Ė una piaga diffusa e crescente, complice l’invecchiamento della popolazione, che presenta per giunta costi elevatissimi, per le tasche private e pubbliche. E si può fare molto di più, con il contributo di tutti gli attori coinvolti, sul profilo della prevenzione quanto dell’“agilità” dell’assistenza professionale. Sono i concetti fondamentali emersi al 103esimo Congresso della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (Siot http://www.congressosiot.it/), tenutosi nei giorni scorsi a Bari, che ha tra l’altro eletto il suo nuovo presidente, Francesco Falez, Direttore di Unità operativa complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Santo Spirito di Roma.
Alcune cifre: ogni anno in Italia si conteggiano oltre 180mila ricoveri per lesioni al legamento crociato del ginocchio, altri 65mila per lussazioni e instabilità alla spalla, 35mila per distorsioni alla caviglia. Dati impressionanti, che coinvolgono in oltre quattro casi su cinque gli uomini, e prevalentemente nell’ambito di attività ludico-sportive. Il che rappresenta di per sé un eloquente campanello d’allarme: l’esercizio fisico è fondamentale (la sedentarietà, come abbiamo documentato di recente, è il più nocivo “fattore di rischio” tra i comportamenti personali), ma serve molta cautela, coscienza dei limiti e rischi, possibilmente la consulenza di uno specialista sull’entità e il tipo di attività da svolgere in sicurezza.
Sul fronte degli interventi, “per restituire stabilità a un ginocchio infortunato o deteriorato vengono eseguiti ogni anno nel nostro Paese più di 36mila operazioni per asportazione di cartilagine semilunare del ginocchio e oltre 21 mila per riparazione legamentosa”, riferisce la Siot. Guai che del resto non riguardano solo l’attività avanzata. Per la spalla, ad esempio, le problematiche coinvolgono 1 giovane su 1000, e le lussazioni colpiscono per il 90% tra i 20 e i 29 anni.
L’esito degli interventi è in via di miglioramento, grazie a tecniche artroscopiche mini-invasive che limitano il dolore e facilitano la successiva riabilitazione. E tuttavia la Siot ammette che “il grado di insuccessi e di recidive rimane ancora elevato, in particolare nella popolazione giovanile”, e invoca l’introduzione di più aggiornate metodiche chirurgiche e protocolli riabilitativi. Inoltre, lamenta Falez, “molto spesso gli ortopedici sono vittime di un sistema troppo burocratizzato”.
Poi c’è il capitolo dell'osteoporosi, definita una vera e propria “epidemia silenziosa”, che colpisce soprattutto (ma non esclusivamente) le donne a partire dalla mezza età, alimentando il rischio fratture (ce n’è una ogni tre secondi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e provocando tra l’altro un numero di giornate di degenza ospedaliera superiore a quello di altri eventi diffusi e gravi, quali l’infarto del miocardio, il diabete o il tumore della mammella. Più che mai essenziale è qui potenziare la prevenzione, sottoporsi a controlli periodici sulla mineralizzazione ossea, seguire un’alimentazione “nemica” dell’osteoporosi (quindi ricca di calcio e vitamina D). Tra le misure preventive, la Siot ricorda anche qualche accorgimento “domestico” che può fare la differenza, quali gli “antiscivolo nelle docce e la riduzione del numero di tappeti”.
La notizia era nell’aria da un po’, la curva virtuosa dei progressi sulla salute mondiale ha smesso di crescere. Non è più vero che “si sta sempre meglio”, anzi in alcuni contesti i tassi di mortalità sembrano scendere di nuovo. Lo documenta un esteso rapporto del Global Burden of Disease (GBD), pubblicato sulla rivista Lancet. Le ragioni sono molteplici, e non tutte riconducibili al fisiologico invecchiamento della popolazione. Ci sono più aspetti che sembrano “andati in tilt”, tra restrizioni di bilanci sanitari, peggioramento degli stili di vita e una certa perdita di coscienza sui capisaldi della cura e della prevenzione.
In particolare, a far discutere in questi giorni in Italia è ancora il nodo delle coperture vaccinali insufficienti, nodo rilanciato da un focolaio di morbillo diffusosi a Bari a partire da tre famiglie no-vax, patologia tra l’altro erroneamente scambiata all’inizio per mononucleosi. “La situazione non è assolutamente sotto controllo, è anzi allarmante”, sentenzia il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, intorno a un virus “molto contagioso” e altrove scomparso, come nell’intero continente americano.
“Situazione creatasi in Italia dal 1999 da quando il Parlamento ha abrogato l'obbligo di iscrizione a scuola con il certificato di vaccinazione, una vera e propria bomba microbiologica”, argomenta Ricciardi, nel perorare un'azione energica anche verso gli operatori della Sanità e della scuola. “Non abbiamo più del 10-15% di persone che in questi mondi si vaccinano” - nota, ricordando in proposito l'esistenza di una “legge sulla sicurezza sui luoghi di lavoro che obbliga il datore di lavoro e il lavoratore ad attuare le misure per la prevenzione dei rischi”. Che in questo caso risultano conclamati.
Tornando agli scenari globali, il rapporto GBD conferma in realtà la tendenza al miglioramento di alcuni indicatori, inclusi i tassi complessivi di mortalità infantile, notando però il perdurare del dato inaccettabile di oltre cinque milioni di morti tra i bimbi sotto i 5 anni, e segnalando il rallentamento - e talora l'inversione di tendenza - per quel che riguarda l'età adulta.
Tra le spiegazioni, il perdurare e l'emergere di nuovi conflitti, il dilagare di problemi quali lombalgia, emicrania e depressione (prime tre cause di disabilità nel 2017), nonché delle patologie croniche legate all'obesità e alla sedentarietà. E poi c’è l’insidiosa tendenza a “risparmiare sulla salute” a livello di bilanci pubblici. Tendenza purtroppo globale, che coinvolge anche l’Italia e che nelle aree deboli presenta risvolti drammatici. Quasi la metà dei Paesi denota carenze rilevanti di forza lavoro sanitaria: nel 47% ci sono meno di 10 medici per 10mila abitanti, e nel 46% ci sono meno di 30 infermieri e ostetriche ogni 10mila persone.
“L’uso di smartphone e internet tra i bambini non va demonizzato, ma porre limiti all’utilizzo è fondamentale”, ricorda il presidente della Società Italiana di Pediatria (Sip) Alberto Villani, presentando dati sempre più allarmanti in proposito. Quei limiti non vengono posti affatto, o sono troppo blandi: 8 bimbi italiani su 10 tra i 3 e i 5 anni sanno usare lo smartphone dei genitori, il 30% dei quali lo utilizza per distrarli già nel primo anno di vita (negli Stati Uniti si arriva al 92%), addirittura il 70% nel secondo. E quando il piccolo lo maneggia autonomamente, si rilevano picchi di 8-10 ore di impiego quotidiano.
