Ci siamo, è iniziato l’assiduo monitoraggio settimanale della rete “Influnet” con le sue “sentinelle” di medici e pediatri coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità per fornire un quadro e un controllo assiduo della stagione influenzale. Che ha già coinvolto circa 200mila italiani - in aggiunta ai tanti virus simil-influenzali e varie sindromi di raffreddamento in agguato dagli albori dell’autunno - e ne colpirà almeno tre milioni, stando alle proiezioni e alle insidie in arrivo soprattutto da Australia e Asia.
Cifre abbastanza “normali”, in linea più o meno con gli ultimi anni, peraltro essi stessi piuttosto nocivi. Quel che è meno “normale” è la catena di perduranti errori che ancora molti ripetono. La prima è la scarsa abitudine a vaccinarsi, il che è invece calorosamente suggerito soprattutto alle fasce deboli, quali gli anziani, le donne incinta o chi soffre di malattie che l’influenza può indurre a complicanze, quali il diabete, patologie immunitarie o cardiovascolari e respiratorie croniche.
L’altro errore, ancor più grossolano, è il facile ricorso agli antibiotici. “L’'influenza è una malattia virale e pertanto gli antibiotici, che sono attivi contro i batteri, non hanno alcuna indicazione, quindi solo nei casi complicati e dietro indicazione medica possono essere utilizzati”, ricorda Massimo Andreoni, Direttore Scientifico della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit), che poi ricorda: “In tutti gli altri casi i farmaci da utilizzare sono anti-infiammatori delle prime vie aeree e antipiretici”.
Semplice, eppure molti sbagliano, e cercano l’antibiotico che, oltre a esser in questi casi quasi sempre fuori luogo e foriero di rischi collaterali, presenta un problema in più, che suscita crescente allarme nel mondo della medicina: quello dell’antibiotico-resistenza, alimentato da abusi come quello descritto. Da uno studio, pubblicato dalla rivista Lancet dal Centro Europeo per il Controllo delle Malattie, emerge che ogni anno ben 33mila europei muoiono per infezioni da batteri resistenti agli antibiotici ec- si noti - un terzo dei decessi si verifica in Italia.
Dati drammatici, che ci ricordano come le soluzioni da adottare sono molto meno invasive, sul piano farmacologico e anche su quello alimentare. L’abbondanza di frutta e verdura è il fondamento essenziale della prevenzione, e anche di una rapida guarigione dal virus. “Non recedere da molta frutta in insalata con agrumi, papaya e kiwi che aiutano anche a combattere l’influenza intestinale”, raccomanda in particolare la Fondazione Veronesi, che poi aggiunge: “Non trascurare la vitamina D che svolge un ruolo essenziale nell’accorciare la convalescenza mangiando, ad esempio, un uovo al tegamino”.
Sedentarietà, obesità, rischi di problemi cardiovascolari, metabolici, articolari. Il cortocircuito rappresenta “un problema di salute pubblica di proporzioni epidemiche nei Paesi occidentali”, nelle parole dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, oltreché dalle autorità italiane. Ed è un problema noto oramai da decenni, che si alimenta di dati in costante peggioramento in materia di “stili di vita”, con riferimento anzitutto al calo dell'attività fisica. Su “quanto” quest'ultimo sia nocivo arriva ora una specifica importante e per certi versi sorprendente, destinata a spostare alcune percezioni collettive.
Lo si legge su Jama Network Open, ed è l'esito di un'estesa ricerca retrospettiva compiuta dall'Università di Cleveland, riesaminando i test sotto sforzo effettuati su circa 122mila persone dai 53 e ai 73 anni tra il 1991 e il 2014. A una prima lettura, può apparire solo l'ennesima conferma del fatto che l'inattività motoria sia deleteria.
Ma è appunto l'entità del danno a destare scalpore. “Mai visto qualcosa di così pronunciato”, spiega uno degli autori, il cardiologo Waber. Nel dettaglio, i sedentari hanno palesato tassi di mortalità cinque volte più alti rispetto agli atleti. E anche il confronto con altre “pessime abitudini” risulta inquietante, in quanto l'inattività è risultata fattore di rischio addirittura triplicato rispetto ai fumatori, e la forbice si allarga ulteriormente rispetto al diabete e all'ipertensione.
Da notare inoltre come l'esposizione al rischio tenda ad alterarsi anche in proporzione all'entità dell'attività svolta. Chi effettua qualche attività sportiva a titolo solo saltuario palesa tassi di mortalità innalzati del 390% rispetto a chi invece la svolge abitualmente. “Non c'è limite all'ampiezza dell'esercizio”, spiegano gli studiosi americani, così come “non c'è limite d'età per cercare di mettersi in forma”.
Va da sé che l'enfasi sull'attività fisica non fa abbassare l'allarme su altri aspetti deleteri dei nostri comportamenti, dal fumo all'alcol. Inoltre, “l'assenza di limiti” assoluti sull'attività fisica da poter svolgere non costituisce un invito a effettuarla in modo scriteriato, senza tener adeguato conto delle proprie esigenze, rischi e limiti legati all'età e all'eventuale presenza di patologie. Significa però ricordarsi che “il nostro corpo è fatto per camminare, correre ed esercitarsi”. Non farlo è il più grave dei torti che possiamo recargli.
Ė una delle problematiche più diffuse e invalidanti, e presenta per giunta un nodo “di genere”, per la netta (anche se tutt’altro che esclusiva) prevalenza femminile. L’insieme delle malattie reumatiche colpisce circa cinque milioni di italiani, con esiti spesso gravemente invalidanti. 7 pazienti su 10 hanno difficoltà a svolgere le attività quotidiane, dallo studio al lavoro, dallo svago alle attività familiari, nonché quelle sessuali e di coppia, tant’è che nel 90% dei casi si arriva alla separazione.
I dati sono stati raccolti nei mesi scorsi dall’Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare (Apmar), documentando anche un grave problema di disinformazione. Il 50% dei pazienti non conosce il proprio grado di invalidità, il 30% non sa dell’esistenza di diritti e agevolazioni previsti dalla legge, il 60% decide di lasciare o ridurre l’attività lavorativa senza conoscere le possibilità – normative e mediche – che aiuterebbero a svolgerla.
Un altro studio, discusso nei giorni scorsi in un apposito Convegno organizzato a Roma dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda) con la testata AboutPharma, si è concentrato sull’ambito femminile, che costituisce appunto la maggioranza, con ben 3,5 milioni di donne colpite. L’indagine ha coinvolto 24 centri reumatologici italiani e quasi 400 donne tra i 18 e 55 anni. Scelta d’età deliberata, in quanto il rischio è tutt’altro che confinato alla popolazione anziana, sollevando problematiche specifiche sull’età fertile.
