“Le immagini sui pacchetti di sigarette mi sconvolgono così tanto… che mi viene subito da accendermi una sigaretta”, scherza un popolare comico romano, Francesco De Carlo. Dietro alle battute, il tema della comunicazione sui rischi del fumo è serissimo e complesso, con esiti a volte ambivalenti. La consapevolezza di quanto la sigaretta sia nociva – nonché legislazioni sempre più restrittive – hanno innescato una chiara tendenza al calo negli ultimi decenni. Il problema in Italia è che la parabola ha recentemente smesso di scendere, e che la principale categoria di “colpevoli”, stavolta, è costituita dalle donne.
Nell’ultimo anno il numero di fumatrici italiane si è impennato di oltre un milione, arrivando sulla soglia di circa 6 milioni, sostanzialmente “pareggiando” per la prima volta nella storia i maschi nell’amara classifica. Altro che “emancipazione”, qua ci sono conti che non tornano, e richiamano in causa l’informazione. In tutti gli altri indicatori sugli “stili di vita”, quantomeno in materia di quel che si “ingerisce”, dal cibo all’alcol ad altro, la donna, invece, primeggia ancora, conserva un’attenzione mediamente superiore alla cura di sé, per esigenze di salute, e anche di “estetica”.
Siamo alla “parola-chiave”, come discusso nei giorni scorsi al 39esimo Congresso della Società Italiana di Medicina Estetica (Sime). Se i rischi tumorali del fumo sono oramai abbastanza noti, quelli estetici no. La bellezza in gioventù è una coincidenza ereditaria, in età avanzata è un’arte da costruire e difendere. E la rinuncia al fumo è il più efficace dei “bisturi”.
I capelli tendono a diventare più radi, la pelle sempre più opaca, rugosa e meno elastica. “Le donne vengono a chiederci di riparare a questi danni, ma devono avere ben chiaro che la soluzione sarebbe nelle loro mani se imparassero a ridurre il fumo”, nota Nadia Fraone, vicedirettrice della Scuola di Medicina Estetica del Fatebenefratelli di Roma. La sigaretta danneggia i meccanismi di riparazione della pelle, riducendo la sintesi del collagene e dell'elastina e falcidiando le scorte di vitamina A, con effetti più gravi proprio tra le donne.
Le strategie di comunicazione delle multinazionali del tabacco naturalmente omettono di riepilogare i danni, anche estetici, del fumo. Alcune si prodigano da decenni a produrre ricerche che mettono in discussione la catena di effetti della sigaretta per la salute. Altre, consapevoli di non poter più difendere l'indifendibile, lanciano un messaggio ancor più subdolo e, nei suoi propositi, “efficace”: sostanzialmente, dicono “sì, il fumo fa male e io, produttore, responsabilmente, te lo confermo, per darti la piena libertà e responsabilità della scelta”, quasi a voler valorizzare “un'epica” nella sfida individuale alla salute. Tutti i produttori, comunque, convergono nel perpetuare il mito che scoraggia all'abbandono: quello sulla “grande difficoltà” a farlo. E' bene sapere che non lo è, quantomeno sul piano della dipendenza fisica, che si protrae per un periodo assai breve dalla rinuncia. Ed è bene sapere anche un'altra cosa, sempre sull'estetica: gli esiti della rinuncia sono repentini. “Smettere ha conseguenze positive evidenti sin dai primi mesi”, ricorda e incoraggia la dottoressa Fraone.
Dalle “pecore tosa-erba” per sistemare i parchi si arriva ora ai “cani-medico”? No, niente ironie qui sul “miglior amico dell’uomo”, perché il tema è scientifico e promettente. Il cane reca con sé un “dispositivo” che può gareggiare in qualche caso con i più sofisticati macchinari in sede di diagnostica. Si tratta dell’olfatto. La sua capacità di “sentire l’odore del male” è oggetto di attenzione piuttosto recente, e ancora di scarsa applicazione, ma il processo di ricerca è avviato, con buone risposte.
