Il tema resta aperto, anzi spalancato, perché per avere riscontri seri serve il lungo periodo, tanto più in un ambito in così recente e a velocissima crescita quale l’uso dei cellulari. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ammette che “sono necessari ulteriori approfondimenti”. Proprio per questo, tuttavia, desta interesse l’ampiezza, anche temporale, di uno studio australiano, che sembra fugare almeno parte delle preoccupazioni più gravi.
Gli esiti sono pubblicati sulla rivista Bmj Open, la ricerca è stata condotta dall’Università di Sidney sotto il coordinamento dell’Australian Radiation and Nuclear Safety Agency (Arpansa). E sono risultati che sembrano chiamare al cessato allarme. Il campione è esteso, quasi 17mila australiani tra i 20 e i 59 anni, seguiti nel loro decorso clinico dal 1982 al 2013, con particolare riferimento all’ipotesi di un’incidenza sui tumori cerebrali.
Provate un semplice esperimento, andate sul collettore “Google News” e inserite nella ricerca due semplici parole, “salute” e 2019”. L’esito non lascia spazio a dubbi: a trionfare largamente saranno gli oroscopi. E se volete approfondire, sbirciandone i pronostici, potrete divertirvi a prendere atto di quanto essi divergano, spesso radicalmente. Qualche esempio tra gli astrologi più seguiti: Ada Alberti vede un anno particolarmente benefico per i “nati in marzo”; Branko prevede invece “salute e benessere al top per il Leone”; altri ancora esaltano il Sagittario, con un “luglio in grande ripresa”.
Tra curiosità e qualche ilarità, il tema comunque appare piuttosto serio. Se perfino sulla principale e “fisica” delle preoccupazioni, ossia la salute (come periodicamente documentato dai dati dello stesso Google), le persone si rivolgono massicciamente agli oroscopi c’è qualcosa che non torna, e chiama alla responsabilità ciascuno di noi, a iniziare da chi cerca di comunicare le conoscenze medico-scientifiche.
“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare”, si legge nella Genesi, e questo ci ricorda come il “digiuno” sia stato il primo comandamento impartito dall’umanità. Vale nella cristianità, così come nel Ramadam musulmano o nello Yom Kippur ebraico. Anzi, a ben vedere, non c’è religione al mondo, inclusi perfino politeismi come nell’induismo, che non collochi il rapporto con il cibo e qualche forma di “rinuncia” al centro della spiritualità, ovvero della relazione con la divinità, quanto del proprio benessere psico-fisico.
Tendiamo a non ricordarcene, in effetti, specie dalle nostre parti, e, nel contesto delle grandi abbuffate natalizie, può suonare ad alcuni perfino risibile. Così si sbaglia, e su vari fronti. Sul piano religioso, per chi crede, esisterebbe anche una “Quaresima Natalizia”, un po’ meno cogente di quella Pasquale, ma comunque ricca di sacrifici, e anche qui per 40 giorni. Di essa resiste oramai solo una parziale abitudine, quella di lasciar stare la carne nel giorno della Vigilia.
Il grandissimo, oramai 75enne, Keith Richards, racconta che era solito coricarsi con una chitarra e un registratore accanto per non perdersi nulla della sua creatività notturna, e cioè per poter concretamente registrare quel che gli veniva in testa. Lo ricorda un documentario della Bbc che, al di là dei casi-limite e di qualche mitologia, rilancia il tema dei benefici del sonno, perfino “economici”. Da uno studio britannico emerge che i giovani che guadagnano di più sono quelli che dormono di più, e non di meno. Specularmente, la carenza di sonno rappresenterebbe un costo conteggiato addirittura a circa il 2% del Pil.
Se però, invece di una chitarra (o di un libro, o qualsiasi cosa capace di cullare il nostro riposo), ci addormentiamo con uno smartphone il tema si rovescia, arrivando anche a “effetti collaterali” piuttosto inquietanti. Una ricerca americana su centinaia di studenti medi e universitari ha svelato il fenomeno dello “ sleep texting”, ossia l’invio di messaggini mentre si dorme. Coinvolgerebbe oltre un quarto dei giovani e, tra questi, il 72% ammette di non ricordare neppure, al risveglio, di averlo fatto. Il fenomeno rappresenterebbe una sorta di “sonno interrotto”, influenzando negativamente la qualità dello stesso.
Possiamo, e forse dobbiamo, guardare in positivo, al “bicchiere mezzo pieno” di una Sanità italiana che, pur tra limiti di bilancio e di personale, riesce a occuparsi quotidianamente delle persone più e meglio di quanto accada in larga parte del resto del mondo. Lo si deve all’impegno, alla preparazione e all’umanità di tantissimi professionisti. Ma lo si deve anche all’alto livello di attenzione da parte delle associazioni dei pazienti, nella loro incessante attività di controllo, e talora di denuncia, di quel che non va.
