Si può riflettere, sviscerare, dibattere, ma alla fine alcuni dati sono semplici, e dicono tutto. Dinanzi al diritto sacrosanto (e costituzionale) alla salute, nell’ultimo anno ben sette milioni di italiani sono stati costretti a indebitarsi per potersi curare, in ragione di un ammontare di circa 150 milioni di euro di esami e visite non rimborsate dal Servizio Sanitario Nazionale, tanto da sollevare sentimenti di “rancore” verso lo stesso. Sono cifre divulgate dal Censis, e sono parallele a quelle pregresse sui milioni di italiani che addirittura rinunciano alle terapie per difficoltà economiche.
Sempre in questi giorni, un altro studio, elaborato dalla Fondazione Gimbe, ha denunciato un problema strutturale di “de-finanziamento pubblico” della sanità, dinanzi a un quadro di fabbisogno crescente, complice tra l’altro l’invecchiamento della popolazione. Avanti così, nell’arco di pochi anni si creerà un “buco” di una ventina di miliardi di euro, a detrimento anche dei livelli attuali di assistenza. Poche risorse, ma anche troppi “sprechi”, notano gli osservatori. E tra i principali sprechi, come più volte denunciato dalle associazioni dei pazienti – inclusa la più estesa, Cittadinanzattiva, promotrice tra l’altro della campagna “IoEquivalgo” – figura proprio il ricorso ancora insufficiente ai farmaci generici, nonostante l’equivalenza nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica, nonché i costi inferiori.
Sono stati fatti passi in avanti innegabili, ma siamo ancora indietro rispetto agli altri Paesi europei: sul totale delle ricette, senza distinzioni di classi di rimborso, solo il 20% è 'senza marca. Una proporzione inferiore alle medie continentali, che poi si scompone in gravi sperequazioni sul territorio nazionale. Segnalando tra l’altro un nesso: le Regioni che ricorrono di più ai medicinali equivalenti sono tendenzialmente quelle (perlopiù nel Nord Italia) dove l’assistenza sanitaria risulta più capillare e qualitativa. La ragione è semplice, risparmiare sui generici consente di liberare risorse private e pubbliche consentendo di ampliare la platea dei pazienti e delle cure.
Le cifre aggregate e i tanti appelli, perfino quando arrivano dai pazienti, possono risultare a limitato impatto nella percezione delle persone, ma se ad associarsi sono ora i “primi custodi” della salute, ossia gli stessi medici di base, il messaggio sale ulteriormente di potenza e significato. “Non esistono farmaci più sicuri dei generici, perché straordinariamente testati”, ha dichiarato recentemente Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (Simg).
Il motivo della superiore sicurezza è molto semplice: si tratta di medicinali utilizzati da un tempo così lungo da superare la scadenza brevettuale, potendosi replicare quindi come “generici”, salvo per giunta ulteriori controlli a certificarne l’equivalenza. Concetto semplice e anche “etico”, perché è una scelta che può fare la differenza tra potersi curare o meno, per ciascuno di noi e per la collettività.
“Mangiare se stessi”. L’etimo greco è esplicito, e viene utilizzato dalla scienza contemporanea per descrivere un meccanismo cellulare alla base dei sistemi interni di conservazione/rinnovamento quanto di degradazione. Dall’Università del Texas ora si annuncia, con una pubblicazione sulla rivista Nature, l’identificazione di una molecola che, agendo su tale dinamica, potrebbe rappresentare un potenziale “elisir di lunga vita”.
La proteina si chiama “beclin-1”, e sarebbe appunto alla base della cosiddetta “autofagia”. Attivandone una “mutazione”, avrebbe la capacità di promuovere la longevità e ridurre il rischio di diverse malattie cardiovascolari e renali, e anche di tumori. Sperimentata sui topi, riuscirebbe ad allungare l’aspettativa di vita media di circa il 12%. “Un esito importante, che dimostra come sia possibile interferire sui meccanismi dell’invecchiamento, ritardandone i segni”, commentano scienziati estranei allo studio.
Da notare che la ricerca dell’università americana segue il filone di un’altra, che ha dimostrato un notevole impatto di tale metodica dinanzi a patologie neuro-degenerative come l’Alzheimer. Su quest’ultima, inoltre, uno studio californiano ha annunciato la scoperta di un gene, l’“apoE4”, presente in circa un quarto della popolazione, neutralizzando il quale permetterebbe di dimezzare l’esposizione e il decorso della patologia. Esiti che destano parecchia speranza tra gli studiosi americani. “La ricerca sull’Alzheimer ha conosciuto molti fallimenti negli ultimi dieci anni, ma entro i prossimi dieci – pronostica ad esempio Michel Goedert, dell’Università di Cambridge – diventerà una malattia perlopiù gestibile”.
Tornando allo specifico dell’“autofagia”, si tratta ancora di meccanismi, nell’insieme, largamente da esplorare. Gli accademici texani rivendicano anche potenziali antitumorali alla loro metodica, tuttavia altri studi hanno viceversa rilevato come la stessa autofagia tenderebbe a favorire la progressione cancerogena, sia negli effetti cellulari che nella modulazione del “microambiente tumorale”.
In altri termini, l’autofagia sarebbe un meccanismo necessario non solo alla “sopravvivenza” del paziente, ma anche a quella dei tumori, sicché i due obiettivi potrebbero, almeno in alcuni casi, risultare alternativi. Ed è chiaro che serviranno ancora anni di studi perché si arrivi a far pendere la bilancia dal lato giusto.
Creare illusioni con roboanti annunci è uno degli errori più frequenti e colpevoli dell’informazione sulla salute, specie con riferimento a uno degli ambiti più drammatici, quello della patologia tumorale. Su questo, tuttavia, la ricerca sta compiendo reali passi avanti, in aggiunta ai traguardi già raggiunti negli ultimi decenni, che hanno significativamente innalzato la speranza di vita e di guarigione di molti. Negli ultimi giorni, in particolare, sono state annunciate novità di rilievo che convergono sull’obiettivo di limitare il ricorso ai trattamenti più invasivi, in particolare la chemioterapia.
Il caso più clamoroso - che ha trovato ampia eco nella stampa divulgativa (specie anglosassone), oltre che su quella scientifica - è quello di una 52enne americana affetta da un cancro al seno, su cui ben sette diversi cicli chemioterapici erano risultati privi di efficacia. Giunta a uno stadio di metastasi, estese in tutto il corpo (con ben 62 mutazioni tumorali), i medici hanno tentato un nuovo “approccio”, sperimentando una metodica immunoterapica, orientata a riattivare e potenziare le difese interne.
L’esito, a due anni di distanza, è una completa guarigione. “Ho iniziato a sentirmi meglio già dopo due settimane, e anche i dottori ballavano per la felicità”, ha raccontato la paziente. Il trattamento consisteva in un “trasferimento cellulare adottivo” basato sul prelievo di alcune centinaia di “cellule-T” poi moltiplicate in oltre 80 miliardi di globuli bianchi, che hanno poi avuto la meglio sulla malattia. Un “cambio di paradigma”, sottolineano gli scienziati, anche quelli estranei all’esperimento, ricordando che “per molti anni si era pensato che il carcinoma mammario diffuso non potesse essere attaccato dal sistema immunitario”. Invece, ai fatti, si può.
