Fermare la progressione della Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) applicando mini-scosse al cervello direttamente a casa dei pazienti. Ci proveranno i ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma (www.unicampus.it) e dell’Istituto Auxologico Italiano IRCCS di Milano in una sperimentazione, sostenuta dalla Fondazione “Nicola Irti” per le opere di carità e di cultura. La Sla è una patologia neurodegenerativa a progressione rapida e una prognosi infausta che coinvolge il primo e il secondo neurone di moto. Ad oggi, non esistono terapie in grado di modificare in modo significativo il decorso di malattia anche se la comunità scientifica è attivamente impegnata nella ricerca pre-clinica e clinica. A partire dal 2004, una serie di studi preliminari condotti da Vincenzo Di Lazzaro, direttore dell'unità operativa complessa di Neurologia del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, hanno suggerito che è possibile rallentare significativamente la progressione della Sla utilizzando tecniche di stimolazione magnetica cerebrale non invasiva.
Potrà sembrare un’opzione un po’ troppo “vampiresca”, ma il sangue giovane potrebbe davvero aiutare a vivere meglio e più a lungo. E’ infatti nel sangue di chi è ancora nel fiore dei suoi anni che si trova in abbondanti quantità una proteina, che aiuta a rimanere in salute. Si chiama eNampt e se trasferita in un organismo anziano sembra in grado di rallentarne l’invecchiamento. O almeno è stato così in un esperimento sui topi, condotto dalla Washington University e pubblicato sulla rivista Cell Metabolism.
Nello studio i ricercatori hanno osservato che con gli anni la quantità di eNampt diminuisce sia nei topi che negli esseri umani, di pari passo con l’aumento dei problemi di salute. In particolare, sembra avere un ruolo chiave nel processo con cui le cellule producono energia. Sappiamo da tempo che con l’avanzare dell’età le cellule diventano sempre meno efficienti nel fabbricare il proprio “carburante”, chiamato Nad, che è necessario a mantenere l’organismo in salute. I ricercatori, guidati dallo scienziato Shin-ichiro Imai, hanno visto che, se la proteina eNampt viene somministrata nei topi anziani, gli animali vivono vivere più a lungo di circa il 16% restando in buona salute. “Il nostro risultato suggerisce che questa proteina determina quanto viviamo e quanto rimaniamo in salute quando invecchiamo”, osserva Imai.
Trascorriamo così tanto tempo davanti allo smartphone che diventa lecito chiedersi se siamo noi a controllare i nostri smartphone o sono gli smartphone a controllare le nostre vite. Notifiche, messaggi, eventi, aggiornamenti e notizie, giorno e notte, catturano la nostra attenzione, distraendoci dallo studio o dal lavoro e occupando il nostro tempo libero. Tanto che sono ormai diversi gli studi scientifici che hanno lanciato l’allarme sulla dipendenza da cellulare e le sue conseguenze. C’è però chi sta reagendo a questi cambiamenti imposti dalla tecnologia, trovando diverse strategie per limitare l’uso dei dispositivi elettronici nella vita quotidiana.
Uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Bologna, pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior, traccia un quadro ben preciso di alcune di queste “pratiche di resistenza” che stanno iniziando a diffondersi. In particolare, i ricercatori hanno individuato le motivazioni principali che spingono le persone a limitare l’uso degli smartphone nelle loro vite quotidiane. “Al lavoro o durante il nostro tempo libero spesso decidiamo di interrompere quello che stiamo facendo per controllare una notifica o le ultime notizie sui nostri smartphone”, dice Marcello Russo dell’Università di Bologna che ha coordinato lo studio. “Allo stesso modo, però, possiamo decidere di uscire da questo stato di connessione costante, riducendo il tempo che dedichiamo ai nostri cellulari e concentrandoci di più su quello che stiamo facendo. Nel nostro studio - aggiunge - abbiamo raccolto diversi esempi di persone che hanno trovato il modo di farlo”.