E su questo, l’elenco purtroppo è non solo esteso, ma anche in vistoso peggioramento, secondo l’ultimo rapporto annuale PIT Salute di Cittadinanzattiva – Tribunale del malato, ovvero la più estesa rete associativa italiana nel settore, tra l’altro da tempo mobilitata in campagne a sostegno del ricorso ai farmaci generici, proprio nel nome della qualità e dell’accessibilità dei farmaci. Dal rapporto emerge un numero crescente di cittadini, addirittura il 37,6%, che lamentano di non poter accedere di fatto ai servizi sanitari. Il dato è elaborato nell’arco dell’intero 2017 sulla base di migliaia di segnalazioni, e rappresenta un salto addirittura del 6% rispetto al solo anno precedente.
C’è un fenomeno in atto, un’autentica escalation, quella sul diabete, in particolare quello di tipo 1, “insulino-dipendente”, dai bambini ai giovani adulti, con proiezioni di una ulteriore netta crescita nei prossimi anni. Ė un fenomeno che si riscontra su scala europea e globale che, pur trovando alcune risposte, rilancia degli imperativi sul fronte della prevenzione, con qualche novità e conferma il permanere di qualche mistero sulle cause.
Intanto le cifre: in Europa questa forma di diabete risulta in crescita del 3,4% l’anno sicché, in assenza di inversioni di rotta, le persone affette raddoppieranno nell’arco di vent’anni. Lo svela uno studio internazionale, coordinato dall’Università nord-irlandese del Queen’s, a Belfast, al qualche ha contribuito anche l’italiano Valentino Cherubini, direttore di Diabetologia Pediatrica presso gli Ospedali Riuniti di Ancona. L’aumento è riscontrato in tutti i 22 Paesi dell’Unione Europea esaminati, con punte che arrivano al +6,6% in Polonia.
In Italia sono accertati circa 15mila pazienti con diabete 1 sotto i 15 anni, con un’incidenza di 14 nuovi casi l’anno su 100mila ragazzi, lievemente al di sotto della media europea, con la curiosa eccezione della Sardegna, terra studiata per le sue aree di alta longevità eppure particolarmente colpita da questa malattia che fa registrare nell’isola un’incidenza addirittura quadrupla rispetto al resto del Paese.
tag Forse non l’abbiamo ancora capito fino in fondo, ma se è il pianeta che ci ospita ad avere la febbre il danno è devastante per la nostra salute. Lo è già ai nostri giorni, e se non invertiamo la rotta, ma entro 20 anni saremo al non-ritorno, ricorda l’Istituto Superiore di Sanità, parlando addirittura di “Olocausto a fuoco lento”. E tra le conseguenze già accertate dei cambiamenti climatici c’è anche la depressione
La tendenza al disinteresse è per certi versi comprensibile, sembrano problemi che stanno al di sopra della nostra capacità di comprensione e controllo, oltre che del nostro piccolo vissuto. Dovremmo invece prenderne piena coscienza, specie nella “stagione delle influenze”, che è il pianeta ad “avere la febbre”, che ciò ha ricadute gravi per la salute, e che non si cambia seriamente rotta, a livello pubblico e privato, il danno può essere irreparabile.
“Si tratta, in un certo senso, di un Olocausto a fuoco lento”, la frase choc di Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), che ha promosso e ospitato il Convegno “Health and Climate Change”, alla vigilia di un altro consesso globale, la Conferenza Internazionale sul Clima, in Polonia, chiamata a dare qualche seguito all’Accordo di Parigi sul Clima, che già registra retromarce eccellenti (gli Stati Uniti) e soprattutto obiettivi già mancati in tema di emissioni inquinanti.
L’Italia è tra i Paesi più colpiti dal melanoma, ma presenta anche il “case study” di una notevole discrepanza territoriale, a scapito, stavolta, delle Regioni del Nord. Questione di meno “fototipi” protettivi della pelle. La patologia risulta in insidiosa crescita, ma ad aumentare sono anche le possibilità di cura, a iniziare dall’immunoterapia. A Napoli un Convegno internazionale ha fatto il punto sui progressi in materia
Rappresenta il 4% delle neoplasie della pelle, ma è responsabile dell’80% delle morti per cancro della cute. Soprattutto, il melanoma è in rapida crescita, più di quasi tutti gli altri tumori, anche e in particolare nel nostro Paese, sebbene con rilevanti differenze regionali, che per una volta penalizzano non il Mezzogiorno, bensì il Nord Italia. Nel pianeta, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima circa 132mila nuove diagnosi l’anno, con un incremento intorno al 30% nell’ultimo decennio.
E colpisce piuttosto selettivamente, con percentuali che s’impennano soprattutto in Oceania e nei Paesi del centro-nord Europa. L’Italia rientra tra le aree più colpite, con quasi 14mila casi annui, e circa duemila decessi. E palesa un’accelerazione ancor più rapida, considerando che nel 2007 le diagnosi sono state la metà di quelle odierne. I dati sono stati ricordati dalla Fondazione Melanoma, che ha organizzato nei giorni scorsi il convegno internazionale “Immunotherapy Bridge”, con la partecipazione di oltre 200 esperti da tutto il mondo.
