Nella lunga ricerca a un rimedio contro la demenza sono stati collezionati numerosi fallimenti. Poche le speranze di riuscire a contrastare efficacemente un processo considerato quasi inevitabile e strettamente legato all’avanzare dell’età. Ma un nuovo studio, condotto dalla Wake Forest School of Medicine di Winston-Salem, nella Carolina del Nord (Usa), suggerisce una nuova strada e cioè un trattamento intensivo per ridurre la pressione sanguigna. Sembra, infatti, che le persone affette da ipertensione che riducono la pressione a valori inferiori a 120 mm Hg, anziché a 140 mm Hg come prevedono i trattamenti standard, sviluppano meno problemi cognitivi e di memoria, cioè quel lieve deterioramento cognitivo che può progredire verso la demenza.
Lo studio, pubblicato sulla rivista JAMA, è il primo di grandi dimensioni ad aver individuato una strategia potenzialmente in grado di aiutare moltissime persone anziane a ridurre il rischio di lieve decadimento cognitivo, un noto precursore del morbo d'Alzheimer e di altre forme di demenza. I risultati si applicano solo a coloro che hanno un’età superiore ai 50 anni, che soffrono di ipertensione e che non hanno il diabete o una storia di ictus.
Bisogna farsi più furbi se si vuole battere un killer subdolo e spietato. Lo ha capito bene Alfonso Bellacosa, oggi docente di Epigenetica presso il Fox Chase Cancer Center di Philadelphia (Stati Uniti), che con il suo team di ricercatori ha individuato un nuovissimo approccio contro uno dei tumori più aggressivi e letali, il melanoma. Si tratta di colpire uno specifico bersaglio, ovvero un enzima fondamentale per la riparazione e la proliferazione delle cellule tumorali. E’ una strategia nuova che, stando ai risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Oncogene, potrebbe rivoluzionale il trattamento del melanoma.
“In un precedente studio vavevamo scoperto che l’enzima di riparazione del Dna chiamato TDG ha caratteristiche peculiari perché, oltre a salvaguardare il genoma, regola anche l’‘accensione’ e lo ‘spegnimento’ dei geni, cioè l’epigenoma”, spiega Bellacosa. Sono anni infatti che lo scienziato italiano e il suo team si stanno occupando dello studio di TDG, scoprendo ora che è in pratica un’arma “a doppio taglio”: se da un lato infatti è fondamentale per le cellule sane per «riparare» il Dna danneggiato, dall’altro lato viene sfruttato dalle cellule del melanoma per sopravvivere e proliferare. “Nel nuovo studio abbiamo dimostrato che inibire la produzione di questo enzima provoca la morte delle cellule del melanoma”, dice Bellacosa.
Sono uova davvero speciali quelle prodotte dai polli allevati nei laboratori del Roslin Institute di Edimburgo, l'istituto britannico dove per la prima volta è stato clonato con successo un mammifero, partendo da una sola cellula somatica. Era il 1996 quando è stata annunciata la creazione della famosa pecora Dolly. Ora, a distanza di 23 anni, lo stesso istituto torna a stupire annunciando un risultato quasi altrettanto straordinario: i ricercatori hanno modificato il genoma dei polli affinché producano uova contenenti proteine umane da cui ricavare farmaci salva-vita.
In pratica, i ricercatori hanno dimostrato che è possibile trasformare i polli in “fabbriche di farmaci” viventi. I risultati, pubblicati sulla rivista BMC Biotechnology, aprono la strada a un nuovo metodo di produzione di farmaci molto più economico dell’attuale. Oggi infatti le terapie a base di proteine, come i trattamenti antitumorali Herceptin e Avastin, sono tanto efficaci quanto costose. Ma la possibilità di ottenere gli stessi farmaci da uova di polli geneticamente modificati potrebbe contribuire a rendere più economici, e di conseguenza più disponibili, questi trattamenti.
