Vi ricordate “Quelo”, l’esilarante santone concepito da Corrado Guzzanti? La chiave del personaggio era nel suo tormentone: “Le risposte non le devi cercare fuori, la risposta è dentro di te. Epperò è sbagliata”. Quel che prendeva di mira il grande comico è un fenomeno culturale dilagante nei nostri tempi, che affolla da oramai decenni le nostre tv e librerie (e ancor di più quelle statunitensi). La tendenza suggerita – con pubblicazioni “motivazionali” che spaziano dall’ambito socio-emotivo alla ricerca del successo economico, e perfino alla salute psico-fisica – è quella di mettere al centro l’introspezione, come chiave di volta e di “svolta”, per giunta in tempi brevi, con salvifiche scorciatoie.
Ė una sorta di “fai-da-te” applicato a ogni ambito vitale, ovvero, nelle parole dei suoi promotori, un percorso di “miglioramento auto-guidato”. Niente di male con l’introspezione, naturalmente, che è anzi variabile cruciale nella crescita e rafforzamento personale. Quel che molti esperti obiettano, a cominciare dagli stessi psicoterapeuti, è però il contenuto piuttosto pericoloso di alcuni messaggi, specie per chi già si trova in uno stato di depressione, quali l’incoraggiamento implicito a chiudersi nella solitudine e la costruzione di un orizzonte di “onnipotenza” di sé, che, a fronte di un illusorio sollievo, è invece fonte di ulteriore frustrazione data la naturale sussistenza di limiti umani, interni ed esterni.
L’ultima critica arriva in questi giorni da un’intervista all’Ansa di Svend Brinkmann, dell’Università danese di Aalborg, autore di un pamphlet in proposito, tradotto anche in italiano: “Contro il self help: come resistere alla mania di migliorarsi”. “La nostra cultura chiede il continuo migliorarsi, non importa quanto sei in gamba, non lo sarai mai abbastanza; ciò crea una mentalità depressiva, infatti chi soffre di depressione ha questa idea di non essere all'altezza”, spiega lo psicologo, chiamando a “combattere l'illusione di potersi auto-migliorare venduta senza la minima traccia di evidenza scientifica”.
Brinkmann attacca il concetto che “l'individuo possa controllare tutto e che la felicità sia una ‘scelta’, quindi se sei infelice è solo colpa tua”. E infine lancia una semplice controproposta: niente libri self-help (“sono come una droga, perché non basta mai, perché non funzionano”), bensì romanzi: “Ti aiutano a vedere la vita umana nella sua complessità e l'impossibilità di controllarla”.
La critica al fenomeno ha oramai solidi pregressi nel mondo degli addetti ai lavori, anche in Italia. Non tutti i libri di tale filone sono da buttare, anzi, ma il problema di fondo è quello di scegliere testi di “guru” improvvisati anziché di psicologi e altri esperti di problemi depressivi. Per gli interessati, c’è inoltre una crescente letteratura filosofica e storico-antropologica che sottolinea la fragilità delle pretese, anche teologiche, specie in Occidente, derivanti dall’idea di un “paradiso terrestre” e da quella di un “uomo-divinità”, in quanto incarnazione di essa. Il messaggio di fondo è qui invece che siamo per definizione esseri mortali e imperfetti, e il nostro posto, almeno per ora, è in questo mondo difficoltoso. “Quelo” ha ragione all’incontrario: guai a rinchiudersi nel recinto dell’autosufficienza e della solitudine, si deve invece ricominciare a cercare “fuori”. Senza più esitare a chiedere aiuto. E se il tema è la salute, psichica o fisica, appoggiarsi ai professionisti che dedicano la vita a occuparsene.