L’herpes labiale potrebbe non essere semplicemente un fastidioso disturbo che si presenta periodicamente e ripetutamente nel corso della vita. Quelle fastidiose vescicole che caratterizzano questa comune infezione, infatti, potrebbero essere collegate alla comparsa di patologie neurodegenerative, come il morbo d’Alzheimer. Uno studio dell’Università Sapienza di Roma, nei laboratori affiliati all’Istituto Pasteur Italia, in collaborazione con l’Istituto di Farmacologia traslazionale del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Roma, l’Università Cattolica-Fondazione Policlinico A. Gemelli IRCCS di Roma e l’IRCCS San Raffaele Pisana, ha dimostrato per a prima volta che le numerose recidive dell'infezione possono creare danni a carico del cervello. I risultati, pubblicati sulla rivista PLoS Pathogens, hanno aggiunto un importante tassello al filone di ricerca che da anni punta a chiarire il ruolo degli agenti microbici nell’insorgenza delle malattie neurodegenerative.
In quest’ultimo studio i ricercatori hanno dimostrato, nei topi, che riattivazioni ripetute del virus inducono la comparsa e l’accumulo nel cervello di biomarcatori di neurodegenerazione tipici della malattia di Alzheimer, quali il peptide beta-amiloide (principale componente delle placche senili), la proteina tau iperfosforilata (che forma grovigli neurofibrillari) e neuroinfiammazione. L’accumulo di questi biomarcatori molecolari di malattia si accompagna a deficit cognitivi che diventano irreversibili con l’aumentare del numero delle riattivazioni virali. “Le recidive delle ben note vescicole sono dovute al fatto che il virus si annida, in forma latente, in alcune cellule nervose situate fuori dal cervello”, spiega Anna Teresa Palamara del Dipartimento di Sanità pubblica e malattie infettive della Sapienza e coordinatrice dello studio. “In seguito a diverse condizioni di stress (quali ad esempio infezioni concomitanti, calo delle difese immunitarie, esposizione a radiazioni ultraviolette, ecc.) il virus si riattiva, va incontro a replicazione e successiva diffusione alla regione periorale. In alcuni soggetti – aggiunge Palamara – il virus riattivato può raggiungere anche il cervello producendo in quella sede danni che tendono ad accumularsi nel tempo”.
Il trapianto è una lotta contro il tempo. I minuti sono contati e il rischio che gli organi diventino inutilizzabili è sempre molto alto. Specialmente quando si tratta dei polmoni, che sono tra gli organi più delicati, oltre a essere i primi a deteriorarsi quando il cuore del potenziale donatore smette di fumare. Normalmente i polmoni possono resistere 6-8 ore in attesa di essere trapiantati. Ma grazie a un gruppo di esperti del Policlinico di Milano oggi sappiamo che è possibile allargare questa risicata finestra temporale e portarla a oltre 30 ore. Si tratta di un primato a livello mondiale, ottenuto combinando le classiche tecniche di raffreddamento a procedure per “ricondizionare” e preservare l’organo. Questo potenzialmente apre a una nuova via per candidare sempre più organi al trapianto, accorciando di conseguenza anche le liste d’attesa per i pazienti.
Il nuovo percorso per “allungare” la vita dell’organo da trapiantare è stato applicato ad un giovane paziente colpito da una insufficienza respiratoria terminale legata alla fibrosi cistica. Lo scorso febbraio il paziente ha ricevuto due nuovi polmoni. Un intervento chirurgico di per sé usuale. La vera particolarità è contenuta in due fattori strettamente connessi: il primo è che il donatore, un uomo cinquantenne, era “a cuore non battente di tipo non-controllato o inatteso”, una modalità che in Italia è ancora poco utilizzata; il secondo è che i polmoni non potevano essere trapiantati subito e questo ha costretto gli specialisti ad una corsa contro il tempo per evitare che si deteriorassero. Il successo è stato possibile grazie alla combinazione di tecniche per la preservazione e il ricondizionamento dell’organo, che hanno permesso di triplicare la resistenza dei polmoni fuori dal corpo del donatore nell’attesa di essere trapiantati.
