Presto la chemioterapia potrebbe non essere più necessaria per il trattamento dei pazienti adulti affetti da leucemia linfoblastica acuta. Un gruppo di ricerca tutto italiano ha dimostrato che una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia può fronteggiare con successo una delle forme più comuni di leucemia dell'adulto. I risultati dello studio, promosso dalla Fondazione GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto), sostenuto dalla Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine.
L’idea del progetto ha avuto inizio circa 15 anni fa. I risultati della terapia “chemio-free” sperimentata in un campione di pazienti adulti affetti da leucemia acuta linfoblastica con una alterazione del cromosoma Philadelphia, confermano il successo del protocollo clinico. Il 98% dei pazienti, infatti, raggiunge la remissione ematologica completa, ovvero non presenta più tracce di malattia e il 60% mostra quella che gli esperti chiamano risposta molecolare. Inoltre, dopo un anno e mezzo dall’inizio del trattamento la sopravvivenza generale è pari al 95% e quella senza la malattia arriva all’88%. A questi risultati si è giunti senza ricorrere alla chemioterapia sistemica che porta con sé effetti collaterali molto pesanti, ma puntando su una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia. “Questo studio è la consacrazione di un’idea e giunge alla fine di un lungo percorso nel quale abbiamo cercato di eliminare la chemioterapia nelle fasi iniziali dal trattamento di questa forma speciale di leucemia linfoblastica acuta”, afferma Robin Foà, professore di Ematologia all’Università Sapienza di Roma.
Nello studio sono stati coinvolti 63 pazienti di età superiore a 18 anni sottoposti a una prima fase di trattamento (induzione) con l’inibitore tirosin chinasico dasatinib, seguito da una seconda fase (consolidamento) con l’anticorpo monoclonale bispecifico blinatumomab, quindi una terapia di induzione e consolidamento senza chemioterapia. Ebbene, già dopo la prima fase di induzione, 3 pazienti su 10 mostravano una risposta molecolare e i numeri sono raddoppiati (6 pazienti su 10) dopo i due cicli di blinatumomab previsti nello studio, fino ad arrivare a 8 su 10 se i cicli di anticorpo aumentavano. “Con questo trattamento riusciamo a stimolare il sistema immunitario che si attiva contro il tumore e gli effetti collaterali del trattamento sono limitati. Inoltre molta parte della terapia si effettua a domicilio con riduzione quindi dei giorni di ricovero – aggiunge Foà ricordando anche un altro dato molto incoraggiante legato ai pazienti successivamente sottoposti a trapianto allogenico – la mortalità associata al trapianto è risultata molto bassa (4,1%) e probabilmente questo è legato al fatto che i pazienti non hanno alle spalle la tossicità del trattamento chemioterapico e riescono a sopportare meglio il trapianto”.