La crema solare non è l'unica cosa da mettere in valigia per le vacanze estive. Oltre alla pelle, anche gli occhi hanno bisogno di essere protetti dal sole. Questo vale soprattutto per gli anziani, coloro che notoriamente sono più a rischio di sviluppare la degenerazione maculare legata all'età, un disturbo che colpisce un terzo della popolazione dopo i 70 anni, in prevalenza donne. La comunità scientifica, infatti, ha ampiamente dimostrato che l’esposizione prolungata ai raggi UV, associata all’età, rappresenta una vera minaccia per la salute della macula. Inoltre, pazienti con un occhio già colpito da maculopatia senile hanno un rischio aumentato di svilupparla nell’altro. Per vivere quindi una vacanza sicura e serena gli esperti raccomandano occhiali da sole e cibi sani. Ma anche integratori antiossidanti di ultima generazione.
“E’ fondamentale avere un alimentazione ed uno stile di vita equilibrati ma anche proteggere gli occhi dalla luce intensa con berretti con visiera e lenti da sole”, suggerisce Alfredo Pece, primario della Divisione di oculistica dell’Fondazione Retina 3000 a Vizzolo Predabissi, in provincia di Milano, e presidente della Fondazione Retina 3000. Quando la patologia è in fase iniziale, si cerca di evitare che peggiori con integratori alimentari contenenti sostanze ad azione anti-ossidante e anti-infiammatoria che agiscono proteggendo la retina e rallentando i fenomeni ossidativi, ovvero distruttivi, della macula. “E’ stato dimostrato che alcune sostanze con funzione anti-ossidante possono rallentare la progressione della degenerazione maculare legata all'età fino al 25%. Per questo è importante una corretta alimentazione e l’attenzione verso sostanze con funzione anti-ossidante e protettive del tessuto oculare”, prosegue Pece. Queste sostanze possono avere un ruolo anche nella retinopatia diabetica, che rappresenta la complicanza micro vascolare più comune del diabete ed è la prima causa di cecità.
Una proteina rilasciata dai polmoni, chiamata SP-B (proteina del surfattante polmonare B), indica la presenza di scompenso cardiaco, ne predice la prognosi e, soprattutto, è responsabile dell’aggravarsi della malattia. A individuare questo prezioso marcatore è stato uno studio condotto dal Centro Cardiologico Monzino e pubblicato sull’International Journal of Cardiology. Il nuovo obiettivo dei ricercatori è ora sviluppare un esame che, misurando il valore di SP-B nel sangue, renda possibile diagnosi di scompenso cardiaco più precise ed efficaci. “I nostri studi evidenziano che SP-B non è presente nel soggetto sano, si manifesta nei pazienti con scompenso cardiaco quando c’è un danno ai polmoni”, spiega Cristina Banfi, responsabile dell'Unità di ricerca di Proteomica Cardiovascolare del Centro Cardiologico Monzino e una delle autrici dello studio.
“In particolare abbiamo riscontrato che maggiore è il valore di SP-B nel sangue, peggiore è la prognosi dello scompenso. Ma c’è di più: abbiamo anche scoperto che SP-B - continua - si lega in modo selettivo al colesterolo HDL, il cosiddetto ‘colesterolo buono’, e lo rende disfunzionale, trasformando le HDL da molecole protettive per l’organismo a molecole nocive”. Insomma, questa proteina “corrompe” anche il colesterolo buono. “Le lipoproteine antiaterogene, cioè protettive, che costituiscono il colesterolo HDL, legandosi a SP-B per via della loro composizione affine, subiscono modificazioni - dice Banfi - a carico della loro struttura che ne riducono le proprietà antiossidanti, e dunque protettive. Trasformandosi diventano quindi molecole nocive (aterogene) e contribuiscono così alla progressione della patologia cardiaca”. La nostra idea sul ruolo del colesterolo buono ora cambia. “Questo studio ha contribuito a scardinare un dogma centrale dell’aterosclerosi, che vedeva nel colesterolo HDL un fattore protettivo, mettendo in evidenza come anch’esso può andare incontro a cambiamenti deleteri”, afferma Piergiuseppe Agostoni, professore ordinario di Cardiologia dell’Università degli Studi di Milano e coordinatore dell’area di Cardiologia Critica del Centro Cardiologico Monzino.