La tecnica utilizzata dai ricercatori per modificare il DNA del polli, introducendo nuovi geni, ha richiesto l'impiego di un lentivirus. Si tratta di una tecnica ormai consolidata, ma che richiede più tentativi prima che di riuscire a raggiungere l'obiettivo desiderato. Ma i ricercatori stanno ora pensando a un nuovo sistema. Gli studiosi si aspettano una maggiore efficienza dall'uso della tecnica CRISPR-Cas9, il cosiddetto “editing genetico”, che consenta di “tagliare” e “incollare” i geni in modo molto più preciso.
C’è un metodo del tutto naturale in grado di ridurre e prevenire la cronicizzazione del dolore neuropatico, una condizione che origina da un danno o alterazione del tessuto nervoso sia periferico sia centrale. Si tratta semplicemente di mangiare di meno. Proprio così: un periodo limitato di dieta a ridotto apporto calorico è in grado di attivare meccanismi anti-infiammatori legati al dolore neuropatico. A dimostrarlo è stato uno studio condotto da un team di ricerca dell’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) e della Fondazione Santa Lucia Irccs, in collaborazione con le Università di Chieti e Milano. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Plos One. Lo studio, finanziato dal Ministero della Salute nell’ambito dei progetti “Giovani Ricercatori” presso la Fondazione Santa Lucia, apre la strada a nuove strategie terapeutiche non farmacologiche, in alternativa o in supporto alle cure convenzionali.
Secondo le stime attualmente disponibili il dolore neuropatico affligge il 7-8% degli adulti nel mondo: la condizione tende a essere più probabile negli anziani e nel sesso femminile. La problematica è molto sentita fra i diabetici e purtroppo, visto che la diffusione di questa condizione è sempre maggiore, si prevede un aumento dei casi associati allo sviluppo di neuropatia diabetica. Il nuovo studio italiano offre quella che potrebbe essere una risposta semplice al problema. “Nei nostri esperimenti abbiamo constatato che dopo un danno nervoso periferico al nervo sciatico, un regime dietetico con un ridotto apporto calorico giornaliero agisce come potente stimolo metabolico ed attivatore di un fondamentale meccanismo di sopravvivenza e ricambio cellulare, noto come autofagia (la cellula ingloba parti di sé danneggiate)”, spiega Sara Marinelli del Cnr-Ibcn, coordinatrice del progetto.
Li chiamano super-farmaci perché prima del loro sviluppo per alcune persone era difficile tenere a bada i livelli di colesterolo. Con tutti i rischi che ne conseguono, come un aumento del rischio di subire eventi cardiovascolari. Ma gli anticorpi monoclonali mirati contro la proteina Pcsk9 potrebbero fare molto di più. Due studi del Centro cardiologico Monzino di Milano, pubblicati sul Journal of the American College of Cardiology, hanno scoperto che gli inibitori di Pcsk9 potrebbero aiutare a prevenire l’infarto, l’ictus e la stenosi calcifica della valvola aortica.
Infatti, oltre a ridurre del 60-70% i livelli di colesterolo nei pazienti “difficili”, questi “super-farmaci” riducono il rischio del 15% di eventi come infarto e ictus. D’altra parte, nelle persone che geneticamente hanno livelli ridotti di Pcsk9, si è riscontrata una protezione dall’incidenza di eventi cardiovascolari. “Questi dati – riferisce Marina Camera, responsabile dell’Unità di ricerca di Biologia cellulare e molecolare cardiovascolare presso il Cardiologico Monzino – ci hanno spinto a ipotizzare che i benefici in termini di eventi cardiovascolari prevenuti bloccando Pcsk9 potessero dipendere non soltanto dalla riduzione di colesterolo ottenuta”.Così i ricercatori hanno iniziato a cercare.
E' sicura ed efficace, specialmente se somministrata ai pazienti più piccoli. La terapia genica rappresenterebbe una valida opzione contro la beta talassemia, una malattia genetica molto diffusa nell’area mediterranea e che conta oltre 7000 pazienti solo in Italia. Lo dimostrano i risultati del primo trial clinico di terapia genica condotto sia su pazienti adulti che pediatrici, e pubblicato sulla rivista Nature Medicine. La svolta contro questa grave malattia si deve agli oltre dieci anni di lavoro del gruppo di ricerca di Giuliana Ferrari, docente dell’Università Vita-Salute San Raffaele, all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano e all’alleanza strategica tra IRCCS Ospedale San Raffaele, Fondazione Telethon e Orchard Therapeutics.