C’è una pietanza che non dovrebbe mai mancare sulle nostre tavole, specialmente in quelle dove si servono gli anziani: sono i funghi. Consumarne, infatti, 300 grammi o più settimana potrebbe aiutarci a mantenere giovane il nostro cervello. Più precisamente, mangiarli abitualmente ridurrebbe oltre il 50 per cento il rischio di sviluppare un disturbo cognitivo minore, ovvero una forma di lieve declino mentale che, in alcuni casi, può evolvere in Azheimer. A suggerire questa gustosa strategia per combattere l’invecchiamento del cervello è uno studio della National University of Singapore, pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease.
Il deterioramento cognitivo lieve rappresenta una sindrome neurologica che fa riferimento ad un declino cognitivo superiore a quanto previsto per età e livello di istruzione di un individuo, ma che lascia preservate le principali attività della vita quotidiana. Di conseguenza può essere inteso come una fase intermedia tra il normale invecchiamento e la demenza vera e propria. Colpisce generalmente dai 60 anni d’età in poi con un’incidenza che può raggiungere il 25,2 per cento nella fascia di età 80-84 anni.
Un solo bersaglio per colpire una moltitudine di virus, anche quelli più letali. E’ la nuova strategia sviluppata dall’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia e dall’Università di Siena in uno studio pubblicato sul Journal of Medicinal Chemistry. I ricercatori hanno messo a punto una nuova famiglia di inibitori dell'enzima cellulare DDX3X, che si è dimostrato in grado di bloccare la replicazione del virus West Nile in cellule umane, senza danneggiare le cellule sane.
“Il virus di West Nile è trasmesso da zanzare presenti nel nostro paese, ed è responsabile in Italia di numerose infezioni ogni anno, anche con complicanze neurologiche gravi”, spiega Giovanni Maga dell’Igm-Cnr. “Inoltre questo virus infetta ogni anno milioni di persone in tutto il mondo. Ad oggi - continua - non esistono farmaci per combatterlo”. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo. Fra i casi sintomatici, circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, mal di testa, nausea, vomito, linfonodi ingrossati, sfoghi cutanei. Questi sintomi possono durare pochi giorni, in rari casi qualche settimana, e possono variare molto a seconda dell’età della persona. Nei bambini è più frequente una febbre leggera, nei giovani la sintomatologia è caratterizzata da febbre mediamente alta, arrossamento degli occhi, mal di testa e dolori muscolari. Negli anziani e nelle persone debilitate, invece, la sintomatologia può essere più grave. Non esiste una terapia specifica per la febbre West Nile.
Abbuffate di alcol per divertirsi e sballarsi. E’ una moda pericolosissima, sempre più diffusa tra i giovani, che non mette solo a rischio il cuore, ma anche i reni. A lanciare l’allarme sono stati gli esperti che si sono riuniti la settimana scorsa a Roma in occasione del congresso di Cardionefrologia. “L’eccesso di bevande alcoliche, specialmente consumate in quantità è un noto fattore di rischio di insufficienza renale”, spiega Luca di Lullo, dirigente medico presso l’U.O.C. Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale “L. Parodi – Delfino” di Colleferro (Roma) e responsabile scientifico dell’evento. “E il danno può facilmente diventare cronico anche in considerazione del fatto che le malattie renali sono silenti sino agli stadi più gravi”, aggiunge.