Sono proporzioni che denotano parecchia ignoranza sui rischi da abuso dei dispositivi, non solo per lo sviluppo cerebrale e socio-psicologico del bambino e l’insidiosa tendenza alla sedentarietà, ma anche di natura fisio-patologica. La conferma arriva da un dato ulteriore: solo il 29% dei genitori chiede consiglio al pediatra sul problema, nonostante la sua enorme ampiezza, che ha rivoluzionato anche l’esistenza degli adulti, consegnando “il mondo” in un oggetto di pochi centimetri, con tutte le potenzialità e rischi del caso.
La Sip ha perciò divulgato delle linee guida in proposito. Tra le principali, ricordate da Villani, “no a smartphone e tablet prima dei due anni, durante i pasti e prima di andare a dormire; limitare l'uso a massimo 1 ora al giorno nei bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni e al massimo 2 ore al giorno per quelli di età compresa tra i 5 e gli 8 anni; si sconsigliano inoltre programmi con contenuti violenti e soprattutto l'uso di telefonini e tablet per calmare o distrarre i bambini”.
“No al cellulare pacificatore”, avverte inoltre l’esperto. Anche perché se talora consegnare un dispositivo al bimbo può dare un po’ di oggettivo sollievo ai genitori, nel lungo periodo li aggraverà, per gli “effetti collaterali” dell’oggetto, inclusa la perdita di dimestichezza del piccolo col gioco “fisico”, la sua capacità di gestire la noia, l’immaginazione. Tra questi ultimi figura perfino la “manipolazione”, visto che uno studio americano ha accertato che ben il 95% delle app scaricate per i bambini sotto i cinque anni contiene qualche pubblicità.
Viviamo in un mondo con quasi due miliardi di corpi in sovrappeso e almeno 650 milioni di obesi, con un’incidenza addirittura triplicata negli ultimi trent’anni. I dati sono quelli ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), e questo ci dovrebbe già distogliere dall’errore più comune: quando guardiamo il nostro girovita, la nostra preoccupazione è perlopiù “estetica”. Errore grave, perché è in ballo ben altro: la nostra stessa salute.
Il sovrappeso ci espone a una pluralità di problematiche metaboliche, cardiovascolari, articolari, perfino tumorali. Insomma, come già ricordato su questo portale, “di sovrappeso si muore”. La stessa Oms stima addirittura 2,8 milioni di decessi l’anno specificamente attribuiti ai chili di troppo e gli eccessi alimentari hanno anche un rilevante costo economico, tant’è che si calcola che circa il 7% dell’intera spesa sanitaria europea sia impiegata nella cura di patologie connesse all’obesità come diabete, ipertensione arteriosa, patologie cardiache.
La London School of Hygiene, con uno studio pubblicato su Lancet, ha ora provato a determinare “quanto” l’obesità accorci la vita. Sono state quindi consultate le cartelle cliniche compilate dai medici di base, “neutralizzando” la compresenza di altri fattori di rischio (dal fumo ai pregressi patologici). Ebbene, tra gli “obesi” (con un indice di massa corporea – Bmi - superiore a 30) l’aspettativa di vita è risultata di 4,2 anni in meno tra gli uomini e di 3,5 tra le donne. Cifre impressionanti, anche perché si tratta di medie.
La stessa ricerca ha evidenziato un effetto analogo anche del “sottopeso” ma, a detta degli stessi ricercatori, il dato non è così rilevante perché può scontare anche la presenza di qualche malattia. A uscire comunque rafforzato è il concetto che “Il Bmi è uno degli indicatori principali di salute”. Per accertare il proprio, e verificare la propria posizione, dal “sottopeso” all’“obesità”, è attivo tra l’altro un apposito calcolatore sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, anche se si tratta solo di una approssimazione - come specifica lo stesso portale - in quanto tiene conto solo dell’altezza e del peso, mentre in realtà incidono, per una corretta valutazione personalizzata, anche variabili quali la massa muscolare, l’età, il sesso.
L’amara realtà d’insieme è che siamo ancora lontani da invertire la rotta sul problema e sulla consapevolezza dello stesso. In sede europea è stato lanciato da anni un apposito “Piano d’azione”, che ha definito otto aree di intervento: “sostenere un sano inizio della vita, promuovere ambienti sani (in particolare nelle scuole e gli asili), rendere l’opzione sana la scelta più semplice, limitare la commercializzazione e la pubblicità rivolta ai bambini, informare e responsabilizzare le famiglie, incoraggiare l’attività fisica, monitorare e valutare il fenomeno, potenziare la ricerca”. Ma nei fatti quel Piano finora è largamente rimasto sulla carta.
Ci siamo, è iniziato l’assiduo monitoraggio settimanale della rete “Influnet” con le sue “sentinelle” di medici e pediatri coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità per fornire un quadro e un controllo assiduo della stagione influenzale. Che ha già coinvolto circa 200mila italiani - in aggiunta ai tanti virus simil-influenzali e varie sindromi di raffreddamento in agguato dagli albori dell’autunno - e ne colpirà almeno tre milioni, stando alle proiezioni e alle insidie in arrivo soprattutto da Australia e Asia.
Cifre abbastanza “normali”, in linea più o meno con gli ultimi anni, peraltro essi stessi piuttosto nocivi. Quel che è meno “normale” è la catena di perduranti errori che ancora molti ripetono. La prima è la scarsa abitudine a vaccinarsi, il che è invece calorosamente suggerito soprattutto alle fasce deboli, quali gli anziani, le donne incinta o chi soffre di malattie che l’influenza può indurre a complicanze, quali il diabete, patologie immunitarie o cardiovascolari e respiratorie croniche.
L’altro errore, ancor più grossolano, è il facile ricorso agli antibiotici. “L’'influenza è una malattia virale e pertanto gli antibiotici, che sono attivi contro i batteri, non hanno alcuna indicazione, quindi solo nei casi complicati e dietro indicazione medica possono essere utilizzati”, ricorda Massimo Andreoni, Direttore Scientifico della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit), che poi ricorda: “In tutti gli altri casi i farmaci da utilizzare sono anti-infiammatori delle prime vie aeree e antipiretici”.
Semplice, eppure molti sbagliano, e cercano l’antibiotico che, oltre a esser in questi casi quasi sempre fuori luogo e foriero di rischi collaterali, presenta un problema in più, che suscita crescente allarme nel mondo della medicina: quello dell’antibiotico-resistenza, alimentato da abusi come quello descritto. Da uno studio, pubblicato dalla rivista Lancet dal Centro Europeo per il Controllo delle Malattie, emerge che ogni anno ben 33mila europei muoiono per infezioni da batteri resistenti agli antibiotici ec- si noti - un terzo dei decessi si verifica in Italia.
Dati drammatici, che ci ricordano come le soluzioni da adottare sono molto meno invasive, sul piano farmacologico e anche su quello alimentare. L’abbondanza di frutta e verdura è il fondamento essenziale della prevenzione, e anche di una rapida guarigione dal virus. “Non recedere da molta frutta in insalata con agrumi, papaya e kiwi che aiutano anche a combattere l’influenza intestinale”, raccomanda in particolare la Fondazione Veronesi, che poi aggiunge: “Non trascurare la vitamina D che svolge un ruolo essenziale nell’accorciare la convalescenza mangiando, ad esempio, un uovo al tegamino”.
