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L’epilessia, o, come dice giustamente una fondazione italiana, “le epilessie”, sono ancora oggetto, anziché di attenzione, di un più o meno sottile “stigma”, per il banale motivo che quel che non conosciamo fa un po’ paura.

Signore e signori, oggi, 13 febbraio, ricorre la giornata mondiale dell’epilessia. Ebbene, pochissimi se ne accorgeranno, e pochi dedicheranno anche solo un marginale frammento di pensiero. Peggio (forse), qualcuno avrà anche un impercettibile moto di fastidio. La ragione è sempre quella: l’epilessia, o, come dice giustamente una fondazione italiana, “le epilessie”, sono ancora oggetto, anziché di attenzione, di un più o meno sottile “stigma”, per il banale motivo che quel che non conosciamo fa un po’ paura.

“Ancora una volta è utile ricordare quanto questa malattia sia accompagnata da pregiudizi, disinformazione e ignoranza“, commenta un’esperta italiana, Clementina Boniver, dell’Università di Padova. E del permanere dello stigma si parla purtroppo ogni anno. Quindi è bene ripetere. In senso stretto non è neppure una “malattia”, bensì una serie di condizioni neurologiche (“sono colpito da qualcosa”, dice genericamente l’etimo greco) di “eziologia” parzialmente ignota ma rintracciabile nell’elettrocardiogramma, che hanno in comune l’insorgere di crisi improvvise, perlopiù brevi, anche se accompagnate da manifestazioni motorie involontarie o addirittura perdita di conoscenza.

Una problematica solitamente non grave, e al contempo assai comune, perché coinvolge almeno 65 milioni di persone nel mondo, e circa 500mila solo in Italia. Ciononostante, la disinformazione permane, tant’è che, sebbene i primi attacchi si riscontrino spesso già dall’età scolare, la maggioranza degli insegnanti italiani, secondo recenti indagini, si rivela impreparata a gestirli.

E allora, come si affrontano gli attacchi epilettici? Senza pregiudizi e senza paura, ovviamente, e anche senza iperprotettività. Si tratta solo rassicurare la persona con gentilezza, evitare che cada o si faccia male, allentarle i vestiti stretti, non immobilizzarla o inserirle dita in bocca o anche darle subito farmaci, necessari solo se la crisi persiste per diversi minuti. Quasi sempre basta esserci, e un tocco o un abbraccio lieve (non soffocante) è la miglior terapia.

Niente paura, insomma, né per il paziente e i suoi familiari, né per chi si trova di fronte a qualcuno soggetto a una crisi. L’epilessia, nelle parole di Boniver, “è curabile e quindi compatibile con una vita normale nel 70% dei casi, andare a scuola, svolgere attività sportiva, lavorare ed avere dei figli”. Nulla di grave, dunque, lo sappiano tutti, epilettici e non epilettici: un attacco fa meno male del permanere dell'immotivato stigma.

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