Consente diagnosi precoci dei tumori della pelle in 10 minuti, non è invasiva e permette di evitare biopsie, quindi interventi chirurgici non necessari. E dimezza le asportazioni dei nei “sospetti”. È la microscopia confocale, una tecnica diagnostica all'avanguardia, che nel nostro paese trova grandissimo impiego e protagonista del 24esimo Congresso Mondiale di Dermatologia (WCD2019), che si è tenuto di recente a Milano. “Lo strumento viene agganciato alla pelle tramite un vetrino adesivo”, spiega Caterina Longo, professore associato in Dermatologia e Venereologia presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. “L’esame richiede circa 10 minuti e risulta indolore, non invasivo e ripetibile più volte. Il microscopio - continua - scansiona la cute a più livelli e consente di visualizzare le atipie cellulari, le cellule con precoci alterazioni nella forma, le cellule neoplastiche, l’infiammazione, le alterazioni microscopiche anche minime e tutte le anomalie nella struttura della cute che giustificano la rimozione di nei 'sospetti' e dei tumori cosiddetti ‘non melanoma’”. Questo strumento, secondo gli esperti, avrà sempre più diffusione.
Per la prima volta in Italia una persona tetraplegica, che ha perso l’utilizzo sia degli arti superiore che inferiori, ritornerà a muovere di nuovo le mani. Grazie a una tecnica chirurgica innovativa e rivoluzionaria, un gruppo di medici dell’ospedale Cto della Città della Salute di Torino è infatti riuscito a bypassare la lesione al midollo spinale, ricollegando i nervi sani a quelli non più funzionanti. Gli stessi nervi responsabili del movimento e dell’utilizzo delle mani. L’eccezionale intervento - eseguito da un team composto da Bruno Battiston, Diego Garbossa, Paolo Titolo e Andrea Lavorato - è stato realizzato più di una settimana fa ed è durato 7 ore. Il paziente sta bene e i medici sono molto soddisfatti. I nervi delle due parti del midollo lesionato sono stati ricollegati, proprio come se fossero dei veri e propri fili elettrici.
“La chirurgia della mano tetraplegica tradizionale, che utilizzava trasferimenti di tendini, era impiegata già da diversi anni ma consentiva solamente un parziale recupero della funzione motoria, mentre questa tecnica innovativa permette di re-innervare interi distretti muscolari non recuperabili con la chirurgia classica”, spiegano i medici del Cto. Si tratta di una procedura impiegata in pochi centri al mondo. La tecnica permette un maggiore e più fisiologico recupero della funzione motoria e sensitiva degli arti. Durante questo inedito intervento in Italia tutto è sembra essere filato liscio. I medici riferiscono che non si sono presentate complicanze. Tuttavia, il recupero della funzione motoria richiederà “molti mesi”, e sarà facilitato dai moderni trattamenti fisioterapici che avranno lo scopo di preservare e favorire la motilità dei distretti interessati.
I farmaci antiretrovirali, non solo hanno permesso alle persone con Hiv di vivere quanto chi non è stato mai contagiato, ma hanno anche portato a zero il rischio di trasmettere l’infezione. Secondo lo studio Partner, pubblicato su Lancet, l’uso regolare e corretto delle terapie hanno mutato drasticamente le caratteristiche del contagio. Ora diventa possibile superare lo stigma e affrontare con paradigmi nuovi il tema della prevenzione dell’infezione e dello stop dell’epidemia.
Lo studio, durato 8 anni, conferma la validità della formuna U=U, Undetectable=Untransmittable, ossia Non rilevabile=Non trasmissibile. “Questo studio ha dimostrato che su un totale di oltre 76mila rapporti senza preservativo tra coppie omosessuali siero-discordanti, ossia con un partner Hiv positivo ma con viremia non rilevabile perché controllata da farmaci antiretrovirali e con un partner sieronegativo, la trasmissione dell’infezione è risultata pari a zero, pur senza assumere PrEP (profilassi pre-esposizione , l’intervento farmacologico attuato prima di una possibile esposizione all’Hiv con lo scopo di prevenire il contagio, ndr)”, spiega Andrea Antinori, specialista all’Istituto nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani Irccs di Roma e uno degli autori dello studio. Di questo si è discusso recentemente a Milano in occasione dell’11esima edizione dell’Italian Conference on Aids and Antiviral Research (Icar), la conferenza italiana su Aids e ricerca antivirale.