Sedentarietà, obesità, rischi di problemi cardiovascolari, metabolici, articolari. Il cortocircuito rappresenta “un problema di salute pubblica di proporzioni epidemiche nei Paesi occidentali”, nelle parole dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, oltreché dalle autorità italiane. Ed è un problema noto oramai da decenni, che si alimenta di dati in costante peggioramento in materia di “stili di vita”, con riferimento anzitutto al calo dell'attività fisica. Su “quanto” quest'ultimo sia nocivo arriva ora una specifica importante e per certi versi sorprendente, destinata a spostare alcune percezioni collettive.
Lo si legge su Jama Network Open, ed è l'esito di un'estesa ricerca retrospettiva compiuta dall'Università di Cleveland, riesaminando i test sotto sforzo effettuati su circa 122mila persone dai 53 e ai 73 anni tra il 1991 e il 2014. A una prima lettura, può apparire solo l'ennesima conferma del fatto che l'inattività motoria sia deleteria.
Ma è appunto l'entità del danno a destare scalpore. “Mai visto qualcosa di così pronunciato”, spiega uno degli autori, il cardiologo Waber. Nel dettaglio, i sedentari hanno palesato tassi di mortalità cinque volte più alti rispetto agli atleti. E anche il confronto con altre “pessime abitudini” risulta inquietante, in quanto l'inattività è risultata fattore di rischio addirittura triplicato rispetto ai fumatori, e la forbice si allarga ulteriormente rispetto al diabete e all'ipertensione.
Da notare inoltre come l'esposizione al rischio tenda ad alterarsi anche in proporzione all'entità dell'attività svolta. Chi effettua qualche attività sportiva a titolo solo saltuario palesa tassi di mortalità innalzati del 390% rispetto a chi invece la svolge abitualmente. “Non c'è limite all'ampiezza dell'esercizio”, spiegano gli studiosi americani, così come “non c'è limite d'età per cercare di mettersi in forma”.
Va da sé che l'enfasi sull'attività fisica non fa abbassare l'allarme su altri aspetti deleteri dei nostri comportamenti, dal fumo all'alcol. Inoltre, “l'assenza di limiti” assoluti sull'attività fisica da poter svolgere non costituisce un invito a effettuarla in modo scriteriato, senza tener adeguato conto delle proprie esigenze, rischi e limiti legati all'età e all'eventuale presenza di patologie. Significa però ricordarsi che “il nostro corpo è fatto per camminare, correre ed esercitarsi”. Non farlo è il più grave dei torti che possiamo recargli.
Ė una delle problematiche più diffuse e invalidanti, e presenta per giunta un nodo “di genere”, per la netta (anche se tutt’altro che esclusiva) prevalenza femminile. L’insieme delle malattie reumatiche colpisce circa cinque milioni di italiani, con esiti spesso gravemente invalidanti. 7 pazienti su 10 hanno difficoltà a svolgere le attività quotidiane, dallo studio al lavoro, dallo svago alle attività familiari, nonché quelle sessuali e di coppia, tant’è che nel 90% dei casi si arriva alla separazione.
I dati sono stati raccolti nei mesi scorsi dall’Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare (Apmar), documentando anche un grave problema di disinformazione. Il 50% dei pazienti non conosce il proprio grado di invalidità, il 30% non sa dell’esistenza di diritti e agevolazioni previsti dalla legge, il 60% decide di lasciare o ridurre l’attività lavorativa senza conoscere le possibilità – normative e mediche – che aiuterebbero a svolgerla.
Un altro studio, discusso nei giorni scorsi in un apposito Convegno organizzato a Roma dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda) con la testata AboutPharma, si è concentrato sull’ambito femminile, che costituisce appunto la maggioranza, con ben 3,5 milioni di donne colpite. L’indagine ha coinvolto 24 centri reumatologici italiani e quasi 400 donne tra i 18 e 55 anni. Scelta d’età deliberata, in quanto il rischio è tutt’altro che confinato alla popolazione anziana, sollevando problematiche specifiche sull’età fertile.
Qui la disinformazione è ancor più colpevole, in quanto, fino a tempi recenti, gli stessi medici espressamente sconsigliavano alle pazienti di affrontare la gravidanza. La conseguenza è che permane molta paura tra le donne: il 32% ritiene che la terapia farmacologica possa essere dannosa al nascituro, il 16% teme addirittura di poter trasmettere al piccolo la malattia. C’è, va detto, una problematica, la presenza di fattori di rischio. “Gli ormoni femminili giocano un ruolo importante nelle cause e nello sviluppo delle malattie reumatiche”, ricorda Francesca Merzagora, presidente di Onda, sicché la gestazione può influire sul decorso patologico che, se non controllato, può causare complicanze.
Il fatto è però che tale “controllo” oggi è largamente possibile. “Con un’attenta gestione medica e ostetrica la gravidanza può avere un esito favorevole”, sottolinea Angela Tincani, coordinatrice del Gruppo di Medicina di Genere della Società Italiana di Reumatologia, pur avvertendo che è bene “programmarla in un periodo di remissione stabile della malattia”. L'urgenza è allora quella di “colmare il gap informativo tra pazienti e medici”. Serve più attenzione, dai singoli alle istituzioni. Possibilmente anche istituendo “centri di riferimento di medicina di genere multidisciplinari per la gravidanza delle donne con malattie reumatiche”.
“Nel lungo termine saremo tutti morti”, diceva il grande economista di Cambridge John Maynard Keynes. In effetti tendiamo spesso a pensarla così, e non solo sui temi economici. Su quelli ambientali, la “debolezza comunicativa” dei pur documentati allarmi sugli effetti devastanti delle emissioni inquinanti per il pianeta è che sono largamente declinati al futuro, benché sempre più prossimo. Il problema è invece oggi, e a dimostrarlo è proprio la salute.
Abbiamo più volte spiegato, anche in questi giorni di avvio della stagione influenzale, come le affezioni alle vie respiratorie siano in allarmante aumento, e che l’influenza stessa arrivi a uccidere oramai fino a 650mila persone l’anno. Le cifre in aumento solo legate all’invecchiamento della popolazione? No, almeno non solo, tant’è che si è qui già documentato che l’asma grave, in Italia, colpisca per addirittura un terzo i bambini sotto i 14 anni.
Sul nesso strettissimo tra ambiente e salute è cresciuta in effetti una presa d’atto a livello istituzionale, dalle commissioni europarlamentari all’organizzazione di molte giunte locali. Sul piano internazionale, si è tenuta in questi a Ginevra la prima Conferenza Globale sull’inquinamento dell’aria e la salute. E qui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilanciato con un dossier l’allarme proprio per i più giovani: oltre il 90% degli under 15 respirano ogni giorno aria inquinata, uccidendone almeno 600mila l’anno. I picchi maggiori sono tra le economie emergenti, ma anche la relativamente virtuosa Europa è tutt’altro che esente da colpe, con percentuali che superano nettamente il 50% di esposizione a polveri ultrasottili.