Il caso è stato tra l’altro discusso in queste settimane anche al Congresso annuale a Chicago dell’American Society of Clinical Onclolgy, dove sono emersi ulteriori riscontri di analoga portata. Uno studio newyorkese, in particolare, ha sperimentato un test su 21 geni tumorali di donne colpite da cancro al seno. In sintesi, è emerso che la chemio dopo l’intervento sarebbe evitabile per il 70% delle pazienti. Sarebbe loro sufficiente una meno invasiva terapia ormonale. Si prospetta dunque un cambio notevole nella pratica clinica, riconosciuto anche dagli scienziati italiani. “Parliamo di milioni di donne che potranno evitare la chemioterapia: è entusiasmante”, commenta il professor Giuseppe Curigliano, dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.
E non si parla solo del tumore al seno. Da un’altra ricerca presentata al medesimo Congresso, è stato documentato come, dinanzi al cancro alla prostata metastatico, una terapia “chemio-free”, costituita da un trattamento ormonale standard con l’aggiunta di una molecola, l’“abiraterone”, permetta di ridurre il rischio di morte del 36%.
Un’altra conferma allo stesso concetto: è il nostro corpo a essere depositario delle migliori difese. La medicina del futuro, e in parte già del presente, è quella che sa riconoscerle e “risvegliarle”.
“Tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina”, notava il filosofo Friedrich Nietzsche. “La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada; la vita stessa è un viaggio da fare a piedi”, sosteneva l’esploratore Bruce Chatwin. “Solvitur ambulando”, camminando si risolve, dicevano già gli antichi. Che la passeggiata sia un atto propizio per le nostre attività cerebrali è nella coscienza comune, sebbene messa ad alto rischio ai nostri giorni dalla sedentarietà, imposta da molte professioni e alimentata anche dall’illusione di poter realmente “viaggiare” stando immobili dinanzi allo schermo di un computer o smartphone.
Al contempo, si tratta di un nesso ancora, in parte, da esplorare e comprendere, sul piano fisiologico e neurologico. Un contributo di rilievo è stato annunciato in proposito nei giorni scorsi dall’Università Statale di Milano, tramite una pubblicazione su Frontiers in Neuroscience. I ricercatori hanno cercato di capire come il movimento fisico influenzi la neurogenesi, ossia la formazione di nuovi neuroni.
Hanno quindi tenuto sotto osservazione per 28 giorni due gruppi di topolini, uno dei quali veniva sottoposto a restrizioni al movimento. Nelle parole dei ricercatori, “abbiamo utilizzato un modello animale di topo in cui venivano impediti i movimenti antigravitari degli arti inferiori (ma non di quelli superiori), quali camminare, arrampicarsi, accovacciarsi e tutte le azioni in cui vi è attrito fra le gambe e il terreno”. Insomma, una condizione analoga a quella dei “pazienti costretti a letto o in sedia a rotelle oppure negli astronauti che fluttuano a bordo dei veicoli spaziali”.
Al termine, hanno analizzato, tramite risonanza magnetica, la “zona subventricolare”, ossia la sede cerebrale della neurogenesi nel cervello adulto. E qui le differenze tra i due gruppi sono risultate notevoli. Tra queste, una diminuzione del 70% delle cellule staminali neurali tra gli “immobilizzati”, uno sviluppo incompleto degli oligodendrociti, che costituiscono una protezione esterna ai tessuti nervosi, alterazioni perfino nella struttura genetica. Per gli scienziati, si tratta di “aspetti importanti per capire meglio i meccanismi alla base di complesse malattie neurologiche responsabili di disabilità”, quali la sclerosi multipla e l’atrofia muscolare spinale. Il messaggio è peraltro rivolto a tutti, e a ogni fascia di età. L’attività motoria, a iniziare dalla semplice camminata, è nutrimento essenziale non solo al nostro essere “in forma”, ma anche allo sviluppo del cervello, nonché un indispensabile argine alla neuro-degenerazione.
“C’era una volta” l’intervento a cuore aperto, e a torace spalancato. In realtà non si può ancora parlare al passato, perché questo tipo di chirurgia rimane in molti casi necessaria, con profili di efficacia e sicurezza crescenti nel tempo. Tuttavia, l’ambito delle procedure non invasive è in promettente aumento, e in questi giorni l’ospedale Molinette di Torino ha annunciato di aver portato a termine con successo un intervento di interesse mondiale in materia.
A un uomo di 61 anni è stato rimosso un tumore dal cuore, senza apertura toracica né incisioni chirurgiche, e a cuore battente. Non si è trattato di un azzardo, ma della scelta imposta dallo stato clinico del paziente che, non solo non aveva tratto beneficio dalla terapia farmacologica per la riduzione della massa tumorale, ma era affetto inoltre da altre patologie, oltre ad aver sofferto di neoplasie pregresse. Un quadro che rendeva pericolosa la rimozione anche tramite le oramai consolidate chirurgie mininvasive.
Ė stato allora applicato un “sistema di aspirazione” (il dispositivo si chiama “AngioVac”) per via percutanea, una sorta di “bypass extracorporeo veno-venoso”, capace tra l’altro di trattare trombosi profonde ed embolie polmonari. Un’apposita cannula di aspirazione è stata introdotta nella vena femorale destra, connessa a una pompa centrifuga, che ha permesso la raccolta del materiale, mentre il sangue veniva continuativamente reimmesso nel corpo tramite una seconda cannula, inserita nella vena giugulare. L’intero intervento si è concluso in un paio d’ore e il paziente è stato subito trasferito in reparto degenti in ottime condizioni generali, senza necessità di percorsi specifici di riabilitazione, solitamente necessari dopo un intervento al cuore.
A quarant’anni dall’invenzione dell’angioplastica, l’ambito della chirurgia mini-invasiva o addirittura per nulla invasiva è dunque in costante perfezionamento, e l’Italia conferma settori di eccellenza in proposito. C’è però un problema, che procede in parallelo ad altri limiti del nostro Servizio Sanitario. Ė quello della disomogeneità sul territorio nazionale: circa un terzo dei pazienti (stimati in circa un milione) non ha accesso alle procedure più avanzate.
Sono gli stessi cardiologi a lamentarlo. “Favorire un accesso più allargato alle metodiche percutanee mini invasive che al momento, nel nostro Paese, sono ancora sottoutilizzate rispetto alla media degli altri Paesi europei, ponendo l’Italia non ancora ai primi posti in questo settore, con conseguente sotto-trattamento dei pazienti” è infatti l’appello lanciato in questi giorni da Giuseppe Tarantini, presidente della Società Italiana di Cardiologia. Speriamo sia ascoltato.
Le lunghe crisi di governo, il famigerato “spread” che va giù e soprattutto su, i dati sul lavoro che si evolvono nel bene o nel male a seconda dell’angolo da cui si guardano, le scorie della più grave recessione del dopoguerra, la paura che ne arrivi un’altra, i problemi personali di ciascuno, che col passare degli anni sembrano aumentare anziché sgonfiarsi. I motivi di angoscia sono oggettivamente tanti, e se si vuole davvero misurare lo stato d’animo del nostro Paese, a iniziare dalla nostra salute, i dati sul consumo di ansiolitici possono costituire un buon indicatore.
Veritiero e amaro, purtroppo. Ė uscito un comunicato dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) nei giorni scorsi, che, a prima vista, sembra dire poco. I dati risultano infatti pressoché costanti nell’ultimo triennio sull’uso complessivo dei cosiddetti “antidepressivi”. Ma, a ben vedere, spuntano due problemi non da poco. Il primo è che quelle cifre sono comunque notevoli: almeno 3,6 milioni di italiani hanno ricevuto almeno una prescrizione di questo tipo di farmaci nell’ultimo anno. Il secondo è che emerge un aumento del consumo di ansiolitici, ipnotici e sedativi. Ė definito “lieve”, ma arriva invece alla notevole cifra, su base annua, dell’8%.