Qui la disinformazione è ancor più colpevole, in quanto, fino a tempi recenti, gli stessi medici espressamente sconsigliavano alle pazienti di affrontare la gravidanza. La conseguenza è che permane molta paura tra le donne: il 32% ritiene che la terapia farmacologica possa essere dannosa al nascituro, il 16% teme addirittura di poter trasmettere al piccolo la malattia. C’è, va detto, una problematica, la presenza di fattori di rischio. “Gli ormoni femminili giocano un ruolo importante nelle cause e nello sviluppo delle malattie reumatiche”, ricorda Francesca Merzagora, presidente di Onda, sicché la gestazione può influire sul decorso patologico che, se non controllato, può causare complicanze.
Il fatto è però che tale “controllo” oggi è largamente possibile. “Con un’attenta gestione medica e ostetrica la gravidanza può avere un esito favorevole”, sottolinea Angela Tincani, coordinatrice del Gruppo di Medicina di Genere della Società Italiana di Reumatologia, pur avvertendo che è bene “programmarla in un periodo di remissione stabile della malattia”. L'urgenza è allora quella di “colmare il gap informativo tra pazienti e medici”. Serve più attenzione, dai singoli alle istituzioni. Possibilmente anche istituendo “centri di riferimento di medicina di genere multidisciplinari per la gravidanza delle donne con malattie reumatiche”.
“Nel lungo termine saremo tutti morti”, diceva il grande economista di Cambridge John Maynard Keynes. In effetti tendiamo spesso a pensarla così, e non solo sui temi economici. Su quelli ambientali, la “debolezza comunicativa” dei pur documentati allarmi sugli effetti devastanti delle emissioni inquinanti per il pianeta è che sono largamente declinati al futuro, benché sempre più prossimo. Il problema è invece oggi, e a dimostrarlo è proprio la salute.
Abbiamo più volte spiegato, anche in questi giorni di avvio della stagione influenzale, come le affezioni alle vie respiratorie siano in allarmante aumento, e che l’influenza stessa arrivi a uccidere oramai fino a 650mila persone l’anno. Le cifre in aumento solo legate all’invecchiamento della popolazione? No, almeno non solo, tant’è che si è qui già documentato che l’asma grave, in Italia, colpisca per addirittura un terzo i bambini sotto i 14 anni.
Sul nesso strettissimo tra ambiente e salute è cresciuta in effetti una presa d’atto a livello istituzionale, dalle commissioni europarlamentari all’organizzazione di molte giunte locali. Sul piano internazionale, si è tenuta in questi a Ginevra la prima Conferenza Globale sull’inquinamento dell’aria e la salute. E qui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilanciato con un dossier l’allarme proprio per i più giovani: oltre il 90% degli under 15 respirano ogni giorno aria inquinata, uccidendone almeno 600mila l’anno. I picchi maggiori sono tra le economie emergenti, ma anche la relativamente virtuosa Europa è tutt’altro che esente da colpe, con percentuali che superano nettamente il 50% di esposizione a polveri ultrasottili.
Il problema è che dalle parole non si passa ancora adeguatamente ai fatti, e in questo il nostro Paese risulta tra i più colpevoli. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente, in Europa quasi quattro milioni di persone abitano in aree dove sono superati contemporaneamente e regolarmente i limiti dei principali inquinanti. E, di queste, ben 3,7 vivono nel Nord Italia, col risultato che siamo al primo posto nel continente per le morti annue da biossido di azoto (20500) e da ozono (3.200), e al secondo per decessi da Pm2.5 (60.600).
Sono temi che chiamano alla responsabilità la politica, certo, ma anche ciascuno di noi, specie verso i nostri figli. Un recente studio di Greenpeace dinanzi alle scuole elementari romane ha riscontrato la sistematica e grave violazione dei limiti di legge sugli inquinanti, specie agli orari di ingresso, quando si arriva a gas aperto fino alla porta della scuola. Ė allora compito urgente di tutti pensarci e agire. Spegniamo quel motore, almeno dinanzi a quella scuola. Non pensiamo di fare un favore ai bambini risparmiando loro qualche passo a piedi al prezzo di comprometterne la salute.
Vi ricordate “Quelo”, l’esilarante santone concepito da Corrado Guzzanti? La chiave del personaggio era nel suo tormentone: “Le risposte non le devi cercare fuori, la risposta è dentro di te. Epperò è sbagliata”. Quel che prendeva di mira il grande comico è un fenomeno culturale dilagante nei nostri tempi, che affolla da oramai decenni le nostre tv e librerie (e ancor di più quelle statunitensi). La tendenza suggerita – con pubblicazioni “motivazionali” che spaziano dall’ambito socio-emotivo alla ricerca del successo economico, e perfino alla salute psico-fisica – è quella di mettere al centro l’introspezione, come chiave di volta e di “svolta”, per giunta in tempi brevi, con salvifiche scorciatoie.
Ė una sorta di “fai-da-te” applicato a ogni ambito vitale, ovvero, nelle parole dei suoi promotori, un percorso di “miglioramento auto-guidato”. Niente di male con l’introspezione, naturalmente, che è anzi variabile cruciale nella crescita e rafforzamento personale. Quel che molti esperti obiettano, a cominciare dagli stessi psicoterapeuti, è però il contenuto piuttosto pericoloso di alcuni messaggi, specie per chi già si trova in uno stato di depressione, quali l’incoraggiamento implicito a chiudersi nella solitudine e la costruzione di un orizzonte di “onnipotenza” di sé, che, a fronte di un illusorio sollievo, è invece fonte di ulteriore frustrazione data la naturale sussistenza di limiti umani, interni ed esterni.
L’ultima critica arriva in questi giorni da un’intervista all’Ansa di Svend Brinkmann, dell’Università danese di Aalborg, autore di un pamphlet in proposito, tradotto anche in italiano: “Contro il self help: come resistere alla mania di migliorarsi”. “La nostra cultura chiede il continuo migliorarsi, non importa quanto sei in gamba, non lo sarai mai abbastanza; ciò crea una mentalità depressiva, infatti chi soffre di depressione ha questa idea di non essere all'altezza”, spiega lo psicologo, chiamando a “combattere l'illusione di potersi auto-migliorare venduta senza la minima traccia di evidenza scientifica”.
Brinkmann attacca il concetto che “l'individuo possa controllare tutto e che la felicità sia una ‘scelta’, quindi se sei infelice è solo colpa tua”. E infine lancia una semplice controproposta: niente libri self-help (“sono come una droga, perché non basta mai, perché non funzionano”), bensì romanzi: “Ti aiutano a vedere la vita umana nella sua complessità e l'impossibilità di controllarla”.
La critica al fenomeno ha oramai solidi pregressi nel mondo degli addetti ai lavori, anche in Italia. Non tutti i libri di tale filone sono da buttare, anzi, ma il problema di fondo è quello di scegliere testi di “guru” improvvisati anziché di psicologi e altri esperti di problemi depressivi. Per gli interessati, c’è inoltre una crescente letteratura filosofica e storico-antropologica che sottolinea la fragilità delle pretese, anche teologiche, specie in Occidente, derivanti dall’idea di un “paradiso terrestre” e da quella di un “uomo-divinità”, in quanto incarnazione di essa. Il messaggio di fondo è qui invece che siamo per definizione esseri mortali e imperfetti, e il nostro posto, almeno per ora, è in questo mondo difficoltoso. “Quelo” ha ragione all’incontrario: guai a rinchiudersi nel recinto dell’autosufficienza e della solitudine, si deve invece ricominciare a cercare “fuori”. Senza più esitare a chiedere aiuto. E se il tema è la salute, psichica o fisica, appoggiarsi ai professionisti che dedicano la vita a occuparsene.