La beta talassemia è una malattia genetica del sangue causata da una mutazione del gene che codifica per la beta-globina, componente della emoglobina che è una proteina fondamentale per il funzionamento dei globuli rossi e in particolare per il trasporto dell’ossigeno. Esistono oltre 300 mutazioni note di questo gene, che possono dare origine a forme di beta talassemia di diversa gravità. Le mutazioni più gravi causano una quasi totale assenza della proteina nel sangue dei pazienti, che per sopravvivere devono ricorrere a frequenti trasfusioni, con una riduzione drammatica della qualità della vita, o al trapianto di midollo osseo da donatore.
L’umanità è in pericolo. Le minacce sono tante, ma 10 sono quelle che più di altre mettono a rischio la salute pubblica mondiale. Alcune possono essere considerate “vecchie conoscenze”, come le malattie non trasmissibili, le guerre o le catastrofi naturali. Altre invece sono vere e proprie “new entry” nella tradizionale top ten stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Come il rifiuto dei vaccini, i cambiamenti climatici e l’antibiotico-resistenza. Per l’Oms sono tutte sfide che dovrebbero essere affrontate nel 2019, inserite in un nuovo programma di durata quinquennale, il Tredicesimo Programma Generale di Lavoro, con il quale promuovere la salute e aumentare i livelli di sicurezza dei cittadini dei paesi membri.
Tra i nuovi timori dell’Oms c’è la sempre più diffusa tendenza a rifiutare i vaccini. “La vaccine hesitancy – cioè la riluttanza o il rifiuto a vaccinare nonostante la disponibilità di vaccini– rischia di invertire i progressi compiuti nella lotta contro le malattie prevenibili con il vaccino”, scrive l’Oms. “La vaccinazione - continua - è uno dei modi più economici per evitare certe malattie: attualmente impedisce 2-3 milioni di morti all’anno e 1,5 milioni potrebbero essere evitati se la copertura vaccinale globale migliorasse”. I rischi per gli esperti dell’Oms sono molto seri. Basta guardare alle infezioni di morbillo, che nel mondo sono aumentate del 30%.
Giocare è una cosa seria. Non è infatti solo svago e divertimento. Per i bambini è un modo di conoscere il mondo attraverso il corpo, i sensi, l’intelletto. Lo sanno bene i pediatri dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma che proprio a questo argomento hanno dedicato il nuovo numero di “A scuola di salute”, il magazine digitale a cura dell’Istituto Bambino Gesù per la Salute del Bambino e dell’Adolescente diretto da Alberto G. Ugazi. “Con l’attività ludica il cervello del bambino si evolve e accresce la propria complessità”, spiegano i pediatri dell’ospedale romano. “Per questo è necessario proporre il gioco giusto all’età giusta. A cominciare - continuano - dalla vicinanza con il corpo di mamma e papà, prima palestra per l’allenamento dei sensi del piccolo; puntando molto sulla lettura, fondamentale per il processo di crescita e con un dosaggio oculato di tablet e videogiochi”.
E’ possibile sapere in anticipo quali tumori al seno, dopo esser stati rimossi chirurgicamente, hanno maggiori probabilità di ritornare all’attacco. E sapere, in questo modo, quali pazienti hanno bisogno della chemioterapia e quali invece ne possono fare a meno. Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia ha scoperto infatti una “firma molecolare”, in grado di predire l’evoluzione di un tipo di tumore al seno molto diffuso, il Luminal B. Si tratta di un set di geni che possono suggerire quali tumori sono a rischio o meno di recidiva e quali richiedono trattamenti adiuvanti dopo l’intervento chirurgico.