Sembra a tutti gli effetti una normale camera da letto. C’è una scrivania, un televisore, un bagno, ecc. Ma in realtà è una camera molto speciale: dopo solo un giorno può misurare il metabolismo di una persona e la sua risposta ad uno specifico regime dietetico. Si chiama “camera metabolica” ed è una novità del Centro Obesità e Lipodistrofie dell’U.O. di Endocrinologia dell’Università di Pisa, tra le protagoniste del 40esimo congresso nazionale della Società Italiana di Endocrinologia(Sie). “Il sistema è costruito in collaborazione con il Centro NIH di Phoenix (USA) presso la AOU di Pisa grazie ad un grant di ricerca del ministero della Salute”, spiega Ferruccio Santini, responsabile del Centro Obesità e Lipodistrofie dell’U.O. di Endocrinologia dell’Università di Pisa. “La camera metabolica è una camera sigillata che misura in maniera molto precisa i gas in entrata e in uscita. Se il paziente sosta nella stanza per almeno 24 ore - continua - noi possiamo misurare quanto ossigeno consuma e quanta anidride carbonica produce. Poi, mettendo assieme i dati che otteniamo dallo scambio dei gas e dai prodotti del metabolismo, riusciamo a calcolare quante calorie brucia un paziente e cosa, cioè se sta bruciando carboidrati, grassi o proteine”.
C’è più tempo del previsto per riuscire a limitare i danni di un ictus cerebrale. Per esattezza circa 9 ore dopo la comparsa dei primi sintomi. Queste sono infatti le ultime indicazioni che arrivano dagli esperti che si sono riuniti nell'ultimo congresso dell’European Stroke Organization (Esoc2019). L’ictus cerebrale è una patologia che, nel nostro paese, colpisce circa 150.000 persone ogni anno. E’ causato dall’improvvisa chiusura o rottura di un vaso cerebrale e dal conseguente danno alle cellule cerebrali dovuto dalla mancanza dell’ossigeno e dei nutrimenti portati dal sangue (ischemia) o alla compressione dovuta al sangue uscito dal vaso (emorragia cerebrale). Si stima che il 10-20% delle persone colpite da ictus per la prima volta muore entro un mese ed un altro 10% entro il primo anno. Fra le restanti, circa un terzo sopravvive con un grado di disabilità spesso elevato, tanto da renderle non autonome.
Un terzo circa presenta un grado di disabilità lieve o moderata che gli permette spesso di tornare al proprio domicilio in modo parzialmente autonomo e un terzo, i più fortunati o comunque coloro che sono stati colpiti da un ictus in forma lieve, tornano autonomi al proprio domicilio. L’invalidità permanente delle persone che superano la fase acuta di malattia determina negli anni successivi una spesa che si può stimare intorno ai 100 mila euro. Sotto l’aspetto psicologico personale e familiare poi, i costi sono ingenti e non facilmente calcolabili.
Una proteina del batterio Escherichia Coli potrebbe aiutare a migliorare la vista nei casi di retinopatia. Si tratta del Fattore Citotossico Necrotizzante 1 (CNF1), già nel mirino dei ricercatori da diverso tempo. Ora un gruppo di ricercatori dell’Istituto superiore di sanità (Iss) ha creato un collirio contenente questa proteina batterica che si è rivelato in grado di migliorare le prestazioni visive in modelli animali di retinopatia ipertensiva, una condizione clinica che si riscontra in soggetti con elevati valori di pressione arteriosa sistemica che altera il corretto funzionamento della retina portando ad una perdita graduale della vista.
In futuro potremmo avere terapie antidolorifiche più efficaci e sicure. Uno studio condotto dall’Università Vanvitelli, in collaborazione con l’Università di St. Louis negli Usa, ha individuato un “interruttore” per spegnere il dolore. Si tratta di un particolare recettore cellulare, presente nel nostro organismo, che sembra essere il colpevole della comparsa del dolore che limita drammaticamente la qualità della vita dei pazienti neuropatici. Lo studio, condotto in questa prima fase solo sugli animali, è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
Nel mondo ci sono milioni di persone che soffrono di dolore cronico a causa di infortuni e malattie, tra cui lesioni del midollo spinale, diabete, sclerosi multipla e cancro. “Il dolore neuropatico può essere grave e non sempre risponde al trattamento”, dice la coordinatrice dello studio, Daniela Salvemini dell’Università di Saint Louis. “Antidolorifici oppioidi sono ampiamente utilizzati, ma possono causare importanti effetti collaterali - aggiunge - e portare i rischi di dipendenza e abuso. C'è un urgente bisogno di opzioni migliori per i pazienti affetti da dolore cronico”. Ecco perché questo studio mira a trovare altri sistemi per combattere il dolore neuropatico che siano alternativi all’uso dei narcotici.