Le allergie sono in continuo aumento, a cominciare da quelle respiratorie, complici una pluralità di fattori, inclusi stili di vita inadeguati e la presenza crescente di inquinanti di vario tipo. Si stima che rinite e asma coinvolgano 12 milioni di italiani, con effetti sempre più gravi in termini di morbidità e mortalità. Solo l’asma, secondo i dati dell’Associazione Allergologi Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri (Aaito), riunita a Congresso nei giorni scorsi a Roma, colpirebbe il 4,5% della popolazione, ossia circa 2,6 milioni di persone.
La buona notizia è che, grazie alla ricerca, i rimedi “inalatori” risultano sempre più efficaci. Ci sono i cosiddetti “farmaci di fondo”, assunti a scadenza regolare per prevenire gli attacchi, o quelli “al bisogno”, che risolvono la crisi asmatica. Quando tali trattamenti non risultano efficaci si parla di “asma grave”, e richiede, nelle parole dell’European Respiratory Society, “un alto livello di trattamento con due diversi tipi di farmaci preventivi per evitare che vada fuori controllo”.
Ed è in particolare su questo che l’Aaito lancia l’allarme. La forma grave colpisce un decimo degli asmatici, ossia circa 300mila italiani, di cui un terzo di età inferiore ai 14 anni. Con pesanti ricadute personali, ostacolando seriamente la vita scolastica e lavorativa e generando disturbi ulteriori, a iniziare dal sonno. Anche il “costo”, pubblico e privato, è elevatissimo, in quanto il trattamento assorbe circa l’80% delle risorse dedicate all’asma.
A dispetto di tali preoccupanti cifre, la risposta del sistema sanitario appare lacunosa. Vi sono solo 13 strutture “complesse” (ospedaliere, universitarie) e 58 “semplici” (ambulatori di primo livello) dedicate, e c’è anche un problema di personale, in quanto gli allergologi italiani con specialistica ambulatoriale sono solo 150, e metà dei medici che ha preso tale specializzazione non ha trovato lavoro in tali strutture. Tutto questo, nota l’Aaito, ricade sull’accessibilità e anche sugli oneri economici delle terapie per i cittadini.
C’è però anche un ambito che coinvolge la responsabilità dei singoli ed è la prevenzione. Gli esperti ricordano che l’attacco d’asma – somatizzato nel rigonfiamento della mucosa delle vie aeree e della loro contrazione muscolare – può essere scatenato da acari, muffe, peli di animali, reazione da alcuni farmaci e sostanze chimiche, inquinamento ambientale, e perfino alimenti. Fattori almeno in parte evitabili. Come sottolinea il presidente dell’associazione Antonino Musarra, vi sono “stili di vita che tendono a far peggiorare l'asma, incluso il fumo di sigaretta, la sedentarietà e l'eccesso di peso corporeo”.
I titoli giornalistici sono talora fuorvianti, a volte anche rispetto al contenuto stesso dell’articolo e agli intenti dell’autore. Un rapporto dell’Agenzia Italiana del Farmaco ha messo la lente d’ingrandimento sulla spesa per i farmaci nelle diverse Regioni italiane sulla base di un’indagine OsMed, e qualche sintesi di stampa sembra inchiodare l’intero settore e l’intero Paese all’ambito degli “sprechi”. Non è così, in quanto i numeri complessivi sulla spesa farmaceutica in Italia sono viceversa ben inferiori rispetto agli altri principali Paesi europei.
Un problema reale nondimeno emerge, e verte sulla “qualità” della spesa che, specie nel Mezzogiorno, palesa evidenti criticità, a iniziare dal ritardo nel ricorso ai farmaci equivalenti, con quel che consegue per i mancati risparmi delle persone e la qualità delle loro cure. “Abbracciare chi rischia di restare ai margini del diritto alla salute sancito dalla Costituzione e spesso suo malgrado tradito dal Servizio Sanitario Nazionale”, ha incalzato il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, nella sua recente Assemblea pubblica a Roma.
Si potrebbe spendere infatti meno, con i generici, che hanno la medesima, certificata, efficacia e sicurezza terapeutica, e invece si spreca ancora, paradossalmente soprattutto nelle Regioni in maggiore difficoltà economica. E anche sulla tipologia di farmaci a volte si spende male.
Una delle problematiche maggiori riguarda gli antibiotici, che possono essere talora salvifici, ma il cui abuso è fonte di effetti avversi e anche del drammatico e crescente fenomeno dell'antibiotico-resistenza. Ed è di nuovo al Sud che si distingue per una spesa talmente elevata da far pensare – dice Francesco Trotta, coordinatore del gruppo di lavoro OsMed - “ad una potenziale inappropriatezza”.
Un altro aspetto critico, sollevato anche tramite uno studio internazionale presentato in questi giorni dalla Fondazione Firmo, coinvolge la cura dell'osteoporosi. Per quel che riguarda la vitamina D, il suo consumo (che può essere prezioso, ma senza abusi) ha in questi anni numeri da boom, soprattutto in Regioni “soleggiate” come la Calabria e la Puglia, mentre altri farmaci preventivi di comprovata efficacia restano ai margini, anche perché perlopiù prescrivibili in pochi centri specializzati e non dal medico di base. Costano troppo alle casse pubbliche? Secondo la stessa Fondazione vale il contrario: per risparmiare qualche milione sulla prevenzione, il Ssn spende poi quasi 10 miliardi l'anno per curare le oltre 500mila fratture annue da osteoporosi.
Ė iniziato la scorsa settimana il protocollo nazionale di monitoraggio “Influnet” (basato su segnalazioni a campione da medici e pediatri “sentinella”) che, salvo picchi ulteriori, si concluderà il prossimo 28 aprile. La “stagione dell’influenza” vera e propria deve in realtà ancora iniziare, nel mese prossimo, anche se il nostro sistema immunitario è già stato aggredito soprattutto nel Nord Italia, tra virus parainfluenzali, adenovirus e rinovirus, che ogni anno coinvolgono fino al 12% della popolazione. Ė comunque importante arrivare “attrezzati” alla “curva in salita” delle influenze, a partire da un’adeguata conoscenza.
La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un elenco di “miti da sfatare”, e assai diffusi. In cima c’è quello che “non è grave”. Falso, tant’è che provoca fino a 650mila morti l’anno, milioni di ricoveri e una pluralità di rischi di complicanze. Gli altri imperativi riguardano la prevenzione e, soprattutto, i vaccini. Fondamentale l’igiene personale, a partire dalle mani, e anche cercare di limitare il contatto con persone malate, per quanto possibile.
