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La simulazione del reale, specie tramite i più recenti “manichini speciali”, nella formazione alla gestione medica di crisi di larga scala, è entrata da un paio d'anni in alcune strutture italiane.

Sembra un po’ roba da “Dr. House” o da altre serie televisive e film “catastrofici” americani, in cui il medico è una specie di “top gun” alle prese con le più gigantesche e improbabili emergenze. La realtà è che la simulazione del reale, specie tramite i più recenti “manichini speciali”, nella formazione alla gestione medica di crisi di larga scala, è entrata da un paio d'anni in alcune strutture italiane. Con buone ragioni. Saper curare non è solo tema di conoscenze e competenze. Ci sono aspetti psicologici, tecnici e strategici che possono risultare determinanti nell’efficacia dell’intervento. Le cifre di tali modelli didattici mostrano un ritardo del nostro paese, che però si riscatta con un “istinto” al soccorso umanitario, che non è certo una leggenda.

Tali sistemi didattici sono in effetti ancora pochi nelle nostre strutture ospedaliere. Un paio in Piemonte, altrettanti a Firenze, uno a Trento, un altro in Sicilia e uno in Sardegna. Tutto qua, nonostante, secondo gli esperti del settore, “ un’ora al simulatore chirurgico equivale a 100 ore in sala operatoria”. E’ col primo che si riuscirebbe rapidamente a inscenare emergenze e complicanze di ogni tipo ed entità, per imparare a gestirle.

Su questo la giornata finale di Exposanità, tenutosi a Bologna, ha riunito in un simposio, su iniziativa dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici (Aiic), accanto ai medici, esperti della difesa e del peace-keeping, tecnici biomedici, comandanti in aviazione. Tecnologia, formazione “militare”, capacità di stabilire priorità, sangue freddo. Temi non avulsi dal tradizionale bagaglio formativo del medico, ma su cui i moderni strumenti di simulazione sembrano aiutare. “Il 36% delle denunce contro medici riguarda l'ambito chirurgico”, si nota. Su quella cifra pesa la pericolosa prassi della “penalizzazione” della professione, ma gli errori ci sono e i margini per ridurli anche.

Del resto a Bologna non si discuteva solo dell’“emergenza ordinaria”, bensì di possibili scenari devastanti come “ una catastrofe naturale o un afflusso enorme di feriti dopo un attacco terroristico”. Le citate capacità, “psicologiche e strategiche”, diventano allora imprescindibili, come del resto già sanno molti, inclusi i medici impegnati nelle forze di polizia e dell’esercito.

In tali scenari, laddove non arriva ancora la moderna didattica, interviene tuttavia una tradizione italiana riconosciuta all’estero. E’ quella dell’attenzione, dell’istintiva dote e sensibilità nel gestire contesti emergenziali ovunque. Chiedere alle Ong internazionali, alle missioni Onu o Ue, circa la quantità e qualità professionale degli operatori sanitari italiani. Una tradizione che merita sostegno, oltre che plauso. Con quella base, e con le nuove tecnologie, potremmo esser noi a costruire centri di eccellenza formativa di attrattiva mondiale, suggerisce l’Aiic.

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