Il binge drinking è diventata una sorta di consuetudine tra i giovanissimi e i giovani, sino ai 24 anni d'età. E quasi sempre non conoscono i rischi che conoscono. “Tra i vari comportamenti, quello che preoccupa maggiormente la popolazione dei nefrologi - spiega di Lullo - sono i nuovi modelli del consumo di alcol diffusi tra i giovani, con in testa il cosiddetto ‘binge drinking’: le ‘abbuffate’ di alcol del fine settimana. Sei o più bicchieri assunti in una sola serata per cercare lo ‘sballo’ e la perdita di controllo ma trovando talora stati di intossicazione alcolica (più precisamente un consumo pari mediamente a 60 grammi di alcol, 5-6 Unità Alcoliche (UA) in cui una UA equivale a 12 grammi di alcol puro)”.
Il rimedio contri i malanni dell’invecchiamento maschile si potrebbe celare in un semplice fagiolo. Più precisamente in un estratto, utilizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova per creare un nuovo prodotto in grado di curare i sintomi dell'andropausa. Si tratta di un nuovo principio nutraceutico che si è dimostrato capace di contrastare il calo del testosterone, l’osteoporosi e la sindrome metabolica, tutti disturbi a cui gli uomini sono esposti dopo gli “anta”. L’annuncio è stato dato durante il trentaquattresimo convegno di Medicina della Riproduzione che si è tenuto qualche settimana fa ad Abano Terme, nel Padovano.
Dopo otto anni di duro lavoro, i ricercatori padovani hanno dimostrato che l’osteocalcina, proteina prodotta dall’osso ha una influenza positiva su molte strutture dell’organismo. “In particolare stimola la produzione di testosterone – spiega Carlo Foresta, docente dell’ateneo padovano che ha coordinato lo studio – ma anche l’attivazione della vitamina D, aumenta il rilascio di insulina e persino la sensibilità periferica all’insulina stessa, concorrendo a limitare e a curare gli effetti della sindrome metabolica”. I ricercatori, studiando il recettore attraverso il quale l’osteocalcina determina questi effetti, hanno isolato la piccola porzione della proteina (appena 21 amminoacidi) che interagisce ed attiva i meccanismi recettoriali. Questa scoperta ha consentito di sintetizzare in laboratorio il peptide attivante che è risultato essere in grado di determinare gli stessi effetti dell’osteocalcina sull’osso, sulla secrezione di insulina, sulle cellule adipose e sulla produzione di testosterone.
Se la salute degli anziani è generalmente più fragile la colpa potrebbe celarsi in una sorta di “guasto” nel midollo osseo, che in futuro potrebbe essere “riparato”. A indagare su questa affascinante ipotesi è uno studio della Fondazione MultiMedica, descritto nel corso del convegno “L’anziano fragile: dai meccanismi molecolari alla presa in carico clinica”, che si è tenuto qualche giorno fa presso l’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni. In particolare, i ricercatori intendono dimostrare che la fragilità dell’anziano dipende la disfunzione delle cellule rigenerative contenute nel midollo osseo e che il processo potrebbe essere reversibile: con adeguati interventi nutrizionali e di esercizio fisico, le cellule riparative potrebbero tornare ad aumentare, indicando un recupero della funzionalità midollare.
Oggi in Europa i 65enni rappresentano il 16 per cento della popolazione. Si stima diventeranno il 22 per cento entro il 2031, che corrisponde a circa 137 milioni di persone. Il progressivo invecchiamento della popolazione è un fenomeno demografico che preoccupa, a causa dell’aumento atteso di malattie legate alla terza età. Ma anche molti anziani “sani” sono spesso fuori forma, non autosufficienti e incapaci di far fronte ai cambiamenti della vita e allo stress, sperimentando la cosiddetta “sindrome della fragilità geriatrica”, un decadimento funzionale e cognitivo che contribuisce ad aumentare il rischio di malattia e di morte, e che finisce con l’assorbire un’ampia fetta di risorse del sistema sanitario nazionale. I meccanismi alla base di questa condizione, che affligge il 15% degli over 65 italiani, sono ancora avvolti da molta incertezza. L’ipotesi al vaglio dallo studio della Fondazione MultiMedica Onlus, con il supporto di Fondazione Cariplo, è che un midollo osseo “guasto”, in cui le cellule riparative non funzionano più come dovrebbero, sia la causa della fragilità e quindi di un invecchiamento in qualche modo accelerato.