Sonnolenza diurna, cedimenti muscolari improvvisi, aumenti di peso fino all’obesità, paralisi durante il sonno. Sono alcune delle “spie” della narcolessia, una malattia autoimmune rara, causata dalla distruzione di neuroni che producono l’orexina, la proteina che ci mantiene svegli e vigili. Contro questa patologia non c’è cura, ma ci sono alcuni farmaci che riescono a mantenere sotto controllo i sintomi. Peccato che non tutti i malati possono usufruirne, “In Italia sono circa mille i pazienti diagnosticati e trattati per la narcolessia - spiega Giuseppe Plazzi, docente di neurologia all'Università di Bologna e presidente dell'Associazione italiana di medicina del sonno (Aims) (Aims) - ma si stima che i malati siano molti di più, tra 20 e 25mila". Un esercito silente di pazienti che non viene curato.
Rifiutano il cibo o, al contrario, fanno grandi abbuffate. Oppure sono ossessionati, letteralmente, dal proprio aspetto fisico: alimentazione ed esercizio fisico sono al centro di ogni pensiero, addirittura prima della famiglia o del lavoro. Sono i disturbi alimentari, rispettivamente anoressia, bulimia e vigoressia, che nel nostro paese sono più diffusi di quanto si immagina. A soffrirne sono infatti all’incirca 2 milioni di italiani e sono sempre più giovani. Troppo, considerato che il malessere inizia a fare il suo esordio già a 11 anni e in alcuni casi, secondo i pediatri, addirittura in bambine di soli 8 anni. A lanciare l’allarme è Annalisa Venditti, psicologa esperta dei disturbi del comportamento alimentare presso il Gruppo INI, Istituto Neurotraumatologico Italiano.
Nell’olio d’oliva potrebbe celarsi un efficace rimedio per contrastare il fegato grasso nei bambini e negli adolescenti. Si chiama idrossitirosolo ed è una sostanza antiossidante testata come “farmaco” dai medici e ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. I risultati, pubblicati sulla rivista Antioxidant and Redox Signaling, sono sorprendenti perché offrono una soluzione naturale a un problema diventato oggi una vera e propria emergenza globale.
La steatosi epatica non alcolica, comunemente chiamata fegato grasso, è infatti la principale patologia che colpisce il fegato nel mondo occidentale. Negli ultimi vent’anni la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli. In particolare, Italia si stima che ne sia affetto circa il 15% dei bambini, ma si arriva fino all'80% tra i bambini obesi. Tra le cause del fegato grasso c’è l’aumento dello stress ossidativo che le cellule subiscono come conseguenza dell’obesità.
Vi siete mai chiesti perché milioni di anime, nei millenni, abbiano deciso di stabilirsi in terre gelide, e ci siano pure rimasti nel tempo? La domanda è tutt’altro che scontata, in quanto l’essere umano, come ogni essere vivente, cerca di andare dove può sopravvivere dignitosamente. La risposta è del resto per certi versi assai semplice. Il freddo, benché temuto e sovente odiato, non è affatto necessariamente un’insidia per il nostro organismo, specie per le patologie apparentemente più correlate.
Ė il caso dell’influenza, di cui ricorre proprio in questi giorni, secondo le proiezioni ufficiali, il “picco” stagionale. Colpa del freddo? No, per l’appunto, o almeno non direttamente. Alcuni scienziati hanno viceversa attribuito la proliferazione influenzale soprattutto al fatto che, con le basse temperature, le persone si recludono assai di più in luoghi chiusi, facilitando il contagio, il che vale soprattutto nei spazi particolarmente promiscui, quali le scuole.
Il tema resta aperto, anzi spalancato, perché per avere riscontri seri serve il lungo periodo, tanto più in un ambito in così recente e a velocissima crescita quale l’uso dei cellulari. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ammette che “sono necessari ulteriori approfondimenti”. Proprio per questo, tuttavia, desta interesse l’ampiezza, anche temporale, di uno studio australiano, che sembra fugare almeno parte delle preoccupazioni più gravi.