“Risultati paradigmatici di una crisi della salute mentale dei giovani”. L’allarme degli scienziati sui disturbi del sonno tra i giovani, in rapido aumento. Il problema coinvolge comunque tutte le età, e anzi tende a crescere nel tempo, con una netta prevalenza femminile. Dormire poco comporta rischi anche cardiovascolari ma, attenzione, essi si manifestano anche quando si dorme “troppo”.
Il riposo sarebbe perfino un diritto costituzionale (articolo 36) eppure un numero crescente di persone fatica a trarne quel godimento e giovamento così essenziale per la salute. E se il problema coinvolge i giovani l’allarme suona altissimo, e appare sintomatico di qualcosa che davvero non va, a un livello profondo e collettivo.
Il tema è rilanciato da una ricerca dell’Istituto di Salute Pubblica Norvegese, che documenta come oltre un terzo delle studentesse universitarie e quasi un quarto degli studenti soffrano di insonnia. Emerge inoltre che raramente i giovani raggiungano nei giorni feriali la soglia generalmente consigliata di otto ore a notte, anche se nel fine settimana si riscontra un recupero. Il quadro più preoccupante è nella tendenza temporale: oggi i i giovani con sonno “problematico” sono il 30,5%; solo otto anni fa, all’esito di uno studio analogo, erano molti di meno, il 22,6%.
“Bastano due dita al polso” per accertare l'eventuale presenza della fibrillazione atriale. La campagna è lanciata dalla Onlus Alt su un'aritmia che coinvolge circa due milioni di italiani, che in larga parte sono ignari di soffrirne, sebbene possa condurre a conseguenze assai gravi. Essenziale dunque potenziarne la diagnosi, che in effetti è assai semplice.
Nel raccontare e denunciare i guasti e i limiti della Sanità italiana non vanno omesse le buone notizie. Per esempio, il capitolo sulle “morti evitabili” nell’ultimo Rapporto dell’Ocse, “Health at Glance”. Emerge, su dati del 2015, un fenomeno in realtà raccapricciante, in quanto i decessi che si potrebbero evitare con migliori politiche di salute pubblica (dalla prevenzione alla cura) sarebbero ben 1,2 milioni l’anno a livello europeo. L’Italia risulta tuttavia in vetta ai Paesi più virtuosi, specie in riferimento alle patologie cardiovascolari, che restano le più letali.
Insomma, pur tra mille difficoltà, c’è una Sanità che ancora funziona e si cura efficacemente di noi. E lo si deve anzitutto alle persone, dalla qualità dei professionisti del settore – medici, infermieri, produttori farmaceutici, farmacisti – al gran cuore di tantissimi, pazienti inclusi, anche con la sponda di rilevanti e combattive realtà associative.
Il commercio on-line è in rapida crescita anche sui farmaci. A dilagare è però anche la contraffazione, che coinvolge circa la metà degli acquisti in rete, generando alti rischi sanitari. Ė allora essenziale conoscere i limiti di legge: si possono vendere sul web solo farmaci non soggetti a prescrizione, possono farlo solo le farmacie e gli esercizi autorizzati, e allo stesso prezzo praticato nelle loro sedi. Quando ciò non avviene, si entra nell’illegalità
Sulla salute non si scherza, mentre la cronaca è allarmante. Solo in una recente operazione dei Nas sono state sequestrate in tutta Italia circa 111mila confezioni di medicinali venduti illegalmente sul web, nonché un’enormità di offerte di prestazioni mediche da parte di persone non abilitate alla professione, con l’esito complessivo di ben 256 denunciati. E si tratta solo della punta dell’iceberg di un problema vastissimo, tant’è che l’Aifa ha stimato che circa la metà dei medicinali venduti in rete è contraffatta. “Un business che rende più di quello della cocaina”, avvertono gli inquirenti del settore.
Ad alimentare il fenomeno è il boom generalizzato degli acquisti on-line (che sta mettendo in seria difficoltà gli esercenti di ogni settore) e la moltiplicazione delle informazioni nell’era digitale, anche e soprattutto sulla salute. Si calcola che almeno una ricerca su 20 tramite Google riguarda l’ambito health. Non sempre l’obiettivo è “di consumo”, in larga parte le persone cercano solo risposte alle esigenze, proprie o di familiari e amici, di cura. Ma il rischio inizia qui perché, se le fonti e i contenuti di qualità non mancano, ad abbondare sono però anche i “santoni” e le “fake news”.
Il dolore espone all’alto rischio di pesanti ricadute psicologiche, motivo in più per trattarlo con la massima attenzione. Lo ha ricordato nei giorni scorsi, col supporto di nuovi dati in materia, l’Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare (Apmar ), al 55esimo Congresso nazionale della Società Italiana di Reumatologia.