Aifa a detti stretti dall’Aifa lancia l’allarme. “Un campanello sugli aumentati livelli di stress e disagio psichico nella quotidianità”, nota lo psichiatra Massimo Cozza, coordinatore della più affollata Asl italiana, Roma 2, notando “una crescente solitudine, un futuro incerto e una sempre maggiore incapacità di gestire le frustrazioni”. Il nodo qui non è quello di un “abuso” di farmaci, spesso preziosi e necessari, ma quel che c’è dietro la necessità di ricorrervi.
Ed è un allarme da prendere sul serio, perché gli stati depressivi sono tra l’altro forieri di rischi aumentati di patologie neuro-degenerative. Un nuovo riscontro arriva dall’Università del Sussex, in Inghilterra, con una pubblicazione scientifica sulla rivista Psychological Medicine, che riassume le conoscenze attuali tramite una “revisione” di ben 34 ricerche pregresse in materia che coinvolge nell’insieme 71mila persone.
L’esito è una chiara conferma del nesso. Il declino cognitivo, legato fisiologicamente all’età, è decisamente più rapido nei soggetti che soffrono di disturbi depressivi, mentre l’essere di “indole positiva” ha un rilevante effetto “anti-ageing”. Si dice solitamente che “la salute è la prima cosa”, ma non siamo coerenti. Soprattutto, tendiamo a dimenticarci che la “salute” in oggetto è anzitutto “mentale”. Qualunque sia il problema del giorno, abbiamo il diritto, e anche il dovere – verso noi stessi e chi ci sta accanto – di ricercare il buonumore. Se il problema è il lavoro, un lavoratore infelice finirà per essere improduttivo. Se il problema è la vita, a maggior ragione, merita una nostra attenzione quotidiana. Alla felicità, prima che a tutto il resto. Ce la meritiamo, ed è la nostra salute a richiederla.
Dobbiamo cambiare rotta sull’ambiente, e con urgenza. Non è solo questione, esiziale, della difesa del pianeta e del nostro futuro, e nemmeno delle conseguenze sanitarie più evidenti dell’inquinamento per ciascuno di noi. Il fatto è che gli inquinanti risultano essere anche tra i primi responsabili del problema globale dell’obesità. Nell’elenco dei colpevoli anche le plastiche, su cui l’Unione Europea sta promuovendo inedite quanto sacrosante norme interdittive anche in materia di piatti, bicchieri e cannucce.
L'insidia, infatti, parte anche da casa. Nei giorni scorsi, in occasione del Congresso della Società europea di endocrinologia svoltosi a Barcellona, un gruppo di studiosi portoghesi ha proposto una serie di raccomandazioni contro l'accumulo domestico di “obesogeni”. Tra i suggerimenti: limitare (se non addirittura eliminare) l'impiego dei prodotti chimici (dai detergenti ai cosmetici); usare solo panni umidi per levare la polvere; togliersi rigorosamente le scarpe al rientro a casa; preferire i contenitori in vetro o alluminio a quelli in plastica.
“Gli adulti ingeriscono mediamente 5 milligrammi di polvere al giorno, i bambini il doppio”, spiegano i ricercatori lusitani nel sottolineare l’imperativo dell’igiene domestica. Aggiungendo che, oltre alla polvere, assumiamo senza accorgercene anche qualcosa di assai più nocivo: le “micro-plastiche”. Secondo una recente ricerca scozzese ne ingeriamo oltre 100 microparticelle in un solo pasto. Le plastiche, a loro volta, contengono sostanze ammorbidenti, che alterano il sistema ormonale, quali il Bisfenolo A, con conseguenti rischi tumorali, ricadute varie sul sistema immunitario e accresciuta esposizione al diabete e al sovrappeso, per cause ancora parzialmente oscure.
Gli indiziati principali sono gli imballaggi monouso e i contenitori plastificati, ma anche l’aria e le acque sono contaminate: l’inquinamento di mari e oceani non si limita infatti solo al deposito di rifiuti, le plastiche rilasciano sostanze che, come recentemente accertato, riescono a penetrare il tessuto cerebrale perfino di alghe e plancton, oltre che dei pesci di ogni dimensione.
Colesterolo, trigliceridi, insulino-resistenza: il nesso tra l’ingestione di inquinanti e i rischi di sovrappeso, nonché di esposizione al diabete, sono oramai documentati. In ogni chilometro quadrato di superficie di mare, mediamente, ci sono quasi ventimila frammenti di plastica - denuncia l’Onu – e se una parte rilevante di essi “sparisce” non è una magia: è perché sono ingerite da organismi viventi, che poi finiscono nel nostro stomaco.
“Le immagini sui pacchetti di sigarette mi sconvolgono così tanto… che mi viene subito da accendermi una sigaretta”, scherza un popolare comico romano, Francesco De Carlo. Dietro alle battute, il tema della comunicazione sui rischi del fumo è serissimo e complesso, con esiti a volte ambivalenti. La consapevolezza di quanto la sigaretta sia nociva – nonché legislazioni sempre più restrittive – hanno innescato una chiara tendenza al calo negli ultimi decenni. Il problema in Italia è che la parabola ha recentemente smesso di scendere, e che la principale categoria di “colpevoli”, stavolta, è costituita dalle donne.
Nell’ultimo anno il numero di fumatrici italiane si è impennato di oltre un milione, arrivando sulla soglia di circa 6 milioni, sostanzialmente “pareggiando” per la prima volta nella storia i maschi nell’amara classifica. Altro che “emancipazione”, qua ci sono conti che non tornano, e richiamano in causa l’informazione. In tutti gli altri indicatori sugli “stili di vita”, quantomeno in materia di quel che si “ingerisce”, dal cibo all’alcol ad altro, la donna, invece, primeggia ancora, conserva un’attenzione mediamente superiore alla cura di sé, per esigenze di salute, e anche di “estetica”.
Siamo alla “parola-chiave”, come discusso nei giorni scorsi al 39esimo Congresso della Società Italiana di Medicina Estetica (Sime). Se i rischi tumorali del fumo sono oramai abbastanza noti, quelli estetici no. La bellezza in gioventù è una coincidenza ereditaria, in età avanzata è un’arte da costruire e difendere. E la rinuncia al fumo è il più efficace dei “bisturi”.
I capelli tendono a diventare più radi, la pelle sempre più opaca, rugosa e meno elastica. “Le donne vengono a chiederci di riparare a questi danni, ma devono avere ben chiaro che la soluzione sarebbe nelle loro mani se imparassero a ridurre il fumo”, nota Nadia Fraone, vicedirettrice della Scuola di Medicina Estetica del Fatebenefratelli di Roma. La sigaretta danneggia i meccanismi di riparazione della pelle, riducendo la sintesi del collagene e dell'elastina e falcidiando le scorte di vitamina A, con effetti più gravi proprio tra le donne.
