Negli ultimi anni la ricerca di una cura contro il cancro ci ha portato a riconsiderare l’utilità di molti farmaci già in commercio e in uso per patologie diverse dal tumore. Uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS e sostenuto da Fondazione AIRC ci ha ad esempio suggerito che abbinare un farmaco antidiabetico a un farmaco antitumorale può essere di grande aiuto contro alcune forme di cancro. I dati, pubblicati sulla rivista Clinical Cancer Research, mostrano che la trabectedina, un farmaco antitumorale, in combinazione con il pioglitazone, un farmaco finora utilizzato per la terapia del diabete, spinge il differenziamento in adipociti di un tumore delle parti molli, la variante più aggressiva del liposarcoma mixoide. In altre parole, la combinazione dei due farmaci trasforma il liposarcoma da tumore maligno in tessuto simile a grasso normale.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno utilizzato cellule e animali di laboratorio insieme a tessuti di liposarcoma ottenuti da pazienti, dimostrando che la combinazione tra i due farmaci fa regredire il tumore e ne impedisce la ricrescita. Questo fenomeno è stato osservato anche in liposarcomi in cui la trabectedina da sola non era efficace perché il tumore era diventato resistente al farmaco. Attraverso questi studi si è ipotizzato che la sola trabectedina inducesse un parziale differenziamento del liposarcoma mixoide in adipociti, ma il suo effetto non era completo e dopo un periodo di trattamento più o meno lungo si esauriva.
Il cellulare non ha solo rivoluzionato il nostro modo di vedere il mondo, ma ha anche cambiato il modo con cui percepiamo noi stessi nel mondo e, addirittura, il nostro modo di essere. Ne sono un esempio emblematico i risultati di una ricerca condotta dalla Cass Business School di Londra. I ricercatori hanno scoperto che l'icona che indica la percentuale rimanente di autonomia della batteria sui nostri cellulari deforma la nostra percezione del tempo e dello spazio e che il fatto di mantenere il cellulare sempre carico o meno ci dice (e dice agli altri) chi siamo davvero. I dettagli dello studio saranno pubblicati sulla rivista Marketing Theory.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno coinvolto un gruppo di pendolari di Londra. Hanno così evidenziato che i partecipanti interpretavano il loro tragitto giornaliero in funzione del tempo e della distanza fra i luoghi che gli avrebbero permesso di ricaricare il proprio cellulare.”La gente non pensa più in termini di chilometraggio (10 chilometri da qui) o di fermate (10 fermate di metropolitana)”, afferma Thomas Robinson, docente di marketing alla Cass Business School e principale autore dello studio. “Pensa in termini di percentuale di batteria rimanente sul cellulare (resta il 50%)”, aggiunge. E’ come se tutti fossero presi da una sorta di “isteria” da cellulare scarico. “Durante i colloqui, i partecipanti hanno sottolineato come una carica completa della batteria li facesse sentire bene e come se potessero andare ovunque e fare qualunque cosa”, dice Robinson. “Mentre il fatto che restasse meno della metà della carica suscitava emozioni di profonda ansia e disagio”, aggiunge.