Gli esiti sono pubblicati sulla rivista Bmj Open, la ricerca è stata condotta dall’Università di Sidney sotto il coordinamento dell’Australian Radiation and Nuclear Safety Agency (Arpansa). E sono risultati che sembrano chiamare al cessato allarme. Il campione è esteso, quasi 17mila australiani tra i 20 e i 59 anni, seguiti nel loro decorso clinico dal 1982 al 2013, con particolare riferimento all’ipotesi di un’incidenza sui tumori cerebrali.
Provate un semplice esperimento, andate sul collettore “Google News” e inserite nella ricerca due semplici parole, “salute” e 2019”. L’esito non lascia spazio a dubbi: a trionfare largamente saranno gli oroscopi. E se volete approfondire, sbirciandone i pronostici, potrete divertirvi a prendere atto di quanto essi divergano, spesso radicalmente. Qualche esempio tra gli astrologi più seguiti: Ada Alberti vede un anno particolarmente benefico per i “nati in marzo”; Branko prevede invece “salute e benessere al top per il Leone”; altri ancora esaltano il Sagittario, con un “luglio in grande ripresa”.
Tra curiosità e qualche ilarità, il tema comunque appare piuttosto serio. Se perfino sulla principale e “fisica” delle preoccupazioni, ossia la salute (come periodicamente documentato dai dati dello stesso Google), le persone si rivolgono massicciamente agli oroscopi c’è qualcosa che non torna, e chiama alla responsabilità ciascuno di noi, a iniziare da chi cerca di comunicare le conoscenze medico-scientifiche.
“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare”, si legge nella Genesi, e questo ci ricorda come il “digiuno” sia stato il primo comandamento impartito dall’umanità. Vale nella cristianità, così come nel Ramadam musulmano o nello Yom Kippur ebraico. Anzi, a ben vedere, non c’è religione al mondo, inclusi perfino politeismi come nell’induismo, che non collochi il rapporto con il cibo e qualche forma di “rinuncia” al centro della spiritualità, ovvero della relazione con la divinità, quanto del proprio benessere psico-fisico.
Tendiamo a non ricordarcene, in effetti, specie dalle nostre parti, e, nel contesto delle grandi abbuffate natalizie, può suonare ad alcuni perfino risibile. Così si sbaglia, e su vari fronti. Sul piano religioso, per chi crede, esisterebbe anche una “Quaresima Natalizia”, un po’ meno cogente di quella Pasquale, ma comunque ricca di sacrifici, e anche qui per 40 giorni. Di essa resiste oramai solo una parziale abitudine, quella di lasciar stare la carne nel giorno della Vigilia.
Il grandissimo, oramai 75enne, Keith Richards, racconta che era solito coricarsi con una chitarra e un registratore accanto per non perdersi nulla della sua creatività notturna, e cioè per poter concretamente registrare quel che gli veniva in testa. Lo ricorda un documentario della Bbc che, al di là dei casi-limite e di qualche mitologia, rilancia il tema dei benefici del sonno, perfino “economici”. Da uno studio britannico emerge che i giovani che guadagnano di più sono quelli che dormono di più, e non di meno. Specularmente, la carenza di sonno rappresenterebbe un costo conteggiato addirittura a circa il 2% del Pil.
Se però, invece di una chitarra (o di un libro, o qualsiasi cosa capace di cullare il nostro riposo), ci addormentiamo con uno smartphone il tema si rovescia, arrivando anche a “effetti collaterali” piuttosto inquietanti. Una ricerca americana su centinaia di studenti medi e universitari ha svelato il fenomeno dello “ sleep texting”, ossia l’invio di messaggini mentre si dorme. Coinvolgerebbe oltre un quarto dei giovani e, tra questi, il 72% ammette di non ricordare neppure, al risveglio, di averlo fatto. Il fenomeno rappresenterebbe una sorta di “sonno interrotto”, influenzando negativamente la qualità dello stesso.