Le strategie di comunicazione delle multinazionali del tabacco naturalmente omettono di riepilogare i danni, anche estetici, del fumo. Alcune si prodigano da decenni a produrre ricerche che mettono in discussione la catena di effetti della sigaretta per la salute. Altre, consapevoli di non poter più difendere l'indifendibile, lanciano un messaggio ancor più subdolo e, nei suoi propositi, “efficace”: sostanzialmente, dicono “sì, il fumo fa male e io, produttore, responsabilmente, te lo confermo, per darti la piena libertà e responsabilità della scelta”, quasi a voler valorizzare “un'epica” nella sfida individuale alla salute. Tutti i produttori, comunque, convergono nel perpetuare il mito che scoraggia all'abbandono: quello sulla “grande difficoltà” a farlo. E' bene sapere che non lo è, quantomeno sul piano della dipendenza fisica, che si protrae per un periodo assai breve dalla rinuncia. Ed è bene sapere anche un'altra cosa, sempre sull'estetica: gli esiti della rinuncia sono repentini. “Smettere ha conseguenze positive evidenti sin dai primi mesi”, ricorda e incoraggia la dottoressa Fraone.
Dalle “pecore tosa-erba” per sistemare i parchi si arriva ora ai “cani-medico”? No, niente ironie qui sul “miglior amico dell’uomo”, perché il tema è scientifico e promettente. Il cane reca con sé un “dispositivo” che può gareggiare in qualche caso con i più sofisticati macchinari in sede di diagnostica. Si tratta dell’olfatto. La sua capacità di “sentire l’odore del male” è oggetto di attenzione piuttosto recente, e ancora di scarsa applicazione, ma il processo di ricerca è avviato, con buone risposte.
L’ultima novità è segnalata dall’Università neozelandese di Waikato, che annuncia il passaggio alla sperimentazione clinica dell’impiego dei cani per la diagnosi del cancro al polmone, usando campioni di alito e saliva dei pazienti. Il team sarà naturalmente interdisciplinare, e a coordinarlo curiosamente sarà uno psicologo. Si chiama Tim Edwards e aveva accertato il potenziale diagnostico degli animali lavorando in ambito umanitario in Africa, scoprendo in particolare la capacità del “ratto gigante” di rilevare la tubercolosi.
Tornando ai cani, e al cancro, la ricerca ha già dato parecchi esiti, anche in Italia. Quasi cinque anni fa, al Congresso Nazionale dell’Associazione Urologi Italiani, è stato annunciato il risultato eccellente di uno studio sul tumore alla prostata. “L'urina dei malati ha un odore particolare, che cani specificatamente addestrati sono in grado di percepire e riconoscere”, spiegava Gianluigi Taverna, Responsabile del Centro di Patologia Prostatica presso l'Istituto Clinico Humanitas, nell’area milanese. Nel dettaglio, la loro capacità diagnostica è stata valutata al 97%, con una sensibilità superiore al 98% e una specificità superiore al 96%: “Dati inimmaginabili rispetto alle procedure diagnostiche in uso”.
Meglio dell’urologo, insomma. Sicché il progetto è continuato, fornendo ulteriori conferme recenti, con la collaborazione del centro veterinario militare di Grosseto. Il massimo protagonista, oggi come allora, si chiama Liù. Ė una femmina di pastore tedesco, “entrata in servizio” per l’Esercito Italiano già nel 2010 e già impiegata, tra l’altro, in operazioni di sminamento per la sua capacità di fiutare gli esplosivi. Poi, la scienza. “Una volta tememmo che fosse entrata in confusione”, racconta un militare, in quanto fece la sua “diagnosi” alla prostata (su cui è specificamente addestrata) a un malato di tumore alla vescica. Invece aveva ragione lei: “Si è scoperto successivamente che quel paziente aveva sviluppato anche il cancro alla prostata”. Liù ha un modo semplice per emettere il suo verdetto, quasi infallibile. Si siede per terra.
Lo scenario è commovente quanto entusiasmante, e si allarga ad altre forme tumorali. La stampa americana ha recentemente celebrato un’altra cagna, un segugio, che, a New York, è riuscita a “segnalare” alla sua padrona, stuzzicandole ripetutamente il naso, la presenza di un cancro alla pelle, poi accertato dai medici. Non solo i tumori, comunque: l’impiego canino è già diffuso, specie negli Stati Uniti e in Gran Bretagna soprattutto per il diabete. Ci sono cani specificamente addestrati a fiutare l’odore dell’ipoglicemia per poi portare al proprietario il kit d’emergenza, aiutandolo a salvarsi la vita.
Belle, piccole ma nutrienti, “la forma perfetta”, una sostanza ad alto contenuto proteico. Delle uova si narrano però anche alcune controindicazioni di rilievo, che inducono anche i “non-vegani” a limitarne il consumo. Soprattutto, sarebbero un alimento “a rischio” per il colesterolo, con quel che consegue per i rischi cardiovascolari e altro. Su questo arriva però una smentita piuttosto sorprendente, con particolare riferimento a una delle categorie più a rischio, ossia le persone affette da diabete di tipo 2 o in uno stato definito “pre-diabetico”.
Lo si legge sull’American Journal of Clinical Nutrition con riferimento ad una ricerca australiana. Gli studiosi di un centro specializzato, affiliato all’Università di Sidney, hanno seguito per un anno 128 soggetti con diabete tipo 2 o in stato pre-diabetico suddivisi in due gruppi: il primo è stato sottoposto a una dieta ad alto consumo di uova (12 a settimana), il secondo autorizzato a consumarne massimo due a settimana. Lo studio è stato condotto cercando di “neutralizzare” altre variabili, relative alla condizione e alle abitudini alimentari del singolo, introducendo inoltre, per tutti, un elemento di variazione, ossia osservando i partecipanti mentre effettuavano un trimestre di dieta, a parità di consumo di uova.
In nessuna delle fasi coinvolte è emersa alcuna incidenza tra un elevato consumo di uova e parametri quali i livelli di colesterolo, la pressione sanguigna o la presenza di zuccheri nel sangue. Il dato è interessante anche perché, come ricordato dagli stessi ricercatori, le uova sono in effetti ricche di colesterolo. Evidentemente, quel che incide e che “entra” nel nostro sangue dipende soprattutto da altro.
Commentando i risultati, infatti, la ricercatrice Maria Ida Maiorino, della Società Italiana di Diabetologia (Sid), sottolinea che “ai pazienti inclusi nello studio veniva consigliato di consumare le uova bollite o in camicia, o anche fritte purché in olio extra-vergine di oliva”.
In altre parole, è importante anzitutto “come” si cucina, ovvero la qualità dei grassi utilizzati. Come ribadito nei giorni scorsi al Congresso annuale della stessa Sid, quelli “saturi”, come il burro o l’olio di palma, sono particolarmente nocivi per il cuore e i vasi, ma anche per pancreas e fegato. Mentre quello che si cuoce - eccessi a parte - è relativamente secondario. Per gli studiosi australiani, comunque, per quel che riguarda le uova anche i timori di esagerazione sono infondati: “Sono una fonte di proteine e micronutrienti che potrebbero avere una serie di effetti positivi sulla salute e di proprietà dietetich – dicono - tra cui aiutare a regolare l'assunzione di grassi e carboidrati, favorire la salute degli occhi, del cuore e dei vasi sanguigni sani e favorire la salute in gravidanza”.
È uno dei disturbi più frequenti, se non il più diffuso in assoluto. Ogni adulto si trova alle prese con un raffreddore, mediamente, per due volte all’anno, e tra i bambini si sale a quattro. Al contempo, i rimedi – dalle tradizionali tisane ai moderni farmaci – agiscono perlopiù favorendo il decorso della malattia e potenziando le difese del corpo. In altre parole, “attualmente non esistono trattamenti contro il raffreddore”, capaci cioè di bloccare il virus. Lo ricorda il biochimico italiano Roberto Solari, tra i protagonisti della sperimentazione di un nuovo antidoto. “È la prima molecola capace di contrastarlo”, annuncia.
