Non sono solo nemici della fertilità e della virilità dell’uomo. Ma sono anche pericolosi per la salute riproduttiva della donna. I composti perfluorurati (Pfas), sostanze chimiche di sintesi che vengono utilizzate per rendere resistenti ai grassi e all’acqua tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti, interferiscono con la funzione del progesterone, l’ormone femminile che regola la funzione dell’utero. Di conseguenza potrebbero contribuire allo sviluppo di patologie riproduttive femminili, come alterazioni del ciclo mestruale, endometriosi e aborti, nati pre-termine e sottopeso. A questo risultato allarmante, considerato ad esempio che i Pfas hanno contaminato le falde acquifere di diverse zone del Veneto, è giunto il gruppo di ricerca dell’Università di Padova, coordinato da Carlo Foresta e da Andrea Di Nisio.
Quattro mesi fa era stata diffusa la prima scoperta del gruppo padovano, quella che definiva il meccanismo attraverso il quale i Pfas alterano lo sviluppo del sistema uro-genitale del maschio e la fertilità interferendo con l’attività del testosterone. Sostanzialmente, l’organismo li scambia per ormoni: inevitabilmente mutano l’azione delle ghiandole endocrine, causando una serie di malattie. Dopo quella pubblicazione sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, ora i ricercatori annunciano che neanche le donne sono al sicuro dai Pfas. Ci sono voluti due anni di lavoro per valutare l’effetto di queste sostanze chimiche sul progesterone in cellule endometriali in vitro. Così i ricercatori hanno dimostrato che, su più di 20mila geni analizzati, il progesterone normalmente ne attiva quasi 300, ma in presenza di Pfas 127 vengono alterati e tra questi quelli che preparano l’utero all’attecchimento dell’embrione e quindi alla fertilità.
Sia che la si assuma tramite il fumo delle sigarette tradizionali che attraverso i vapori delle sigarette elettroniche, la nicotina può essere considerata come una sorta di cavallo di Troia della cannabis. Uno studio dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano, in collaborazione il Dipartimento Biometra delle Università degli Studi di Milano e di Modena-Reggio Emilia, a cui hanno preso parte anche ricercatori finanziati dalla Fondazione Zardi-Gori, ha scoperto che il consumo di nicotina è davvero predittivo per il futuro consumo di cannabis perché ne aumenta la gratificazione. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista European Neuropsychopharmacology.
“Tabacco e marijuana sono le sostanze usate più comunemente dagli adolescenti a scopo ricreativo, spesso in associazione tra loro, e la frequenza dell’uso della seconda è associata alla dipendenza da nicotina, la principale sostanza d’abuso presente nel tabacco”, dice Cecilia Gotti dell’Istituto di neuroscienze del Cnr. “Inoltre, il lavorosperimentale dei coniugi Eric (già vincitore del premio Nobel) e Denise Kandel del Department of Neuroscience, della Columbia University NY, ha posto le basi molecolari per capire come la nicotina possa abbassare la soglia per la dipendenza da altre sostanze, come marijuana e cocaina (cosiddetto effetto gateway)”, aggiunge.
Essere mattinieri conviene più che essere “animali notturni”. Le “allodole”, coloro che vanno a letto presto e che si svegliano alle prime luci dell’alba, vantano performance mentali migliori. Rispetto ai “gufi”, quelli che la mattina faticano a svegliarsi e la sera vanno a letto tardi, i mattinieri fanno meglio a scuola e a lavoro. Questo perché il cervello delle “allodole” funziona meglio di quello dei “gufi”. A dimostrarlo, per la prima volta, è stato uno studio della University of Birmingham (Regno Unito) in uno studio pubblicato sulla rivista Sleep.
I risultati mostrano che le persone che amano fare le ore piccole tendono ad avere minori connessioni nervose tra le regioni neurali legate allo stato di coscienza, alla soglia di attenzione, ai tempi di reazione. E tendono ad avvertire maggiore sonnolenza durante il giorno.
Che la memoria e la capacità di ragionamento rallentassero naturalmente con l’avanzare dell’età era noto già da tempo, ma ora gli scienziati hanno scoperto che la depressione può contribuire ad accelerare questo inevitabile processo.
Un gruppo di ricercatori della Yale University ha utilizzato una nuova tecnica di scansione cerebrale per dimostrare che la densità sinaptica, ovvero la quantità di connessioni nel cervello, inizia a diminuire con 10 anni di anticipo nelle persone depresse. In sostanza, se in assenza di depressione il cervello inizia a invecchiare a 50 anni d’età, in presenza della malattia si comincia a 40. Con conseguenze significative sulla qualità della vita.