Non c’è cura immediata per superare il dolore causato da un lutto o dalla separazione da una persona cara. Ma un piccolo aiuto può arrivare da un amico che non ti aspetti, un cane o un gatto. La loro compagnia infatti può rivelarsi un ottimo antidoto per ridurre la depressione e la solitudine. Specialmente tra le persone più avanti con l’età. A riscoprire il valore di un amico a 4 zampe è stato un gruppo di ricercatori della Florida State University in uno studio pubblicato sulla rivista The Gerontologist.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato i sintomi depressivi e la solitudine tra persone di età pari o superiore ai 50 anni che avevano sperimentato la perdita del coniuge in seguito alla morte o a un divorzio. I dati sono stati estrapolati dall’Health and Retirement Study, uno studio sulla salute e l'età della pensione, a cui sono stati aggiunti altri dati raccolti tra il 2008 e il 2014. I ricercatori hanno confrontato tutte queste informazioni con i dati quelli relativi alle persone che invece erano state sposate in maniera continuativa. Dall’analisi è emerso che chi viveva un lutto o una separazione dal partner sperimentava livelli più alti di depressione. In chi non aveva un animale domestico, però, questi sintomi depressivi e il senso di solitudine erano maggiori. “Spesso il rapporto che abbiamo con il partner è il nostro legame più intimo e la perdita può essere davvero devastante”, evidenzia Dawn Carr, che ha guidato la ricerca. “Un animale domestico potrebbe aiutare a compensare alcuni di questi sentimenti. Ha senso - continua - pensare: ‘Almeno questo animale domestico ha ancora bisogno di me. Posso occuparmene. Posso amarlo e mi apprezza’. Quella capacità di restituire e dare amore è davvero potente”.
Per rendere più efficaci i farmaci contro la depressione bisognerebbe stimolare contemporaneamente la capacità del sistema nervoso di modificare le relazioni tra i neuroni (le cosiddette sinapsi), di instaurarne di nuove e di eliminarne alcune. Uno studio preclinico condotto da Igor Branchi e Silvia Poggini presso l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), infatti, ha dimostrato che è possibile potenziare l’effetto degli antidepressivi stimolando la plasticità neuronale. I risultati, presentati per la prima volta al 32esimo Congresso dello European College of Neuropsychopharmacology (ECNP) a Copenaghen, potrebbero essere la chiave per trattare efficacemente tutte quelle persone, circa un terzo dei 322 milioni di pazienti a livello mondiale, che non rispondono come dovrebbero agli antidepressivi serotoninergici.
Il nostro intestino può essere considerato un “secondo cervello”. Insieme al microbiota, quella numerosa popolazione di batteri “buoni” che vivono in maniera simbiotica con l’uomo al suo interno, gioca un ruolo importante nel regolare l’umore dell’individuo e nell’aggravare disturbi come ansia e depressione. Ma finora non era chiaro come questi microrganismi potessero svolgere questa azione. A fare chiarezza è stato uno studio dello University College of Cork, in Irlanda, pubblicato sulla rivista Neurotherapeutics. I ricercatori irlandesi hanno evidenziato che il microbiota agisce sull'intestino favorendo o contrastando la produzione di alcune sostanze, i peptidi, che, secreti dalle sue pareti, entrano nel circolo sanguigno e arrivano al cervello, condizionando l’umore dell’individuo. L’esistenza di questo meccanismo apre la strada a nuovi trattamenti con “psicobiotici”, particolari probiotici che, modificando il microbiota, possono essere un valido aiuto nel combattere disturbi dell'umore come ansia e depressione.
Le bevande analcoliche non sono così innocue come si potrebbe pensare. Pur non contenendo alcol, potrebbero accorciare la nostra vita. Un maxi-studio coordinato dall’International Agency for Research on Cancer ha concluso che bere due o più bicchieri al giorno di “soft drink”, cioè di bibite analcoliche contenenti zucchero o dolcificanti artificiali, è associato a un maggior rischio di morte per tutte le cause. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Jama Internal Medicine.
Per osservare più da vicino un possibile legame tra bevande analcoliche e mortalità prematura, i ricercatori sono ricorsi ai dati della European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition, uno studio multinazionale che ha reclutato partecipanti dal 1992 al 2000 all'incirca 452mila uomini e donne provenienti da 10 paesi, compresa l’Italia (gli altri sono Francia, Germania, Grecia, Paesi Bassi, Norvegia Spagna, Svezia e Regno Unito). Lo studio ha valutato l’alimentazione, incluso il consumo di bevande analcoliche, all’inizio del periodo di osservazione. I partecipanti hanno anche compilato questionari con domande su fattori come livello di istruzione, fumo, consumo di alcool e attività fisica. Lo studio è durato in media 16,4 anni, durante il quale 41.693 partecipanti sono deceduti. Ebbene, coloro che avevano bevuto due o più bicchieri di bevande analcoliche al giorno mostravano il 17% in più delle probabilità di morire precocemente rispetto a quelli che avevano consumato meno di un drink analcolico al mese.