Il problema del virus del raffreddore è che può presentarsi in centinaia di forme, e né il nostro sistema immunitario né i farmaci (inclusi i vaccini sperimentati da decenni) riescono a riconoscerle tutte. Inoltre, anche un ipotetico “attacco diretto al microbo” potrebbe essere vano se non controproducente, considerando la capacità e rapidità del bacillo di replicarsi, e di attivare inoltre meccanismi di farmaco-resistenza.
La novità ricordata da Roberto Solari, i cui dettagli sono pubblicati sulla rivista Nature Chemistry, emerge da un “approccio nuovo” al problema. I ricercatori dell’Imperial College di Londra stavano studiando, tra l’altro, un possibile antidoto alla malaria, e hanno intuito una potenziale soluzione dall’osservazione dei “comportamenti” molecolari. In termini semplici, anziché aggredire il virus, si tratterebbe di usarlo, “rubandone gli attrezzi” che mette in atto per, appunto, replicarsi.
Il virus, a margine delle capacità suddette di replica e autodifesa, ha infatti anche una debolezza. Non può vivere in maniera autonoma. Per sopravvivere e riprodursi deve infettare le cellule del corpo, dove incrocia una specifica molecola (si chiama “Nmt”). Il meccanismo scoperto in Inghilterra è la capacità di “sabotare” tale molecola umana, bloccandone le funzioni protettive del virus, e quindi arrestandolo. “Siamo agli inizi”, precisa Solari, in quanto la sperimentazione è stata finora effettuata solo in laboratorio, ma è un inizio che sembra foriero di una vera e propria rivoluzione terapeutica.
Nell’attesa che lo sviluppo arrivi sul banco del farmacista (e ci vorrà ancora un po’ di tempo), permangono le raccomandazioni “classiche” sulla prevenzione e cura. Tra queste, attenzione, non figura affatto quella di “alienarsi” dal mondo per evitare i contagi. Chi pensa così rischia di andare del tutto fuori strada. Una recente ricerca americana ha documentato viceversa come la solitudine amplifichi l’impatto sintomatologico del raffreddore. A ennesima conferma di come una buona rete di relazioni sociali sia fondamentale, anche per la salute.
Il tema delle “bufale”, diffuse su web è social network, è assai critico e pericoloso sull’ambito della salute, come qui già più volte segnalato in relazione a vaccinazioni e altro. E a risultare, a tutt’oggi, particolarmente ricco di mitologie e falsità, è proprio il delicato settore della sessualità e della salute riproduttiva. Lo si è rimarcato in questi giorni a Roma, al 42esimo Congresso nazionale della Società Italiana di Andrologia (Sia).
La “fake” numero uno, come segnalato anche dall’apposito portale dell’Istituto Superiore di Sanità, è nell’idea stessa che la sterilità sia un problema essenzialmente, o almeno principalmente, femminile. Non lo è affatto. “Diversamente da quanto si crede, nella metà dei casi le cause sono da ricercare nell’uomo”, nota il presidente della Sia Alessandro Palmieri, rimarcando inoltre come il problema generale sia in rapido aumento: “Una coppia su cinque ha difficoltà a procreare per vie naturali, proporzione raddoppiata rispetto a vent’anni fa”.
Un incremento che sembra attribuibile proprio ai maschi, con la stima di circa due milioni di italiani “ipo-fertili”. L’immediata ricaduta di tale ignoranza è che il 25% delle coppie che ricorrono alla Procreazione Medicalmente Assistita (Pma) fanno il passo senza aver prima effettuato una banale verifica andrologica del liquido seminale. Laddove emergono scompensi, la soluzione terapeutica è possibile e anzi più semplice che per le donne, principalmente con trattamenti ormonali. Questi possono evitare il ricorso alla Pma (e i suoi alti costi), da considerarsi solo come “ultima spiaggia”, ma anche, quando risulta davvero necessaria, incrementarne le possibilità di riuscita. Una “bufala” ulteriore riguarderebbe l’effetto collaterale delle terapie a base di testosterone sui rischi cardiovascolari: “È vero invece il contrario, è chi ha il testosterone basso ad avere più rischi di infarto e ictus”, nota la Sia.
Lo slogan della Sia è allora quello di una “Procreazione Naturalmente Assistita”, che passi attraverso una migliore informazione al paziente, in sinergia con i ginecologi, con riferimento anche ai fattori di rischio. Se l’infertilità è aumentata, lo si deve non solo all’invecchiamento della popolazione (anche l’uomo ha il suo “orologio biologico”, dopo i 40 anni la sua capacità riproduttiva diminuisce sensibilmente), ma anche a un insieme di fattori riguardanti gli “stili di vita”, individuali e collettivi. Obesità, fumo, alcol, scelte riproduttive rinviate all’età avanzata, diagnosi tardiva di patologie come il varicocele, e perfino l’inquinamento: negli ultimi anni la concentrazione di spermatozoi si è dimezzata, e questo sarebbe ascrivibile anche a “interferenti endocrini”, quali il bisfenolo A, contenuto in plastiche e pesticidi.
Tra gli altri punti segnalati prioritariamente dalla Sia c’è il classico “spauracchio del ciclismo”: “Non causa problemi di erezione e infiammazione alla prostata”, chiariscono gli andrologi italiani, citando in particolare una recente ricerca californiana. Un altro tabù è che l’avere molti rapporti sessuali potrebbe alimentare i rischi di infiammazione e di tumore alla prostata. Di nuovo, dalle ultime ricerche emergerebbe semmai l’esatto opposto, una frequente eiaculazione sarebbe un fattore protettivo.
L'innalzamento stagionale delle temperature e, per alcuni, l'ambizione di un esito accettabile della “prova costume” convergono nella tendenza a una limitazione dei bisogni e dei consumi calorici ma la questione è ben lungi dal rappresentare solo un tema “estetico”.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha infatti colto la palla al balzo per lanciare una serie di messaggi pressanti, a livello globale, per una limitazione drastica del consumo di alcuni tipi di grassi.
La stessa Oms, finora, non aveva collocato la qualità alimentare tra le sue massime priorità. Un suo primo documento, dedicato genericamente alle problematiche “non trasmissibili”, e “non patologiche” risale al 1989, un suo aggiornamento è stato formulato tredici anni più tardi. Adesso si annunciano delle nuove “linee guida” che fissano alcune priorità ineludibili. In particolare, si raccomanda una dieta in cui le calorie derivanti dai grassi saturi (presenti ad esempio nella carne o nei latticini) non superino il tetto del 10%.
Il documento è del resto presentato come una bozza, oggetto essa stessa di una “consultazione pubblica globale”, alla quale è possibile partecipare fino al primo giugno. La modalità partecipativa è concepita proprio per incentivare la consapevolezza sull'importanza della qualità alimentare, da parte dei Governi e dei produttori alimentari, ma anche dei singoli cittadini. Tra l'altro, viene sottolineato il nesso, oramai ben documentato dalla scienza, tra un eccesso di tali grassi e le patologie cardiovascolari, che costituiscono la principale causa di morte nel mondo, provocando, si stima, circa 17 milioni di decessi nell'ultimo anno.
