Nutre il tumore e lo protegge dall’attacco delle nostre difese naturali. La proteina TRF2 ha un doppio ruolo nel cancro e a individuarlo è stato uno studio condotto dall’Istituto Regina Elena di Roma. I risultati, pubblicati sia sulla rivista Embo Journal che sulla rivista Nucleic Acids Research, aprono la strada a nuovi approcci terapeutici.
TRF2 è una proteina espressa in eccesso in diversi tipi di tumori e in particolare nel cancro colonrettale, la forma tumorale su cui si sono concentrati i ricercatori italiani nel nuovo studio. Il cancro al colon-retto è la seconda neoplasia più frequente in Italia con 51.300 casi nel 2018 ed è il secondo tumore a cui sono attribuiti il maggior numero di decessi. Nel 2015 si calcola che, a causa di questa neoplasia, siano morte 18.935 persone. Da qui l’importanza di trovare nuove strategie più efficaci per combatterla.
Si entra in ospedale per essere curati e si finisce per ammalarsi ancora di più. Nel nostro paese è qualcosa che succede spesso. Troppo spesso. Negli ultimi anni, infatti, in Italia le morti causate dalle infezioni ospedaliere sono cresciute, passando dai 18.668 decessi all’anno del 2003 ai 49.301 del 2016. Un bilancio inaccettabile, soprattutto se consideriamo che il 30% delle morti per sepsi che si verificano nei 28 paesi dell’Unione Europea avviene nella nostra Penisola. A puntare i riflettori su questa situazione allarmante è il Rapporto Osservasalute 2018, presentato qualche giorno da a Roma.
“C’è una strage in corso, migliaia di persone muoiono ogni giorno per infezioni ospedaliere, ma il fenomeno viene sottovalutato, si è diffusa l'idea che si tratti di un fatto ineluttabile”, sottolinea Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio nazionale sulla salute. In 13 anni, cioè dal 2003 al 2016, il tasso di mortalità per infezioni ospedaliere è raddoppiato sia per quanto riguarda gli uomini sia per le donne. Il fenomeno riguarda tutte le fasce d’età ma in particolar modo i soggetti over 75. Ma questa “strage” non sembra essere uguale in tutte le regioni. Il rapporto Osservasalute mette in evidenza che i tassi di mortalità per infezioni ospedaliere presentano un’alta variabilità geografica. In generale si registrano più decessi al Centro-Nord rispetto che al Meridione. Nel 2016 al primo posto per numero di morti si è piazzata l’Emilia Romagna, seguita dal Friuli Venezia Giulia. Le posizioni più basse della classifica sono invece occupate da Campania e Sicilia. Questo vale sia per le donne che per gli uomini. Ma non significa necessariamente che in alcune parti dell’Italia gli ospedali sono meno sicuri che in altre. L’Osservatorio per la Salute sottolinea infatti che questa discrepanza può essere dovuta ad una maggiore attenzione da parte delle strutture ospedaliere del Nord nel riportare la causa di morte nel certificato.
Il pane potrebbe non essere un alimento così genuino come molti credono. Perché la sua capacità di mantenersi sano e integro si dovrebbe a un comune additivo che si pensa possa favorire lo sviluppo dell’obesità e del diabete. Si tratta dell’acido propionico, un conservante acidificante molto utilizzato anche in altri prodotti da forno, come ad esempio i biscotti, per la sua capacità di inibire la crescita di muffa e di alcuni batteri. A scoprirlo è stato uno studio della Harvard T. H. School of Public Health condotto sui topolini e successivamente sugli esseri umani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine.