Negli estratti dei fiori della Filipendula vulgaris, un arbusto perenne appartenente alla famiglia delle Rosacee, si celano dei componenti capaci di riprogrammare il metabolismo di un tumore raro e molto aggressivo, il mesotelioma. A scoprilo è stato il gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena (Ire) coordinato da Sabrina Strano e Giovanni Blandino, ricercatori del laboratorio di Oncogenomica ed Epigenetica. I risultati, pubblicati sul Journal of Experimental and Clinical Cancer Research, aprono la strada allo studio di un nuovo potenziale trattamento a partire da componenti naturali.
Il mesotelioma colpisce principalmente i foglietti della pleura polmonare. Dal punto di vista eziologico il mesotelioma è una patologia occupazionale correlata all’esposizione professionale alle fibre d’amianto. Dopo 25 anni dalla messa al bando nel nostro paese della produzione dell’amianto, l’incidenza del mesotelioma non decresce in quanto nell’ambiente ne rimangono 5 quintali per cittadino, 32 milioni di tonnellate. L’Italia è stato uno dei maggiori produttori europei di amianto insieme all’URSS, ed è uno dei paesi più colpiti dalle malattie amianto-correlate. Secondo il Registro Italiano del Mesotelioma, la percentuale di decessi per mesotelioma costituisce il 4% della mortalità globale per tumore in tutte le età a prescindere dal sesso. Si caratterizza per la lunga latenza, l’andamento silente, la mancanza di specifici biomarcatori e la resistenza alle terapie convenzionali quali Cisplatino e Pemetrexed.
Non vaccinarsi contro il morbillo può essere più pericoloso di quanto si pensava. Ammalarsi di morbillo, infatti, rende anche più vulnerabili dinanzi ad altre infezioni, comprese quelle contro cui ci si è immunizzati in passato. Uno studio condotto da Michael Mina dell’Harvard TH Chan School of Public Health suggerisce che non vaccinare i bambini contro il morbillo aumenta il rischio di essere contagiati da altre patologie infettive gravi nei 2-3 anni successivi al morbillo. Quindi, dopo esser sopravvissuti al morbillo, i bambini possono ammalarsi o morire per altre infezioni contro le quali avevano già sviluppato le difese immunitarie. Difese che il virus del morbillo potrebbe cancellare.
Queste conclusioni, presentate in occasione della quinta conferenza sui vaccini dell’European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases (Escmid) a Bilbao (Spagna), sono supportate da numerosi altri studi, i quali mostrano che quando il virus del morbillo colpisce una persona va a infettare una gran parte delle “cellule memoria” del sistema immunitario. Questo si traduce nella cosiddetta immun-amnesia, per cui il sistema immunitario non riesce a ricordare alcune delle malattie che ha combattuto in passato, esponendo così i bambini alla re-infezione con queste altre malattie. Questi risultati aiuterebbero anche a spiegare i misteriosi cali di mortalità fino al 50 per cento in seguito all’introduzione delle vaccinazioni contro il morbillo.
C’è un farmaco naturale e poco costoso che potrebbe farci vivere più a lungo e meglio. E’ l’amore, specialmente quello che dà e riceve dal proprio partner. La letteratura scientifica è ricchissima di studi che dimostrano l’esistenza di un legame tra l’avere un partner e la longevità. Ed è ricca anche di studi che dimostrano il contrario: essere single sembra ridurre l’aspettativa di vita. Ora un nuovo studio ha osservato più specificatamente che il matrimonio ci fa invecchiare meglio. L’essere sposati, infatti, ridurrebbe il rischio di soffrire di demenza. Lo studio è stato condotto dalla Michigan State University e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Journals of Gerontology: Series B.