Janet Osborne, 80 anni, di Oxford, è diventata la prima persona al mondo ad essere sottoposta a una terapia genica con lo scopo di fermare la forma più comune di cecità nel mondo occidentale, la degenerazione maculare senile. Alla donna è stato iniettato un gene sintetico nella parte posteriore dell’occhio per impedire alle cellule di morire. Si tratta del primo trattamento mirato per colpire la causa genetica alla base della degenerazione maculare legata all'età.
Ascoltare la musica in cuffia non è così innocuo come molti possono immaginare. Anzi, potrebbe essere una delle principali cause che sta portando molti giovani e giovanissimi a subire gravi danni all’udito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’International telecommunication union (Uti), circa la metà delle persone di età compresa tra i 12 e i 35 anni d’età rischia l’udito. Sono oltre un miliardo di giovani. Troppi. Talmente tanti che l’Oms e l’Itu hanno emesso un nuovo standard internazionale per la produzione e l’uso di dispositivi come smartphone e lettori audio, in modo da renderli più sicuri per l'ascolto. E lo hanno annunciato in vista della Giornata mondiale dell’udito, che si celebra ogni anno il 3 marzo, con lo scopo di sensibilizzare alla prevenzione della sordità e ai problemi di udito, promuovendo la salute dell’orecchio.
La ricerca di una cura per l’Alzheimer potrebbe passare per strade inaspettate. Come l’intestino di uno squalo, dove si cela una molecola dagli effetti straordinari su una proteina coinvolta nella malattia neurodegenerativa. Si tratta della trodusquemina, chiamata anche MSI-1436, le cui potenzialità per il trattamento dell’Alzheimer sono state scoperte da uno studio del Dipartimento di Chimica dell’Università di Cambridge, a cui hanno partecipato anche ricercatori italiani. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Communications, dimostrano che la trodusquemina blocca l’effetto neurotossico degli aggregati di Beta-amiloide (A Beta-42), coinvolti nella patogenesi dell’Alzheimer.
Ci sono bambini che per predisposizione genetica hanno un metabolismo "risparmiatore", cioè bruciano meno calorie di quante dovrebbero. Sono bambini che quindi hanno più probabilità di diventare obesi e su cui è possibile intervenire con mirate misure di prevenzione. Ad aprire questa nuova strada per contrastare l'epidemia d'obesità globale in atto è stato uno studio condotto dall’Università di Pisa e del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases del Maryland. I risultati, pubblicati sulla rivista Metabolism Clinical and Experimental, indicano che è possibile determinare il rischio obesità di una persona durante l'infanzia, già a dieci anni d'età, correlando la misura del metabolismo basale e l’aumento di peso durante l’adolescenza.
Intestino e cervello sono strettamente collegati: comunicano e si influenzano tramite canali che sono ancora misteriosi. Non sappiamo come, quindi, ma ci sono interessanti evidenze che i batteri che popolano l’intestino sono associati alla salute mentale di una persona. Uno studio dell’Università di Lovanio (Belgio), infatti, ha evidenziato che la carenza di due specifici batteri intestinali - coprococcus e dialister - potrebbe predisporre alcuni individui a soffrire di depressione. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Microbiology, non indicano se la flora intestinale è la causa della depressione o viceversa. Ma hanno dimostrato che la composizione della flora intestinale è collegata ai disturbi depressivi
Lo studio è stato condotto su due campioni indipendenti, ognuno composto da oltre mille persone. Nella prima parte dello studio sono stati coinvolti 1.054 individui, 173 dei quali avevano ricevuto una diagnosi di depressione o avevano ottenuto punteggi bassi in un test che avevano come obiettivo quello di valutare la qualità di vita. Gli scienziati hanno analizzato quindi il microbiota di tutti i partecipanti, scoprendo che le due specie - coproccus e dialister - erano presenti nelle persone soddisfatte della propria vita, mentre erano assenti nelle persone con depressione. Il risultato è stato confermato anche dopo aver preso in considerazione altre variabili che avrebbero potuto influenzare i risultati, come l'età, il sesso o l'uso di antidepressivi.