Il trapianto di cellule staminali cerebrali umane potrebbe rappresentare un’opzione di trattamento per i malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una gravissima malattia per cui oggi non esistono cure. La procedura, infatti, è sicura anche a lungo termine. E sembra anche promettente. Ora finalmente ci si potrà concentrare sulla sua eventuale efficacia. Queste sono le implicazione dello studio conclusivo, coordinato da Angelo Vescovi, direttore scientifico di Revert Onlus e Irccs Casa Sollievo della Sofferenza, e da Letizia Mazzini dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Novara, e pubblicato sulla rivista Stem Cells Translational Medicine.
“Il passo successivo ci permetterà di valutare l’efficacia”, spiega Vescovi. “Ci tengo infatti a specificare che non abbiamo trovato una cura, ma solo una strada molto interessante”, aggiunge. La prudenza è d’obbligo, specialmente perché la Sla è malattia neurodegenerativa terribile che colpisce i motoneuroni (le cellule del sistema nervoso che comandano i muscoli), determinando una paralisi progressiva di tutta la muscolatura. La Sla è letale e, a tutt’oggi, non esiste una terapia efficace. Sull’approccio di Vescovi sono riposte molte speranze. Lo studio, iniziato nel 2012, ha coinvolto 18 pazienti con una diagnosi definitiva di Sla, che hanno ricevuto trapianti multipli (da 3 a 6) di cellule staminali neurali umane nel midollo spinale lombare o cervicale. I pazienti sono stati monitorati prima e dopo il trapianto dagli staff clinici dell’ospedale Maggiore della Carità di Novara, dell'ospedale S.Maria di Terni, dell’Università di Padova e dell'Irccs Casa Sollievo Sofferenza di S.Giovanni Rotondo.
Nel mondo dei social sta spopolando una moda che potrebbe essere molto pericolosa. E’ quella della condivisione delle ricette per creare cosmetici in casa. Protagoniste sono le cosiddette “spignattatrici”, impegnate a smanettare in rete a caccia di ricette per creare creme, smalti, lucidalabbra e altro ancora. E con lo scopo di condividere le proprie. Può sembrare qualcosa di innocuo, ma in realtà questo fenomeno potrebbe rivelarsi insidioso per la salute. E’ l’allarme lanciato dagli esperti della Società italiana di medicina estetica, in occasione del congresso che si è tenuto di recente a Roma.
La filosofia alla base delle attività di queste “spignattatrici” non è affatto cattiva. Tutt’altro, la loro idea è quella di creare prodotti “green”, rinunciando quindi a comprare prodotti di bellezza costosi o nocivi nei negozi per abbracciare una cosmesi genuina ed economica, in cui le materie prime siano state tutte scelte con cura e rispetto per l’ambiente. Tuttavia, le buone intenzioni non rendono i cosmetici “fai da te” più sicuri. “I prodotti fatti in casa presentano rischi che sfuggono a quanto stabilito e sanzionato nel Regolamento 1223/2009 in materia di cosmetici – afferma l’avvocato Alexia Ariano – il fenomeno delle ‘spignattatrici’ nasce da internet, ma parte dalle aziende, che da un lato hanno creato dei prodotti personalizzabili che possono essere in parte ‘assemblati’ a casa dal consumatore e dall’altro hanno esasperato l’interesse per il ‘green’ usando strategie di marketing”.
Le persone che hanno bisogno di ricevere un trapianto d’organo devono essere doppiamente fortunate. Prima infatti devono avere la fortuna di trovare un donatore compatibile disponibile. Poi devono sperare che il proprio organismo non rigetti l’organo ricevuto. Sappiamo infatti che anche nelle condizioni più favorevoli, vale a dire di completa compatibilità delle caratteristiche genetiche dei tessuti (o caratteristiche HLA), una certa quota di trapianti viene rigettato comunque. Uno studio sui trapianti di rene, condotto dalla Università di New York e dall’Università di Torino, assieme alla Città della Salute di Torino, ha permesso di scoprire un gene - denominato LIMS1 - che, quando incompatibile tra donatore e ricevente, causa appunto il rigetto dell'organo Lo studio, pubblicato sulla rivista New England Journal of Medicine, consentirà di migliorare il successo dei trapianti e ridurre significativamente il rischio di rigetto, salvando così moltissime vite.