Il problema è che dalle parole non si passa ancora adeguatamente ai fatti, e in questo il nostro Paese risulta tra i più colpevoli. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente, in Europa quasi quattro milioni di persone abitano in aree dove sono superati contemporaneamente e regolarmente i limiti dei principali inquinanti. E, di queste, ben 3,7 vivono nel Nord Italia, col risultato che siamo al primo posto nel continente per le morti annue da biossido di azoto (20500) e da ozono (3.200), e al secondo per decessi da Pm2.5 (60.600).
Sono temi che chiamano alla responsabilità la politica, certo, ma anche ciascuno di noi, specie verso i nostri figli. Un recente studio di Greenpeace dinanzi alle scuole elementari romane ha riscontrato la sistematica e grave violazione dei limiti di legge sugli inquinanti, specie agli orari di ingresso, quando si arriva a gas aperto fino alla porta della scuola. Ė allora compito urgente di tutti pensarci e agire. Spegniamo quel motore, almeno dinanzi a quella scuola. Non pensiamo di fare un favore ai bambini risparmiando loro qualche passo a piedi al prezzo di comprometterne la salute.
Vi ricordate “Quelo”, l’esilarante santone concepito da Corrado Guzzanti? La chiave del personaggio era nel suo tormentone: “Le risposte non le devi cercare fuori, la risposta è dentro di te. Epperò è sbagliata”. Quel che prendeva di mira il grande comico è un fenomeno culturale dilagante nei nostri tempi, che affolla da oramai decenni le nostre tv e librerie (e ancor di più quelle statunitensi). La tendenza suggerita – con pubblicazioni “motivazionali” che spaziano dall’ambito socio-emotivo alla ricerca del successo economico, e perfino alla salute psico-fisica – è quella di mettere al centro l’introspezione, come chiave di volta e di “svolta”, per giunta in tempi brevi, con salvifiche scorciatoie.
Ė una sorta di “fai-da-te” applicato a ogni ambito vitale, ovvero, nelle parole dei suoi promotori, un percorso di “miglioramento auto-guidato”. Niente di male con l’introspezione, naturalmente, che è anzi variabile cruciale nella crescita e rafforzamento personale. Quel che molti esperti obiettano, a cominciare dagli stessi psicoterapeuti, è però il contenuto piuttosto pericoloso di alcuni messaggi, specie per chi già si trova in uno stato di depressione, quali l’incoraggiamento implicito a chiudersi nella solitudine e la costruzione di un orizzonte di “onnipotenza” di sé, che, a fronte di un illusorio sollievo, è invece fonte di ulteriore frustrazione data la naturale sussistenza di limiti umani, interni ed esterni.
L’ultima critica arriva in questi giorni da un’intervista all’Ansa di Svend Brinkmann, dell’Università danese di Aalborg, autore di un pamphlet in proposito, tradotto anche in italiano: “Contro il self help: come resistere alla mania di migliorarsi”. “La nostra cultura chiede il continuo migliorarsi, non importa quanto sei in gamba, non lo sarai mai abbastanza; ciò crea una mentalità depressiva, infatti chi soffre di depressione ha questa idea di non essere all'altezza”, spiega lo psicologo, chiamando a “combattere l'illusione di potersi auto-migliorare venduta senza la minima traccia di evidenza scientifica”.
Brinkmann attacca il concetto che “l'individuo possa controllare tutto e che la felicità sia una ‘scelta’, quindi se sei infelice è solo colpa tua”. E infine lancia una semplice controproposta: niente libri self-help (“sono come una droga, perché non basta mai, perché non funzionano”), bensì romanzi: “Ti aiutano a vedere la vita umana nella sua complessità e l'impossibilità di controllarla”.
La critica al fenomeno ha oramai solidi pregressi nel mondo degli addetti ai lavori, anche in Italia. Non tutti i libri di tale filone sono da buttare, anzi, ma il problema di fondo è quello di scegliere testi di “guru” improvvisati anziché di psicologi e altri esperti di problemi depressivi. Per gli interessati, c’è inoltre una crescente letteratura filosofica e storico-antropologica che sottolinea la fragilità delle pretese, anche teologiche, specie in Occidente, derivanti dall’idea di un “paradiso terrestre” e da quella di un “uomo-divinità”, in quanto incarnazione di essa. Il messaggio di fondo è qui invece che siamo per definizione esseri mortali e imperfetti, e il nostro posto, almeno per ora, è in questo mondo difficoltoso. “Quelo” ha ragione all’incontrario: guai a rinchiudersi nel recinto dell’autosufficienza e della solitudine, si deve invece ricominciare a cercare “fuori”. Senza più esitare a chiedere aiuto. E se il tema è la salute, psichica o fisica, appoggiarsi ai professionisti che dedicano la vita a occuparsene.
Le allergie sono in continuo aumento, a cominciare da quelle respiratorie, complici una pluralità di fattori, inclusi stili di vita inadeguati e la presenza crescente di inquinanti di vario tipo. Si stima che rinite e asma coinvolgano 12 milioni di italiani, con effetti sempre più gravi in termini di morbidità e mortalità. Solo l’asma, secondo i dati dell’Associazione Allergologi Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri (Aaito), riunita a Congresso nei giorni scorsi a Roma, colpirebbe il 4,5% della popolazione, ossia circa 2,6 milioni di persone.
La buona notizia è che, grazie alla ricerca, i rimedi “inalatori” risultano sempre più efficaci. Ci sono i cosiddetti “farmaci di fondo”, assunti a scadenza regolare per prevenire gli attacchi, o quelli “al bisogno”, che risolvono la crisi asmatica. Quando tali trattamenti non risultano efficaci si parla di “asma grave”, e richiede, nelle parole dell’European Respiratory Society, “un alto livello di trattamento con due diversi tipi di farmaci preventivi per evitare che vada fuori controllo”.
Ed è in particolare su questo che l’Aaito lancia l’allarme. La forma grave colpisce un decimo degli asmatici, ossia circa 300mila italiani, di cui un terzo di età inferiore ai 14 anni. Con pesanti ricadute personali, ostacolando seriamente la vita scolastica e lavorativa e generando disturbi ulteriori, a iniziare dal sonno. Anche il “costo”, pubblico e privato, è elevatissimo, in quanto il trattamento assorbe circa l’80% delle risorse dedicate all’asma.
A dispetto di tali preoccupanti cifre, la risposta del sistema sanitario appare lacunosa. Vi sono solo 13 strutture “complesse” (ospedaliere, universitarie) e 58 “semplici” (ambulatori di primo livello) dedicate, e c’è anche un problema di personale, in quanto gli allergologi italiani con specialistica ambulatoriale sono solo 150, e metà dei medici che ha preso tale specializzazione non ha trovato lavoro in tali strutture. Tutto questo, nota l’Aaito, ricade sull’accessibilità e anche sugli oneri economici delle terapie per i cittadini.
