il 79% tra le ragazze e il 73% tra i ragazzi.
L’Italia purtroppo è ben lontana da tali cifre. Secondo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro si registrano ogni anno circa 2300 casi di tumore della cervice, e a una donna su 10mila viene diagnosticata in forma avanzata. Con l’esito che circa 430 italiane muoiono annualmente per questa patologia, che risulta la seconda forma tumorale tra le donne, dopo il cancro alla mammella.
Come ricorda un documento della Fondazione Gimbe, richiamato anche dalla Fondazione Veronesi, non sono peraltro coinvolte solo le donne. Il virus Hpv causa malattie genitali, anali e orofaringee in ambedue i sessi, e in particolare il 90% dei carcinomi della cervice uterina e dell’ano, oltre a larga parte di patologie minori, come le verruche anogenitali.
E perché l’Italia presenta cifre così lontane dall’Australia? La ragione starebbe proprio nella copertura della vaccinazione anti-Hpv, che invece di aumentare risulta in picchiata. Era a circa il 70% tra i nati tra il 1997 e il 2000, mentre quattro anni più tardi è precipitata al 53%, mentre la speranza governativa era di arrivare al 95% entro il 2019. Il vaccino non rientra tra quelli obbligatori ma è comunque offerto gratuitamente a maschi e femmine di 11-12 anni. Un evidente fallimento, dunque. Che rappresenta, nelle parole del presidente del Gimbe Nino Cartabellotta, “un emblematico esempio dei gap tra ricerca scientifica e sanità pubblica, nonostante il consolidamento progressivo delle prove di efficacia e del profilo di sicurezza dei vaccini anti-Hpv”.