E' da tempo che la comunità scientifica si interroga sull’effetto di alcune molecole utilizzate per la conservazione del cibo. Ma solo pochi studi ne hanno analizzato e valutato l’effettiva azione sul metabolismo. Nel nuovo studio i ricercatori hanno deciso quindi di concentrarsi su uno degli additivi più utilizzati, arrivando a conclusioni che potrebbero cambiare la “buona reputazione” di alimenti molto consumati, tra cui il pane. In particolare, gli studiosi hanno somministrato il proprionato, un acido grasso a catena corta, a un gruppo di topolini. Hanno così scoperto che questo conservante è responsabile dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, causando un’impennata di ormoni, tra cui glucagone, la norepinefrina e l’ormone FABP4. Questo a sua volta portato a una condizione di iperglicemia, tratto distintivo del diabete. Non solo. Gli scienziati hanno scoperto che il consumo “cronico” di propionato da parte dei topi, cioè l'equivalente della quantità consumata dagli esseri umani, ha portato a un significativo aumento di peso e insulino-resistenza.
Nel nostro sangue circola una piccola molecola che potrebbe essere utilizzata come “spia” per individuare le persone che hanno maggiori probabilità di avere un infarto acuto. Più precisamente è un “piccolo messaggero” di Rna non codificante, conosciuto anche come microRNA, che si chiama miR-423. La sua espressione potrebbe rappresentare un importante biomarcatore dell’infarto. Almeno è questo quello che ha scoperto un gruppo di ricercatori guidati da Giuseppe Novelli, rettore e direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma , e da Francesco Romeo
), direttore della Cardiologia dell'Università di Tor Vergata. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Plos One, aprono prospettive importanti nella prevenzione di uno dei principali killer.
E’ certamente un’impresa dura, specialmente per chi non è già fisicamente allenato. Ma prepararsi a correre in una maratona, per tutte quelle decine di chilometri, potrebbe valere il sacrificio. Uno studio condotto da Anish Bhuva della University College London, infatti, ha concluso che allenarsi per sei mesi per correre una maratona può “ringiovanire” il nostro sistema cardiovascolare. Più precisamente può “ringiovanire” le arterie, a partire dall’aorta, di ben 4 anni. I benefici maggiori si riscontrano a vantaggio degli “aspiranti maratoneti” più anziani e dei più lenti. Insomma, “meno maratoneti” si è all’inizio maggiori saranno gli effetti positivi dell’allenamento. I risultati sono stati presentati a Venezia in occasione dell’EuroCMR 2019, meeting della Società Europea di Cardiologia.
Lo studio ha coinvolto 139 aspiranti maratoneti di 21-69 anni d'età che si sono allenati per le maratone di Londra 2016 e 2017. Gli esperti hanno misurato la rigidità delle loro arterie (in particolare l’aorta, vaso maggiore che porta ossigeno ai principali distretti corporei) prima dell’inizio del programma di allenamento per la maratona (che prevedeva una media di 10-20 chilometri di corsa a settimana per un periodo di sei mesi) e dopo aver partecipato all’attesa gara. La rigidità delle arterie - ovvero la perdita di elasticità delle pareti dei vasi - è un segno di invecchiamento degli stessi. Quindi, per poter calcolare l’età biologica dei vasi sanguigni i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica, ecografie del cuore e dei vasi sanguigni, e misurazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca all’inizio e al termine dello studio.
Si cura il proprio figlio per evitare che sviluppo gravi reazioni allergiche e si finisce per peggiorare le sue condizioni. E’ il paradosso della sensibilizzazione. Uno studio di revisione condotto da 5 centri internazionali, tra cui l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per l’Europa, ha concluso che la somministrazione di immunoterapia orale ai bambini con allergia all’arachide accresce il rischio di anafilassi e di altre reazioni gravi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet.
L’allergia alimentare colpisce circa 5 bambini su 100, con un picco nei primi 3 anni di vita, ed è scatenata dalle proteine contenute in alcuni cibi che - per un errore del sistema immunitario - vengono riconosciute come minacce, innescando la reazione infiammatoria. La forma più grave di reazione allergica ad un alimento è l’anafilassi. Colpisce soprattutto i bambini e gli adolescenti e in età pediatrica ha una prevalenza tra l’1 e il 3%. I suoi sintomi si sviluppano molto rapidamente: basta l’ingestione, il contatto, o la semplice inalazione di minime quantità dell’allergene per scatenare orticaria, edema e gonfiore del volto, prurito e gonfiore delle estremità, rinite, congiuntivite, mancanza di fiato, tosse convulsa. In circa 3 casi su 100 si arriva alla riduzione della pressione arteriosa e allo shock anafilattico. Nel 2018, in Italia, sono stati registrati almeno 2 casi di morte per anafilassi alimentare, una a Roma e una a Pisa.