C’è però anche un ambito che coinvolge la responsabilità dei singoli ed è la prevenzione. Gli esperti ricordano che l’attacco d’asma – somatizzato nel rigonfiamento della mucosa delle vie aeree e della loro contrazione muscolare – può essere scatenato da acari, muffe, peli di animali, reazione da alcuni farmaci e sostanze chimiche, inquinamento ambientale, e perfino alimenti. Fattori almeno in parte evitabili. Come sottolinea il presidente dell’associazione Antonino Musarra, vi sono “stili di vita che tendono a far peggiorare l'asma, incluso il fumo di sigaretta, la sedentarietà e l'eccesso di peso corporeo”.
I titoli giornalistici sono talora fuorvianti, a volte anche rispetto al contenuto stesso dell’articolo e agli intenti dell’autore. Un rapporto dell’Agenzia Italiana del Farmaco ha messo la lente d’ingrandimento sulla spesa per i farmaci nelle diverse Regioni italiane sulla base di un’indagine OsMed, e qualche sintesi di stampa sembra inchiodare l’intero settore e l’intero Paese all’ambito degli “sprechi”. Non è così, in quanto i numeri complessivi sulla spesa farmaceutica in Italia sono viceversa ben inferiori rispetto agli altri principali Paesi europei.
Un problema reale nondimeno emerge, e verte sulla “qualità” della spesa che, specie nel Mezzogiorno, palesa evidenti criticità, a iniziare dal ritardo nel ricorso ai farmaci equivalenti, con quel che consegue per i mancati risparmi delle persone e la qualità delle loro cure. “Abbracciare chi rischia di restare ai margini del diritto alla salute sancito dalla Costituzione e spesso suo malgrado tradito dal Servizio Sanitario Nazionale”, ha incalzato il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, nella sua recente Assemblea pubblica a Roma.
Si potrebbe spendere infatti meno, con i generici, che hanno la medesima, certificata, efficacia e sicurezza terapeutica, e invece si spreca ancora, paradossalmente soprattutto nelle Regioni in maggiore difficoltà economica. E anche sulla tipologia di farmaci a volte si spende male.
Una delle problematiche maggiori riguarda gli antibiotici, che possono essere talora salvifici, ma il cui abuso è fonte di effetti avversi e anche del drammatico e crescente fenomeno dell'antibiotico-resistenza. Ed è di nuovo al Sud che si distingue per una spesa talmente elevata da far pensare – dice Francesco Trotta, coordinatore del gruppo di lavoro OsMed - “ad una potenziale inappropriatezza”.
Un altro aspetto critico, sollevato anche tramite uno studio internazionale presentato in questi giorni dalla Fondazione Firmo, coinvolge la cura dell'osteoporosi. Per quel che riguarda la vitamina D, il suo consumo (che può essere prezioso, ma senza abusi) ha in questi anni numeri da boom, soprattutto in Regioni “soleggiate” come la Calabria e la Puglia, mentre altri farmaci preventivi di comprovata efficacia restano ai margini, anche perché perlopiù prescrivibili in pochi centri specializzati e non dal medico di base. Costano troppo alle casse pubbliche? Secondo la stessa Fondazione vale il contrario: per risparmiare qualche milione sulla prevenzione, il Ssn spende poi quasi 10 miliardi l'anno per curare le oltre 500mila fratture annue da osteoporosi.
Ė iniziato la scorsa settimana il protocollo nazionale di monitoraggio “Influnet” (basato su segnalazioni a campione da medici e pediatri “sentinella”) che, salvo picchi ulteriori, si concluderà il prossimo 28 aprile. La “stagione dell’influenza” vera e propria deve in realtà ancora iniziare, nel mese prossimo, anche se il nostro sistema immunitario è già stato aggredito soprattutto nel Nord Italia, tra virus parainfluenzali, adenovirus e rinovirus, che ogni anno coinvolgono fino al 12% della popolazione. Ė comunque importante arrivare “attrezzati” alla “curva in salita” delle influenze, a partire da un’adeguata conoscenza.
La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un elenco di “miti da sfatare”, e assai diffusi. In cima c’è quello che “non è grave”. Falso, tant’è che provoca fino a 650mila morti l’anno, milioni di ricoveri e una pluralità di rischi di complicanze. Gli altri imperativi riguardano la prevenzione e, soprattutto, i vaccini. Fondamentale l’igiene personale, a partire dalle mani, e anche cercare di limitare il contatto con persone malate, per quanto possibile.
Sulle vaccinazioni la mitologia coinvolge il fatto che il farmaco stesso possa esso stesso generare l’influenza (no, al massimo può dare un senso di debolezza per un paio di giorni) o gravi effetti collaterali, o ancora che andrebbe evitato per le donne in gravidanza, mentre vale l’esatto contrario: è importante soprattutto per loro, indebolite nelle difese immunitarie, così come per altre le categorie più fragili come gli anziani.
Invece, all’evidenza dell’ultimo anno, solo il 14% degli italiani si vaccina. E questo nonostante, si noti, il 70% riconosca l’importanza della vaccinazione stessa. Insomma, la maggioranza è consapevole in materia, ma manca all’evidenza un po’ di informazione sulla “facilità” di accedervi. Costa solo 2,4 euro per le famiglie (poco più di 3 euro per il Servizio Sanitario Nazionale), ed è gratuito per i soggetti a rischio (quali gli over-65, donne al secondo e terzo mese di gravidanza, veterinari, forze dell’ordine).
A tal proposito, la mancata prevenzione ha essa stessa un costo anche economico, sottolineato da uno studio presentato nei giorni scorsi al Congresso Nazionale della Società Italiana di Pneumologia a Venezia. Il prezzo complessivo stimato per “curare l’influenza” ammonta a circa 10,7 miliardi di euro annui, di cui 8,6 miliardi a carico diretto delle famiglie, vale a dire 250 euro ciascuna. Cioè, anziché spendere quei 2,4 euro di prevenzione, ne spenderemo poi in media cento volte di più. I virus in arrivo sono quattro, sicché la vaccinazione è quadrivalente. Per i soggetti “forti” è un’opzione, per altri, come detto, è un imperativo, a cominciare dalle gestanti: “I virus si possono trasmettere al feto o al bambino e i piccoli hanno difese molto ridotte perché non si sono ancora sviluppati; si possono avere problemi a ridosso del parto e durante l’allattamento”, ricorda Vito Trojano, vicepresidente della Società Italiana di Ginecologia.
Ė uno dei tumori più diffusi, tanto da colpire, si stima, un uomo su otto nell’arco della vita in Italia, che ha registrato l’anno scorso quasi 35mila nuove diagnosi. Al contempo il cancro alla prostata è tra i più curabili, con una sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi del 91%. Proporzione che potrebbe elevarsi ulteriormente in presenza di una diagnosi tempestiva. Qualche passo è stato compiuto in proposito negli ultimi anni, grazie in particolare alla maggior diffusione del testo Psa (Prostate Specific Antigene), ma permane un grande nemico, l’ignoranza.