“Il 65% delle donne e il 59% degli uomini che convivono con una malattia reumatica devono fare i conti anche con ansia e depressione, perlopiù conseguenze del dolore quotidiano”, ha spiegato la presidente di Apmar, Antonella Celano, illustrando l’esito di una ricerca condotta su oltre un migliaio di pazienti, e ricordando il pesantissimo impatto del dolore sulla qualità della vita personale e lavorativa.
Tra gli aspetti significativi dell’approfondimento emergono un paio di questioni di genere. Anzitutto, si conferma non solo la prevalenza femminile, ma anche la gravità degli effetti. A soffrire di malattie reumatiche sono in due casi su tre le donne. E il 30% dichiara di aver riscontrato un peggioramento della propria salute negli ultimi dodici mesi, proporzione che scende al 23% tra gli uomini.
Questi ultimi peraltro lamentano una problematica specifica. Ammettono cioè serie difficoltà ad affrontarla, specie sul luogo di lavoro. Uno su due nemmeno parla dei diritti che gli spetterebbero per legge, tra “pudori” psicologici e il timore di perdere la propria occupazione o magari di diventare vittima di qualche sorta di mobbing.
Questo viene riassunto dall’Apmar nell’esigenza, tra l’altro, di una “medicina di genere”, dinanzi al dolore e alle malattie reumatiche. Si tratta di uno dei molti aspetti dell’approccio “personalizzato” e “integrato”, da tempo perorato in ogni “linea guida” sulla terapia antalgica. Lo reclamano, largamente inascoltate, tutte le realtà associative che si occupano di dolore, lo spiegano i portali specializzati, perfino alcuni libri recenti : il nemico numero uno della lotta al dolore è il silenzio. Ė un problema che chiama alla responsabilità la collettività e ciascuno, a iniziare dai professionisti della salute e dagli stessi pazienti.
Togliamoci dalla testa che possiamo lavorare o vivere in “multi-tasking”. Ė una sciocchezza, rilanciata in questi anni dalla “rivoluzione digitale”, c soprattutto da quegli smartphone che ci danno l’illusione di avere sotto controllo, non solo genericamente “il mondo”, ma la totalità degli impegni quotidiani. Il che è un po’ vero, sul piano dell’informazione incassata. Ma non sulla nostra capacità di affrontarli. Qualsiasi psicologo, psichiatra o antropologo può dimostrare come noi esseri umani non siamo divinità onnipotenti: possiamo concentrarci e affrontare un solo tema alla volta.
Il che non è una “riduzione” rispetto alla fatica delle persone, tantissime, che devono affrontare una pluralità di problematiche contemporaneamente. Si pensi anzitutto alle donne, che gestiscono lavoro, casa, figli e, sempreché qualcosa rimanga, loro stesse. Al contrario, ne avvalora l’enorme sforzo, perché si tratta di “saltare” da un “pensiero” all’altro, ciascuno dei quali meritevole della massima attenzione.
Il tema - squisitamente sanitario - è stato approfondito dall’Università americana del Michigan con una pubblicazione su Psycological Science. “Il multi-tasking è un’illusione”, confermano gli studiosi, che però hanno notato anche qualcos’altro, in apparente contraddizione: quell’illusione costituirebbe uno stimolo per le prestazioni cognitive.
A confermarlo i risultati di uno studio realizzato sottoponendo 162 persone a una serie di test (una raccolta di informazioni da un video divulgativo di una rete televisica, Animal Planet, nonché a una sorta di cruciverba). Ebbene, chi credeva di essere in una situazione “multi-funzionale” raggiungeva mediamente prestazioni assai migliori degli altri, non solo in quantità ma anche in quantità.
Ne emerge un paradosso. C’è una letteratura dilagante, scientifica e/o divulgativa, che spiega i rischi cognitivi degli “eccessi”, soprattutto in materia di frequentazione digitale quotidiana: alienazione, calo di concentrazione e apprendimento legato alla “facilità” dell’informazione, alienazione, depressione associata alla perdita di empatia. Quel che emerge ora è che però la percezione del “multi-tasking” può avere un effetto positivo sulle facoltà cerebrali. Un’illusione, come detto, ma è un’illusione che ci sollecita. L’evidenza scientifica ci dice che possiamo concentrarci solo a una cosa alla volta. Ma ora ci dice anche che, se sentiamo la pressione di dover affrontare molte problematiche, moltiplichiamo l’attenzione, seppure di breve periodo. A ennesima conferma, del resto, che il rischio di decadimento cognitivo non richiede banalmente “riposo”, ma ci chiama viceversa ad aumentare i nostri ambiti di impegno.