Lo studio ha coinvolto sia persone sposate, che celibi, separate, divorziate, conviventi e vedove, per un totale di oltre duemila soggetti di età superiore ai 52 anni d'età. Tra questi, i divorziati avevano il più alto rischio di demenza. “Questa ricerca è importante perché il numero di adulti non sposati negli Stati Uniti continua a crescere, poiché le persone vivono più a lungo e le loro storie coniugali diventano più complesse”, dice Hui Liu, che ha coordinato lo studio. “Lo stato civile è un fattore di rischio/protezione sociale importante, ma trascurato per la demenza”, aggiunge. I ricercatori hanno anche scoperto che le diverse risorse economiche spiegano solo in parte il rischio di demenza più elevato tra gli intervistati divorziati, vedovi e non sposati, ma non sono stati in grado di spiegare il perché sembrerebbe esserci un rischio maggiore nei conviventi. Inoltre, fattori legati alla salute, come cattive abitudini e condizioni croniche, hanno leggermente influenzato il rischio tra divorziati e sposati, ma non sembrano influenzare altri stati coniugali. “Questi risultati saranno utili per i responsabili delle politiche sanitarie e i professionisti che cercano di identificare meglio le popolazioni vulnerabili e di progettare strategie di intervento efficaci per ridurre il rischio di demenza”, conclude Liu.
In generale, condividere la propria vita con un partner fa bene alla salute a 360 gradi. A controprova uno studio inglese dell’Aston Medical School ha scoperto che essere single può portare a morte prematura in caso di infarto. In coppia invece si hanno il 14% di probabilità in più di sopravvivere a un attacco cardiaco. Non è infatti un caso che ciò che accomuna le cosiddette “zone blu”, le aree del Pianeta dove si vive più a lungo, abbiano in comune una consolidata tradizione familiare. Dall’Olgiastra in Sardegna all’isola greca Icaria, da Okinawa in Giappone a Loma Linda in California fino alla penisola Nicoya situata sulle coste del Pacifico, in questi cinque paradisi per centenari e ultracentenari l’amore è certamente uno degli ingredienti dell’eccezionale longevità.
Il vino rosso fa buon...intestino. E’ parafrasando un vecchio detto popolare che si possono sintetizzare i risultati di uno studio condotto dal King’s College London, nel Regno Unito. Stando ai risultati pubblicati sulla rivista Gastroenterology, il consumo moderato di vino rosso può aumentare la varietà di batteri che abitano il nostro intestino, il cosiddetto microbioma. In questo modo, si hanno meno probabilità di soffrire di obesità e di avere il colesterolo “cattivo” alto. Ma occhio a non alzare il gomito. I benefici del “nettare degli dei” si possono ricavare anche solo da un bicchiere ogni 15 giorni
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato gli effetti del vino rosso sull’intestino coinvolgendo tre diversi gruppi di circa 3mila persone residenti nel Regno Unito, in Olanda e negli Usa. Ebbene, dai risultati è emerso che il microbioma intestinale dei bevitori di vino rosso era più diversificato di quello di chi non lo beveva. Effetti, questi, che invece non sono stati osservati con il consumo di altre bevande alcoliche, come vino bianco, birra o liquori. Secondo i ricercatori, il vino rosso porterebbe questi benefici per via dei numerosi polifenoli presenti, ovvero grazie a tutte quelle sostanze chimiche di difesa della nostra salute. In particolare, i polifenoli hanno capacità antiossidanti e antinfiammatorie, in grado di proteggere le cellule dallo stress ossidativo. Tra le altre proprietà dei polifenoli ci sono quelle in grado di tenere sotto controllo i livelli di colesterolo, poi capacità antibatteriche, antipruriginose, antiparassitarie e citotossiche.