L’ultima novità è segnalata dall’Università neozelandese di Waikato, che annuncia il passaggio alla sperimentazione clinica dell’impiego dei cani per la diagnosi del cancro al polmone, usando campioni di alito e saliva dei pazienti. Il team sarà naturalmente interdisciplinare, e a coordinarlo curiosamente sarà uno psicologo. Si chiama Tim Edwards e aveva accertato il potenziale diagnostico degli animali lavorando in ambito umanitario in Africa, scoprendo in particolare la capacità del “ratto gigante” di rilevare la tubercolosi.
Tornando ai cani, e al cancro, la ricerca ha già dato parecchi esiti, anche in Italia. Quasi cinque anni fa, al Congresso Nazionale dell’Associazione Urologi Italiani, è stato annunciato il risultato eccellente di uno studio sul tumore alla prostata. “L'urina dei malati ha un odore particolare, che cani specificatamente addestrati sono in grado di percepire e riconoscere”, spiegava Gianluigi Taverna, Responsabile del Centro di Patologia Prostatica presso l'Istituto Clinico Humanitas, nell’area milanese. Nel dettaglio, la loro capacità diagnostica è stata valutata al 97%, con una sensibilità superiore al 98% e una specificità superiore al 96%: “Dati inimmaginabili rispetto alle procedure diagnostiche in uso”.
Meglio dell’urologo, insomma. Sicché il progetto è continuato, fornendo ulteriori conferme recenti, con la collaborazione del centro veterinario militare di Grosseto. Il massimo protagonista, oggi come allora, si chiama Liù. Ė una femmina di pastore tedesco, “entrata in servizio” per l’Esercito Italiano già nel 2010 e già impiegata, tra l’altro, in operazioni di sminamento per la sua capacità di fiutare gli esplosivi. Poi, la scienza. “Una volta tememmo che fosse entrata in confusione”, racconta un militare, in quanto fece la sua “diagnosi” alla prostata (su cui è specificamente addestrata) a un malato di tumore alla vescica. Invece aveva ragione lei: “Si è scoperto successivamente che quel paziente aveva sviluppato anche il cancro alla prostata”. Liù ha un modo semplice per emettere il suo verdetto, quasi infallibile. Si siede per terra.
Lo scenario è commovente quanto entusiasmante, e si allarga ad altre forme tumorali. La stampa americana ha recentemente celebrato un’altra cagna, un segugio, che, a New York, è riuscita a “segnalare” alla sua padrona, stuzzicandole ripetutamente il naso, la presenza di un cancro alla pelle, poi accertato dai medici. Non solo i tumori, comunque: l’impiego canino è già diffuso, specie negli Stati Uniti e in Gran Bretagna soprattutto per il diabete. Ci sono cani specificamente addestrati a fiutare l’odore dell’ipoglicemia per poi portare al proprietario il kit d’emergenza, aiutandolo a salvarsi la vita.
Belle, piccole ma nutrienti, “la forma perfetta”, una sostanza ad alto contenuto proteico. Delle uova si narrano però anche alcune controindicazioni di rilievo, che inducono anche i “non-vegani” a limitarne il consumo. Soprattutto, sarebbero un alimento “a rischio” per il colesterolo, con quel che consegue per i rischi cardiovascolari e altro. Su questo arriva però una smentita piuttosto sorprendente, con particolare riferimento a una delle categorie più a rischio, ossia le persone affette da diabete di tipo 2 o in uno stato definito “pre-diabetico”.
Lo si legge sull’American Journal of Clinical Nutrition con riferimento ad una ricerca australiana. Gli studiosi di un centro specializzato, affiliato all’Università di Sidney, hanno seguito per un anno 128 soggetti con diabete tipo 2 o in stato pre-diabetico suddivisi in due gruppi: il primo è stato sottoposto a una dieta ad alto consumo di uova (12 a settimana), il secondo autorizzato a consumarne massimo due a settimana. Lo studio è stato condotto cercando di “neutralizzare” altre variabili, relative alla condizione e alle abitudini alimentari del singolo, introducendo inoltre, per tutti, un elemento di variazione, ossia osservando i partecipanti mentre effettuavano un trimestre di dieta, a parità di consumo di uova.