La povertà, e in generale l’ambito delle difficoltà economiche dei nostri tempi, costituiscono anzitutto un problema di salute. Lo abbiamo documentato più volte, e si susseguono riscontri sempre più preoccupanti: tra strette ai bilanci, pubblici e privati, e la pressione crescente sulla Sanità italiana (anche per il fisiologico invecchiamento della popolazione), il diritto costituzionale all’assistenza è a serio rischio, con numeri crescenti di persone di fatto costrette a rinunciare a curarsi. Su tutto questo è in partenza una meritoria campagna, #AccessoallaSalute, mirata non solo a rilanciare l’attenzione al problema, ma anche ad allargare concretamente le possibilità di accesso ai farmaci.
A rimanere escluso dalle cure, nota la Fondazione Banco Farmaceutico, sarebbe addirittura un terzo degli italiani, dato comparabile a quelli di Paesi meno sviluppati. Il “dato-choc” è inoltre aggravato, secondo un’indagine Ipsos, da seri difetti di consapevolezza sul fenomeno, nonché di fiducia di poterlo arginare. Due terzi del campione ammette di non aver neppure mai sentito parlare del tema dell’“accesso alla salute” e solo un quinto sente di poter svolgere in prima persona un ruolo attivo di contrasto.
Non è vero. Ed è anzi anche e prioritariamente su questo che ruota la campagna: qualcosa può esser fatto da chiunque, per il bene di se stessi e della collettività, nell’ambito dello stesso atto d’acquisto del farmaco. Il difetto di informazione si svela infatti anche qui, in quanto la medesima indagine - pur rilevando che larga parte degli italiani è oramai consapevole della piena corrispondenza tra farmaci generici e biosimilari e prodotti di marca - documenta che il 21% a tutt’oggi teme che il prezzo più basso possa riflettere una qualità inferiore.
Il dato chiama alla responsabilità i pazienti, ma anzitutto i decisori sanitari e i medici che prescrivono il medicinale. Passare all’equivalente non significa solo spendere meno per le proprie necessità, ma generare un risparmio complessivo che potenzialmente supera il miliardo l’anno, che permetterebbe di ampliare la platea delle persone curate. Non a caso, le Regioni che assicurano livelli di assistenza superiori (perlopiù al Nord Italia) sono le stesse che fanno più ricorso ai farmaci generici.
Il nodo delle risorse per la salute è oramai tema di esteso confronto politico e anche sindacale, visto tra l’altro lo sciopero che nei giorni scorsi ha raccolto ampie adesioni tra medici e anestesisti. La realtà è che ognuno di noi può dare il suo pur piccolo contributo al diritto alla cura e ai farmaci. E questo è ancor più vero per i professionisti della salute.
Ė passata un po’ in sordina, e non è la prima volta, il “World Toilet Day”. Forse perché sembra non riguardarci, sembra stare leggermente al di là del nostro piccolo raggio di interesse. Se ne parla poco, perfino quando di tratta della complessa, ma pur sempre nostra “Europa”, figurarsi se il tema qui pare coinvolgere soprattutto il problema dell’assenza di bagni in remote dimore dell’Africa o dell’Asia. E si sbaglia, perché il tema dell’igiene è del tutto cruciale quanto critico, anche dalle nostre parti.
I dati più drammatici, evidentemente, riguardano le aree più povere. 2,3 miliardi di persone non hanno un accesso adeguato ai servizi igienici di base, cioè circa un terzo dell’umanità. Di queste, circa 900 milioni non dispongono di alcun bagno, e altri 600 milioni tuttalpiù lo condividono con altre famiglie. Carenze che hanno “un impatto devastante sulla salute pubblica, le condizioni di vita, la nutrizione, l'educazione e la produttività”, ricordano gli organizzatori della Giornata, nonché le Nazioni Unite.
Ci sono Paesi, come l’India, talmente in emergenza che la costruzione o meno di bagni è tema ricorrente di scontro politico e campagna elettorale. Ma il problema, come si diceva, è anche del mondo relativamente benestante. Lo documenta tra l’altro una recente ricerca europea, condotta da centri di ricerca inglesi e finlandesi e pubblicata sulla rivista BMC Incectious Diseases, nell’ambito di uno spazio per definizione estraneo alle più estreme situazioni di disagio, gli aeroporti.
Ė banalmente emerso che le vaschette portaoggetti collocate ai controlli di sicurezza contengono più germi di quanto se ne trovano nei bagni pubblici. Sorprendente (in parte) e anche paradossale: misure introdotte per “difenderci” da possibili attacchi di qualche scalmanato terrorista si rivelano foriere di un danno probabilmente ben più grave, la diffusione dei virus.
Da notare che la ricerca è stata commissionata proprio nell’ambito dell’elaborazione di nuove strategie di difesa epidemica, con particolare riferimento a influenze e para-influenze, di piena attualità, con reiterati appelli, anche dalle autorità italiane, a curare l’igiene, quale fondamentale variabile di prevenzione. Che non coinvolgono solo i luoghi di transito, ma perfino quelli di cura. Da uno studio nazionale dell’Aiom, emerge che un paziente oncologico su cinque portatore di un catetere contrae un'infezione legata all'utilizzo del dispositivo. Insomma, non servono solo i bagni, ma anche la consapevolezza, pubblica e privata, sui capisaldi dell’igiene, all’evidenza ampiamente ignorati.