Ogni 10 minuti una donna muore a causa di un problema al cuore. Eppure, la stragrande maggioranza ignora che le malattie cardiovascolari sono il killer numero uno del gentil sesso, nonostante gli esperti concordino che l’80 per cento degli eventi cardiaci potrebbe essere prevenuto. Per sensibilizzare le donne alla cura del cuore è stata lanciata la campagna di informazione “Vivi con il Cuore”, promossa dalla Società italiana di cardiologia (Sic).
Nel frattempo il Centro Cardiologico Monzino ha annunciato i dati dei primi due anni di attività di Monzino Women, il progetto dedicato alla prevenzione cardiovascolare nella donna. Dai risultati si evince che almeno una su quattro ha un rischio cardiovascolare elevato.
Ai fattori di rischio più noti, come colesterolo, fumo, ipertensione, diabete, obesità, si aggiungono livelli preoccupanti di depressione, ansia, stress, che a loro volta innalzano ulteriormente il pericolo di andare incontro a un evento cardiovascolare; troppo spesso senza che la donna lo sappia. “In due anni abbiamo seguito 320 donne, tutte senza sintomi evidenti, né precedenti eventi cardiovascolari, con un’età media di 50 anni: nel 25 per cento dei casi lo screening ha rilevato un profilo di rischio medio-alto, tale da rendere necessario ricorrere a una terapia o a correzioni di stile di vita”, dichiara Daniela Trabattoni, responsabile di Monzino Women. “I dati evidenziano un quadro che merita tutta la nostra attenzione: 63 donne - pari al 20 per cento del totale - sono state indirizzate a una terapia soprattutto per abbassare il colesterolo, normalizzare i livelli pressori o ridurre l’omocisteina, un indice infiammatorio indicatore di sviluppo di malattia aterosclerotica, che si rileva con semplici esami del sangue e si normalizza con una cura a base di vitamina B e acido folico”, aggiunge.
La salute del cuore però è anche una questione di mente. “La nostra Unità di Psicocardiologia ha evidenziato nel 10 per cento delle donne che si sono rivolte a Monzino Women livelli di depressione, ansia e stress così elevati da aggravare il loro profilo di rischio cardiovascolare; in questi casi le donne sono state indirizzate verso una terapia psicologica e/o farmacologica”, dice Trabattoni. “La nostra esperienza indica l’aspetto psicologico come il fattore di rischio cardiovascolare maggiormente in crescita nel mondo femminile e non è problema secondario”, aggiunge. Diversi studi dimostrano infatti che stress, ansia, depressione sono un pericolo maggiore per le donne rispetto agli uomini: i vasi periferici femminili in condizioni di stress prolungato, invece di dilatarsi e consentire un maggiore afflusso di sangue al cuore, si restringono ostacolando il flusso sanguigno e ciò si traduce in un maggiore rischio di ischemia e infarto.
Nel 5 per cento delle donne visitate, infine, è stata riscontrata una malattia già in atto: coronaropatia, patologia carotidea o aritmia, che sono state curate. “Un dato da non sottovalutare, se consideriamo che stiamo parlando di donne che credevano di stare bene”, sottolinea Trabattoni. “Del resto, abituate a sopportare il dolore e a pensare, erroneamente, che la malattia cardiovascolare sia più un problema maschile, le donne troppo spesso si trascurano e arrivano dal cardiologo troppo tardi”, conclude.
C’è uno strettissimo legame tra il diabete e il mal di schiena. Uno studio dell’Università di Sidney ha scoperto infatti che coloro che hanno il diabete hanno maggiori probabilità di soffrire di mal di schiena e dolore al collo. I risultati, pubblicati sulla rivista Plos One, suggeriscono la necessità di nuove ricerche che abbiano lo scopo di verificare le origini di questa associazione.