In nessuna delle fasi coinvolte è emersa alcuna incidenza tra un elevato consumo di uova e parametri quali i livelli di colesterolo, la pressione sanguigna o la presenza di zuccheri nel sangue. Il dato è interessante anche perché, come ricordato dagli stessi ricercatori, le uova sono in effetti ricche di colesterolo. Evidentemente, quel che incide e che “entra” nel nostro sangue dipende soprattutto da altro.
Commentando i risultati, infatti, la ricercatrice Maria Ida Maiorino, della Società Italiana di Diabetologia (Sid), sottolinea che “ai pazienti inclusi nello studio veniva consigliato di consumare le uova bollite o in camicia, o anche fritte purché in olio extra-vergine di oliva”.
In altre parole, è importante anzitutto “come” si cucina, ovvero la qualità dei grassi utilizzati. Come ribadito nei giorni scorsi al Congresso annuale della stessa Sid, quelli “saturi”, come il burro o l’olio di palma, sono particolarmente nocivi per il cuore e i vasi, ma anche per pancreas e fegato. Mentre quello che si cuoce - eccessi a parte - è relativamente secondario. Per gli studiosi australiani, comunque, per quel che riguarda le uova anche i timori di esagerazione sono infondati: “Sono una fonte di proteine e micronutrienti che potrebbero avere una serie di effetti positivi sulla salute e di proprietà dietetich – dicono - tra cui aiutare a regolare l'assunzione di grassi e carboidrati, favorire la salute degli occhi, del cuore e dei vasi sanguigni sani e favorire la salute in gravidanza”.
È uno dei disturbi più frequenti, se non il più diffuso in assoluto. Ogni adulto si trova alle prese con un raffreddore, mediamente, per due volte all’anno, e tra i bambini si sale a quattro. Al contempo, i rimedi – dalle tradizionali tisane ai moderni farmaci – agiscono perlopiù favorendo il decorso della malattia e potenziando le difese del corpo. In altre parole, “attualmente non esistono trattamenti contro il raffreddore”, capaci cioè di bloccare il virus. Lo ricorda il biochimico italiano Roberto Solari, tra i protagonisti della sperimentazione di un nuovo antidoto. “È la prima molecola capace di contrastarlo”, annuncia.
Il problema del virus del raffreddore è che può presentarsi in centinaia di forme, e né il nostro sistema immunitario né i farmaci (inclusi i vaccini sperimentati da decenni) riescono a riconoscerle tutte. Inoltre, anche un ipotetico “attacco diretto al microbo” potrebbe essere vano se non controproducente, considerando la capacità e rapidità del bacillo di replicarsi, e di attivare inoltre meccanismi di farmaco-resistenza.
La novità ricordata da Roberto Solari, i cui dettagli sono pubblicati sulla rivista Nature Chemistry, emerge da un “approccio nuovo” al problema. I ricercatori dell’Imperial College di Londra stavano studiando, tra l’altro, un possibile antidoto alla malaria, e hanno intuito una potenziale soluzione dall’osservazione dei “comportamenti” molecolari. In termini semplici, anziché aggredire il virus, si tratterebbe di usarlo, “rubandone gli attrezzi” che mette in atto per, appunto, replicarsi.
Il virus, a margine delle capacità suddette di replica e autodifesa, ha infatti anche una debolezza. Non può vivere in maniera autonoma. Per sopravvivere e riprodursi deve infettare le cellule del corpo, dove incrocia una specifica molecola (si chiama “Nmt”). Il meccanismo scoperto in Inghilterra è la capacità di “sabotare” tale molecola umana, bloccandone le funzioni protettive del virus, e quindi arrestandolo. “Siamo agli inizi”, precisa Solari, in quanto la sperimentazione è stata finora effettuata solo in laboratorio, ma è un inizio che sembra foriero di una vera e propria rivoluzione terapeutica.