Siamo tra i pochi mammiferi a bere latte, a volte copiosamente, anche dopo lo svezzamento. E questo induce a non pochi interrogativi sui suoi effetti per la salute, che poi si aggravano alla luce dell’iper-sfruttamento cui sono sottoposte le mucche, in allevamenti industriali e non solo. Il tema è assai aperto, e non mancano le divergenze di vedute tra gli scienziati, a margine di alcuni “miti metropolitani”. Adesso uno studio internazionale (coordinato tra ricercatori canadesi, indiani, sudafricani e colombiani) pubblicato su Lancet sembra segnare un deciso punto a favore dell’amata bevanda.
All’esito della rilevazione, che ha incluso oltre 360mila persone di 21 Paesi di ogni continente, tra i 35 e i 70 anni, seguite per quasi dieci anni, emergerebbe che l’assunzione di latte e derivati, a lungo ritenuta un “fattore di rischio” cerebro-cardiovascolare, viceversa lo abbassi. Chi assumeva più di due porzioni di latticini al giorno, vedeva ridurre il proprio rischio di mortalità del 14%, calo che diveniva ancor più sensibile per il decesso cardiovascolare (23%), allargandosi al 34% per quel che riguarda l’esposizione agli ictus. A essere “promossi”, in particolare, il latte e lo yogurt, mentre su formaggi e burro sono emersi benefici statisticamente poco significativi.
Anche la Fondazione Veronesi è intervenuta recentemente a smentire alcune “fake news” contro il latte, in particolare sull'ipotesi che possa favorire l'insorgenza di tumori o dell'autismo (su cui si sono levati anche falsi spauracchi in relazione ai vaccini). “Non esistono riscontri scientifici”, precisa la Fondazione, pur ammettendo che la bevanda contenga alti livelli di lattosio e galattosio, che potrebbero alimentare, se consumati in alta quantità, i livelli di infiammazione cronica.
Specularmente, la Fondazione minimizza l'importanza del latte nella prevenzione dell'osteoporosi. “Non è solo bevendolo che si tutela la salute delle ossa”, chiarisce. Così come viene smentita una sua “virtù generale” contro il cancro. “Non esiste un'ìndicazione unica: un moderato effetto protettivo emerge rispetto ai tumori della vescica e del colon-retto, prudenza invece nel caso di un tumore al seno”.
La strada più sicura per la salute sembra dunque essere ancora una volta quella di evitare gli eccessi. “Bisogna sicuramente evitare di abusarne e ridurne il consumo con la crescita, ma non ritengo sia necessario abolirlo”, ribadisce in un'intervista la nutrizionista Giuseppina Bentivoglio, che in termini tecnici spiega: “La lattasi è un enzima inducibile, cioè la cui produzione da parte del nostro organismo è stimolata da una assunzione costante nel tempo; quindi anche grazie alla nostra straordinaria tradizione culinaria, la maggior parte della popolazione riesce a trarre benefici dal consumo di questa bevanda anche da adulto”. Senza esagerare, come in tutto il resto.
Ė una piaga diffusa e crescente, complice l’invecchiamento della popolazione, che presenta per giunta costi elevatissimi, per le tasche private e pubbliche. E si può fare molto di più, con il contributo di tutti gli attori coinvolti, sul profilo della prevenzione quanto dell’“agilità” dell’assistenza professionale. Sono i concetti fondamentali emersi al 103esimo Congresso della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (Siot http://www.congressosiot.it/), tenutosi nei giorni scorsi a Bari, che ha tra l’altro eletto il suo nuovo presidente, Francesco Falez, Direttore di Unità operativa complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Santo Spirito di Roma.
Alcune cifre: ogni anno in Italia si conteggiano oltre 180mila ricoveri per lesioni al legamento crociato del ginocchio, altri 65mila per lussazioni e instabilità alla spalla, 35mila per distorsioni alla caviglia. Dati impressionanti, che coinvolgono in oltre quattro casi su cinque gli uomini, e prevalentemente nell’ambito di attività ludico-sportive. Il che rappresenta di per sé un eloquente campanello d’allarme: l’esercizio fisico è fondamentale (la sedentarietà, come abbiamo documentato di recente, è il più nocivo “fattore di rischio” tra i comportamenti personali), ma serve molta cautela, coscienza dei limiti e rischi, possibilmente la consulenza di uno specialista sull’entità e il tipo di attività da svolgere in sicurezza.
Sul fronte degli interventi, “per restituire stabilità a un ginocchio infortunato o deteriorato vengono eseguiti ogni anno nel nostro Paese più di 36mila operazioni per asportazione di cartilagine semilunare del ginocchio e oltre 21 mila per riparazione legamentosa”, riferisce la Siot. Guai che del resto non riguardano solo l’attività avanzata. Per la spalla, ad esempio, le problematiche coinvolgono 1 giovane su 1000, e le lussazioni colpiscono per il 90% tra i 20 e i 29 anni.