Sembrava un obiettivo impossibile e irrealistico, ma non è così. L’Epatite C si può battere. E lo stiamo facendo. Le terapie con farmaci ad azione diretta contro l’Hcv eliminano completamente il virus in oltre il 96% dei pazienti trattati. Sono davvero confortanti le conclusioni a cui è giunta la Piattaforma italiana per lo studio delle Terapie dell’Epatite Virali (Piter), la piattaforma nata nel 2014 per studiare l’effetto del trattamento dell'infezione dal Virus dell’Epatite C con farmaci antivirali ad azione diretta (Daa) e informare le istituzioni sulle politiche sanitarie più appropriate.
“L’Italia ha raggiunto il primo target dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dell’eliminazione dell’Hcv: quello della riduzione al 65% delle morti Hcv correlate”, riferisce Stefano Vella, direttore del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto Superiore di Sanità. “Grazie al trattamento universale dell’infezione da Hcv senza restrizione, l’Italia si incammina quindi verso il raggiungimento degli altri obiettivi di eliminazione Hcv dell’Oms, a patto di mantenere alto il numero dei pazienti trattati nei prossimi anni”, aggiunge. Con oltre 180mila trattamenti, l’Italia può vantare una delle più vaste esperienze in questo ambito.
Due farmaci diversi che agiscono su una sostanza prodotta naturalmente dal nostro organismo potrebbero aiutare a migliorare la socialità e l’empatia delle persone affette da autismo. Il bersaglio di queste due promettenti terapia è la vasopressina, il cosiddetto “ormone della socialità”. Due trial clinici indipendenti, entrambi pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine, hanno dimostrato che la sua regolazione può scatenare effetti benefici nelle persone con autismo.
Che la vasopressina fosse fondamentale per i comportamenti sociali lo si era capito da tempo. Alcuni studi hanno dimostrato che deficit della vasopressina possono provocare problemi di comunicazione e interazione. A questo ormone è correlata anche la mancanza di empatia che non consente alle persone con problemi di autismo di mettersi nei panni degli altri, comprendere chi gli sta di fronte e interpretare lo sguardo altrui. La vasopressina, insieme all’ossitocina, è un ormone peptidico in grado di agire su diverse cellule nervose e su altri tessuti e organi del nostro organismo. Importante è la sua produzione durante il periodo del parto e dell’allattamento. Durante lo sviluppo e l’evoluzione dell’individuo permette di regolare i comportamenti sociali.
E’ sufficiente una piccola scossa elettrica ben diretta verso la retina e il nervo ottico per suscitare miglioramenti visivi nei casi di ipovisione più o meno grave. E’ quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori e medici dell’Università Cattolica di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, in uno studio pubblicato sulla rivista Brain Stimulation. La ricerca ha coinvolto finora circa quaranta pazienti ipovedenti, cioè persone che hanno una capacità visiva molto ridotta rispetto al normale. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel mondo ci sono 217 milioni di ipovedenti e 36 milioni di ciechi, per un totale di 253 milioni di disabili visivi. Stando alle stesse stime, ben 1,2 miliardi di persone hanno bisogno d’occhiali.