Se il tetto per i grassi saturi è fissato al 10%, quello relativo ai cosiddetti “acidi grassi trans” industriali (contenuti perlopiù nei fritti di fast-food, merendine ecc.), dovrebbe non superare l'1%. A essi è attribuito infatti l'aumento di rischio di patologie cardiovascolari (21%) e mortalità (28%). Lo stesso paletto dell'1% costituisce solo un'indicazione di massima, in quanto l'obiettivo dell'Oms è anzi quello di una totale “messa al bando” di tali grassi entro il 2023. Qualche passo rilevante – riconosce l'organizzazione – è già stato compiuto nei Paesi avanzati, ma molto rimane da fare, specie in quelli emergenti.
Il ricorso ai grassi “buoni”, e in particolare all'olio extravergine d'oliva, simbolo stesso della dieta mediterranea, si eleva dunque a priorità massima di un'alimentazione salubre. E però bene anche evitare l'eccesso di “allarmismi” e “mode passeggere” sull'insieme del tema alimentare, come ricorda l'Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (Adi), che riconosce il problema collettivo dell'incremento delle persone in sovrappeso ma, tramite una ricerca, scova un “colpevole” molto banale, ossia l'ampiezza aumentata dei nostri piatti. Morale, al netto di un'attenzione prioritaria a evitare i grassi saturi e quelli industriali, il messaggio è quello di recuperare il piacere del cibo, senza troppi paletti, se non quello, semplicissimo, di goderne in quantità moderate.
Dal 17 al 20 maggio. Si spalma in ben quattro giorni l'ultima edizione di “Race for the Cure”, nello spettacolare scenario romano del Circo Massimo, tra consulti e prestazioni specialistiche gratuite, laboratori di benessere e alimentazione, aree giochi per i più piccoli, concorsi fotografici, con l'epilogo, domenica, di cinque chilometri di corsa competitiva e amatoriale, oppure solo due di passeggiata. Nel nome della lotta ai tumori del seno. Dedicato dunque alle donne, da curare, ma anche da indirizzare verso corretti comportamenti di prevenzione, a iniziare appunto dall'attività fisica.
“Ogni anno 50mila donne si ammalano di tumore al seno in Italia, e 12mila perdono la vita: un numero che non si può più tollerare perché - se si interviene in tempo - si ottiene oltre il 90% di possibilità di guarigione”, nota Riccardo Masetti, presidente di Komen Italia. L'organizzazione, promotrice dell'evento, ha finora raccolto 15 milioni di euro per circa 800 progetti di ricerca, sensibilizzazione e prevenzione. Fu istituita nel 2000, come costola dell'omonima organizzazione americana, tra l'altro insignita nove anni fa da Barack Obama della “Medal of Freedom”, la più alta onorificienza civile americana.
Non è del resto al momento l'unica iniziativa di rilievo per la salute femminile. Dallo scorso 8 marzo, fino al 26 giugno, è in corso “Prevenzione possibile - La salute al femminile”, tour itinerante promosso in 31 città italiane con il patrocinio, tra gli altri, della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare, Federfarma e Federazione italiana medici di medicina generale, con un focus esteso all'osteoporosi e all'ambito cardiovascolare stesso.
In tutti i casi, gli appelli e le concrete iniziative vanno ben oltre l'obiettivo di un'attenzione pubblica (e professionale) accresciuta per la salute della donna. Il messaggio è rivolto anzitutto alle donne stesse, spesso in prima linea nell’accompagnare i parenti nelle loro esigenze sanitarie mettendo in secondo piano la cura di sé.
Gli ultimi dati ufficiali sugli “stili di vita” in Italia sono piuttosto ambivalenti. Le donne sembrano prestare un'attenzione maggiore, rispetto agli uomini, alla qualità alimentare: le prime sono in sovrappeso per il 23,9%, i secondi superano il 40%. Questo anche grazie a un minor ricorso all'alcol, il cui consumo eccessivo riguarda il 23,2% degli uomini e solo il 9,1% delle donne. Va assai peggio per le sigarette, il cui uso è in calo solo tra i maschi, mentre solo nell'ultimo anno si rilevano oltre un milione di fumatrici in più, arrivando alla cifra complessiva di quasi 6 milioni di tabagiste. Note dolenti anche per lo sport. Il 39,2% degli italiani non pratica alcuna attività fisica, e tra le donne si sale al 43,4%.
Eventi, conferenze, celebrazioni da Roma alle periferie (a iniziare da Trieste e Gorizia, dove la rivoluzione cominciò), e stavolta parecchia eco mediatica. Il 13 maggio di esattamente quarant’anni fa venne varata la legge 180, che stravolse i paradigmi della salute mentale, abolendo i manicomi, “scarcerando” i pazienti e avviando tutt’altra logica terapeutica, che da un approccio solo farmacologico, oltre che reclusivo, ha incluso quello di un’attenzione sociale e psichiatrica organica. Nelle parole semplici di Franco Basaglia: “Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata”.
Una vera e propria rivoluzione, che per una volta è partita da noi, sfidando diffidenze e paure globali. “L'Italia ha dimostrato che si può fare a dispetto di molti in Europa che pensavano fosse troppo rischioso chiudere i manicomi – nota il presidente della Società Italiana di Psichiatria Bernardo Carpiniello – tanto che le riforme che sono state fatte in questi decenni in diversi Paesi vanno sì verso l'umanizzazione delle cure, ma non si ha il coraggio di chiudere queste strutture tout court. Noi l'abbiamo fatto, con coraggio”.
Tra le tante difficoltà, quella norma ha condotto a una catena di esiti concreti. I manicomi non ci sono in effetti più, in parte sostituiti da strutture residenziali o semi-residenziali aperte e assistite nell'orizzonte, al contempo, dell'autonomia individuale e dell'integrazione sociale, interna ed esterna. E è stata allestita una rete di servizi sociali, tra Dipartimenti e Centri di salute mentale, diffusa abbastanza capillarmente sul territorio nazionale, tanto da risultare esemplare per l'“assistenza territoriale”, sempre più invocata per l'intero sistema sanitario.
Anche gli ultimi dati sul personale dell'assistenza psichiatrica sono parzialmente positivi: nel 2016 erano quasi 32mila, oltre duemila in più rispetto all'anno precedente. “Permane però un'importante carenza”, ricorda Massimo Cozza, coordinatore del Dipartimento di salute mentale più copioso in Italia (dell'Asl Roma 2, al servizio di 1,3 milioni di abitanti): l'obiettivo governativo è fissato ad almeno un operatore per 1500 abitanti, e per raggiungerlo ne servirebbero quasi novemila in più.
A complicare il quadro è che ad aumentare sono anche i pazienti, con la complicità – riconosciuta unanimemente dagli addetti ai lavori – delle difficoltà economiche aggravatesi in questi anni. Gli utenti censiti e seguiti dai Dipartimenti sono stati 807mila nel 2016, quasi trentamila in più sull'anno precedente. Ulteriore concomitanza, il disagio contribuisce all'affollamento dei Pronto soccorso. Oltre mezzo milione di italiani vi si sono recati per disturbi psichiatrici nell'ultimo anno. “Nella metà dei casi erano solo sindromi nevrotiche e somatoformi, che avrebbero potuto essere gestite altrove”, nota ancora Cozza. La “Sanità territoriale” dovrebbe servire proprio a questo, e ciò non vale naturalmente solo per la psichiatria. “Servono risposte adeguate e una cultura che non riduca la malattia alla medicalizzazione”, incalza Franco Rotelli, storico braccio destro di Basaglia.