Se n’è parlato in questi giorni a Riccione al 91esimo Congresso della Società Italiana di Urologia, che ha tra l’altro discusso l’esito di un’indagine condotta dall’Associazione Europea di Urologia su 2.500 uomini di 5 Paesi, inclusa l’Italia. Con esiti quasi comici, non fossero drammatici: il 54% degli uomini non sa neppure di avere la prostata, ritenendola un organo femminile, altri non sanno neanche “localizzarla” (di fronte al retto).
Altri numeri preoccupanti: il 43% ammette che non si recherebbe dal medico nemmeno in caso di sangue nelle urine, il 28% ci andrebbe solo dopo oltre una settimana dalla comparsa di bruciori alla minzione, il 23% aspetterebbe più di un mese prima di chiedere una consulenza per l’accelerazione del bisogno di urinare. E solo il 27% dei maschi è consapevole dell’esistenza stessa del tumore alla prostata. Curiosità ulteriore, emerge che le donne sono più consapevoli degli uomini su tutti questi aspetti.
Insomma, l’ignoranza in materia costituisce un vero e proprio allarme sociale, per fronteggiare il quale è stata avviata, per il terzo anno consecutivo, un’apposita campagna di sensibilizzazione. Si chiama #Controllati, consiste nella distribuzione di informazioni in materia fino al 30 novembre per il tramite di tremila farmacie italiane.
La scarsa conoscenza del problema è ovviamente correlata alla tempestività della diagnosi, e quindi all’efficacia delle cure, che tra l’altro segnano rapidi progressi. Sempre a Riccione, è stata tra l’altro presentata una “terapia fotodinamica”, in arrivo in Italia, tramite un laser capace di “bruciare” le cellule tumorali e al contempo preservare il tessuto sano circostante. Un trattamento ambulatoriale, poco invasivo, che si protrae per poco più di un’ora e limita i rischi collaterali e il dolore. Anche in questo caso, però, la tempestività è decisiva, in quanto può essere risolutiva solo verso piccoli tumori entro un diametro di 5 millimetri, quindi allo stadio iniziale.
La parola chiave è “treatment gap”, ossia la distanza tra le possibilità crescenti di curarsi efficacemente e l’effettiva messa in atto di una terapia adeguata. Se ne è discusso nei giorni scorsi al Congresso della Società Italiana di Psichiatria (Sip) a Torino, che ha analizzato tra l’altro una recente indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, con dati assai poco incoraggianti, specie per il nostro Paese, nonostante le sue ottime tradizioni in materia di trattamento dei disturbi mentali.
Lo studio, condotto in 21 Stati, ha evidenziato che in quelli a basso reddito solo il 2% delle persone che soffre di depressione riceva un trattamento minimamente adeguato agli standard internazionali. La proporzione sale tra i Paesi ad alto reddito, ma comunque a una proporzione modesta, il 23%. L’Italia va peggio, fermandosi al 17%. “Questo dato fa rabbia, perché oggi la depressione maggiore può essere guarita nel 70 per cento dei casi – spiega il presidente Sip Bernardo Carpiniello - guarigione è un termine che non si usa mai con leggerezza, ma in questo caso possiamo farlo senza timore”
La ragione non è tanto nella mancanza di una risposta sufficiente da parte delle strutture sanitarie (stimata al 43% dei casi, ove sollecitata, in linea con gli altri Paesi), quanto in difetti nella “domanda”. Si stima che a soffrire clinicamente di depressione sia almeno il 3% degli italiani adulti, ma che metà di essi non la percepisca come una vera “patologia” da curare, proporzione che sale a due terzi negli altri Paesi avanzati. A mancare è insomma anzitutto un’adeguata coscienza collettiva sulla natura del disturbo, così come sulle possibilità di uscirne, tanto che la stessa Sip sollecita da tempo l’attivazione di una vera e propria “campagna nazionale” di sensibilizzazione contro la depressione.
In essa si profila anche una questione di genere, data la prevalenza femminile, e anche rischi di “comorbidità” con altre patologie. In particolare, ricorda Claudio Mencacci, past president della stessa Sip, “la comorbidità tra depressione e malattie cardiovascolari sarà la prima causa di disabilità al mondo già nel 2020, e le donne avranno un rischio doppio”.
A prendere atto dell’ampiezza problema è anche il dicastero della Salute. “La salute mentale rappresenterà il principale problema sanitario del prossimo futuro e non può essere lasciata solo alla responsabilità dei servizi sanitari psichiatrici ed ai loro operatori”, ha detto la ministra Grillo in un messaggio al Congresso, auspicando una strategia che integri l’ambito farmacologico con un’attenzione complessiva alla persona. A proposito di messaggi “istituzionali”, da notare che il presidente Mattarella ha usato parole analoghe commentando l’ultimo rapporto, preoccupante, della Caritas sulla povertà. Sottolineando come essa non vada combattuta solo sul piano “materiale”, ma soprattutto tramite uno sforzo integrato di promozione umana. Le persone, cioè, anzitutto non vanno lasciate sole.
A differenza degli animali l’impulso della “fame” va per noi ben al di là dello stimolo puramente biologico. Vi sono diverse variabili di altra natura, inclusa quella psicologica, del resto alimentate da fattori culturali, come la “gola” per una riconosciuta prelibatezza, su cui fa chiaramente leva l’industria alimentare. Nello spazio di tali variabili si determina il fenomeno, spesso lamentato, del fallimento di una dieta, o anche della tendenza a ingrassare nonostante si tenda a seguire un regime alimentare apparentemente contenuto.
Quello spazio è oggetto di studio da un po’, ed è stata tra l’altro elaborata una “teoria ormonale”, detta “lipostatica”, che definirebbe la correlazione inversa tra un ormone, la “leptina”, detta proprio il “gene dell’obesità” e il sovrappeso, spiegata dal fatto che l’aumento di tale gene determinerebbe un senso di sazietà, oltre a “bruciare grassi”. All’evidenza di sperimentazioni animali, il roditore, privo dell’ormone, ingrassa a vista d’occhio.
Ora, dall’Università Aldo Moro di Bari sembra arrivare una specifica importante, con una ricerca presentata nei giorni scorsi al congresso dell’Associazione europea per lo studio del diabete a Berlino. Il focus era sull’irisina, e cioè un mediatore (“citochina”), prodotto dai muscoli in seguito all’attività fisica, che funge da segnale di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e fra diversi organi e tessuti. E avrebbe un ruolo nella produzione di ormoni come la stessa leptina, coinvolti appunto nell’insieme dei nostri comportamenti alimentari.