Possiamo, e forse dobbiamo, guardare in positivo, al “bicchiere mezzo pieno” di una Sanità italiana che, pur tra limiti di bilancio e di personale, riesce a occuparsi quotidianamente delle persone più e meglio di quanto accada in larga parte del resto del mondo. Lo si deve all’impegno, alla preparazione e all’umanità di tantissimi professionisti. Ma lo si deve anche all’alto livello di attenzione da parte delle associazioni dei pazienti, nella loro incessante attività di controllo, e talora di denuncia, di quel che non va.
E su questo, l’elenco purtroppo è non solo esteso, ma anche in vistoso peggioramento, secondo l’ultimo rapporto annuale PIT Salute di Cittadinanzattiva – Tribunale del malato, ovvero la più estesa rete associativa italiana nel settore, tra l’altro da tempo mobilitata in campagne a sostegno del ricorso ai farmaci generici, proprio nel nome della qualità e dell’accessibilità dei farmaci. Dal rapporto emerge un numero crescente di cittadini, addirittura il 37,6%, che lamentano di non poter accedere di fatto ai servizi sanitari. Il dato è elaborato nell’arco dell’intero 2017 sulla base di migliaia di segnalazioni, e rappresenta un salto addirittura del 6% rispetto al solo anno precedente.
C’è un fenomeno in atto, un’autentica escalation, quella sul diabete, in particolare quello di tipo 1, “insulino-dipendente”, dai bambini ai giovani adulti, con proiezioni di una ulteriore netta crescita nei prossimi anni. Ė un fenomeno che si riscontra su scala europea e globale che, pur trovando alcune risposte, rilancia degli imperativi sul fronte della prevenzione, con qualche novità e conferma il permanere di qualche mistero sulle cause.
Intanto le cifre: in Europa questa forma di diabete risulta in crescita del 3,4% l’anno sicché, in assenza di inversioni di rotta, le persone affette raddoppieranno nell’arco di vent’anni. Lo svela uno studio internazionale, coordinato dall’Università nord-irlandese del Queen’s, a Belfast, al qualche ha contribuito anche l’italiano Valentino Cherubini, direttore di Diabetologia Pediatrica presso gli Ospedali Riuniti di Ancona. L’aumento è riscontrato in tutti i 22 Paesi dell’Unione Europea esaminati, con punte che arrivano al +6,6% in Polonia.
In Italia sono accertati circa 15mila pazienti con diabete 1 sotto i 15 anni, con un’incidenza di 14 nuovi casi l’anno su 100mila ragazzi, lievemente al di sotto della media europea, con la curiosa eccezione della Sardegna, terra studiata per le sue aree di alta longevità eppure particolarmente colpita da questa malattia che fa registrare nell’isola un’incidenza addirittura quadrupla rispetto al resto del Paese.
tag Forse non l’abbiamo ancora capito fino in fondo, ma se è il pianeta che ci ospita ad avere la febbre il danno è devastante per la nostra salute. Lo è già ai nostri giorni, e se non invertiamo la rotta, ma entro 20 anni saremo al non-ritorno, ricorda l’Istituto Superiore di Sanità, parlando addirittura di “Olocausto a fuoco lento”. E tra le conseguenze già accertate dei cambiamenti climatici c’è anche la depressione
La tendenza al disinteresse è per certi versi comprensibile, sembrano problemi che stanno al di sopra della nostra capacità di comprensione e controllo, oltre che del nostro piccolo vissuto. Dovremmo invece prenderne piena coscienza, specie nella “stagione delle influenze”, che è il pianeta ad “avere la febbre”, che ciò ha ricadute gravi per la salute, e che non si cambia seriamente rotta, a livello pubblico e privato, il danno può essere irreparabile.
“Si tratta, in un certo senso, di un Olocausto a fuoco lento”, la frase choc di Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), che ha promosso e ospitato il Convegno “Health and Climate Change”, alla vigilia di un altro consesso globale, la Conferenza Internazionale sul Clima, in Polonia, chiamata a dare qualche seguito all’Accordo di Parigi sul Clima, che già registra retromarce eccellenti (gli Stati Uniti) e soprattutto obiettivi già mancati in tema di emissioni inquinanti.