Sulle vaccinazioni la mitologia coinvolge il fatto che il farmaco stesso possa esso stesso generare l’influenza (no, al massimo può dare un senso di debolezza per un paio di giorni) o gravi effetti collaterali, o ancora che andrebbe evitato per le donne in gravidanza, mentre vale l’esatto contrario: è importante soprattutto per loro, indebolite nelle difese immunitarie, così come per altre le categorie più fragili come gli anziani.
Invece, all’evidenza dell’ultimo anno, solo il 14% degli italiani si vaccina. E questo nonostante, si noti, il 70% riconosca l’importanza della vaccinazione stessa. Insomma, la maggioranza è consapevole in materia, ma manca all’evidenza un po’ di informazione sulla “facilità” di accedervi. Costa solo 2,4 euro per le famiglie (poco più di 3 euro per il Servizio Sanitario Nazionale), ed è gratuito per i soggetti a rischio (quali gli over-65, donne al secondo e terzo mese di gravidanza, veterinari, forze dell’ordine).
A tal proposito, la mancata prevenzione ha essa stessa un costo anche economico, sottolineato da uno studio presentato nei giorni scorsi al Congresso Nazionale della Società Italiana di Pneumologia a Venezia. Il prezzo complessivo stimato per “curare l’influenza” ammonta a circa 10,7 miliardi di euro annui, di cui 8,6 miliardi a carico diretto delle famiglie, vale a dire 250 euro ciascuna. Cioè, anziché spendere quei 2,4 euro di prevenzione, ne spenderemo poi in media cento volte di più. I virus in arrivo sono quattro, sicché la vaccinazione è quadrivalente. Per i soggetti “forti” è un’opzione, per altri, come detto, è un imperativo, a cominciare dalle gestanti: “I virus si possono trasmettere al feto o al bambino e i piccoli hanno difese molto ridotte perché non si sono ancora sviluppati; si possono avere problemi a ridosso del parto e durante l’allattamento”, ricorda Vito Trojano, vicepresidente della Società Italiana di Ginecologia.
Ė uno dei tumori più diffusi, tanto da colpire, si stima, un uomo su otto nell’arco della vita in Italia, che ha registrato l’anno scorso quasi 35mila nuove diagnosi. Al contempo il cancro alla prostata è tra i più curabili, con una sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi del 91%. Proporzione che potrebbe elevarsi ulteriormente in presenza di una diagnosi tempestiva. Qualche passo è stato compiuto in proposito negli ultimi anni, grazie in particolare alla maggior diffusione del testo Psa (Prostate Specific Antigene), ma permane un grande nemico, l’ignoranza.
Se n’è parlato in questi giorni a Riccione al 91esimo Congresso della Società Italiana di Urologia, che ha tra l’altro discusso l’esito di un’indagine condotta dall’Associazione Europea di Urologia su 2.500 uomini di 5 Paesi, inclusa l’Italia. Con esiti quasi comici, non fossero drammatici: il 54% degli uomini non sa neppure di avere la prostata, ritenendola un organo femminile, altri non sanno neanche “localizzarla” (di fronte al retto).
Altri numeri preoccupanti: il 43% ammette che non si recherebbe dal medico nemmeno in caso di sangue nelle urine, il 28% ci andrebbe solo dopo oltre una settimana dalla comparsa di bruciori alla minzione, il 23% aspetterebbe più di un mese prima di chiedere una consulenza per l’accelerazione del bisogno di urinare. E solo il 27% dei maschi è consapevole dell’esistenza stessa del tumore alla prostata. Curiosità ulteriore, emerge che le donne sono più consapevoli degli uomini su tutti questi aspetti.
Insomma, l’ignoranza in materia costituisce un vero e proprio allarme sociale, per fronteggiare il quale è stata avviata, per il terzo anno consecutivo, un’apposita campagna di sensibilizzazione. Si chiama #Controllati, consiste nella distribuzione di informazioni in materia fino al 30 novembre per il tramite di tremila farmacie italiane.
La scarsa conoscenza del problema è ovviamente correlata alla tempestività della diagnosi, e quindi all’efficacia delle cure, che tra l’altro segnano rapidi progressi. Sempre a Riccione, è stata tra l’altro presentata una “terapia fotodinamica”, in arrivo in Italia, tramite un laser capace di “bruciare” le cellule tumorali e al contempo preservare il tessuto sano circostante. Un trattamento ambulatoriale, poco invasivo, che si protrae per poco più di un’ora e limita i rischi collaterali e il dolore. Anche in questo caso, però, la tempestività è decisiva, in quanto può essere risolutiva solo verso piccoli tumori entro un diametro di 5 millimetri, quindi allo stadio iniziale.
La parola chiave è “treatment gap”, ossia la distanza tra le possibilità crescenti di curarsi efficacemente e l’effettiva messa in atto di una terapia adeguata. Se ne è discusso nei giorni scorsi al Congresso della Società Italiana di Psichiatria (Sip) a Torino, che ha analizzato tra l’altro una recente indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, con dati assai poco incoraggianti, specie per il nostro Paese, nonostante le sue ottime tradizioni in materia di trattamento dei disturbi mentali.
Lo studio, condotto in 21 Stati, ha evidenziato che in quelli a basso reddito solo il 2% delle persone che soffre di depressione riceva un trattamento minimamente adeguato agli standard internazionali. La proporzione sale tra i Paesi ad alto reddito, ma comunque a una proporzione modesta, il 23%. L’Italia va peggio, fermandosi al 17%. “Questo dato fa rabbia, perché oggi la depressione maggiore può essere guarita nel 70 per cento dei casi – spiega il presidente Sip Bernardo Carpiniello - guarigione è un termine che non si usa mai con leggerezza, ma in questo caso possiamo farlo senza timore”
La ragione non è tanto nella mancanza di una risposta sufficiente da parte delle strutture sanitarie (stimata al 43% dei casi, ove sollecitata, in linea con gli altri Paesi), quanto in difetti nella “domanda”. Si stima che a soffrire clinicamente di depressione sia almeno il 3% degli italiani adulti, ma che metà di essi non la percepisca come una vera “patologia” da curare, proporzione che sale a due terzi negli altri Paesi avanzati. A mancare è insomma anzitutto un’adeguata coscienza collettiva sulla natura del disturbo, così come sulle possibilità di uscirne, tanto che la stessa Sip sollecita da tempo l’attivazione di una vera e propria “campagna nazionale” di sensibilizzazione contro la depressione.
In essa si profila anche una questione di genere, data la prevalenza femminile, e anche rischi di “comorbidità” con altre patologie. In particolare, ricorda Claudio Mencacci, past president della stessa Sip, “la comorbidità tra depressione e malattie cardiovascolari sarà la prima causa di disabilità al mondo già nel 2020, e le donne avranno un rischio doppio”.
