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Sembra una banale “americanata” raccontare che una diminuzione del consumo di sale abbia un impatto sanitario e addirittura economico, ma il nesso c’è. E ha ora ricevuto perfino l’avallo di un’articolata ricerca scientifica, pubblicata sul British Medical Journal.

Sembra una banale “americanata” raccontare che una diminuzione del consumo di sale abbia un impatto sanitario e addirittura economico, ma il nesso c’è. E ha ora ricevuto perfino l’avallo di un’articolata ricerca scientifica, pubblicata sul British Medical Journal. Ma al racconto va fatta un’aggiunta: nel nostro Paese il dato è già assunto come scontato, al punto da essere oggetto di concrete iniziative regionali, che peraltro meriterebbero un seguito di più ampia scala.

Ma andiamo per ordine. che si è messo A fare i conti in testa sul consumo di “sodio”  (che si trova tipicamente nel sale, ma anche nel pane, latte, uova, carne, nonché naturalmente in una varietà di cibi industriali, e rappresenta un riconosciuto fattore di rischio di alta pressione, e quindi di patologie cardiovascolari, che costituiscono la principale causa di morte nel mondo) è stato un centro di ricerca di Boston:  la  “Tufts Friedman School of Nutrition Science”.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ammontare “sano” del consumo di sale si attesta a un paio di grammi al giorno, l’equivalente di un cucchiaino. Intorno a quel paletto si sono mossi i ricercatori, indagando sui dati raccolti in varie ricerche in ben 183 Paesi. Dall’analisi è emerso che se si riducesse mediamente l’assunzione di sale di almeno il 10% in dieci anni, si salverebbero annualmente, e globalmente, 5,8 milioni di “anni di vita persi” – il cosiddetto Disability-Adjusted Life Year, unità di misura che somma il sacrificio temporale della morte patologica prematura.

Si morirebbe di meno, dunque, e ci si ammalerebbe molto meno. Di qui anche il calcolo economico, in base al quale il costo di tale decesso prematuro è calcolato in oltre 200 dollari l’anno a persona, in relazione alla perdita della sua “produttività” in senso lato. Sono stime naturalmente virtuali, che peraltro i ricercatori americani considerano “prudenti”, perché non tengono conto dell’aggravio ulteriore, quello dei costi sanitari della cura di chi si ammala.

In altre parole si valutano “finanziariamente vantaggiose” le eventuali politiche (e i relativi costi) per promuovere una riduzione del consumo di sale, perfino senza considerare le spese sanitarie conseguenti a, viceversa, la sua assunzione in eccesso. E c’è chi già si è materialmente mosso su questo, appunto in Italia, con un’intesa siglata tra la Regione Piemonte e l’Associazione regionale dei Panificatori per diminuirne, appunto l’impiego. Piccoli passi, ma che dicono parecchio, ben al di là dell’oggetto specifico dell’iniziativa. Ricordano che “investire nella prevenzione sanitaria” non è un costo, ma una fonte di risparmio, oltre che di beneficio per la nostra vita. E su questo, in Italia, da anni, anziché aumentare, colpevolmente si taglia.

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