L’esito degli interventi è in via di miglioramento, grazie a tecniche artroscopiche mini-invasive che limitano il dolore e facilitano la successiva riabilitazione. E tuttavia la Siot ammette che “il grado di insuccessi e di recidive rimane ancora elevato, in particolare nella popolazione giovanile”, e invoca l’introduzione di più aggiornate metodiche chirurgiche e protocolli riabilitativi. Inoltre, lamenta Falez, “molto spesso gli ortopedici sono vittime di un sistema troppo burocratizzato”.
Poi c’è il capitolo dell'osteoporosi, definita una vera e propria “epidemia silenziosa”, che colpisce soprattutto (ma non esclusivamente) le donne a partire dalla mezza età, alimentando il rischio fratture (ce n’è una ogni tre secondi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e provocando tra l’altro un numero di giornate di degenza ospedaliera superiore a quello di altri eventi diffusi e gravi, quali l’infarto del miocardio, il diabete o il tumore della mammella. Più che mai essenziale è qui potenziare la prevenzione, sottoporsi a controlli periodici sulla mineralizzazione ossea, seguire un’alimentazione “nemica” dell’osteoporosi (quindi ricca di calcio e vitamina D). Tra le misure preventive, la Siot ricorda anche qualche accorgimento “domestico” che può fare la differenza, quali gli “antiscivolo nelle docce e la riduzione del numero di tappeti”.
La notizia era nell’aria da un po’, la curva virtuosa dei progressi sulla salute mondiale ha smesso di crescere. Non è più vero che “si sta sempre meglio”, anzi in alcuni contesti i tassi di mortalità sembrano scendere di nuovo. Lo documenta un esteso rapporto del Global Burden of Disease (GBD), pubblicato sulla rivista Lancet. Le ragioni sono molteplici, e non tutte riconducibili al fisiologico invecchiamento della popolazione. Ci sono più aspetti che sembrano “andati in tilt”, tra restrizioni di bilanci sanitari, peggioramento degli stili di vita e una certa perdita di coscienza sui capisaldi della cura e della prevenzione.
In particolare, a far discutere in questi giorni in Italia è ancora il nodo delle coperture vaccinali insufficienti, nodo rilanciato da un focolaio di morbillo diffusosi a Bari a partire da tre famiglie no-vax, patologia tra l’altro erroneamente scambiata all’inizio per mononucleosi. “La situazione non è assolutamente sotto controllo, è anzi allarmante”, sentenzia il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, intorno a un virus “molto contagioso” e altrove scomparso, come nell’intero continente americano.
“Situazione creatasi in Italia dal 1999 da quando il Parlamento ha abrogato l'obbligo di iscrizione a scuola con il certificato di vaccinazione, una vera e propria bomba microbiologica”, argomenta Ricciardi, nel perorare un'azione energica anche verso gli operatori della Sanità e della scuola. “Non abbiamo più del 10-15% di persone che in questi mondi si vaccinano” - nota, ricordando in proposito l'esistenza di una “legge sulla sicurezza sui luoghi di lavoro che obbliga il datore di lavoro e il lavoratore ad attuare le misure per la prevenzione dei rischi”. Che in questo caso risultano conclamati.
Tornando agli scenari globali, il rapporto GBD conferma in realtà la tendenza al miglioramento di alcuni indicatori, inclusi i tassi complessivi di mortalità infantile, notando però il perdurare del dato inaccettabile di oltre cinque milioni di morti tra i bimbi sotto i 5 anni, e segnalando il rallentamento - e talora l'inversione di tendenza - per quel che riguarda l'età adulta.
Tra le spiegazioni, il perdurare e l'emergere di nuovi conflitti, il dilagare di problemi quali lombalgia, emicrania e depressione (prime tre cause di disabilità nel 2017), nonché delle patologie croniche legate all'obesità e alla sedentarietà. E poi c’è l’insidiosa tendenza a “risparmiare sulla salute” a livello di bilanci pubblici. Tendenza purtroppo globale, che coinvolge anche l’Italia e che nelle aree deboli presenta risvolti drammatici. Quasi la metà dei Paesi denota carenze rilevanti di forza lavoro sanitaria: nel 47% ci sono meno di 10 medici per 10mila abitanti, e nel 46% ci sono meno di 30 infermieri e ostetriche ogni 10mila persone.
“L’uso di smartphone e internet tra i bambini non va demonizzato, ma porre limiti all’utilizzo è fondamentale”, ricorda il presidente della Società Italiana di Pediatria (Sip) Alberto Villani, presentando dati sempre più allarmanti in proposito. Quei limiti non vengono posti affatto, o sono troppo blandi: 8 bimbi italiani su 10 tra i 3 e i 5 anni sanno usare lo smartphone dei genitori, il 30% dei quali lo utilizza per distrarli già nel primo anno di vita (negli Stati Uniti si arriva al 92%), addirittura il 70% nel secondo. E quando il piccolo lo maneggia autonomamente, si rilevano picchi di 8-10 ore di impiego quotidiano.