Il mal di schiena affligge milioni di persone in Italia e nel mondo. Circa la metà delle persone adulte prova tale dolore almeno una volta nella vita. Il mal di schiena colpisce soprattutto le persone dopo i 40 anni e maggiormente il sesso femminile. Il diabete è, invece, una condizione cronica sempre più diffusa, che si stima colpisca oltre 425 milioni nel mondo, 52 milioni in Europa, 5 milioni in Italia. Nel corso dello studio i ricercatori australiani hanno esaminato i risultati di otto indagini precedenti, che avevano analizzato la relazione tra il diabete di tipo 1 o di tipo 2 con il mal di schiena e il dolore al collo. Al termine dell’analisi, hanno scoperto che le persone affette da diabete correrebbero un rischio maggiore del 35 per cento di soffrire di lombalgia e un pericolo più alto del 24 per cento di soffrire di dolore al collo rispetto ai non diabetici.
Non sono solo nemici della fertilità e della virilità dell’uomo. Ma sono anche pericolosi per la salute riproduttiva della donna. I composti perfluorurati (Pfas), sostanze chimiche di sintesi che vengono utilizzate per rendere resistenti ai grassi e all’acqua tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti, interferiscono con la funzione del progesterone, l’ormone femminile che regola la funzione dell’utero. Di conseguenza potrebbero contribuire allo sviluppo di patologie riproduttive femminili, come alterazioni del ciclo mestruale, endometriosi e aborti, nati pre-termine e sottopeso. A questo risultato allarmante, considerato ad esempio che i Pfas hanno contaminato le falde acquifere di diverse zone del Veneto, è giunto il gruppo di ricerca dell’Università di Padova, coordinato da Carlo Foresta e da Andrea Di Nisio.
Quattro mesi fa era stata diffusa la prima scoperta del gruppo padovano, quella che definiva il meccanismo attraverso il quale i Pfas alterano lo sviluppo del sistema uro-genitale del maschio e la fertilità interferendo con l’attività del testosterone. Sostanzialmente, l’organismo li scambia per ormoni: inevitabilmente mutano l’azione delle ghiandole endocrine, causando una serie di malattie. Dopo quella pubblicazione sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, ora i ricercatori annunciano che neanche le donne sono al sicuro dai Pfas. Ci sono voluti due anni di lavoro per valutare l’effetto di queste sostanze chimiche sul progesterone in cellule endometriali in vitro. Così i ricercatori hanno dimostrato che, su più di 20mila geni analizzati, il progesterone normalmente ne attiva quasi 300, ma in presenza di Pfas 127 vengono alterati e tra questi quelli che preparano l’utero all’attecchimento dell’embrione e quindi alla fertilità.
Sia che la si assuma tramite il fumo delle sigarette tradizionali che attraverso i vapori delle sigarette elettroniche, la nicotina può essere considerata come una sorta di cavallo di Troia della cannabis. Uno studio dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano, in collaborazione il Dipartimento Biometra delle Università degli Studi di Milano e di Modena-Reggio Emilia, a cui hanno preso parte anche ricercatori finanziati dalla Fondazione Zardi-Gori, ha scoperto che il consumo di nicotina è davvero predittivo per il futuro consumo di cannabis perché ne aumenta la gratificazione. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista European Neuropsychopharmacology.
“Tabacco e marijuana sono le sostanze usate più comunemente dagli adolescenti a scopo ricreativo, spesso in associazione tra loro, e la frequenza dell’uso della seconda è associata alla dipendenza da nicotina, la principale sostanza d’abuso presente nel tabacco”, dice Cecilia Gotti dell’Istituto di neuroscienze del Cnr. “Inoltre, il lavorosperimentale dei coniugi Eric (già vincitore del premio Nobel) e Denise Kandel del Department of Neuroscience, della Columbia University NY, ha posto le basi molecolari per capire come la nicotina possa abbassare la soglia per la dipendenza da altre sostanze, come marijuana e cocaina (cosiddetto effetto gateway)”, aggiunge.