Cannabis sì o cannabis no? E’ l'annoso dilemma sull’opportunità o meno di utilizzare per scopi medici questa controversa sostanza. Una questione ancora tutta aperta che la scienza non è ancora riuscita a dirimere. Tantissimi gli studi, diverse le conclusioni e poche certezze. I pregiudizi, poi, hanno reso tutto più difficile e complicato. Sappiamo infatti che la cannabis può avere importanti effetti benefici contro alcune condizioni, ma nel nostro paese è poco sfruttata per timore di eventi avversi. Per questo l’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) ha dato vita al primo Gruppo Aperto di Studio sulla Cannabis ad uso medico. L’idea è quella di fare chiarezza sugli effetti clinici, farmacologici, produttivi e normativi dei farmaci a base di cannabis.
Non è sempre facile riuscire a individuare una malattia. Anche quando è talmente grave, come lo sono alcune patologie genetiche e rare, da impedire a un bambino di vivere e crescere normalmente. Non conoscere il nemico significa non sapere cosa fare per sconfiggerlo. In molti casi un’analisi genomica può risolvere il problema. Si tratta di un test molto complesso che solo nel 2000, alla conclusione del Progetto Genoma Umano aveva un costo di circa 100 milioni di dollari e richiedeva lunghi mesi di attesa prima di avere i risultati. Negli ultimi anni le cose sono cambiate: i tempi e i costi si sono ridotti. Oggi ci sono tecnologie avanzate più rapide e a costi competitivi. Come NovaSeq 6000 System, la piattaforma che l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha recentemente presentato. Questa tecnologia è in grado di effettuare in poche ore il sequenziamento contemporaneo di 384 esomi, cioè della parte codificante del genoma nel quale sono localizzati i geni, a costi competitivi rispetto alle tradizionali analisi di singoli geni e famiglie di geni (pannelli).
Nella lunga ricerca a un rimedio contro la demenza sono stati collezionati numerosi fallimenti. Poche le speranze di riuscire a contrastare efficacemente un processo considerato quasi inevitabile e strettamente legato all’avanzare dell’età. Ma un nuovo studio, condotto dalla Wake Forest School of Medicine di Winston-Salem, nella Carolina del Nord (Usa), suggerisce una nuova strada e cioè un trattamento intensivo per ridurre la pressione sanguigna. Sembra, infatti, che le persone affette da ipertensione che riducono la pressione a valori inferiori a 120 mm Hg, anziché a 140 mm Hg come prevedono i trattamenti standard, sviluppano meno problemi cognitivi e di memoria, cioè quel lieve deterioramento cognitivo che può progredire verso la demenza.
Lo studio, pubblicato sulla rivista JAMA, è il primo di grandi dimensioni ad aver individuato una strategia potenzialmente in grado di aiutare moltissime persone anziane a ridurre il rischio di lieve decadimento cognitivo, un noto precursore del morbo d'Alzheimer e di altre forme di demenza. I risultati si applicano solo a coloro che hanno un’età superiore ai 50 anni, che soffrono di ipertensione e che non hanno il diabete o una storia di ictus.
Bisogna farsi più furbi se si vuole battere un killer subdolo e spietato. Lo ha capito bene Alfonso Bellacosa, oggi docente di Epigenetica presso il Fox Chase Cancer Center di Philadelphia (Stati Uniti), che con il suo team di ricercatori ha individuato un nuovissimo approccio contro uno dei tumori più aggressivi e letali, il melanoma. Si tratta di colpire uno specifico bersaglio, ovvero un enzima fondamentale per la riparazione e la proliferazione delle cellule tumorali. E’ una strategia nuova che, stando ai risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Oncogene, potrebbe rivoluzionale il trattamento del melanoma.
“In un precedente studio vavevamo scoperto che l’enzima di riparazione del Dna chiamato TDG ha caratteristiche peculiari perché, oltre a salvaguardare il genoma, regola anche l’‘accensione’ e lo ‘spegnimento’ dei geni, cioè l’epigenoma”, spiega Bellacosa. Sono anni infatti che lo scienziato italiano e il suo team si stanno occupando dello studio di TDG, scoprendo ora che è in pratica un’arma “a doppio taglio”: se da un lato infatti è fondamentale per le cellule sane per «riparare» il Dna danneggiato, dall’altro lato viene sfruttato dalle cellule del melanoma per sopravvivere e proliferare. “Nel nuovo studio abbiamo dimostrato che inibire la produzione di questo enzima provoca la morte delle cellule del melanoma”, dice Bellacosa.