A prendere atto dell’ampiezza problema è anche il dicastero della Salute. “La salute mentale rappresenterà il principale problema sanitario del prossimo futuro e non può essere lasciata solo alla responsabilità dei servizi sanitari psichiatrici ed ai loro operatori”, ha detto la ministra Grillo in un messaggio al Congresso, auspicando una strategia che integri l’ambito farmacologico con un’attenzione complessiva alla persona. A proposito di messaggi “istituzionali”, da notare che il presidente Mattarella ha usato parole analoghe commentando l’ultimo rapporto, preoccupante, della Caritas sulla povertà. Sottolineando come essa non vada combattuta solo sul piano “materiale”, ma soprattutto tramite uno sforzo integrato di promozione umana. Le persone, cioè, anzitutto non vanno lasciate sole.
A differenza degli animali l’impulso della “fame” va per noi ben al di là dello stimolo puramente biologico. Vi sono diverse variabili di altra natura, inclusa quella psicologica, del resto alimentate da fattori culturali, come la “gola” per una riconosciuta prelibatezza, su cui fa chiaramente leva l’industria alimentare. Nello spazio di tali variabili si determina il fenomeno, spesso lamentato, del fallimento di una dieta, o anche della tendenza a ingrassare nonostante si tenda a seguire un regime alimentare apparentemente contenuto.
Quello spazio è oggetto di studio da un po’, ed è stata tra l’altro elaborata una “teoria ormonale”, detta “lipostatica”, che definirebbe la correlazione inversa tra un ormone, la “leptina”, detta proprio il “gene dell’obesità” e il sovrappeso, spiegata dal fatto che l’aumento di tale gene determinerebbe un senso di sazietà, oltre a “bruciare grassi”. All’evidenza di sperimentazioni animali, il roditore, privo dell’ormone, ingrassa a vista d’occhio.
Ora, dall’Università Aldo Moro di Bari sembra arrivare una specifica importante, con una ricerca presentata nei giorni scorsi al congresso dell’Associazione europea per lo studio del diabete a Berlino. Il focus era sull’irisina, e cioè un mediatore (“citochina”), prodotto dai muscoli in seguito all’attività fisica, che funge da segnale di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e fra diversi organi e tessuti. E avrebbe un ruolo nella produzione di ormoni come la stessa leptina, coinvolti appunto nell’insieme dei nostri comportamenti alimentari.
Nelle parole dello studioso Nicola Marrano, lo studio ha dimostrato che “la somministrazione di irisina per 14 giorni per via intraperitoneale migliora la tolleranza al glucosio, stimola la produzione di insulina glucosio-indotta e aumenta il contenuto della stessa all'interno delle cellule che la producono, così come il numero di queste ultime”.
Si tratta dunque di dinamiche che agiscono sul sistema ormonale, la cui funzionalità è oramai ritenuta essenziale per il controllo del peso. All’evidenza, coinvolgendo glucosio e insulina, è un ambito che riguarda da vicino anche la ricerca di nuove terapie contro il diabete.
La chiamano “quarta rivoluzione industriale”. Dopo la macchina a vapore, l’energia elettrica e le telecomunicazioni, siamo piombati nel pieno della “connettività digitale pervasiva”, che ci rende il mondo assiduamente rintracciabile, e ciascuno di noi rintracciabile a esso, e lo fa con strumenti che vanno dal portatile al tablet fino al piccolo smartphone, che portiamo in tasca con un senso di urgenza che forse supera perfino quella del portafoglio. E come ogni “rivoluzione”, ha i suoi contraccolpi e rischi, sociali, psicologici e sanitari, che richiedono attenzione e possibilmente antidoti.
In questo caso il rischio è anzitutto nella natura fisica dei nuovi strumenti. Si tratta di schermi, e come tali inducono gli occhi degli esseri umani a stress senza precedenti nella storia. Lo si è ricordato lo scorso 11 ottobre nella Giornata Mondiale della Vista, su iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità.
L’allarme arriva soprattutto per i giovanissimi, per giunta esposti ai sempre più sofisticati videogiochi. Tra uno schermo e l’altro “la prevalenza della miopia all’età di 9 anni è già del 12%”, avverte l’Oms, sale al 18% a 15 anni e raggiunge il 24% in età adulta, con una prevalenza femminile. La conseguenza complessiva è che entro il 2050 metà della popolazione mondiale potrebbe essere miope. Seguono le raccomandazioni, sui limiti quotidiani da porre all’uso dei dispositivi, sulla distanza minima dagli stessi (almeno 30 centimetri) e sull’esigenza di spingere i bambini a trascorrere più tempo all’aria aperta, ritenuto in sé un fattore di prevenzione e salute visiva.
A questo si aggiunge un fattore collaterale di rischio, tutt’altro che esiguo. L’uso diffuso dei dispositivi amplifica di fatto l’esposizione a incidenti. Solo i “selfie”, secondo una recente indagine indiana, sarebbero causa di almeno 259 morti nel mondo negli ultimi anni. E si tratta palesemente di una sottostima, che non tiene conto, oltre che delle più recenti cronache, anche dei tantissimi incidenti su cui la responsabilità dell’autoscatto non è semplicemente accertata.
Un'attenzione “preventiva” può essere dunque vitale in tempi di rischi così aumentati. Sulla vista peraltro non mancano i progressi scientifici. Nei giorni scorsi sono stati presentati a Roma i buoni esiti di nuove “retine artificiali”, che potrebbero aiutare anche i pazienti affetti da malattie assai diffuse, come la Degenerazione Maculare Senile, che colpisce oltre un milione di italiani. Si tratta di un microchip di terza generazione, che “funziona senza necessità di un cavo che lo colleghi a una fonte di energia esterna all’occhio – spiega l'oftamologo Andrea Cusumano, presidente dell'Onlus Macula & Genoma Foundation - e può essere impiantata sotto la retina con una procedura chirurgica minimamente invasiva di circa 90 minuti”.
“Il tumore della cervice è una delle forme più prevenibili e trattabili del cancro”, ricordava lo scorso maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità, lanciando un appello globale all’azione, data l’ampiezza del problema (una donna muore di tale malattia ogni due minuti) e al contempo la disponibilità appunto degli strumenti per combatterlo. La dimostrazione concreta arriva ora dall’Australia che, come riferisce la rivista Lancet, si avvia a diventare il primo Paese pressoché “libero” da questo tumore.
Il traguardo sarà tecnicamente raggiunto, si stima, nel 2028. Nel dettaglio, entro il 2022 ci saranno meno di 6 casi ogni 100mila abitanti (riducendosi al novero dei “tumori rari”), 6 anni più tardi si scenderà a 4, e le morti saranno ridotte a meno di una su 100mila entro il 2035 a condizione che – e qui sta la spiegazione del successo – “saranno mantenute l’alta copertura vaccinale e l’adesione agli screening”. Nel Paese oceanico, un programma di screening su questi tumori è infatti attivo dal 1991, e la vaccinazione da papillomavirus (Hpv) ha raggiunto il 79% tra le ragazze e il 73% tra i ragazzi.