Il 78% della popolazione italiana ha difetti visivi. Ma per una strana omissione psicologica tendiamo spesso a dimenticarci dell’insidia, dinanzi a una delle nostre funzioni vitali più essenziali. Ed è un difetto grave, perché la vista richiede cura e prevenzione, nell’imperativo della tempestività. Nei giorni scorsi è stata annunciata tra l’altro l’istituzione di un apposito “Osservatorio”, l’Osvi (Osservatorio per la Salute della VIsta), come costola dell’Agenzia Nazionale per la Prevenzione (associazione di promozione sociale), per sensibilizzarci sull’ampiezza del problema, e anche per ricordarci l’importanza di periodici controlli.
Secondo un’indagine dell’onlus Commissione Difesa Vista, circa il 40% degli italiani non si reca adeguatamente dall’oculista, e quasi il 20% indossa una correzione visiva inadeguata alle proprie necessità. Incuranze che si aggravano ulteriormente per i bambini, che dovremmo proteggere: uno su due non ha mai effettuato una visita specialistica.
La tendenza è peraltro globale, con proporzioni analoghe. Sulle motivazioni delle mancate visite periodiche, secondo il Barometer of Global Eye Health (da un’indagine sui Paesi di vari continenti, Italia inclusa), in due terzi dei casi si adduce il fatto che non hanno sintomi o non si considerano, appunto, prioritari, i controlli della vista (rispetto ad esempio ai controlli per la pressione), nell’altro terzo si lamentano problemi economici.
Tra gli altri dati, emerge un’attenzione leggermente aumentata nella prevenzione tra le donne, e anche il riconoscimento pressoché unanime tra gli specialisti (il 97%) di un’inadeguata sensibilizzazione pubblica sull’importanza del tema. Che non si limita alla “perdita di qualche diottria”. Si pensi che il glaucoma, ad esempio, colpisce al momento un milione di italiani, oltre a rappresentare la seconda causa di cecità evitabile nel mondo. Di più, sono proprio gli occhi spesso a poter rivelare, da attente osservazioni, la presenza di decine di patologie che coinvolgono altre parti del corpo, inclusi tumori e diabete.
Restando all’ambito delle facoltà visive, si stima che l’80% dei deficit può essere prevenuto se diagnosticato e trattato in tempo. Deficit che, secondo l’Istat, coinvolgono in modo grave quasi un terzo degli ultra-65enni, e più della metà degli over-80. In tutto questo il difetto di prevenzione è davvero grave. Poco interesse? In realtà no, solo scarsa conoscenza. Lo stesso Barometer rivela che le persone generalmente preferirebbero sacrificare un arto o qualche anno di vita piuttosto che perdere la vista.
Lo sa bene, con qualche stupore, chi si è cimentato in qualche colloquio di lavoro in ambito internazionale. Capita spesso la domanda: “Se arriva un’emergenza a fine giornata, che fai”? Ambendo a quel lavoro si sarebbe portati a rispondere: “Resto io, se necessario tutta la notte, finché non risolvo il problema”. Non fatelo, perché quella risposta sarebbe valutata malissimo dagli stessi selezionatori. Un’adeguata “work-family balance” è ritenuta un imperativo dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dall’Unione Europea, dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e da qualsiasi statista e datore di lavoro sensato. Gli eccessi lavorativi finiscono nel tempo col compromettere la produttività e la salute, ingenerando per giunta costi ulteriori, individuali e collettivi, per la terapia resa poi necessaria.
“Pensavamo che la tecnologia avrebbe facilitato il nostro tempo libero”, osserva Peter Fleming, professore di “Business and Society” all’Università di Londra, notando invece che “mentre nel 2002 meno del 10% degli impiegati controllava le email di lavoro fuori dall’ufficio, oggi, con la complicità di tablet e smartphone, si è arrivati addirittura al 50%, spesso perfino prima di coricarsi a letto”.
Non va affatto bene, e ci sono oramai conferme scientifiche solide su quanto i sovraccarichi di stress, di ansia, di fatica e di sedentarietà legata al fatto di stare troppo inchiodati dinanzi allo schermo di lavoro siano deleteri. Una ricerca americana su 8mila impiegati di circa 45 anni ha rilevato che quelli che lavoravano oltre le 13 ore al giorno aveva una probabilità raddoppiata di incorrere in morte prematura rispetto ai colleghi che lavorano un paio d’ore in meno.
Un’altra ricerca, svolta a Londra su 85mila lavoratori, sempre di mezza età, ha identificato una correlazione tra orari lavorativi eccessivi e rischi cardiovascolari di varia natura. Per quel che riguarda l’ictus, ad esempio, è emersa un’esposizione addirittura quintuplicata.
Lavorare troppo insomma fa male, e oltretutto, all’evidenza, non serve. Recenti indagini internazionali – una anche dell’Ocse – hanno stilato classifiche, tra i Paesi avanzati, sul miglior equilibrio “lavoro-riposo”. Il dato che balza agli occhi è che quelli in cui si riposa di più sono anche tra i più ricchi, come l’Olanda o la Danimarca, mentre sulla sponda opposta figurano Stati come la Turchia, dove il tenore di vita medio è nettamente inferiore. L’Italia si trova in una posizione intermedia. Qual è il “giusto tempo di lavoro”? Secondo uno scienziato americano Alex Soojung-Kim Pang, è di quattro ore al giorno. Oltre quel tetto, sostiene, c’è solo insalubre fatica e inutile stress.
“Chi governa, deve darsi una mossa, il disavanzo in termini di qualità della vita si sta facendo insopportabile”, incalzava nelle scorse settimane Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, quasi a prefigurare le difficoltà odierne nella costruzione di responsabilità governative in un contesto oggettivamente critico, anche nella salute. Il tema era l’ultimo rapporto annuale dell’Osservatorio Nazionale sulla Sanità nelle Regioni, che ha fotografato un quadro poco accettabile sulle sperequazioni nel servizio sanitario, tali da mettere a repentaglio il diritto costituzionale e universale all’assistenza, oltre che la celebrata tradizione della “migliore sanità al mondo”.
Il primo dato è che gli italiani rimangono ai vertici mondiali per longevità ma in condizioni peggiori degli altri Paesi avanzati. Più dell’11% dei connazionali oltre i 65 anni dichiara ad esempio difficoltà fisiche tali da non riuscire a svolgere autonomamente le attività più elementari, come mangiare o alzarsi dal letto. La media europea è invece inferiore al 9%, in Danimarca si scende al 3. E’ un segnale grave, perché già oggi tale fascia rappresenta un quinto della popolazione, e nei prossimi decenni, per la naturale evoluzione della piramide dell’età, salirà ulteriormente e di parecchio.
E sono in tanti a lamentare un’assistenza inadeguata mentre, per una volta, si notano miglioramenti sul piano dei comportamenti personali. Scende, e di molto, la proporzione che usa o abusa di alcol, e sale, seppur timidamente, quella che svolge qualche attività sportiva, circa un terzo della popolazione. E migliora anche la qualità della medicina, come documentano i dati sulla speranza di vita crescente delle persone affette da un tumore o da gravi malattie croniche.