Migliaia di molecole innovative in brevissimo tempo. Un’opportunità imperdibile per l'industria farmaceutica e un’occasione importante per molti malati di avere a disposizione farmaci efficaci contro malattie anche molto gravi. E’ quello che ci si aspetta dal nuovo metodo messo a punto dall’Ecole Polytechnique Fédéralede Lausanne (EPFL), dall’Università di Padova e dall’Università Ca' Foscari Venezia in uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances. Gli scienziati hanno trovato un modo per produrre ed isolare in modo rapido migliaia di composti macrociclici, una famiglia di molecole di grande interesse per l’industria e per i malato.
L’interesse per questa tipologia di molecole proviene dal fatto che numerosi farmaci quali l’immunosoppressivo ciclosporina, l’antibiotico vancomicina e l’antitumorale dactinomicina sono appunto dei composti macrociclici. Queste molecole, che erano sinora prodotte a partire da composti naturali, potranno ora essere sintetizzate velocemente ed in grande numero utilizzando piattaforme robotiche. I composti macrociclici hanno forma ad anello e si preparano per ciclizzazione di molecole a catena aperta. Questi composti possiedono numerose qualità alle quali l'industria farmaceutica è particolarmente interessata. Per esempio, hanno un basso peso molecolare, proprietà che permette loro di oltrepassare la membrana cellulare e raggiungere bersagli interni alla cellula, siano questi proteine o geni. Inoltre, la loro struttura compatta e rigida fa sì che i gruppi funzionali di queste molecole possano posizionarsi in molteplici regioni dello spazio favorendo un’elevata affinità di legame con la proteina bersaglio.
Un gruppo di ricercatori della Rutgers University (Usa) è riuscito a risolvere il mistero di come il grasso bruno ci protegge da obesità e diabete. Stando ai risultati pubblicati sulla rivista Nature, il grasso “buono” aiuterebbe a filtrare ed eliminare gli aminoacidi a catena ramificata (Bcaa) dal sangue. I Bcaa si trovano in alimenti come uova, carne, pesce, pollo e latte, ma anche negli integratori utilizzati da alcuni atleti e da persone che vogliono fare massa muscolare. In normali concentrazioni nel sangue, questi aminoacidi sono essenziali per una buona salute. In quantità eccessive, sono collegati al diabete e all’obesità.
Per proteggere la nostra salute ogni tanto bisognerebbe rinunciare al cibo. Il cosiddetto digiuno “intermittente”, infatti, ha un effetto anti-infiammatorio senza influire sulle capacità delle nostre difese immunitarie. A confermare nuovamente le proprietà benefiche di questo “regime alimentare”, che prevede brevi periodi di astinenza dal cibo, è stato uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Mount Sinai Hospital. I risultati, pubblicati sulla rivista Cell, spiegano il meccanismo con cui il digiuno riduce l’infiammazione e migliora le malattie infiammatorie croniche.
Mentre l’infiammazione acuta è un normale processo immunitario che aiuta a combattere le infezioni, l’infiammazione cronica può avere gravi conseguenze sulla salute. E’ infatti collegata a diverse patologie, come quelle cardiache, il diabete, il cancro, la sclerosi multipla e le malattie infiammatorie intestinali. “È noto che le restrizioni caloriche migliorano le malattie infiammatorie e autoimmuni, ma i meccanismi con cui una ridotta assunzione calorica controlla l’infiammazione sono poco conosciuti”, afferma Miriam Merad, direttore del Precision Immunology Institute presso la Icahn School of Medicine al Mount Sinai, nonché autrice senior dello studio.
Mal di testa, fiacchezza, sonno, stordimento, irritabilità. In una sola parola “sindrome da rientro”. Non è un malessere emotivo immaginario, ma reale. A viverlo sono purtroppo moltissimi italiani di rientro dalle vacanze. “Il ‘Post Vacation Blues’, è una sindrome di cui soffre almeno un italiano su dieci tornando dalle ferie”, conferma la psicoterapeuta Paola Vinciguerra, direttore scientifico di Bioequilibrium e presidente di Eurodap, Associazione europea disturbi da attacchi di panico. Per molti la sensazione è quella di non esser riusciti a staccare davvero la spina. Ma per molti altri ancora, generalmente quelli di soffrono maggiormente per il rientro, può essere un “campanello d'allarme” di un malessere ben più profondo.