L’Italia purtroppo è ben lontana da tali cifre. Secondo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro si registrano ogni anno circa 2300 casi di tumore della cervice, e a una donna su 10mila viene diagnosticata in forma avanzata. Con l’esito che circa 430 italiane muoiono annualmente per questa patologia, che risulta la seconda forma tumorale tra le donne, dopo il cancro alla mammella.
Come ricorda un documento della Fondazione Gimbe, richiamato anche dalla Fondazione Veronesi, non sono peraltro coinvolte solo le donne. Il virus Hpv causa malattie genitali, anali e orofaringee in ambedue i sessi, e in particolare il 90% dei carcinomi della cervice uterina e dell’ano, oltre a larga parte di patologie minori, come le verruche anogenitali.
E perché l’Italia presenta cifre così lontane dall’Australia? La ragione starebbe proprio nella copertura della vaccinazione anti-Hpv, che invece di aumentare risulta in picchiata. Era a circa il 70% tra i nati tra il 1997 e il 2000, mentre quattro anni più tardi è precipitata al 53%, mentre la speranza governativa era di arrivare al 95% entro il 2019. Il vaccino non rientra tra quelli obbligatori ma è comunque offerto gratuitamente a maschi e femmine di 11-12 anni. Un evidente fallimento, dunque. Che rappresenta, nelle parole del presidente del Gimbe Nino Cartabellotta, “un emblematico esempio dei gap tra ricerca scientifica e sanità pubblica, nonostante il consolidamento progressivo delle prove di efficacia e del profilo di sicurezza dei vaccini anti-Hpv”.
Dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia. Sono tanti e variegati i cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento”, su cui permane un velo di omertà e di ignoranza, come se definissero un qualche “handicap di intelligenza”, che non è affatto. Al contrario, coinvolgono spesso bambini (e non solo) di spiccate capacità intellettive. Si tratta di un’inabilità specifica di rappresentare le parole, i suoni o anche i segni grafici, la cui origine è in parte misteriosa, attribuita comunque, perlopiù, a un’origine genetica complessa (non c’è un “gene della dislessia").
Le capacità intellettive non c’entrano dunque, ma i disturbi possono avere conseguenze psicologiche serie. Vanno dunque trattati per bene, sapendo che i percorsi terapeutici sono solitamente efficaci, mentre gli errori pedagogici risultano deleteri. Il dato di partenza è proprio questo: i ragazzi che ne soffrono lamentano anche bassi livelli di autostima, per la costante paura di essere “etichettati” in modo degradante, il che, in un circolo vizioso, alimenta rischi di depressione e altri disagi psico-fisici.
Il dato di base, spiega il psicologo Andrea Novelli, membro del direttivo dell’Associazione Italiana Dislessia, è che “quando si fallisce in un’attività intrapresa, si sperimenta la sensazione di impotenza che porta alla volontà, limitata nel tempo, di non intraprendere alcuna altra azione”. E il fallimento tipico è quello scolastico, il che chiama alla responsabilità – e alla preparazione – gli insegnanti, oltre che i genitori. “Tendono a concludere che il bambino è svogliato, cioè danno una spiegazione personalizzante, che lede in maniera gravissima l’autostima del bambino, poiché sviluppano la sensazione di impotenza”, spiega Novelli.
Nella tenaglia tra lo “sgridare il ragazzo” e quella di puntare invece sul “rafforzamento dell’autostima” non c’è quindi alcun dubbio. La persona va aiutata a potenziare le proprie potenzialità “tecniche” e allo stesso tempo sostenuta con forza per limitare le sensazioni di “fallimento” legate al proprio disturbo. A questi concetti è stata dedicata anche la recente “Settimana Nazionale della Dislessia”, con l’obiettivo di sensibilizzare e informare, anzitutto il mondo degli adulti, sulla natura e la gestione di un problema che coinvolge almeno il 3% della popolazione.
Ricordando loro anche qualche nome tra i “deficitari” che soffrono di tale problema: il celebre cantautore libanese-britannico Mika, che fatica a leggere uno spartito ma sa cantare e suonare tutto; l’amata attrice Jennifer Aniston; il leggendario Steven Spielberg. Anche loro hanno sofferto in passato di autostima, mentre in realtà sviluppavano talenti straordinari.
C’è un colesterolo “cattivo”, responsabile di alti rischi cardiovascolari e metabolici, ma anche uno “buono”, l’Hdl (High-Density Lipoprotein”), che avrebbe viceversa effetti protettivi soprattutto verso le malattie aterosclerotiche, prevenendo la formazione di grassi ostruttivi. Una ricerca italiana, presentata nei giorni scorsi al Congresso a Berlino dell’European Association for the Study of Diabetes (Easd) ora allarga e consolida lo spettro dei suoi benefici, documentando qualità di contrasto al diabete.
La ricerca è stata condotta dall’Università Magna Grecia di Catanzaro su un campione di 130 persone non diabetiche, rilevando una chiara correlazione inversa tra i livelli di Hdl (in particolare grazie alla sua porzione proteica “ApoA1”) e di glucagone, un ormone peptidico secreto dal pancreas. Si tratta di uno sviluppo di studi precedenti, in vitro e su roditori, che già avevano suggerito un’influenza sulla funzione della cellula pancreatica.
“Altri studi avevano dimostrato che l'Hdl svolge un ruolo positivo nel controllo metabolico stimolando la secrezione insulinica e la funzione delle cellule beta pancreatiche”, spiega il coordinatore dello studio Giorgio Sesti, presidente della Fondazione Diabete Ricerca. In questo caso “per la prima è stato dimostrato un ruolo del colesterolo buono nel ridurre la secrezione di questo ormone che ha effetti opposti all'insulina in quanto induce iperglicemia”.
Non è una scoperta da poco, perché può spalancare la strada a nuove possibilità di cura. “Questo studio apre nuove prospettive terapeutiche sia nel diabete tipo 1 sia di tipo 2, in quanto un aumento dei livelli di glucagone è riscontrabile in entrambe le forme della malattia e contribuisce all'innalzamento della glicemia”, spiega Sesti.
La novità ha anche un risvolto in sede di prevenzione, anzitutto alimentare. I cibi “amici” dell’Hdl includono il pesce, l’olio d’oliva, il kiwi, frutta e verdura. I “nemici” sono soprattutto nel cibo di origine animale, nei formaggi grassi, negli acidi grassi saturi e quelli idrogenati (vegetali modificati industrialmente), nonché nell’insieme del “cibo spazzatura” tipico dei fast food. Una curiosità: le sigarette sembrano avere un effetto negativo sull’Hdl, mentre la cannabis ne sarebbe in questo caso alleata.
A prima vista potrebbe sembrare un “bluesman” più che uno scienziato, e in effetti lo è e lo rivendica, suonando assiduamente, ancora a 70 anni, la sua armonica per diverse band texane. Che la ricerca sia “un’arte” prima che una “scienza esatta” lo pensano del resto in molti, a fianco di James Allison, trionfatore alla 108esima edizione del premio Nobel per la Medicina . In premio che in effetti riconosce, anzitutto, un’intuizione, coltivata da Allison da oltre trent’anni: la ricerca di una cura contro il cancro (che ha tra l’altro stroncato diversi suoi familiari, inclusa la madre) all’interno delle nostre stesse difese immunitarie.
