“Ministro, guardi, il Pronto Soccorso oggi è vuoto, sta giocando il Napoli”. Il paradosso raccontato l’anno scorso in un’intervista televisiva da Beatrice Lorenzin, in merito a una sua visita sorpresa al Cardarelli, è multiplo ma convergente. La tempistica dei “momenti di tregua” al pronto soccorso rivela il medesimo problema cronico della tendenza al sovraffollamento: quello dell’abuso da parte di alcuni che, per scarsa urgenza ed entità del loro malanno, avrebbero il diritto e dovere di trovare altri spazi per curarsi.
Gli ultimi dati delle strutture regionali aggravano il concetto. Nel Trentino, ad esempio, si stima che circa 40mila pazienti si rivolgono ogni anno al pronto soccorso pur non avendone bisogno. I “codici bianchi” (che secondo il protocollo non hanno problemi urgenti e non sono in pericolo) sono quasi un terzo. Sommati ai “codici verdi” (che pur avendo qualche problema in più potrebbero comunque rivolgersi al proprio medico curante), la proporzione sale addirittura all’83% (dati riferiti al 2014).
Il problema non è solo italiano. Un approfondimento, coordinato dalla Plymouth University e pubblicato in questi giorni sulla rivista Health Services and Delivery Research, nota che le ammissioni nelle strutture d’emergenza britanniche sono aumentate del 47% in 15 anni, con un’accelerazione negli ultimi. Si tratta inoltre di una stima solo parziale della pressione sulle sale di pronto soccorso in quanto non conteggia i pazienti che, come consentito dalle norme oltremanica, possono essere “non ammessi”.
Il dibattito è aperto e urgente, su scala globale. La strada è naturalmente quella di un potenziamento delle alternative sanitarie. Al di là dei nodi normativi (ticket, assunzioni di personale), il tema è anche la prassi organizzativa. C’è chi suggerisce ai medici di “uscire dall’ospedale”, chi invece incalza quelli di famiglia a una più stretta cooperazione con gli ospedali stessi. Un aspetto interessante comunque suggerito dalla ricerca inglese – che compara le prassi in 4 diverse strutture – è l’assenza di una “ricetta universale”. Nella logica di un’assistenza territoriale diffusa, è il contesto locale a fare la differenza.