Essere mattinieri conviene più che essere “animali notturni”. Le “allodole”, coloro che vanno a letto presto e che si svegliano alle prime luci dell’alba, vantano performance mentali migliori. Rispetto ai “gufi”, quelli che la mattina faticano a svegliarsi e la sera vanno a letto tardi, i mattinieri fanno meglio a scuola e a lavoro. Questo perché il cervello delle “allodole” funziona meglio di quello dei “gufi”. A dimostrarlo, per la prima volta, è stato uno studio della University of Birmingham (Regno Unito) in uno studio pubblicato sulla rivista Sleep.
I risultati mostrano che le persone che amano fare le ore piccole tendono ad avere minori connessioni nervose tra le regioni neurali legate allo stato di coscienza, alla soglia di attenzione, ai tempi di reazione. E tendono ad avvertire maggiore sonnolenza durante il giorno.
Che la memoria e la capacità di ragionamento rallentassero naturalmente con l’avanzare dell’età era noto già da tempo, ma ora gli scienziati hanno scoperto che la depressione può contribuire ad accelerare questo inevitabile processo.
Un gruppo di ricercatori della Yale University ha utilizzato una nuova tecnica di scansione cerebrale per dimostrare che la densità sinaptica, ovvero la quantità di connessioni nel cervello, inizia a diminuire con 10 anni di anticipo nelle persone depresse. In sostanza, se in assenza di depressione il cervello inizia a invecchiare a 50 anni d’età, in presenza della malattia si comincia a 40. Con conseguenze significative sulla qualità della vita.
Janet Osborne, 80 anni, di Oxford, è diventata la prima persona al mondo ad essere sottoposta a una terapia genica con lo scopo di fermare la forma più comune di cecità nel mondo occidentale, la degenerazione maculare senile. Alla donna è stato iniettato un gene sintetico nella parte posteriore dell’occhio per impedire alle cellule di morire. Si tratta del primo trattamento mirato per colpire la causa genetica alla base della degenerazione maculare legata all'età.
Ascoltare la musica in cuffia non è così innocuo come molti possono immaginare. Anzi, potrebbe essere una delle principali cause che sta portando molti giovani e giovanissimi a subire gravi danni all’udito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’International telecommunication union (Uti), circa la metà delle persone di età compresa tra i 12 e i 35 anni d’età rischia l’udito. Sono oltre un miliardo di giovani. Troppi. Talmente tanti che l’Oms e l’Itu hanno emesso un nuovo standard internazionale per la produzione e l’uso di dispositivi come smartphone e lettori audio, in modo da renderli più sicuri per l'ascolto. E lo hanno annunciato in vista della Giornata mondiale dell’udito, che si celebra ogni anno il 3 marzo, con lo scopo di sensibilizzare alla prevenzione della sordità e ai problemi di udito, promuovendo la salute dell’orecchio.
La ricerca di una cura per l’Alzheimer potrebbe passare per strade inaspettate. Come l’intestino di uno squalo, dove si cela una molecola dagli effetti straordinari su una proteina coinvolta nella malattia neurodegenerativa. Si tratta della trodusquemina, chiamata anche MSI-1436, le cui potenzialità per il trattamento dell’Alzheimer sono state scoperte da uno studio del Dipartimento di Chimica dell’Università di Cambridge, a cui hanno partecipato anche ricercatori italiani. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Communications, dimostrano che la trodusquemina blocca l’effetto neurotossico degli aggregati di Beta-amiloide (A Beta-42), coinvolti nella patogenesi dell’Alzheimer.