Sono uova davvero speciali quelle prodotte dai polli allevati nei laboratori del Roslin Institute di Edimburgo, l'istituto britannico dove per la prima volta è stato clonato con successo un mammifero, partendo da una sola cellula somatica. Era il 1996 quando è stata annunciata la creazione della famosa pecora Dolly. Ora, a distanza di 23 anni, lo stesso istituto torna a stupire annunciando un risultato quasi altrettanto straordinario: i ricercatori hanno modificato il genoma dei polli affinché producano uova contenenti proteine umane da cui ricavare farmaci salva-vita.
In pratica, i ricercatori hanno dimostrato che è possibile trasformare i polli in “fabbriche di farmaci” viventi. I risultati, pubblicati sulla rivista BMC Biotechnology, aprono la strada a un nuovo metodo di produzione di farmaci molto più economico dell’attuale. Oggi infatti le terapie a base di proteine, come i trattamenti antitumorali Herceptin e Avastin, sono tanto efficaci quanto costose. Ma la possibilità di ottenere gli stessi farmaci da uova di polli geneticamente modificati potrebbe contribuire a rendere più economici, e di conseguenza più disponibili, questi trattamenti.
La tecnica utilizzata dai ricercatori per modificare il DNA del polli, introducendo nuovi geni, ha richiesto l'impiego di un lentivirus. Si tratta di una tecnica ormai consolidata, ma che richiede più tentativi prima che di riuscire a raggiungere l'obiettivo desiderato. Ma i ricercatori stanno ora pensando a un nuovo sistema. Gli studiosi si aspettano una maggiore efficienza dall'uso della tecnica CRISPR-Cas9, il cosiddetto “editing genetico”, che consenta di “tagliare” e “incollare” i geni in modo molto più preciso.
C’è un metodo del tutto naturale in grado di ridurre e prevenire la cronicizzazione del dolore neuropatico, una condizione che origina da un danno o alterazione del tessuto nervoso sia periferico sia centrale. Si tratta semplicemente di mangiare di meno. Proprio così: un periodo limitato di dieta a ridotto apporto calorico è in grado di attivare meccanismi anti-infiammatori legati al dolore neuropatico. A dimostrarlo è stato uno studio condotto da un team di ricerca dell’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) e della Fondazione Santa Lucia Irccs, in collaborazione con le Università di Chieti e Milano. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Plos One. Lo studio, finanziato dal Ministero della Salute nell’ambito dei progetti “Giovani Ricercatori” presso la Fondazione Santa Lucia, apre la strada a nuove strategie terapeutiche non farmacologiche, in alternativa o in supporto alle cure convenzionali.
Secondo le stime attualmente disponibili il dolore neuropatico affligge il 7-8% degli adulti nel mondo: la condizione tende a essere più probabile negli anziani e nel sesso femminile. La problematica è molto sentita fra i diabetici e purtroppo, visto che la diffusione di questa condizione è sempre maggiore, si prevede un aumento dei casi associati allo sviluppo di neuropatia diabetica. Il nuovo studio italiano offre quella che potrebbe essere una risposta semplice al problema. “Nei nostri esperimenti abbiamo constatato che dopo un danno nervoso periferico al nervo sciatico, un regime dietetico con un ridotto apporto calorico giornaliero agisce come potente stimolo metabolico ed attivatore di un fondamentale meccanismo di sopravvivenza e ricambio cellulare, noto come autofagia (la cellula ingloba parti di sé danneggiate)”, spiega Sara Marinelli del Cnr-Ibcn, coordinatrice del progetto.
Li chiamano super-farmaci perché prima del loro sviluppo per alcune persone era difficile tenere a bada i livelli di colesterolo. Con tutti i rischi che ne conseguono, come un aumento del rischio di subire eventi cardiovascolari. Ma gli anticorpi monoclonali mirati contro la proteina Pcsk9 potrebbero fare molto di più. Due studi del Centro cardiologico Monzino di Milano, pubblicati sul Journal of the American College of Cardiology, hanno scoperto che gli inibitori di Pcsk9 potrebbero aiutare a prevenire l’infarto, l’ictus e la stenosi calcifica della valvola aortica.
Infatti, oltre a ridurre del 60-70% i livelli di colesterolo nei pazienti “difficili”, questi “super-farmaci” riducono il rischio del 15% di eventi come infarto e ictus. D’altra parte, nelle persone che geneticamente hanno livelli ridotti di Pcsk9, si è riscontrata una protezione dall’incidenza di eventi cardiovascolari. “Questi dati – riferisce Marina Camera, responsabile dell’Unità di ricerca di Biologia cellulare e molecolare cardiovascolare presso il Cardiologico Monzino – ci hanno spinto a ipotizzare che i benefici in termini di eventi cardiovascolari prevenuti bloccando Pcsk9 potessero dipendere non soltanto dalla riduzione di colesterolo ottenuta”.Così i ricercatori hanno iniziato a cercare.