Insomma, la scienza fa i suoi passi, e anche i singoli migliorano un po’ i loro stili di vita, eppure il sistema sanitario lamenta serie difficoltà, e questo emerge in particolare sul piano delle sperequazioni regionali. Lo documentano i dati sulla mortalità stessa dei malati, in rapido calo al nord, e non al sud, così come quelli sulla mortalità precoce. Tendenze che procedono in parallelo a quelle sulla prevenzione diagnostica: se nel Trentino, ad esempio, gli esami per il tumore del colon raggiungono il 72% dei cittadini, in Puglia si scende al 13%. “E' evidente il fallimento del Servizio Sanitario Nazionale nella sua ultima versione federalista, nel ridurre le differenze di spesa e della performance fra le regioni italiane”, commenta senza giri di parole Ricciardi.
E c’è un parallelo ulteriore. Le regioni meridionali, con qualche eccezione, sono anche quelle che ricorrono meno ai farmaci generici, forieri di risparmio pubblico e privato a parità di efficacia e sicurezza terapeutica. Segno che la discrepanza non è solo nelle risorse, ma anche nella qualità del loro impiego. A tal proposito emerge l’esigenza di preservare quantomeno un ruolo scientifico e decisorio centralizzato e uniforme in materia di validazione dei medicinali, incluso l’ambito degli equivalenti. “Riteniamo che la centralità dell’Agenzia del Farmaco in questo campo vada in tutti i modi salvaguardata”, incalza il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann. Nel nome della sicurezza, e di quell’orizzonte, seppur fragile, di una Sanità a disposizione di tutti.
Il subitaneo passaggio da temperature invernali all’afa estiva sta inquietando un po’ gli “esteti”, per l’inatteso anticipo della temuta “prova costume”. L’esigenza di mettersi un po’ a dieta e di migliorare la qualità alimentare è però anzitutto sanitaria. Il dilagare della popolazione in sovrappeso profila una vera e propria emergenza, che tra l’altro ricade in rischi aumentati di diabete.
A rilanciare l’allarme è stato nei giorni scorsi l’Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo), nel suo ultimo rapporto realizzato in collaborazione con l’Istat. Gli italiani obesi che hanno il diabete sono oramai circa due milioni, con un rischio di mortalità decuplicato rispetto ai diabetici non in sovrappeso. La cifra complessiva dell’obesità nel nostro Paese supera i 3,2 milioni, ossia il 5,6% della popolazione. E si tratta di cifre raddoppiate negli ultimi trent’anni. “Possiamo considerare diabete e obesità come una pandemia, con serie conseguenze in termini di riduzione dell'aspettativa e della qualità della vita, e notevoli ricadute economiche”, commenta il presidente dell’Ibdo Renato Lauro.
L’equivoco di fondo (percepito da molti) è che il diabete sia uno sfortunato accidente legato essenzialmente a variabili genetiche. Questo vale, in parte, per alcune varianti, ma nella maggior parte dei casi no, come documentato, tra l'altro, dall’incidenza della patologia tra le fasce di età: è inferiore al 2% tra le persone con meno di 50 anni, mentre sale a quasi il 10% nella fascia superiore.
Per il resto, il diabete ha una leggera prevalenza maschile, e soprattutto è strettamente legato a fattori socio-economici. Al Mezzogiorno, benché culla per definizione della dieta mediterranea, l’incidenza è assai maggiore, sia nell’esposizione alla malattia, sia sulle sue percentuali di mortalità. Pesano i risparmi nelle scelte alimentari, con ricadute sulla qualità, e pesa un quadro complessivo di peggiore assistenza sanitaria. Questione di denari, anzitutto, ma anche, in parte, di organizzazione del sistema salute nel suo insieme, considerando che generalmente sono proprio le Regioni del Sud (con qualche eccezione, come la Puglia) le più refrattarie all’uso di farmaci generici che, a parità di efficacia e sicurezza terapeutica, consentono risparmi rilevanti ai cittadini e alle casse pubbliche.
Su “quale dieta” scegliere, nell’imperativo di perdere un po’ di peso, la priorità è dunque la qualità alimentare nel suo insieme. Lo ha documentato recentemente anche uno studio della Fondazione Gimbe. “Qualsiasi dieta bilanciata a ridotto contenuto di carboidrati o di grassi fa dimagrire, ma non è possibile raccomandarne nessuna in particolare, viste le esigue differenze tra i vari regimi dietetici”, ha spiegato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione. Non esiste la “dieta perfetta”, l'una o l'altra cambia poco, e può calibrarsi in base anche alle preferenze alimentari di ciascuno. Esiste però una priorità, quella di ricominciare a mangiar bene.
Il pensiero corre subito all’attualità, ossia al caso recente di un campione dello sport, in apparenza sanissimo, il calciatore azzurro Davide Astori, colto da un arresto cardiaco per cause ancora non ben comprese. Per lui, comunque, l’anomalia genetica della cosiddetta “sindrome di Brugada” era stata esclusa. Si tratta comunque di una delle principali cause di morte cardiaca improvvisa (si stimano 400mila decessi l’anno in Europa, tre milioni nel mondo). Scaturisce da un disturbo dell’attività elettrica che può innescare gravi aritmie. Scoperta recentemente in Italia, è proprio dal nostro Paese che si annunciano in questi giorni novità assai importanti sul profilo della prevenzione e non solo.
Andiamo per ordine. La sindrome deve il suo nome a due scienziati spagnoli, i fratelli Pedro e Josep Brugada, che l’hanno descritta in modo accurato nel 1992, ma sulla base di caratteristiche già rilevate, e pubblicate, quattro anni prima da cardiologi italiani. Nessuna “competizione”, comunque, tant’è che l’esito della ricerca ora pubblicata dall’Irccs Policlinico San Donato sul Journal od the American College of Cardiology, scaturisce proprio dalla collaborazione tra gli scienziati italo-iberici.
Avrebbero scovato le cause delle anomalie elettriche, identificandole in tessuti di cellule raggruppate come “isole circondate da tessuto sano, come una cipolla, con un cerchio centrale caratterizzato da cellule più aggressive e predisposte a generare un arresto cardiocircolatorio”, nelle parole del direttore dell’Unità di Aritmologia del Policlinico, Carlo Pappone. Quelle “isole” finora erano sconosciute e, sebbene asintomatiche, sarebbero presenti sin dall’infanzia sulla superficie epicardica del ventricolo destro, con i rischi che conseguono, anche fatali, per tutto l’arco della vita.
Il nuovo studio, che ha arruolato centinaia di pazienti (sopravvissuti ad arresto cardiaco o con rischi cardiovascolari sfumati), ha anzitutto documentato come tali anomalie non siano captabili da un comune elettrocardiogramma. Al contempo, annuncia l’Irccs, è stato elaborato “un software in grado di riconoscere in modo automatico la distribuzione delle aree anomale e di particolari sonde in grado di emettere impulsi di radiofrequenza che 'ripuliscono come un pennello', la superficie anomala del ventricolo destro, rendendolo elettricamente normale”.
L’innovazione non coinvolge quindi solo la diagnosi ma anche la terapia. Si “evidenzia la possibilità di eliminare quelle isole anomale, utilizzando delle onde di radiofrequenza di breve durata, con lo scopo di riportare quelle cellule a un corretto funzionamento elettrico”. E sembra molto più di una possibilità: “350 pazienti sono stati sottoposti finora a tale procedura, mostrando la completa normalizzazione”, riferisce il professor Pappone, che aggiunge: “ciò che veniva considerata una falsa speranza può considerarsi realtà: oggi è possibile prevenire la morte improvvisa in giovani pazienti affetti dalla Sindrome di Brugada e salvare quelli con ripetuti arresti cardiaci altrimenti non trattabili eliminando le anomalie elettriche del cuore”.