Sono proporzioni che denotano parecchia ignoranza sui rischi da abuso dei dispositivi, non solo per lo sviluppo cerebrale e socio-psicologico del bambino e l’insidiosa tendenza alla sedentarietà, ma anche di natura fisio-patologica. La conferma arriva da un dato ulteriore: solo il 29% dei genitori chiede consiglio al pediatra sul problema, nonostante la sua enorme ampiezza, che ha rivoluzionato anche l’esistenza degli adulti, consegnando “il mondo” in un oggetto di pochi centimetri, con tutte le potenzialità e rischi del caso.
La Sip ha perciò divulgato delle linee guida in proposito. Tra le principali, ricordate da Villani, “no a smartphone e tablet prima dei due anni, durante i pasti e prima di andare a dormire; limitare l'uso a massimo 1 ora al giorno nei bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni e al massimo 2 ore al giorno per quelli di età compresa tra i 5 e gli 8 anni; si sconsigliano inoltre programmi con contenuti violenti e soprattutto l'uso di telefonini e tablet per calmare o distrarre i bambini”.
“No al cellulare pacificatore”, avverte inoltre l’esperto. Anche perché se talora consegnare un dispositivo al bimbo può dare un po’ di oggettivo sollievo ai genitori, nel lungo periodo li aggraverà, per gli “effetti collaterali” dell’oggetto, inclusa la perdita di dimestichezza del piccolo col gioco “fisico”, la sua capacità di gestire la noia, l’immaginazione. Tra questi ultimi figura perfino la “manipolazione”, visto che uno studio americano ha accertato che ben il 95% delle app scaricate per i bambini sotto i cinque anni contiene qualche pubblicità.
Viviamo in un mondo con quasi due miliardi di corpi in sovrappeso e almeno 650 milioni di obesi, con un’incidenza addirittura triplicata negli ultimi trent’anni. I dati sono quelli ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), e questo ci dovrebbe già distogliere dall’errore più comune: quando guardiamo il nostro girovita, la nostra preoccupazione è perlopiù “estetica”. Errore grave, perché è in ballo ben altro: la nostra stessa salute.
Il sovrappeso ci espone a una pluralità di problematiche metaboliche, cardiovascolari, articolari, perfino tumorali. Insomma, come già ricordato su questo portale, “di sovrappeso si muore”. La stessa Oms stima addirittura 2,8 milioni di decessi l’anno specificamente attribuiti ai chili di troppo e gli eccessi alimentari hanno anche un rilevante costo economico, tant’è che si calcola che circa il 7% dell’intera spesa sanitaria europea sia impiegata nella cura di patologie connesse all’obesità come diabete, ipertensione arteriosa, patologie cardiache.
La London School of Hygiene, con uno studio pubblicato su Lancet, ha ora provato a determinare “quanto” l’obesità accorci la vita. Sono state quindi consultate le cartelle cliniche compilate dai medici di base, “neutralizzando” la compresenza di altri fattori di rischio (dal fumo ai pregressi patologici). Ebbene, tra gli “obesi” (con un indice di massa corporea – Bmi - superiore a 30) l’aspettativa di vita è risultata di 4,2 anni in meno tra gli uomini e di 3,5 tra le donne. Cifre impressionanti, anche perché si tratta di medie.
La stessa ricerca ha evidenziato un effetto analogo anche del “sottopeso” ma, a detta degli stessi ricercatori, il dato non è così rilevante perché può scontare anche la presenza di qualche malattia. A uscire comunque rafforzato è il concetto che “Il Bmi è uno degli indicatori principali di salute”. Per accertare il proprio, e verificare la propria posizione, dal “sottopeso” all’“obesità”, è attivo tra l’altro un apposito calcolatore sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, anche se si tratta solo di una approssimazione - come specifica lo stesso portale - in quanto tiene conto solo dell’altezza e del peso, mentre in realtà incidono, per una corretta valutazione personalizzata, anche variabili quali la massa muscolare, l’età, il sesso.
L’amara realtà d’insieme è che siamo ancora lontani da invertire la rotta sul problema e sulla consapevolezza dello stesso. In sede europea è stato lanciato da anni un apposito “Piano d’azione”, che ha definito otto aree di intervento: “sostenere un sano inizio della vita, promuovere ambienti sani (in particolare nelle scuole e gli asili), rendere l’opzione sana la scelta più semplice, limitare la commercializzazione e la pubblicità rivolta ai bambini, informare e responsabilizzare le famiglie, incoraggiare l’attività fisica, monitorare e valutare il fenomeno, potenziare la ricerca”. Ma nei fatti quel Piano finora è largamente rimasto sulla carta.