Nel nuovo studio i ricercatori si sono avvalsi della “stimolazione elettrica transcranica”, una tecnica già in uso clinico per malattie quali la depressione maggiore. “Si tratta - spiega Giuseppe Granata, neurologo presso il Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS - di una stimolazione elettrica non invasiva con corrente alternata che si applica vicino agli occhi mediante degli elettrodi a coppetta che il paziente percepisce al massimo come un piccolo formicolio o una leggerissima scossa elettrica”. Lo scienziato ricorda, inoltre, che secondo studi recenti la stimolazione sarebbe in grado di eccitare la retina e in parte anche il nervo ottico. “Noi l’abbiamo testato su pazienti ipovedenti di varia gravità (da marcata riduzione del campo visivo alla cecità praticamente completa), colpiti sia da lesioni retiniche che del nervo ottico e cerebrali – aggiunge Granata – coinvolgendo a oggi circa quaranta pazienti”.
Malawi, Ghana e Kenya saranno i primi paesi al mondo ad avviare una massiccia campagna di vaccinazione contro la malaria che si baserà su un nuovissimo antidoto. Si tratta dell’ RTS,S, l’unico vaccino che si è rivelato efficace nella riduzione dell’impatto di questa malaria sui bambini. Il farmaco, negli studi condotti al culmine di una sperimentazione durata quasi trent’anni, ha dimostrato di poter ridurre fino al 40 per cento i contagi in età pediatrica. Ad annunciare questa prima storica è stata l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
La “Mal aria”, così definita in seguito alla credenza che venisse contratta dai miasmi malsani emanati dalle acque stagnanti delle paludi, è una grave malattia causata da protozoi parassiti trasmessi all’uomo da zanzare ad attività crepuscolare-notturna del genere Anopheles. Oggi la malaria è endemica in vaste zone dell’Asia, Africa, America latina e centrale, isole caraibiche e Oceania, con circa 500 milioni di malati ogni anno e oltre un milione di morti, minacciando nel complesso oltre il 40 per cento della popolazione mondiale, soprattutto quella residente in paesi poveri. Assieme alla tubercolosi e all’Aids, la malaria è oggi una delle principali emergenze sanitarie del pianeta. Oltre a essere endemica in molte zone del pianeta, la malaria viene sempre più frequentemente importata anche in zone dove è stata eliminata, grazie ai movimenti migratori, risultando in assoluto la prima malattia d’importazione, trasmessa da vettori, in Europa e negli Usa.
Sarebbe regolato da una coppia di enzimi il meccanismo attraverso il quale il nostro organismo accumula energie sotto forma di grasso che poi il nostro corpo può avere a disposizione in tempi meno fecondi. A scoprirlo Simona Pedrotti, del gruppo di ricerca guidato da Davide Gabellini all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, che hanno risultati della loro ricerca sulla rivista Science Advances.
Si tratta di un sistema che si è sviluppato nel corso di milioni di anni di evoluzione dei mammiferi e della nostra specie ma che, a causa delle mutate condizioni in cui viviamo oggi è causa di un eccesso di formazione di grasso, e dunque ha un ruolo determinante nello sviluppo dell’obesità. Il meccanismo riguarda infatti tutte e due i tipi di grassi prodotti dall’organismo: il grasso bianco e il grasso bruno, entrambi hanno un ruolo chiave nei processi metabolici. Il più noto è il grasso bianco – al quale ci riferiamo tipicamente quando parliamo di grasso. Funziona come un deposito di energia e aumenta se assumiamo più calorie di quelle che bruciamo. Quando la sua presenza supera una certa soglia aumentano i rischi per la nostra salute e si può arrivare a una diagnosi clinica di obesità. Il secondo tipo di grasso è il grasso bruno, che è invece invisibile dall’esterno: si trova nascosto in alcuni punti del nostro corpo – vicino alle carotidi, ad esempio, o tra le scapole. Al contrario del primo, il grasso bruno ci aiuta a stare in forma: chi ha più grasso bruno – o ce l’ha più attivo – ha anche meno grasso bianco. Questo perché il grasso bruno consuma molta energia e lo fa soprattutto per produrre calore quando ci troviamo a basse temperature, un ruolo chiave per aiutarci a sopravvivere.