Si stima infatti che ogni anno nel mondo più di 130mila persone ricevono un trapianto di organo. In Italia nel 2018 sono stati fatti 3.718 trapianti. In generale, la loro efficacia è indubbia: per chi riceve un trapianto la probabilità di sopravvivenza è di circa 70% a 5 anni, rispetto ad una prospettiva che senza trapianto non lascerebbe molto spazio. Tuttavia, ogni anno, solo meno del 30% dei pazienti in attesa trapianto lo riceve: il primo problema è dunque incrementarne il numero tramite il reperimento di donatori deceduti che abbiano espresso in vita la volontà di donare, o – nel caso del rene – promuovendo i programmi di donazione da vivente. Il secondo problema è che una certa quota di trapianti smette di funzionare nel tempo, principalmente perché il sistema immunitario dell’ospite riconosce l’organo trapiantato come diverso e lo rigetta. Per questo motivo il 20% circa di chi aspetta un trapianto di rene lo sta aspettando per la seconda volta. Di qui l’importanza di migliorare l’abbinamento tra donatore e ricevente, selezionandoli per caratteristiche genetiche compatibili.
Nutre il tumore e lo protegge dall’attacco delle nostre difese naturali. La proteina TRF2 ha un doppio ruolo nel cancro e a individuarlo è stato uno studio condotto dall’Istituto Regina Elena di Roma. I risultati, pubblicati sia sulla rivista Embo Journal che sulla rivista Nucleic Acids Research, aprono la strada a nuovi approcci terapeutici.
TRF2 è una proteina espressa in eccesso in diversi tipi di tumori e in particolare nel cancro colonrettale, la forma tumorale su cui si sono concentrati i ricercatori italiani nel nuovo studio. Il cancro al colon-retto è la seconda neoplasia più frequente in Italia con 51.300 casi nel 2018 ed è il secondo tumore a cui sono attribuiti il maggior numero di decessi. Nel 2015 si calcola che, a causa di questa neoplasia, siano morte 18.935 persone. Da qui l’importanza di trovare nuove strategie più efficaci per combatterla.
Si entra in ospedale per essere curati e si finisce per ammalarsi ancora di più. Nel nostro paese è qualcosa che succede spesso. Troppo spesso. Negli ultimi anni, infatti, in Italia le morti causate dalle infezioni ospedaliere sono cresciute, passando dai 18.668 decessi all’anno del 2003 ai 49.301 del 2016. Un bilancio inaccettabile, soprattutto se consideriamo che il 30% delle morti per sepsi che si verificano nei 28 paesi dell’Unione Europea avviene nella nostra Penisola. A puntare i riflettori su questa situazione allarmante è il Rapporto Osservasalute 2018, presentato qualche giorno da a Roma.
“C’è una strage in corso, migliaia di persone muoiono ogni giorno per infezioni ospedaliere, ma il fenomeno viene sottovalutato, si è diffusa l'idea che si tratti di un fatto ineluttabile”, sottolinea Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio nazionale sulla salute. In 13 anni, cioè dal 2003 al 2016, il tasso di mortalità per infezioni ospedaliere è raddoppiato sia per quanto riguarda gli uomini sia per le donne. Il fenomeno riguarda tutte le fasce d’età ma in particolar modo i soggetti over 75. Ma questa “strage” non sembra essere uguale in tutte le regioni. Il rapporto Osservasalute mette in evidenza che i tassi di mortalità per infezioni ospedaliere presentano un’alta variabilità geografica. In generale si registrano più decessi al Centro-Nord rispetto che al Meridione. Nel 2016 al primo posto per numero di morti si è piazzata l’Emilia Romagna, seguita dal Friuli Venezia Giulia. Le posizioni più basse della classifica sono invece occupate da Campania e Sicilia. Questo vale sia per le donne che per gli uomini. Ma non significa necessariamente che in alcune parti dell’Italia gli ospedali sono meno sicuri che in altre. L’Osservatorio per la Salute sottolinea infatti che questa discrepanza può essere dovuta ad una maggiore attenzione da parte delle strutture ospedaliere del Nord nel riportare la causa di morte nel certificato.