“Quando il rientro dalle vacanze ci mette in crisi, dovremmo chiederci quanto la vita di tutti i giorni, lavoro, relazioni, routine, siano soddisfacenti”, spiega Vinciguerra. “Lo stacco dalla quotidianità, dai doveri e dalle responsabilità è doveroso, ma quando al ritorno dalle vacanze ci sentiamo più stressati di quando siamo partiti è decisamente un campanello d’allarme”, aggiunge. Ma non è niente che non si può affrontare e superare. “Rituffarci immediatamente in ritmi frenetici, scadenze, traffico e routine quotidiana non è mai una buona idea”, sottolinea Vinciguerra. “Molto meglio sarebbe tornare in città un paio di giorni prima di ricominciare a lavorare, ci potrebbe aiutare a sentirci meno stressati e più energici. Tornare immediatamente sui libri o al lavoro - continua - e avere poco spazio da dedicare a noi stessi, può tradursi in un malessere fisico generalizzato reale che renderà ancora più difficile il ritorno alla vita frenetica di ogni giorno”.
L’intelligenza artificiale potrebbe rivoluzionare il trattamento e la gestione dei pazienti affetti da cardiopatia coronarica. E’ infatti questo quello che promette il nuovo programma sviluppato nell'ambito del progetto SMARTool finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma Horizon 2020 e coordinato dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifc). La piattaforma messa a punto dai ricercatori utilizza intelligenza artificiale e tecnologia cloud per agevolare il controllo dei pazienti affetti da cardiopatia coronarica (Cad). La piattaforma include una serie di modelli multiscala e multilivello di caratterizzazione e di progressione della placca integrata con dati di varia natura specifici del paziente (sintomi, fattori di rischio, stile di vita, esami del sangue, dati genetici, profilo lipidico) ed elaborati da algoritmi di intelligenza artificiale.
La malattia coronarica (CAD) e la sua complicanza principale, l’infarto miocardico, è una delle principali cause di morte e disabilità sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Ogni anno si stima che uccida circa 70.000 persone in Italia. Numeri che giustificano un progetto così ampio e ambizioso. “La gestione delle informazioni ha avuto inizio circa 5 anni fa, quando è stata effettuata la prima collezione di esami diagnostici (Tac, prelievi, ecografie etc.) effettuati su pazienti affetti da cardiopatia coronarica”, riferisce Silvia Rocchiccioli, ricercatore presso l’Ifc e coordinatrice del progetto. “Le informazioni sono state quindi raccolte e analizzate da una intelligenza artificiale, che ha confrontato i risultati degli esami effettuati a distanza di tempo sugli stessi pazienti, verificando la predisposizione all’insorgenza della malattia e i fattori ad essa legati. In questo modo - continua - abbiamo potuto sviluppare un algoritmo diagnostico innovativo per il calcolo del rischio che ha presentato un’accuratezza dell’80%”. Un risultato notevole, che ha coinvolto 10 partner pubblici e privati, specializzati nella ricerca clinica e scientifica di 9 paesi europei, e 4 centri clinici di supporto per la raccolta dei dati che hanno lavorato a stretto contatto per tre anni e mezzo, coinvolgendo medici, biologici, chimici, informatici ed ingegneri.
Le probabilità di successo della fecondazione assistita per le coppie sterili potrebbero aumentare grazie a una nuova tecnica che consente di individuare gli ovociti più sani da utilizzare. Una collaborazione tra un gruppo di ricerca dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste e il reparto di Clinica ostetrica e ginecologica dell’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste ha messo a punto una sonda specifica che consente di fare analisi più dettagliate sull’ovocita, permettendo di studiare anche le proprietà meccaniche. I risultati sono stati pubblicati sia sulla rivista Acta BioMaterialia che sull’European Biophysics Journal.