Sia che si vada a lavoro in bicicletta o che si abbia l’abitudine di fare jogging, sia che si faccia semplicemente una passeggiata o le scale a piedi, chi si muove di più vive anche più a lungo. Indipendentemente, quindi, dal tipo di attività fisica. E anche indipendentemente dall’età, dal sesso e dal livello di forma fisica iniziale. Uno studio condotto dalla Scuola svedese di scienze dello sport e della salute di Stoccolma ha dimostrato che per migliorare la propria forma fisica non è affatto necessario fare attività che non piacciano. E’ la più grande ricerca mai fatta prima sull’idoneità cardiorespiratoria nelle persone sane e i risultati sono stati presentati in occasione del Congresso EuroPrevent 2019 di Lisbona.
La fertilità si cura anche a tavola. Sono ormai sempre di più gli studi e le ricerche che evidenziano come una sana e corretta alimentazione possa fornire un supporto al mantenimento delle funzioni riproduttive, soprattutto nei maschi. Secondo le statistiche, quasi una coppia su sette, in Italia, ha problemi di fertilità. In un terzo dei casi, questi problemi sono legati a problemi di natura maschile. Se la dieta può avere un ruolo preventivo in entrambe i sessi, per i maschi sembra avere un ruolo ancora più importante. Secondo una un’ampia metanalisi apparsa nel 2017 su Human Reproduction Update, una dieta a base di cibi ricchi di vitamine (E, C, D e folati) aiuta a mantenere alta la funzione riproduttiva, con effetti diretti sulla qualità degli spermatozoi prodotti e sul rateo di gravidanza.
Tra le tante molecole utili a contrastare l’infertilità maschile, una sembra giocare un ruolo di maggior rilievo. Si tratta del licopene, un carotenoide, contenuto nei comuni pomodori a cui, la molecola, fornisce il colore rosso.
Si chiama octreotide ed è il primo farmaco al mondo che riduce la necessità di dialisi nei pazienti con rene policistico. A dimostrarne l’efficacia è stato lo studio chiamato ALADIN 2 condotto dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, in collaborazione con gli Ospedali di Bergamo, Milano, Napoli, Treviso, Agrigento e Catania. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Plos Medicine.
La malattia renale policistica autosomica dominante, comunemente detta malattia del rene policistico, è la forma più frequente di malattia ereditaria del rene. Il nome “rene policistico” è dovuto al fatto che il rene nel corso della vita viene progressivamente deformato dalla formazione di cisti, cioè di cavità riempite da un liquido che si sviluppano nel tessuto renale. All’esordio della malattia queste cisti sono poche e piccole, ma col passare del tempo aumentano di numero e dimensione, e possono arrivare a occupare interamente il rene, che aumenta notevolmente di dimensione. Queste cisti occupano e distruggono il tessuto renale, che perde gradualmente la sua funzione, fino al punto che occorre sostituirla con la dialisi. Si stima che il 10 per cento dei pazienti che si sottopongono a dialisi hanno perso la funzione renale a causa di questa malattia.
Sul tema immigrazione e salute se ne sentono di tutti i colori, specialmente nel mondo social. Ma la maggior parte di questi “tormentoni” altro non sono che fake news vere e proprie. A fare chiarezza una volta per tutte sono stati gli esperti che hanno preso parte al convegno “Migranti e salute: tra prevenzione, cura e fake news”, promosso dall’Associazione medici endocrinologi (Ame), che si è tenuto a Palermo. Gli esperti sono partiti da presupposto che le migrazioni, una volta considerate un fenomeno “naturale” e spesso gradito per risolvere problemi legati allo sviluppo industriale, agricolo e di denatalità, sono oggi divenute oggetto di paure, disinformazione e di false credenze.
