Se mai vi capitasse un colloquio di lavoro in sede internazionale, in particolare europea, e vi arrivasse un quesito del tipo: “Sei a fine giornata ma c’è un lavoro importante da finire, che faresti?”, attenzione perché sarebbe una domanda “a trabocchetto”. Un’eventuale risposta, orientata alla presunta soddisfazione dell’ambito datore del lavoro, quale: “Rimango a finirlo, costi quel che costi, dovessi anche rientrare a casa all’alba”, non sarebbe infatti ben vista, e suonerebbe anzi come la più sbagliata delle repliche, giudicata immatura e inconsapevole.
Non è che la controparte sia in tal caso un esempio di estrema clemenza verso il lavoratore. La ragione della cattiva valutazione della risposta sta piuttosto altrove, in un paio di calcoli. Il primo è che un lavoratore, se non riposa, arriva stremato all’indomani, a discapito della “produttività”. Il secondo è che un lavoratore non in salute non serve, e che l’eccesso di lavoro sia un danno sanitario è una verità che trova ora ulteriore riscontro in una ricerca italiana condotta dalle Università di Bologna e Trento, pubblicato sul “Journal of Management”.
Si chiama “Workalcholism”, e l’alcol non c’entra. È una “dipendenza” costituita da una vera e propria ossessione per il lavoro, tanto da renderci incapaci di “staccare”, con conseguenze psicologiche, quali il malessere affettivo, l’irritabilità, l’ansia, la depressione, ma anche effetti strettamente fisici, a iniziare da un'elevata pressione sanguigna.
Due i gruppi analizzati dagli scienziati, un campione di 311 persone, tra liberi professionisti, dirigenti e imprenditori, e un altro di 235 lavoratori perlopiù dipendenti. Le conseguenze deleterie sono state riscontrate in ambedue i casi, con un impatto sulla salute mentale rilevato soprattutto a partire da un anno dall’inizio dell’eccesso di carico lavorativo, e con aumentati rischi di rilevanza clinica. “Le organizzazioni lavorative non alimentino questo fenomeno, cercando di prevenirlo per evitare un degradamento significativo delle condizioni di benessere delle risorse umane e della loro vitalità”, l’appello degli studiosi.
Che poi questo non avvenga è purtroppo un tema generalizzato della difficile realtà produttiva dei nostri tempi, che in ogni caso dovrebbe non far perdere di vista le responsabilità individuali, anche verso noi stessi. Rimane il quesito su quale sia “la risposta giusta” alla domanda ricevuta nell’ipotetico colloquio. Ebbene, una risposta singola non c’è, sta ai singoli improvvisare un’idea che permetta di salvaguardare l’aspetto prioritario, quello che in inglese si chiama il “work-family balance”. Tradotto, il diritto inviolabile al riposo e agli affetti (e possibilmente a una vacanza), prerogativa della salute.