Il suo nome è celebrato e riconosciuto da anni, al pari dell’altro vincitore, il giapponese Tasuku Honjo, anch’egli pioniere della ricerca immunoterapica. Allison ha ricevuto tre anni fa un premio anche in Italia, il Pezcoller, a Trento, dove ora si esulta due volte: “E' un onore e la conferma del prestigio del Premio Pezcoller nella comunità scientifica internazionale”, commenta il presidente dell’omonima Fondazione Enzo Galligioni.
Lo scienziato americano ha studiato la proteina che funziona da freno al sistema immunitario, favorendo la proliferazione della malattia, individuando poi soluzioni terapeutiche per “sbloccare” il freno stesso. Si tratta della CTLA-4, che arresta l’attivazione dei linfociti T. “Si è visto che le cellule T scatenano la loro risposta contro i tumori, contrastandoli ed agendo come 'killer naturali' contro il cancro”, si tratta cioè di “un’arma potente, potenzialmente definitiva”, ha detto in una recente intervista all’Ansa.
Ė la strada del futuro, quindi, ma già con un’entusiasmante storia passata. “Dieci anni fa abbiamo trattato con l'immunoterapia una ragazza affetta da melanoma, con già metastasi a fegato, polmoni e cervello. Oggi sta bene, è guarita e ha due figli”, racconta Allison, aggiungendo “speranze concrete anche per altri tipi di tumore, dal polmone al rene”, nonché di “oltre 80 sperimentazioni cliniche in atto per varie forme cancerogene”.
Lo studioso americano dirige l’area immunoterapica dell’Anderson Cancer Center dell'Università del Texas a Houston, ritenuto il principale punto di riferimento nella ricerca globale e nella cura del cancro, con i suoi oltre 20mila addetti. Rimane per ora il nodo degli alti costi odierni di questa terapia. “A breve è prevedibile un abbattimento sostanzioso dei prezzi dei farmaci, poiché molte nuove molecole sono in arrivo e ciò porterà ad una maggiore concorrenza tra le aziende, con un taglio dei costi”.
I complimenti internazionali a volte suonano come etichette astratte, ma sulla Dieta Mediterranea non si scherza. C’è il riconoscimento ufficiale dell’Unesco come “Patrimonio dell’Umanità” per quel che comporta la sua produzione e il suo consumo, in termini ecologici, culturali e sociali, convivialità inclusa, ma anche per il suo acclarato beneficio sanitario. Quella dieta ha un “simbolo” - l’olio extravergine di oliva - le cui virtù, comparate con gli insalubri grassi saturi, sono unanimemente ammesse dagli studiosi, specie in ambito cardiovascolare.
Dall’ospedale St.Michel’s di Toronto, in Canada, arriva adesso una specifica in più, tramite una pubblicazione sulla rivista Nature. “L’elisir” scovato dagli studiosi si chiama ApoA-IV, una proteina presente nel sangue che avrebbe la capacità di “regolare” le piastrine. Queste hanno la capacità di evitare emorragie ma, se si aggregano impropriamente, possono bloccare la circolazione, elevando i rischi di trombi, infarti o ictus. La molecola, stimolata dall’olio, riuscirebbe a combinare ambedue le funzioni, la formazione delle piastrine e al contempo l’inibizione al loro insidioso accorpamento.
“Ė il primo studio che mette in relazione l’ApoA-IV con le piastrine e la trombosi, e abbiamo dimostrato come gli alti livelli di questa proteina possano ridurre la formazione di placche, quindi l’aterosclerosi”, rivendicano i ricercatori canadesi, rilevando a margine un fattore ulteriore che risulta propizio alla funzionalità della molecola: il riposo. Un buon sonno e una buona alimentazione a base di olio extravergine sarebbero dunque la “medicina” primaria della prevenzione cardiovascolare.
Si tratta dunque dell’ennesimo tassello in favore del nostro beneamato olio. Gli altri sono così riassunti dalla Fondazione Veronesi. “Regola i livelli di colesterolo nel sangue”, e specificamente quello “cattivo”, responsabile dei pericolosi restringimenti di vene e arterie. “Ė una miniera di antiossidanti”, tra vitamine e altre molecole con effetti ossigenanti e anti-invecchiamento cellulare. Ha inoltre benefici effetti digestivi, riducendo le secrezioni di acidi gastrici (quindi il pericolo di ulcere) e le conseguenze intossicanti sul fegato.
L’olio extravergine d’oliva è tra l’altro l’unico che si ottiene da una semplice estrazione meccanica (pressione, centrifugazione o altro), e per giunta secondo alcuni stretti parametri, tutelati in sede europea, che includono la spremitura a freddo e un’acidità entro la quota dello 0,8%. Alle decantate virtù si accompagna una sola cautela, ricordato dalla stessa Fondazione: “L'olio comunque non è un farmaco, un eccessivo consumo non fa abbassare il colesterolo ma, al contrario, lo innalza”.
Tra una fatica e l’altra tendiamo spesso a “tirare la corda” e a perdere di vista che la nostra salute dipende anche dal nostro benessere interiore e da quel che si chiama “qualità della vita”. E poi, nel nostro “individualismo”, tendiamo anche a caricare noi stessi e gli accadimenti che ci coinvolgono di ogni responsabilità, con conseguenze anche depressive. Dimenticando che ci sono forze e contesti più grandi di noi, verso i quali non siamo onnipotenti.
Per questo è importante alzare gli occhi e vedere quel che dicono le indagini collettive in proposito. Uno strumento interessante è il Gallup Global Emotions Report, che indaga annualmente oltre 150mila persone in 145 Paesi intorno alla semplice, fondamentale domanda: “Come stai?”. All’esito dell’ultima indagine, pubblicata nei giorni scorsi, è emerso che il 2017 è stato “l’anno più deprimente da oltre un decennio”.
Conflitti, difficoltà economiche, disgregazioni sociali, crisi di ideali, invecchiamento medio. Le ragioni aggregate possono esser tante, ma la tendenza è accertata quanto preoccupante. L’indagine prende in esame diversi parametri quali i livelli di preoccupazione, stress, tristezza e dolore fisico. Tutti hanno palesato un aumento (arrivando mediamente intorno al 40%), incrementando il cosiddetto “negative emotion index”. Con una sola eccezione: la “rabbia”, accertata nel 20% del campione, ma senza incrementi. Come se il disagio interiore aumentasse, arrivando a fiaccare perfino la forza di reazione allo stesso.