“Uno dei momenti più importanti per determinare la fortuna di un processo di fecondazione è la selezione degli ovociti, oggi condotta in base a caratteristiche esclusivamente morfologiche: il medico sceglie la cellula da fecondare rispetto alla forma considerata indice del suo migliore stato di salute”, spiega Laura Andolfi, ricercatrice del Cnr-Iom. “Il criterio è però soggettivo e si basa fondamentalmente sull’esperienza dell’embriologo. L’obiettivo di queste ricerche - continua - è invece identificare un metodo più generalizzabile, non invasivo e capace di velocizzare il processo”. Il problema è che gli ovociti non possano essere trattati, al fine di preservarli, e non c’è quindi modo di capirne lo stato di salute. “Noi ci siamo chiesti se potessero essere usati come indicatori dello stato di salute degli ovociti le loro caratteristiche meccaniche, cioè la deformabilità, l’elasticità e la rigidità. La risposta è risultata affermativa”, dice la ricercatrice del Cnr-Iom.
Si chiama Inside, l’acronimo di Innovative Solution for Dosimetry in Hadrontherapy, ed è il primo sistema al mondo in grado di “fotografare” in tempo reale i fasci di ioni carbonio e protoni utilizzati nell’adroterapia oncologica in modo da rendere le terapie contro il cancro più precise. Verrà sperimentato su 40 pazienti dalla Fondazione Cnao di Pavia (Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica per il trattamento dei tumori), insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e al Dipartimento di fisica dell’Università di Pisa e alla Sapienza Università di Roma. I pazienti coinvolti sono sottoposti ad adroterapia per il trattamento di meningiomi e tumori del distretto testa-collo, tutti casi di cancro resistenti alla radioterapia tradizionale e non operabili.
Per colpire i tessuti tumorali l’adroterapia oncologica utilizza fasci di protoni o ioni carbonio che, rispetto ai raggi X impiegati nella radioterapia tradizionale, hanno la capacità di rilasciare la loro energia solo in prossimità della massa tumorale, riducendo al minimo l’impatto sui tessuti sani circostanti e i conseguenti effetti collaterali. Inside è uno strumento posizionato vicino al letto dove il paziente riceve il trattamento con adroterapia e si compone di due rilevatori (un sistema di imaging bi-modale, con uno scanner per la Tomografia a Emissione di Positroni-PET e un tracciatore di particelle cariche) in grado di misurare le particelle secondarie prodotte durante il trattamento facendo capire con un brevissimo scarto temporale dove si sta rilasciando l’energia e se il volume tumorale, in seguito al trattamento, si modifica.
Potremmo avere già gli strumenti per diagnosticare una delle patologie più complesse da individuare, ovvero l’autismo. Un semplice elettroencefalogramma (Eeg), infatti, può consentire di rilevare in fase precoce e in maniera pressoché automatica se un bambino è affetto o meno da disturbi dello spettro autistico. Attraverso l’utilizzo di sofisticati sistemi di intelligenza artificiale, si possono riuscire a sfruttare tutte le informazioni necessarie per arrivare a distinguere i bambini autistici dai bambini affetti da altre patologie neuropsichiatriche e dai bambini a sviluppo tipico. Almeno questo è quello che suggerisce uno studio italo-americano pubblicato sulla rivista scientifica Clinical EEG and Neuroscience. Firmato dalla Fondazione VSM di Villa Santa Maria Centro di Neuropsichiatria Infantile Onlus di Tavernerio, dal Centro Ricerche Semeion di Roma e dal Tarnow Center for Self-Management di Houston, in Texas, lo studio è stato realizzato utilizzando dati raccolti nell’arco di cinque anni.