Nell’attesa che lo sviluppo arrivi sul banco del farmacista (e ci vorrà ancora un po’ di tempo), permangono le raccomandazioni “classiche” sulla prevenzione e cura. Tra queste, attenzione, non figura affatto quella di “alienarsi” dal mondo per evitare i contagi. Chi pensa così rischia di andare del tutto fuori strada. Una recente ricerca americana ha documentato viceversa come la solitudine amplifichi l’impatto sintomatologico del raffreddore. A ennesima conferma di come una buona rete di relazioni sociali sia fondamentale, anche per la salute.
Il tema delle “bufale”, diffuse su web è social network, è assai critico e pericoloso sull’ambito della salute, come qui già più volte segnalato in relazione a vaccinazioni e altro. E a risultare, a tutt’oggi, particolarmente ricco di mitologie e falsità, è proprio il delicato settore della sessualità e della salute riproduttiva. Lo si è rimarcato in questi giorni a Roma, al 42esimo Congresso nazionale della Società Italiana di Andrologia (Sia).
La “fake” numero uno, come segnalato anche dall’apposito portale dell’Istituto Superiore di Sanità, è nell’idea stessa che la sterilità sia un problema essenzialmente, o almeno principalmente, femminile. Non lo è affatto. “Diversamente da quanto si crede, nella metà dei casi le cause sono da ricercare nell’uomo”, nota il presidente della Sia Alessandro Palmieri, rimarcando inoltre come il problema generale sia in rapido aumento: “Una coppia su cinque ha difficoltà a procreare per vie naturali, proporzione raddoppiata rispetto a vent’anni fa”.
Un incremento che sembra attribuibile proprio ai maschi, con la stima di circa due milioni di italiani “ipo-fertili”. L’immediata ricaduta di tale ignoranza è che il 25% delle coppie che ricorrono alla Procreazione Medicalmente Assistita (Pma) fanno il passo senza aver prima effettuato una banale verifica andrologica del liquido seminale. Laddove emergono scompensi, la soluzione terapeutica è possibile e anzi più semplice che per le donne, principalmente con trattamenti ormonali. Questi possono evitare il ricorso alla Pma (e i suoi alti costi), da considerarsi solo come “ultima spiaggia”, ma anche, quando risulta davvero necessaria, incrementarne le possibilità di riuscita. Una “bufala” ulteriore riguarderebbe l’effetto collaterale delle terapie a base di testosterone sui rischi cardiovascolari: “È vero invece il contrario, è chi ha il testosterone basso ad avere più rischi di infarto e ictus”, nota la Sia.
Lo slogan della Sia è allora quello di una “Procreazione Naturalmente Assistita”, che passi attraverso una migliore informazione al paziente, in sinergia con i ginecologi, con riferimento anche ai fattori di rischio. Se l’infertilità è aumentata, lo si deve non solo all’invecchiamento della popolazione (anche l’uomo ha il suo “orologio biologico”, dopo i 40 anni la sua capacità riproduttiva diminuisce sensibilmente), ma anche a un insieme di fattori riguardanti gli “stili di vita”, individuali e collettivi. Obesità, fumo, alcol, scelte riproduttive rinviate all’età avanzata, diagnosi tardiva di patologie come il varicocele, e perfino l’inquinamento: negli ultimi anni la concentrazione di spermatozoi si è dimezzata, e questo sarebbe ascrivibile anche a “interferenti endocrini”, quali il bisfenolo A, contenuto in plastiche e pesticidi.
Tra gli altri punti segnalati prioritariamente dalla Sia c’è il classico “spauracchio del ciclismo”: “Non causa problemi di erezione e infiammazione alla prostata”, chiariscono gli andrologi italiani, citando in particolare una recente ricerca californiana. Un altro tabù è che l’avere molti rapporti sessuali potrebbe alimentare i rischi di infiammazione e di tumore alla prostata. Di nuovo, dalle ultime ricerche emergerebbe semmai l’esatto opposto, una frequente eiaculazione sarebbe un fattore protettivo.