Il pane potrebbe non essere un alimento così genuino come molti credono. Perché la sua capacità di mantenersi sano e integro si dovrebbe a un comune additivo che si pensa possa favorire lo sviluppo dell’obesità e del diabete. Si tratta dell’acido propionico, un conservante acidificante molto utilizzato anche in altri prodotti da forno, come ad esempio i biscotti, per la sua capacità di inibire la crescita di muffa e di alcuni batteri. A scoprirlo è stato uno studio della Harvard T. H. School of Public Health condotto sui topolini e successivamente sugli esseri umani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine.
E' da tempo che la comunità scientifica si interroga sull’effetto di alcune molecole utilizzate per la conservazione del cibo. Ma solo pochi studi ne hanno analizzato e valutato l’effettiva azione sul metabolismo. Nel nuovo studio i ricercatori hanno deciso quindi di concentrarsi su uno degli additivi più utilizzati, arrivando a conclusioni che potrebbero cambiare la “buona reputazione” di alimenti molto consumati, tra cui il pane. In particolare, gli studiosi hanno somministrato il proprionato, un acido grasso a catena corta, a un gruppo di topolini. Hanno così scoperto che questo conservante è responsabile dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, causando un’impennata di ormoni, tra cui glucagone, la norepinefrina e l’ormone FABP4. Questo a sua volta portato a una condizione di iperglicemia, tratto distintivo del diabete. Non solo. Gli scienziati hanno scoperto che il consumo “cronico” di propionato da parte dei topi, cioè l'equivalente della quantità consumata dagli esseri umani, ha portato a un significativo aumento di peso e insulino-resistenza.
Nel nostro sangue circola una piccola molecola che potrebbe essere utilizzata come “spia” per individuare le persone che hanno maggiori probabilità di avere un infarto acuto. Più precisamente è un “piccolo messaggero” di Rna non codificante, conosciuto anche come microRNA, che si chiama miR-423. La sua espressione potrebbe rappresentare un importante biomarcatore dell’infarto. Almeno è questo quello che ha scoperto un gruppo di ricercatori guidati da Giuseppe Novelli, rettore e direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma , e da Francesco Romeo
), direttore della Cardiologia dell'Università di Tor Vergata. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Plos One, aprono prospettive importanti nella prevenzione di uno dei principali killer.
E’ certamente un’impresa dura, specialmente per chi non è già fisicamente allenato. Ma prepararsi a correre in una maratona, per tutte quelle decine di chilometri, potrebbe valere il sacrificio. Uno studio condotto da Anish Bhuva della University College London, infatti, ha concluso che allenarsi per sei mesi per correre una maratona può “ringiovanire” il nostro sistema cardiovascolare. Più precisamente può “ringiovanire” le arterie, a partire dall’aorta, di ben 4 anni. I benefici maggiori si riscontrano a vantaggio degli “aspiranti maratoneti” più anziani e dei più lenti. Insomma, “meno maratoneti” si è all’inizio maggiori saranno gli effetti positivi dell’allenamento. I risultati sono stati presentati a Venezia in occasione dell’EuroCMR 2019, meeting della Società Europea di Cardiologia.
Lo studio ha coinvolto 139 aspiranti maratoneti di 21-69 anni d'età che si sono allenati per le maratone di Londra 2016 e 2017. Gli esperti hanno misurato la rigidità delle loro arterie (in particolare l’aorta, vaso maggiore che porta ossigeno ai principali distretti corporei) prima dell’inizio del programma di allenamento per la maratona (che prevedeva una media di 10-20 chilometri di corsa a settimana per un periodo di sei mesi) e dopo aver partecipato all’attesa gara. La rigidità delle arterie - ovvero la perdita di elasticità delle pareti dei vasi - è un segno di invecchiamento degli stessi. Quindi, per poter calcolare l’età biologica dei vasi sanguigni i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica, ecografie del cuore e dei vasi sanguigni, e misurazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca all’inizio e al termine dello studio.