E' sicura ed efficace, specialmente se somministrata ai pazienti più piccoli. La terapia genica rappresenterebbe una valida opzione contro la beta talassemia, una malattia genetica molto diffusa nell’area mediterranea e che conta oltre 7000 pazienti solo in Italia. Lo dimostrano i risultati del primo trial clinico di terapia genica condotto sia su pazienti adulti che pediatrici, e pubblicato sulla rivista Nature Medicine. La svolta contro questa grave malattia si deve agli oltre dieci anni di lavoro del gruppo di ricerca di Giuliana Ferrari, docente dell’Università Vita-Salute San Raffaele, all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano e all’alleanza strategica tra IRCCS Ospedale San Raffaele, Fondazione Telethon e Orchard Therapeutics.
La beta talassemia è una malattia genetica del sangue causata da una mutazione del gene che codifica per la beta-globina, componente della emoglobina che è una proteina fondamentale per il funzionamento dei globuli rossi e in particolare per il trasporto dell’ossigeno. Esistono oltre 300 mutazioni note di questo gene, che possono dare origine a forme di beta talassemia di diversa gravità. Le mutazioni più gravi causano una quasi totale assenza della proteina nel sangue dei pazienti, che per sopravvivere devono ricorrere a frequenti trasfusioni, con una riduzione drammatica della qualità della vita, o al trapianto di midollo osseo da donatore.
L’umanità è in pericolo. Le minacce sono tante, ma 10 sono quelle che più di altre mettono a rischio la salute pubblica mondiale. Alcune possono essere considerate “vecchie conoscenze”, come le malattie non trasmissibili, le guerre o le catastrofi naturali. Altre invece sono vere e proprie “new entry” nella tradizionale top ten stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Come il rifiuto dei vaccini, i cambiamenti climatici e l’antibiotico-resistenza. Per l’Oms sono tutte sfide che dovrebbero essere affrontate nel 2019, inserite in un nuovo programma di durata quinquennale, il Tredicesimo Programma Generale di Lavoro, con il quale promuovere la salute e aumentare i livelli di sicurezza dei cittadini dei paesi membri.
Tra i nuovi timori dell’Oms c’è la sempre più diffusa tendenza a rifiutare i vaccini. “La vaccine hesitancy – cioè la riluttanza o il rifiuto a vaccinare nonostante la disponibilità di vaccini– rischia di invertire i progressi compiuti nella lotta contro le malattie prevenibili con il vaccino”, scrive l’Oms. “La vaccinazione - continua - è uno dei modi più economici per evitare certe malattie: attualmente impedisce 2-3 milioni di morti all’anno e 1,5 milioni potrebbero essere evitati se la copertura vaccinale globale migliorasse”. I rischi per gli esperti dell’Oms sono molto seri. Basta guardare alle infezioni di morbillo, che nel mondo sono aumentate del 30%.
Giocare è una cosa seria. Non è infatti solo svago e divertimento. Per i bambini è un modo di conoscere il mondo attraverso il corpo, i sensi, l’intelletto. Lo sanno bene i pediatri dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma che proprio a questo argomento hanno dedicato il nuovo numero di “A scuola di salute”, il magazine digitale a cura dell’Istituto Bambino Gesù per la Salute del Bambino e dell’Adolescente diretto da Alberto G. Ugazi. “Con l’attività ludica il cervello del bambino si evolve e accresce la propria complessità”, spiegano i pediatri dell’ospedale romano. “Per questo è necessario proporre il gioco giusto all’età giusta. A cominciare - continuano - dalla vicinanza con il corpo di mamma e papà, prima palestra per l’allenamento dei sensi del piccolo; puntando molto sulla lettura, fondamentale per il processo di crescita e con un dosaggio oculato di tablet e videogiochi”.
E’ possibile sapere in anticipo quali tumori al seno, dopo esser stati rimossi chirurgicamente, hanno maggiori probabilità di ritornare all’attacco. E sapere, in questo modo, quali pazienti hanno bisogno della chemioterapia e quali invece ne possono fare a meno. Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia ha scoperto infatti una “firma molecolare”, in grado di predire l’evoluzione di un tipo di tumore al seno molto diffuso, il Luminal B. Si tratta di un set di geni che possono suggerire quali tumori sono a rischio o meno di recidiva e quali richiedono trattamenti adiuvanti dopo l’intervento chirurgico.