L'innalzamento stagionale delle temperature e, per alcuni, l'ambizione di un esito accettabile della “prova costume” convergono nella tendenza a una limitazione dei bisogni e dei consumi calorici ma la questione è ben lungi dal rappresentare solo un tema “estetico”.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha infatti colto la palla al balzo per lanciare una serie di messaggi pressanti, a livello globale, per una limitazione drastica del consumo di alcuni tipi di grassi.
La stessa Oms, finora, non aveva collocato la qualità alimentare tra le sue massime priorità. Un suo primo documento, dedicato genericamente alle problematiche “non trasmissibili”, e “non patologiche” risale al 1989, un suo aggiornamento è stato formulato tredici anni più tardi. Adesso si annunciano delle nuove “linee guida” che fissano alcune priorità ineludibili. In particolare, si raccomanda una dieta in cui le calorie derivanti dai grassi saturi (presenti ad esempio nella carne o nei latticini) non superino il tetto del 10%.
Il documento è del resto presentato come una bozza, oggetto essa stessa di una “consultazione pubblica globale”, alla quale è possibile partecipare fino al primo giugno. La modalità partecipativa è concepita proprio per incentivare la consapevolezza sull'importanza della qualità alimentare, da parte dei Governi e dei produttori alimentari, ma anche dei singoli cittadini. Tra l'altro, viene sottolineato il nesso, oramai ben documentato dalla scienza, tra un eccesso di tali grassi e le patologie cardiovascolari, che costituiscono la principale causa di morte nel mondo, provocando, si stima, circa 17 milioni di decessi nell'ultimo anno.
Se il tetto per i grassi saturi è fissato al 10%, quello relativo ai cosiddetti “acidi grassi trans” industriali (contenuti perlopiù nei fritti di fast-food, merendine ecc.), dovrebbe non superare l'1%. A essi è attribuito infatti l'aumento di rischio di patologie cardiovascolari (21%) e mortalità (28%). Lo stesso paletto dell'1% costituisce solo un'indicazione di massima, in quanto l'obiettivo dell'Oms è anzi quello di una totale “messa al bando” di tali grassi entro il 2023. Qualche passo rilevante – riconosce l'organizzazione – è già stato compiuto nei Paesi avanzati, ma molto rimane da fare, specie in quelli emergenti.
Il ricorso ai grassi “buoni”, e in particolare all'olio extravergine d'oliva, simbolo stesso della dieta mediterranea, si eleva dunque a priorità massima di un'alimentazione salubre. E però bene anche evitare l'eccesso di “allarmismi” e “mode passeggere” sull'insieme del tema alimentare, come ricorda l'Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (Adi), che riconosce il problema collettivo dell'incremento delle persone in sovrappeso ma, tramite una ricerca, scova un “colpevole” molto banale, ossia l'ampiezza aumentata dei nostri piatti. Morale, al netto di un'attenzione prioritaria a evitare i grassi saturi e quelli industriali, il messaggio è quello di recuperare il piacere del cibo, senza troppi paletti, se non quello, semplicissimo, di goderne in quantità moderate.
Dal 17 al 20 maggio. Si spalma in ben quattro giorni l'ultima edizione di “Race for the Cure”, nello spettacolare scenario romano del Circo Massimo, tra consulti e prestazioni specialistiche gratuite, laboratori di benessere e alimentazione, aree giochi per i più piccoli, concorsi fotografici, con l'epilogo, domenica, di cinque chilometri di corsa competitiva e amatoriale, oppure solo due di passeggiata. Nel nome della lotta ai tumori del seno. Dedicato dunque alle donne, da curare, ma anche da indirizzare verso corretti comportamenti di prevenzione, a iniziare appunto dall'attività fisica.
“Ogni anno 50mila donne si ammalano di tumore al seno in Italia, e 12mila perdono la vita: un numero che non si può più tollerare perché - se si interviene in tempo - si ottiene oltre il 90% di possibilità di guarigione”, nota Riccardo Masetti, presidente di Komen Italia. L'organizzazione, promotrice dell'evento, ha finora raccolto 15 milioni di euro per circa 800 progetti di ricerca, sensibilizzazione e prevenzione. Fu istituita nel 2000, come costola dell'omonima organizzazione americana, tra l'altro insignita nove anni fa da Barack Obama della “Medal of Freedom”, la più alta onorificienza civile americana.