L’autismo è una malattia complessa, caratterizzata da gravi disturbi della comunicazione, del comportamento e dell’interazione con gli altri. Nelle forme più gravi, le persone affette non parlano, tendono a isolarsi e presentano comportamenti stereotipati e disabilità intellettuali. Ci sono però anche forme più leggere in cui, nonostante i problemi nella comunicazione, le capacità intellettive e di linguaggio non sono compromesse. La nuova ricerca si è svolta con l’analisi dei dati grezzi della registrazione elettroencefalografica attraverso un sistema di reti neurali sviluppato dal Centro Ricerche Semeion. Il metodo si chiama I FAST. Per cominciare sono stati considerati gli Eeg di due diversi gruppi di bambini americani con età compresa tra i 4 e i 14 anni, ciascuno costituito da 20 soggetti, i primi affetti da disturbi dello spettro autistico e i secondi da altri disturbi neuropsichiatrici, simili per età e rapporto maschio/femmina. In questo caso il sistema è stato in grado di distinguere i bambini, separandoli in base alle diverse diagnosi, con un’accuratezza tra il 93% e il 97,5%, a seconda dei diversi algoritmi utilizzati.
Il peso può influire sulla nostra salute in tantissimi modi diversi. Può ad esempio cambiare i tempi e i modi in cui il cervello invecchia. Uno studio della University of Miami Miller School of Medicine ha scoperto che avere qualche chilo di troppo a 60 anni d'età accelera il declino cognitivo. In particolare, stando ai risultati pubblicati sulla rivista Neurology, il cervello invecchia più velocemente se si è in sovrappeso. “Le persone con una vita più grande e un indice di massa corporea più elevato avevano maggiori probabilità di presentare un assottigliamento nell'area della corteccia del cervello, il che implica che l'obesità è associata a una ridotta materia grigia del cervello”, spiega l’autore dello studio Tatjana Rundek.
Gli indicatori utilizzati dagli studiosi sono l’indice di massa corporea, che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato, e l’ampiezza del girovita. Lo studio è stato condotto su 1.289 volontari americani con un'età media di 64 anni. Di questi 346 (54% donne) avevano un indice di massa corporea inferiore a 25 e un girovita di circa 84 centimetri. Invece, 571 erano in sovrappeso (56% femmine), cioè avevano un indice di massa corporea compreso fra 25 e 40 e un girovita di circa 91 centimetri. E 372 erano obesi (73% donne), ovvero avevano un indice di massa corporea superiore a 30 e un girovita di 104 centimetri. Sei anni dopo l'inizio dello studio, i ricercatori hanno misurato con risonanza magnetica lo spessore della corteccia cerebrale dei partecipanti, cioè la “sostanza grigia” coinvolta in numerose funzioni cognitive quali il linguaggio, la motricità e la memoria.
Nella lunga e difficile lotta al cancro, un gruppo internazionale di ricercatori, guidati da scienziati italiani, ha individuato un nuovo possibile bersaglio. Si tratta della proteina MS4A4A che sembra giocare un ruolo importante nell'impedire la formazione di metastasi, cioè delle "colonie" del cancro che lo rendono letale. Lo studio, diretto e coordinato da Humanitas e Università Statale di Milano, è stato reso possibile grazie al sostegno della Fondazione Airc per la ricerca sul cancro. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Immunology.
MS4A4A , coperta in cellule del sistema immunitarie, chiamate macrofagi, si associa al recettore Dectina-1, controllandone la funzione. Ma la molecola individuata è anche essenziale per attivare un dialogo tra i macrofagi – cellule primitive del sistema immunitario che nei tumori hanno un significato prognostico – e le cellule Natural Killer, che sono in grado di uccidere le cellule tumorali. “Abbiamo scoperto il gene responsabile di MS4A4A 10 anni fa nei macrofagi associati al tumore, ma il ruolo della proteina da esso codificata si è chiarito da poco”, racconta Massimo Locati, docente di immunologia all’Università degli Studi di Milano e responsabile del Laboratorio di Biologia dei Leucociti di Humanitas, coordinatore dello studio e corresponding author dell’articolo insieme a Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e docente di Humanitas University.