“In occasione del convegno si è cercato di fare luce sui dati reali talvolta ben diversi dalla rappresentazione narrativa usuale costituita da una serie di luoghi comuni per cui anche gli aspetti sanitari relativi ai migranti sono considerati aspetti ‘politico-socio-sanitari’”, spiega Piernicola Garofalo, responsabile scientifico del convegno, Unità operativa di Endocrinologia dell’Azienda Ospedali riuniti Villa Sofia-Cervello di Palermo. “Come medici il nostro operato non può muoversi da questioni politiche e suggeriamo di valutare il fenomeno migratorio - prosegue - partendo dai dati genuini che sono scaturiti a partire dal contributo di tanti operatori sanitari che quotidianamente si impegnano su tutto il territorio italiano. L’obiettivo è quindi esclusivamente etico e deontologico: fare buona informazione e far conoscere, anche nell’interesse di tutti, quali sono i bisogni e le opportunità di salute - tra prevenzione e cura - migliorando l’accesso alla fruizione del SSN, rimuovendo le barriere anche linguistiche che ancora esistono e che peraltro mettono in difficoltà anche gli italiani fragili. Ricordiamoci che la salute di una intera comunità non può prescindere dalla buona salute di ciascuno dei suoi membri”.
Il colesterolo LDL, comunemente definito “cattivo”, è notoriamente pericoloso perché causa grumi nelle arterie che possono portare a una serie di problemi importanti per la salute. Per questo le linee guida raccomandano di tenere i suoi valori sotto controllo: i livelli non dovrebbero superare i 100 milligrammi per decilitro. Tuttavia, il colesterolo LDL diventa più cattivo quando scende di molto rispetto alla soglia massima raccomandata. Almeno secondo uno studio condotto da Pamela Rist, ricercatrice del Brigham and Women’s Hospital di Boston, e pubblicato sulla rivista Neurology. La ricerca ha coinvolto solo donne ma, secondo i ricercatori, i risultati sarebbero validi anche per gli uomini.
Nello studio i ricercatori hanno analizzato i dati riguardanti quasi 28mila donne dai 44 anni d’età in su, tutte tenute sotto osservazione per 19 anni nell’ambito del Women’s Health Study, che studia gli effetti della vitamina E dell’assunzione dell’aspirina nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcuni tipi di tumore. All’inizio della ricerca tutte le donne coinvolte hanno fatto un test del sangue per misurare il colesterolo e i trigliceridi. Dopo vent’anni, circa 140 donne avevano avuto un’emorragia cerebrale. L’emorragia cerebrale avviene quando un vaso sanguigno nel cervello si rompe e il sangue fuoriesce. Rappresenta circa il 13% dei casi di ictus.
Circa 20 milioni di italiani sono alle prese con raffreddore, occhi arrossati, tosse, mal di testa. Non è l’influenza, che invece finalmente sta passando. Ma è l’allergia “primaverile”, quella che colpisce all’incirca 1 milione e 200mila bambini. La colpa è quindi dei pollini, che da marzo a giugno aumentano la loro concentrazione soprattutto nelle giornate soleggiate e ventose. E sono sempre loro la causa dei disturbi respiratori che, secondo FederAsma, riguardano 9 milioni di italiani.
L’allergia da polline può insorgere a qualsiasi età, anche se più frequentemente lo fa durante l’età scolare e l’adolescenza. Ad aumentare il rischio di sviluppare allergie da pollini è la predisposizione genetica. Se mamma e papà sono soggetti sani, il rischio che un figlio sia allergico è pari al 10-15%. Ma se 1 genitore su 2 è allergico, la percentuale è pari al 30%. A far salire notevolmente la percentuale, poi, è la presenza di allergia in entrambi i genitori: in questo caso, infatti, il bambino rischia di diventare un soggetto allergico nel 60-80% dei casi. Tra le principali piante responsabili di emettere pollini allergenici le graminacee, la parietaria, l’ambrosia e le betulle, ma anche il cipresso, la mimosa, l’ulivo e la quercia sono in grado di scatenare una risposta immunitaria nei soggetti predisposti.
Possiamo considerarle a tutti gli effetti come “micro-navicelle”create per viaggiare all’interno del nostro organismo e pronte a rilasciare il loro carico prezioso direttamente nel posto in cui serve. Tecnicamente si chiamano “nano vettori” e a svilupparne alcuni esemplari molto promettenti per le patologie del fegato è stato un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” Irccs di Milano e del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con il Dipartimento di Gastroenterologia dell’Ospedale San Gerardo di Monza e il Pharmazentrum presso la Goethe University Hospital di Francoforte.
