L'ultima “rumorosa” novità nella ricerca sull'Alzheimer arriva dall'identificazione, in Australia, di una proteina che avrebbe il potenziale di ripristinare parte delle abilità cognitive smarrite. E poi ce ne sono altre, che sembrano spostare l’orizzonte della ricerca verso nuovi fronti sorprendenti. Il fatto comunque è che, tra un annuncio e l'altro, la conoscenza scientifica avanza, tanto che, stando alle ultime cifre, la patologia sembra finalmente segnare il passo.
Ma andiamo per ordine: è stata anzitutto identificata la “proteina della memoria” - sostengono gli studiosi dell’Università del New South Wales. E lo dicono al seguito di un’estesa sperimentazione sui topi, seguita alla sua identificazione post-mortem su umani ultranovantenni di notevole lucidità, in due regioni del cervello, ossia l’ippocampo e la corteccia prefrontale, il primo coinvolto nella memoria, la seconda nella cognizione.
La proteina, chiamata p38y (a volte i nomi scientifici sono bizzarri, fino ad assomigliare a quelli delle armi), è un enzima capace di modulare l’attività proteica aggiungendo molecole di fosfato organico, proprio quelle che tendono a perdersi con la progressione della malattia. E il successivo test, con la sua reintroduzione nel cervello degli animali, ha avuto esito positivo, proteggendoli dal deficit di memoria. “Potremmo essere capaci di ritardare o addirittura arrestare l’avanzare dell’Alzheimer”, dicono gli scienziati.
Serviranno riscontri e approfondimenti, ma il passo avanti sembra esserci, anche nella metodica, che presenta analogie con quelle suggerite da un altro studio recente, negli Stati Uniti. Non si tratterebbe di concentrarsi solo sull’eliminazione delle “placche beta-amiloidi” e dei “grovigli neurofibrillari” solitamente associati alla patologia, ma identificare altri fattori “di protezione”. La conclusione della Northwestern University di Chicago segue una scoperta a sorpresa: quella rivelata dall’analisi post-mortem di un altro gruppo di anziani di eccellente memoria. Ebbene, la loro qualità è stata riscontrata nonostante una notevole presenza di tali placche e grovigli, pari a quella dei malati. La differenza sembra spiegarsi nel maggior numero di neuroni nei cervelli sani, come se qualcos’altro li avesse protetti dall’effetto nocivo degli altri materiali.
Segnali incoraggianti e convergenti, ancora largamente da finalizzare in ambito terapeutico. Sta di fatto, che tra un progresso e l’altro, emergono finalmente cifre positive sull’evoluzione della malattia. Da un’indagine dell’Università del Michigan su oltre ventimila ultra-65enni spunta la stima di una diminuzione delle persone affette dal morbo, tra il 2000 e il 2012, di addirittura il 24%. Molto si muove, dunque, e quel che si muove comincia ad avere serio riscontro nella realtà.