Nelle parole dello studioso Nicola Marrano, lo studio ha dimostrato che “la somministrazione di irisina per 14 giorni per via intraperitoneale migliora la tolleranza al glucosio, stimola la produzione di insulina glucosio-indotta e aumenta il contenuto della stessa all'interno delle cellule che la producono, così come il numero di queste ultime”.
Si tratta dunque di dinamiche che agiscono sul sistema ormonale, la cui funzionalità è oramai ritenuta essenziale per il controllo del peso. All’evidenza, coinvolgendo glucosio e insulina, è un ambito che riguarda da vicino anche la ricerca di nuove terapie contro il diabete.
La chiamano “quarta rivoluzione industriale”. Dopo la macchina a vapore, l’energia elettrica e le telecomunicazioni, siamo piombati nel pieno della “connettività digitale pervasiva”, che ci rende il mondo assiduamente rintracciabile, e ciascuno di noi rintracciabile a esso, e lo fa con strumenti che vanno dal portatile al tablet fino al piccolo smartphone, che portiamo in tasca con un senso di urgenza che forse supera perfino quella del portafoglio. E come ogni “rivoluzione”, ha i suoi contraccolpi e rischi, sociali, psicologici e sanitari, che richiedono attenzione e possibilmente antidoti.
In questo caso il rischio è anzitutto nella natura fisica dei nuovi strumenti. Si tratta di schermi, e come tali inducono gli occhi degli esseri umani a stress senza precedenti nella storia. Lo si è ricordato lo scorso 11 ottobre nella Giornata Mondiale della Vista, su iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità.
L’allarme arriva soprattutto per i giovanissimi, per giunta esposti ai sempre più sofisticati videogiochi. Tra uno schermo e l’altro “la prevalenza della miopia all’età di 9 anni è già del 12%”, avverte l’Oms, sale al 18% a 15 anni e raggiunge il 24% in età adulta, con una prevalenza femminile. La conseguenza complessiva è che entro il 2050 metà della popolazione mondiale potrebbe essere miope. Seguono le raccomandazioni, sui limiti quotidiani da porre all’uso dei dispositivi, sulla distanza minima dagli stessi (almeno 30 centimetri) e sull’esigenza di spingere i bambini a trascorrere più tempo all’aria aperta, ritenuto in sé un fattore di prevenzione e salute visiva.
A questo si aggiunge un fattore collaterale di rischio, tutt’altro che esiguo. L’uso diffuso dei dispositivi amplifica di fatto l’esposizione a incidenti. Solo i “selfie”, secondo una recente indagine indiana, sarebbero causa di almeno 259 morti nel mondo negli ultimi anni. E si tratta palesemente di una sottostima, che non tiene conto, oltre che delle più recenti cronache, anche dei tantissimi incidenti su cui la responsabilità dell’autoscatto non è semplicemente accertata.
Un'attenzione “preventiva” può essere dunque vitale in tempi di rischi così aumentati. Sulla vista peraltro non mancano i progressi scientifici. Nei giorni scorsi sono stati presentati a Roma i buoni esiti di nuove “retine artificiali”, che potrebbero aiutare anche i pazienti affetti da malattie assai diffuse, come la Degenerazione Maculare Senile, che colpisce oltre un milione di italiani. Si tratta di un microchip di terza generazione, che “funziona senza necessità di un cavo che lo colleghi a una fonte di energia esterna all’occhio – spiega l'oftamologo Andrea Cusumano, presidente dell'Onlus Macula & Genoma Foundation - e può essere impiantata sotto la retina con una procedura chirurgica minimamente invasiva di circa 90 minuti”.
“Il tumore della cervice è una delle forme più prevenibili e trattabili del cancro”, ricordava lo scorso maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità, lanciando un appello globale all’azione, data l’ampiezza del problema (una donna muore di tale malattia ogni due minuti) e al contempo la disponibilità appunto degli strumenti per combatterlo. La dimostrazione concreta arriva ora dall’Australia che, come riferisce la rivista Lancet, si avvia a diventare il primo Paese pressoché “libero” da questo tumore.
Il traguardo sarà tecnicamente raggiunto, si stima, nel 2028. Nel dettaglio, entro il 2022 ci saranno meno di 6 casi ogni 100mila abitanti (riducendosi al novero dei “tumori rari”), 6 anni più tardi si scenderà a 4, e le morti saranno ridotte a meno di una su 100mila entro il 2035 a condizione che – e qui sta la spiegazione del successo – “saranno mantenute l’alta copertura vaccinale e l’adesione agli screening”. Nel Paese oceanico, un programma di screening su questi tumori è infatti attivo dal 1991, e la vaccinazione da papillomavirus (Hpv) ha raggiunto il 79% tra le ragazze e il 73% tra i ragazzi.
L’Italia purtroppo è ben lontana da tali cifre. Secondo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro si registrano ogni anno circa 2300 casi di tumore della cervice, e a una donna su 10mila viene diagnosticata in forma avanzata. Con l’esito che circa 430 italiane muoiono annualmente per questa patologia, che risulta la seconda forma tumorale tra le donne, dopo il cancro alla mammella.
Come ricorda un documento della Fondazione Gimbe, richiamato anche dalla Fondazione Veronesi, non sono peraltro coinvolte solo le donne. Il virus Hpv causa malattie genitali, anali e orofaringee in ambedue i sessi, e in particolare il 90% dei carcinomi della cervice uterina e dell’ano, oltre a larga parte di patologie minori, come le verruche anogenitali.
E perché l’Italia presenta cifre così lontane dall’Australia? La ragione starebbe proprio nella copertura della vaccinazione anti-Hpv, che invece di aumentare risulta in picchiata. Era a circa il 70% tra i nati tra il 1997 e il 2000, mentre quattro anni più tardi è precipitata al 53%, mentre la speranza governativa era di arrivare al 95% entro il 2019. Il vaccino non rientra tra quelli obbligatori ma è comunque offerto gratuitamente a maschi e femmine di 11-12 anni. Un evidente fallimento, dunque. Che rappresenta, nelle parole del presidente del Gimbe Nino Cartabellotta, “un emblematico esempio dei gap tra ricerca scientifica e sanità pubblica, nonostante il consolidamento progressivo delle prove di efficacia e del profilo di sicurezza dei vaccini anti-Hpv”.
Dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia. Sono tanti e variegati i cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento”, su cui permane un velo di omertà e di ignoranza, come se definissero un qualche “handicap di intelligenza”, che non è affatto. Al contrario, coinvolgono spesso bambini (e non solo) di spiccate capacità intellettive. Si tratta di un’inabilità specifica di rappresentare le parole, i suoni o anche i segni grafici, la cui origine è in parte misteriosa, attribuita comunque, perlopiù, a un’origine genetica complessa (non c’è un “gene della dislessia").
Le capacità intellettive non c’entrano dunque, ma i disturbi possono avere conseguenze psicologiche serie. Vanno dunque trattati per bene, sapendo che i percorsi terapeutici sono solitamente efficaci, mentre gli errori pedagogici risultano deleteri. Il dato di partenza è proprio questo: i ragazzi che ne soffrono lamentano anche bassi livelli di autostima, per la costante paura di essere “etichettati” in modo degradante, il che, in un circolo vizioso, alimenta rischi di depressione e altri disagi psico-fisici.