I primi test, descritti sulla rivista Acs Nano, sono stati condotti in un modello animale di epatite autoimmune, una malattia del fegato causata da un difetto del sistema immunitario. Nei pazienti affetti da questa condizione le nostre difese immunitarie attaccano per errore il fegato, provocandone l'infiammazione che può condurre alla cirrosi e quindi a danni permanenti. Nel nuovo studio i ricercatori hanno creato nanovettori biocompatibili e biodegradabili (ANANAS), all'interno dei quali è stato incorporato un farmaco steroideo. Ebbene, i ricercatori hanno registrato un effetto terapeutico potenziato e una minore tossicità.
C’è un farmaco potente e low cost in grado di “curare” lo stress. E’ la natura: trascorrere infatti venti minuti al giorno “immersi” nel verde riduce in maniera significativa i livelli degli ormoni dello stress. A prescrivere “farmaco” e “dosaggio” è Mary Carol Hunter dell’Università del Michigan, autrice di una ricerca pubblicata su Frontiers in Psychology. La scienziata è talmente sicura dell'’effetto benefico di vivere quotidianamente un’esperienza nel verde, anche quello urbano, che nel suo studio invita i medici a “prescrivere” delle vere e proprio “pillole di natura” per 20 minuti al giorno.
Per natura la studiosa intende molti luoghi più o meno disponibili: un giardino o un parco, in cui si può passeggiare o anche semplicemente stare seduti. “Il nostro studio – commenta la Hunter – dimostra che i migliori risultati in termini di riduzione dei livelli di cortisolemia si hanno passeggiando o stando seduti per 20-30 minuti in un posto che dia il senso della natura”. Lo studio, che ha portato alla precisa definizione del giusto dosaggio delle “pillole della natura”, è durato 8 settimane. In quest’arco di tempo, ai partecipanti è stato chiesto di assumere una “pillola di natura” di almeno 10 minuti, 3 volte a settimana. I ricercatori hanno misurato i livelli di cortisolo, un ormone dello stress, analizzando campioni di saliva prelevati prima e dopo la “somministrazione” della “pillola di natura”, una volta ogni due settimane.
Grassi, sale e zuccheri in eccesso. Ma soprattutto troppa poca frutta e verdura. “Mangiare male uccide più del fumo, della pressione alta e di qualunque altro fattore di rischio”. Non lasciano spazio ad alcun fraintendimento le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet, a cui hanno contribuito oltre 130 scienziati di quasi 40 paesi del mondo, coordinati da Ashkan Afshin dell'Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington negli Usa. Si tratta dell’analisi più completa degli effetti della dieta sulla salute.
Secondo gli autori, a livello globale una morte su 5 è riconducibile a un’alimentazione scorretta, povera di cibi sani come i cereali integrali e i vegetali, e ricca di ingredienti pericolosi come il sale e le bevande zuccherate. In pratica, un quinto dei decessi potrebbe essere evitato adottando una dieta salutare, che per gli esperti avrebbe l'impatto di un farmaco blockbuster. Afshin precisa che il nuovo lavoro si è concentrato sui legami fra alimentazione e patologie croniche come malattie cardiovascolari e diabete, indipendentemente dall'associazione tra queste condizioni e l'eccesso patologico di peso. Ebbene, dai risultati emerge che, nel 2017, ci sono stati 10,9 milioni di morti a causa di un regime alimentare sbagliato. Tantissimi rispetto agli 8 milioni di decessi associati al tabacco e i 10,4 milione da ipertensione. In pratica, la cattiva alimentazione è responsabile del 22% delle morti registrate fra gli adulti ed è complessivamente responsabile di 255 milioni di anni persi per morte prematura determinata da una patologia o perché vissuti con disabilità.