Non è del resto al momento l'unica iniziativa di rilievo per la salute femminile. Dallo scorso 8 marzo, fino al 26 giugno, è in corso “Prevenzione possibile - La salute al femminile”, tour itinerante promosso in 31 città italiane con il patrocinio, tra gli altri, della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare, Federfarma e Federazione italiana medici di medicina generale, con un focus esteso all'osteoporosi e all'ambito cardiovascolare stesso.
In tutti i casi, gli appelli e le concrete iniziative vanno ben oltre l'obiettivo di un'attenzione pubblica (e professionale) accresciuta per la salute della donna. Il messaggio è rivolto anzitutto alle donne stesse, spesso in prima linea nell’accompagnare i parenti nelle loro esigenze sanitarie mettendo in secondo piano la cura di sé.
Gli ultimi dati ufficiali sugli “stili di vita” in Italia sono piuttosto ambivalenti. Le donne sembrano prestare un'attenzione maggiore, rispetto agli uomini, alla qualità alimentare: le prime sono in sovrappeso per il 23,9%, i secondi superano il 40%. Questo anche grazie a un minor ricorso all'alcol, il cui consumo eccessivo riguarda il 23,2% degli uomini e solo il 9,1% delle donne. Va assai peggio per le sigarette, il cui uso è in calo solo tra i maschi, mentre solo nell'ultimo anno si rilevano oltre un milione di fumatrici in più, arrivando alla cifra complessiva di quasi 6 milioni di tabagiste. Note dolenti anche per lo sport. Il 39,2% degli italiani non pratica alcuna attività fisica, e tra le donne si sale al 43,4%.
Eventi, conferenze, celebrazioni da Roma alle periferie (a iniziare da Trieste e Gorizia, dove la rivoluzione cominciò), e stavolta parecchia eco mediatica. Il 13 maggio di esattamente quarant’anni fa venne varata la legge 180, che stravolse i paradigmi della salute mentale, abolendo i manicomi, “scarcerando” i pazienti e avviando tutt’altra logica terapeutica, che da un approccio solo farmacologico, oltre che reclusivo, ha incluso quello di un’attenzione sociale e psichiatrica organica. Nelle parole semplici di Franco Basaglia: “Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata”.
Una vera e propria rivoluzione, che per una volta è partita da noi, sfidando diffidenze e paure globali. “L'Italia ha dimostrato che si può fare a dispetto di molti in Europa che pensavano fosse troppo rischioso chiudere i manicomi – nota il presidente della Società Italiana di Psichiatria Bernardo Carpiniello – tanto che le riforme che sono state fatte in questi decenni in diversi Paesi vanno sì verso l'umanizzazione delle cure, ma non si ha il coraggio di chiudere queste strutture tout court. Noi l'abbiamo fatto, con coraggio”.
Tra le tante difficoltà, quella norma ha condotto a una catena di esiti concreti. I manicomi non ci sono in effetti più, in parte sostituiti da strutture residenziali o semi-residenziali aperte e assistite nell'orizzonte, al contempo, dell'autonomia individuale e dell'integrazione sociale, interna ed esterna. E è stata allestita una rete di servizi sociali, tra Dipartimenti e Centri di salute mentale, diffusa abbastanza capillarmente sul territorio nazionale, tanto da risultare esemplare per l'“assistenza territoriale”, sempre più invocata per l'intero sistema sanitario.
Anche gli ultimi dati sul personale dell'assistenza psichiatrica sono parzialmente positivi: nel 2016 erano quasi 32mila, oltre duemila in più rispetto all'anno precedente. “Permane però un'importante carenza”, ricorda Massimo Cozza, coordinatore del Dipartimento di salute mentale più copioso in Italia (dell'Asl Roma 2, al servizio di 1,3 milioni di abitanti): l'obiettivo governativo è fissato ad almeno un operatore per 1500 abitanti, e per raggiungerlo ne servirebbero quasi novemila in più.