La filosofia, come le neuroscienze, si è interrogata sin dagli albori su qual siano gli “ingredienti della felicità”, arrivando talora perfino (come gli utilitaristi britannici di fine ‘700) a elaborare classifiche con variabili “oggettive” per quantificarla. Le risposte sono naturalmente molto più “plastiche” di qualsiasi sintesi, ma vale qualche criterio di fondo. “La felicità è “un’attitudine personale profonda e autentica, per cui non basta raccontarsi che ‘va tutto bene’”, sintetizza Nicola De Pisapia, neuroscienziato a Trento. “Sviluppare attenzione verso quello che dentro di noi possiamo controllare, in modo da poter gestire meglio quello che fuori di noi non possiamo impedire. E vanno vissute profondamente le nostre relazioni, coltivando la capacità di comprensione degli altri. Occorre aprirsi ai continui cambiamenti delle cose e delle persone intorno a noi, superando i piccoli egoismi individuali”, ricorda lo studioso.
Dobbiamo insomma aver cura di noi stessi e della nostra “qualità di vita”, sapendo che non tutto è in nostro controllo, ma qualche margine c’è. Consapevoli che i rischi depressivi sono alimentati da fattori esterni, che prendono di mira alcune categorie più di altre. E questo riguarda anche il genere. Lo ricorda lo stesso ministero della Salute: “Le donne hanno maggior probabilità di soffrire di disturbi depressivi rispetto agli uomini, una prevalenza lifetime, che inizia a prendere consistenza attorno ai 13-15 anni, con un gap che aumenta gradualmente e, attorno ai 18 anni, si assesta su valori simili a quelli degli adulti e torna gradualmente a ridursi dopo i 55 anni”.
“C’è chi ha troppo e chi troppo poco”, si dice, e vale anche per la salute. Di certo i dati che la coinvolgono, almeno quelli aggregati su larga scala, possono raccontare parecchio su “come stiamo” e dove stiamo andando. E quelli contenuti nell’ultimo European Health Report, discussi a Roma nella recente Sessione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), fotografano un’Italia che sembra “reggere” discretamente su alcune variabili, ma al contempo presenta ombre preoccupanti, e in particolare una: i giovani.
A conferma di quanto gli indicatori sanitari procedano in parallelo con le variabili socio-economiche emerge che, nell’insieme dei 53 Paesi europei, negli ultimi cinque anni di pur faticoso recupero da una recessione gravissima, l’età media si è alzata di un anno, grazie a una riduzione del 2% (superiore agli obiettivi stabiliti in sede continentale) delle morti premature causate da malattie cardiovascolari, cancro, diabete mellito e malattie respiratorie croniche.
Al contempo, sono aumentate le diseguaglianze, anche nell’accesso alla salute. I miglioramenti citati riflettono dati complessivi, ma ve ne sono altri che documentano un peggioramento tra i ceti deboli, in particolare nell’Est Europa e in alcune regioni meridionali. E tra i Paesi che presentano le più gravi discrepanze figura proprio il nostro, che mantiene un’aspettativa di vita ai massimi europei ma al contempo presenta criticità e sperequazioni territoriali e sociali sulla qualità dell’assistenza.
Siamo ad esempio tra i Paesi più colpiti dalle malattie infettive (inclusa la recrudescenza del morbillo) e quelli che sulle coperture vaccinali falliscono l’obiettivo globale del 95% della popolazione. L’annoso problema delle differenze tra Regioni è già stato qui più volte documentato, ma a saltare agli occhi è ora un’“ingiustizia” in più che riguarda appunto delle nuove generazioni.
Lo ha ammesso pubblicamente la stessa Giulia Grillo: “La nostra attenzione deve spostarsi sulle popolazioni più giovani, in cui si registrano segnali d'allarme non più trascurabili”, ha detto la ministra della Salute. I segnali che denotano un’area specifica di disagio e chiamano a un salto netto d’attenzione sono diversi, coinvolgendo anche gli “stili di vita”. Tra i più preoccupanti: gli italiani restano sotto la media europea per l’incidenza dell’obesità e del sovrappeso, ma tra i maschi 15enni la prevalenza sale al 26%. Sulle sigarette, i fumatori adulti sono scesi al di sotto della media europea (anche se emerge un’inversione di tendenza tra le donne), ma tra gli adolescenti siamo saliti ai massimi continentali.
Pochi carboidrati, tante proteine e anche grassi. Sono i capisaldi (detti in estrema sintesi, al netto dei mille testi in materia) della “dieta chetogenica”, una delle alchimie che vanno più di moda negli ultimi anni, a iniziare dagli Stati Uniti, nel duplice obiettivo della perdita di peso e di un recupero energetico. Ma funziona davvero? Soprattutto, fa veramente bene alla salute? L’Università di Harvard, con una pubblicazione in uscita in questi giorni, solleva parecchi dubbi in proposito.
A suscitare allarme tra gli studiosi, e in particolare nella dietologa Kathy McManus, direttrice del Dipartimento di Nutrizione della citata Università, è l’ampia incidenza di grassi (fino al 90% dell’apporto calorico), rispetto anche ad altre diete iperproteiche. Dal punto di vista terapeutico, spiega infatti l’esperta “la dieta chetogenica è utilizzata principalmente per ridurre la frequenza delle crisi epilettiche nei bambini, e anche se è stata provata per la perdita di peso, sono stati studiati solo i risultati a breve termine e in materia c’è ancora molta confusione”.
Questo per quel che riguarda i presunti benefici terapeutici. Sui rischi, invece, ci sono perlopiù certezze. Il fegato, anzitutto, per l’ampia incidenza di lipidi; ma anche i reni, messi sotto pressione metabolica dall’eccesso proteico. Stitichezza, per la relativa carenza di fibre (abbondanti in cereali e legumi). E anche il cervello. “Ha bisogno dello zucchero di sani carboidrati per funzionare, sicché le diete ‘low-carb possono generare confusione e irritabilità”, annota la McManus.
Naturalmente ci sono grassi “buoni” e altri “cattivi”, così come vi sono diverse proteine, alcune ricche dei primi, le altre dei secondi (quali le carni rosse e di maiale). Ma uno dei problemi della dieta chetogenica sta proprio nell’assenza di una “gerarchia” tra gli uni e gli altri, e anzi nell’esplicita ammissione dei grassi insaturi (inclusi olio di parma, burro, lardo), a compensazione di un taglio dei carboidrati che si riduce all’apporto calorico di una banana al giorno e null’altro (pasta, riso, pane e simili).
La riduzione dei carboidrati può avere delle buone motivazioni mediche, entro certi limiti, ma il messaggio lanciato da Harvard è che gli eccessi nell’alimentazione non vanno bene, men che meno nel lungo periodo. Non esiste una “ricetta unica” che funzioni per tutti, né sembrano utili soluzioni drastiche. Una biologa italiana, Tiziana Stallone, ha elaborato in proposito con una pubblicazione la teoria della “dieta-persona”. Serve un equilibrio che tenga conto dei gusti, necessità e anche debolezze di ciascuno. Sapendo che, dopotutto, come riconosciuto dalle massime autorità sanitarie mondiali, la ricetta della salute ce l’abbiamo già e proprio qui. Si chiama Dieta Mediterranea.