Il dato è clamoroso, quasi inedito negli ultimi settant'anni di storia non solo italiana ma continentale. “Era successo nella Russia post-comunista, che invece di investire in prevenzione si è disgregata”, nota Walter Ricciardi, presidente dell'Istituto Superiore di Sanità e coordinatore del rapporto “Osservasalute” presentato nei giorni scorsi a Roma all'Università Cattolica. Quell'elaborazione fornisce un'amara conferma di quanto temuto da qualche mese: la speranza di vita in Italia, per la prima volta, diminuisce.
Nel 2015 le morti sono state 54mila in più rispetto all’anno precedente, aveva avvertito in gennaio l'Istat, calcolando un tasso di mortalità del 10,7 per mille, “il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra”. Le ipotesi più prudenti rinviavano alla coincidenza statistica, legata essenzialmente all'invecchiamento della popolazione. Si morirebbe di più solo perché più anziani.
Invece no, la realtà, già da noi ventilata all'uscita di tali cifre, è che l'allarme è serio. Si muore di più anzitutto perché si muore prima. In un anno la speranza media di vita è calata tra gli uomini da 80,3 anni a 80,1; ancor di più tre le donne, da 85 a 84,7 anni, confermando, tra l'altro, una tendenza pregressa alla riduzione della forbice tra i sessi.
L'imputato numero uno è il disinvestimento nella sanità. “Certo che c’è una correlazione con i tagli”, tuona Ricciardi, notando la posizione italiana di coda nella spesa pro-capite per l'assistenza sanitaria, con particolare riferimento a quella destinata alla prevenzione. E poi calano le vaccinazioni, rilevate sotto la soglia del 95% (raccomandata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità) perfino su quelle obbligatorie, come il tetano e l'epatite B, per non parlare di quelle per l'influenza, largamente “disertate” l'anno scorso dagli anziani sulla scia di alcuni allarmi, seppur poi ridimensionati, su un vaccino.
La colpa però non è stavolta dei cittadini, diventati anzi più “virtuosi”, con cali riscontrati nel consumo di fumo e alcol nonché nell'obesità infantile. Le ragioni sono sistemiche. La dimostrazione più drammatica è nelle diseguaglianze regionali su Pil e livelli di assistenza. In Campania si vive due anni e mezzo in meno che in Trentino-Alto Adige, con un divario che per giunta si allunga. Amaro anche il dato sulla fecondità. Tra il 2002 e il 2015, mentre risaliva a livello nazionale del 9,4%, all'ombra del Vesuvio è crollata dell'8,2%.