A complicare il quadro è che ad aumentare sono anche i pazienti, con la complicità – riconosciuta unanimemente dagli addetti ai lavori – delle difficoltà economiche aggravatesi in questi anni. Gli utenti censiti e seguiti dai Dipartimenti sono stati 807mila nel 2016, quasi trentamila in più sull'anno precedente. Ulteriore concomitanza, il disagio contribuisce all'affollamento dei Pronto soccorso. Oltre mezzo milione di italiani vi si sono recati per disturbi psichiatrici nell'ultimo anno. “Nella metà dei casi erano solo sindromi nevrotiche e somatoformi, che avrebbero potuto essere gestite altrove”, nota ancora Cozza. La “Sanità territoriale” dovrebbe servire proprio a questo, e ciò non vale naturalmente solo per la psichiatria. “Servono risposte adeguate e una cultura che non riduca la malattia alla medicalizzazione”, incalza Franco Rotelli, storico braccio destro di Basaglia.
Il 78% della popolazione italiana ha difetti visivi. Ma per una strana omissione psicologica tendiamo spesso a dimenticarci dell’insidia, dinanzi a una delle nostre funzioni vitali più essenziali. Ed è un difetto grave, perché la vista richiede cura e prevenzione, nell’imperativo della tempestività. Nei giorni scorsi è stata annunciata tra l’altro l’istituzione di un apposito “Osservatorio”, l’Osvi (Osservatorio per la Salute della VIsta), come costola dell’Agenzia Nazionale per la Prevenzione (associazione di promozione sociale), per sensibilizzarci sull’ampiezza del problema, e anche per ricordarci l’importanza di periodici controlli.
Secondo un’indagine dell’onlus Commissione Difesa Vista, circa il 40% degli italiani non si reca adeguatamente dall’oculista, e quasi il 20% indossa una correzione visiva inadeguata alle proprie necessità. Incuranze che si aggravano ulteriormente per i bambini, che dovremmo proteggere: uno su due non ha mai effettuato una visita specialistica.
La tendenza è peraltro globale, con proporzioni analoghe. Sulle motivazioni delle mancate visite periodiche, secondo il Barometer of Global Eye Health (da un’indagine sui Paesi di vari continenti, Italia inclusa), in due terzi dei casi si adduce il fatto che non hanno sintomi o non si considerano, appunto, prioritari, i controlli della vista (rispetto ad esempio ai controlli per la pressione), nell’altro terzo si lamentano problemi economici.
Tra gli altri dati, emerge un’attenzione leggermente aumentata nella prevenzione tra le donne, e anche il riconoscimento pressoché unanime tra gli specialisti (il 97%) di un’inadeguata sensibilizzazione pubblica sull’importanza del tema. Che non si limita alla “perdita di qualche diottria”. Si pensi che il glaucoma, ad esempio, colpisce al momento un milione di italiani, oltre a rappresentare la seconda causa di cecità evitabile nel mondo. Di più, sono proprio gli occhi spesso a poter rivelare, da attente osservazioni, la presenza di decine di patologie che coinvolgono altre parti del corpo, inclusi tumori e diabete.
Restando all’ambito delle facoltà visive, si stima che l’80% dei deficit può essere prevenuto se diagnosticato e trattato in tempo. Deficit che, secondo l’Istat, coinvolgono in modo grave quasi un terzo degli ultra-65enni, e più della metà degli over-80. In tutto questo il difetto di prevenzione è davvero grave. Poco interesse? In realtà no, solo scarsa conoscenza. Lo stesso Barometer rivela che le persone generalmente preferirebbero sacrificare un arto o qualche anno di vita piuttosto che perdere la vista.