Ci sono bambini che per predisposizione genetica hanno un metabolismo "risparmiatore", cioè bruciano meno calorie di quante dovrebbero. Sono bambini che quindi hanno più probabilità di diventare obesi e su cui è possibile intervenire con mirate misure di prevenzione. Ad aprire questa nuova strada per contrastare l'epidemia d'obesità globale in atto è stato uno studio condotto dall’Università di Pisa e del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases del Maryland. I risultati, pubblicati sulla rivista Metabolism Clinical and Experimental, indicano che è possibile determinare il rischio obesità di una persona durante l'infanzia, già a dieci anni d'età, correlando la misura del metabolismo basale e l’aumento di peso durante l’adolescenza.
Intestino e cervello sono strettamente collegati: comunicano e si influenzano tramite canali che sono ancora misteriosi. Non sappiamo come, quindi, ma ci sono interessanti evidenze che i batteri che popolano l’intestino sono associati alla salute mentale di una persona. Uno studio dell’Università di Lovanio (Belgio), infatti, ha evidenziato che la carenza di due specifici batteri intestinali - coprococcus e dialister - potrebbe predisporre alcuni individui a soffrire di depressione. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Microbiology, non indicano se la flora intestinale è la causa della depressione o viceversa. Ma hanno dimostrato che la composizione della flora intestinale è collegata ai disturbi depressivi
Lo studio è stato condotto su due campioni indipendenti, ognuno composto da oltre mille persone. Nella prima parte dello studio sono stati coinvolti 1.054 individui, 173 dei quali avevano ricevuto una diagnosi di depressione o avevano ottenuto punteggi bassi in un test che avevano come obiettivo quello di valutare la qualità di vita. Gli scienziati hanno analizzato quindi il microbiota di tutti i partecipanti, scoprendo che le due specie - coproccus e dialister - erano presenti nelle persone soddisfatte della propria vita, mentre erano assenti nelle persone con depressione. Il risultato è stato confermato anche dopo aver preso in considerazione altre variabili che avrebbero potuto influenzare i risultati, come l'età, il sesso o l'uso di antidepressivi.
Cannabis sì o cannabis no? E’ l'annoso dilemma sull’opportunità o meno di utilizzare per scopi medici questa controversa sostanza. Una questione ancora tutta aperta che la scienza non è ancora riuscita a dirimere. Tantissimi gli studi, diverse le conclusioni e poche certezze. I pregiudizi, poi, hanno reso tutto più difficile e complicato. Sappiamo infatti che la cannabis può avere importanti effetti benefici contro alcune condizioni, ma nel nostro paese è poco sfruttata per timore di eventi avversi. Per questo l’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) ha dato vita al primo Gruppo Aperto di Studio sulla Cannabis ad uso medico. L’idea è quella di fare chiarezza sugli effetti clinici, farmacologici, produttivi e normativi dei farmaci a base di cannabis.
Non è sempre facile riuscire a individuare una malattia. Anche quando è talmente grave, come lo sono alcune patologie genetiche e rare, da impedire a un bambino di vivere e crescere normalmente. Non conoscere il nemico significa non sapere cosa fare per sconfiggerlo. In molti casi un’analisi genomica può risolvere il problema. Si tratta di un test molto complesso che solo nel 2000, alla conclusione del Progetto Genoma Umano aveva un costo di circa 100 milioni di dollari e richiedeva lunghi mesi di attesa prima di avere i risultati. Negli ultimi anni le cose sono cambiate: i tempi e i costi si sono ridotti. Oggi ci sono tecnologie avanzate più rapide e a costi competitivi. Come NovaSeq 6000 System, la piattaforma che l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha recentemente presentato. Questa tecnologia è in grado di effettuare in poche ore il sequenziamento contemporaneo di 384 esomi, cioè della parte codificante del genoma nel quale sono localizzati i geni, a costi competitivi rispetto alle tradizionali analisi di singoli geni e famiglie di geni (pannelli).