Il dato di base, spiega il psicologo Andrea Novelli, membro del direttivo dell’Associazione Italiana Dislessia, è che “quando si fallisce in un’attività intrapresa, si sperimenta la sensazione di impotenza che porta alla volontà, limitata nel tempo, di non intraprendere alcuna altra azione”. E il fallimento tipico è quello scolastico, il che chiama alla responsabilità – e alla preparazione – gli insegnanti, oltre che i genitori. “Tendono a concludere che il bambino è svogliato, cioè danno una spiegazione personalizzante, che lede in maniera gravissima l’autostima del bambino, poiché sviluppano la sensazione di impotenza”, spiega Novelli.
Nella tenaglia tra lo “sgridare il ragazzo” e quella di puntare invece sul “rafforzamento dell’autostima” non c’è quindi alcun dubbio. La persona va aiutata a potenziare le proprie potenzialità “tecniche” e allo stesso tempo sostenuta con forza per limitare le sensazioni di “fallimento” legate al proprio disturbo. A questi concetti è stata dedicata anche la recente “Settimana Nazionale della Dislessia”, con l’obiettivo di sensibilizzare e informare, anzitutto il mondo degli adulti, sulla natura e la gestione di un problema che coinvolge almeno il 3% della popolazione.
Ricordando loro anche qualche nome tra i “deficitari” che soffrono di tale problema: il celebre cantautore libanese-britannico Mika, che fatica a leggere uno spartito ma sa cantare e suonare tutto; l’amata attrice Jennifer Aniston; il leggendario Steven Spielberg. Anche loro hanno sofferto in passato di autostima, mentre in realtà sviluppavano talenti straordinari.
C’è un colesterolo “cattivo”, responsabile di alti rischi cardiovascolari e metabolici, ma anche uno “buono”, l’Hdl (High-Density Lipoprotein”), che avrebbe viceversa effetti protettivi soprattutto verso le malattie aterosclerotiche, prevenendo la formazione di grassi ostruttivi. Una ricerca italiana, presentata nei giorni scorsi al Congresso a Berlino dell’European Association for the Study of Diabetes (Easd) ora allarga e consolida lo spettro dei suoi benefici, documentando qualità di contrasto al diabete.
La ricerca è stata condotta dall’Università Magna Grecia di Catanzaro su un campione di 130 persone non diabetiche, rilevando una chiara correlazione inversa tra i livelli di Hdl (in particolare grazie alla sua porzione proteica “ApoA1”) e di glucagone, un ormone peptidico secreto dal pancreas. Si tratta di uno sviluppo di studi precedenti, in vitro e su roditori, che già avevano suggerito un’influenza sulla funzione della cellula pancreatica.
“Altri studi avevano dimostrato che l'Hdl svolge un ruolo positivo nel controllo metabolico stimolando la secrezione insulinica e la funzione delle cellule beta pancreatiche”, spiega il coordinatore dello studio Giorgio Sesti, presidente della Fondazione Diabete Ricerca. In questo caso “per la prima è stato dimostrato un ruolo del colesterolo buono nel ridurre la secrezione di questo ormone che ha effetti opposti all'insulina in quanto induce iperglicemia”.
Non è una scoperta da poco, perché può spalancare la strada a nuove possibilità di cura. “Questo studio apre nuove prospettive terapeutiche sia nel diabete tipo 1 sia di tipo 2, in quanto un aumento dei livelli di glucagone è riscontrabile in entrambe le forme della malattia e contribuisce all'innalzamento della glicemia”, spiega Sesti.
La novità ha anche un risvolto in sede di prevenzione, anzitutto alimentare. I cibi “amici” dell’Hdl includono il pesce, l’olio d’oliva, il kiwi, frutta e verdura. I “nemici” sono soprattutto nel cibo di origine animale, nei formaggi grassi, negli acidi grassi saturi e quelli idrogenati (vegetali modificati industrialmente), nonché nell’insieme del “cibo spazzatura” tipico dei fast food. Una curiosità: le sigarette sembrano avere un effetto negativo sull’Hdl, mentre la cannabis ne sarebbe in questo caso alleata.
A prima vista potrebbe sembrare un “bluesman” più che uno scienziato, e in effetti lo è e lo rivendica, suonando assiduamente, ancora a 70 anni, la sua armonica per diverse band texane. Che la ricerca sia “un’arte” prima che una “scienza esatta” lo pensano del resto in molti, a fianco di James Allison, trionfatore alla 108esima edizione del premio Nobel per la Medicina . In premio che in effetti riconosce, anzitutto, un’intuizione, coltivata da Allison da oltre trent’anni: la ricerca di una cura contro il cancro (che ha tra l’altro stroncato diversi suoi familiari, inclusa la madre) all’interno delle nostre stesse difese immunitarie.
Il suo nome è celebrato e riconosciuto da anni, al pari dell’altro vincitore, il giapponese Tasuku Honjo, anch’egli pioniere della ricerca immunoterapica. Allison ha ricevuto tre anni fa un premio anche in Italia, il Pezcoller, a Trento, dove ora si esulta due volte: “E' un onore e la conferma del prestigio del Premio Pezcoller nella comunità scientifica internazionale”, commenta il presidente dell’omonima Fondazione Enzo Galligioni.
Lo scienziato americano ha studiato la proteina che funziona da freno al sistema immunitario, favorendo la proliferazione della malattia, individuando poi soluzioni terapeutiche per “sbloccare” il freno stesso. Si tratta della CTLA-4, che arresta l’attivazione dei linfociti T. “Si è visto che le cellule T scatenano la loro risposta contro i tumori, contrastandoli ed agendo come 'killer naturali' contro il cancro”, si tratta cioè di “un’arma potente, potenzialmente definitiva”, ha detto in una recente intervista all’Ansa.
Ė la strada del futuro, quindi, ma già con un’entusiasmante storia passata. “Dieci anni fa abbiamo trattato con l'immunoterapia una ragazza affetta da melanoma, con già metastasi a fegato, polmoni e cervello. Oggi sta bene, è guarita e ha due figli”, racconta Allison, aggiungendo “speranze concrete anche per altri tipi di tumore, dal polmone al rene”, nonché di “oltre 80 sperimentazioni cliniche in atto per varie forme cancerogene”.
Lo studioso americano dirige l’area immunoterapica dell’Anderson Cancer Center dell'Università del Texas a Houston, ritenuto il principale punto di riferimento nella ricerca globale e nella cura del cancro, con i suoi oltre 20mila addetti. Rimane per ora il nodo degli alti costi odierni di questa terapia. “A breve è prevedibile un abbattimento sostanzioso dei prezzi dei farmaci, poiché molte nuove molecole sono in arrivo e ciò porterà ad una maggiore concorrenza tra le aziende, con un taglio dei costi”.