Lo sa bene, con qualche stupore, chi si è cimentato in qualche colloquio di lavoro in ambito internazionale. Capita spesso la domanda: “Se arriva un’emergenza a fine giornata, che fai”? Ambendo a quel lavoro si sarebbe portati a rispondere: “Resto io, se necessario tutta la notte, finché non risolvo il problema”. Non fatelo, perché quella risposta sarebbe valutata malissimo dagli stessi selezionatori. Un’adeguata “work-family balance” è ritenuta un imperativo dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dall’Unione Europea, dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e da qualsiasi statista e datore di lavoro sensato. Gli eccessi lavorativi finiscono nel tempo col compromettere la produttività e la salute, ingenerando per giunta costi ulteriori, individuali e collettivi, per la terapia resa poi necessaria.
“Pensavamo che la tecnologia avrebbe facilitato il nostro tempo libero”, osserva Peter Fleming, professore di “Business and Society” all’Università di Londra, notando invece che “mentre nel 2002 meno del 10% degli impiegati controllava le email di lavoro fuori dall’ufficio, oggi, con la complicità di tablet e smartphone, si è arrivati addirittura al 50%, spesso perfino prima di coricarsi a letto”.
Non va affatto bene, e ci sono oramai conferme scientifiche solide su quanto i sovraccarichi di stress, di ansia, di fatica e di sedentarietà legata al fatto di stare troppo inchiodati dinanzi allo schermo di lavoro siano deleteri. Una ricerca americana su 8mila impiegati di circa 45 anni ha rilevato che quelli che lavoravano oltre le 13 ore al giorno aveva una probabilità raddoppiata di incorrere in morte prematura rispetto ai colleghi che lavorano un paio d’ore in meno.
Un’altra ricerca, svolta a Londra su 85mila lavoratori, sempre di mezza età, ha identificato una correlazione tra orari lavorativi eccessivi e rischi cardiovascolari di varia natura. Per quel che riguarda l’ictus, ad esempio, è emersa un’esposizione addirittura quintuplicata.
Lavorare troppo insomma fa male, e oltretutto, all’evidenza, non serve. Recenti indagini internazionali – una anche dell’Ocse – hanno stilato classifiche, tra i Paesi avanzati, sul miglior equilibrio “lavoro-riposo”. Il dato che balza agli occhi è che quelli in cui si riposa di più sono anche tra i più ricchi, come l’Olanda o la Danimarca, mentre sulla sponda opposta figurano Stati come la Turchia, dove il tenore di vita medio è nettamente inferiore. L’Italia si trova in una posizione intermedia. Qual è il “giusto tempo di lavoro”? Secondo uno scienziato americano Alex Soojung-Kim Pang, è di quattro ore al giorno. Oltre quel tetto, sostiene, c’è solo insalubre fatica e inutile stress.
“Chi governa, deve darsi una mossa, il disavanzo in termini di qualità della vita si sta facendo insopportabile”, incalzava nelle scorse settimane Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, quasi a prefigurare le difficoltà odierne nella costruzione di responsabilità governative in un contesto oggettivamente critico, anche nella salute. Il tema era l’ultimo rapporto annuale dell’Osservatorio Nazionale sulla Sanità nelle Regioni, che ha fotografato un quadro poco accettabile sulle sperequazioni nel servizio sanitario, tali da mettere a repentaglio il diritto costituzionale e universale all’assistenza, oltre che la celebrata tradizione della “migliore sanità al mondo”.
Il primo dato è che gli italiani rimangono ai vertici mondiali per longevità ma in condizioni peggiori degli altri Paesi avanzati. Più dell’11% dei connazionali oltre i 65 anni dichiara ad esempio difficoltà fisiche tali da non riuscire a svolgere autonomamente le attività più elementari, come mangiare o alzarsi dal letto. La media europea è invece inferiore al 9%, in Danimarca si scende al 3. E’ un segnale grave, perché già oggi tale fascia rappresenta un quinto della popolazione, e nei prossimi decenni, per la naturale evoluzione della piramide dell’età, salirà ulteriormente e di parecchio.
E sono in tanti a lamentare un’assistenza inadeguata mentre, per una volta, si notano miglioramenti sul piano dei comportamenti personali. Scende, e di molto, la proporzione che usa o abusa di alcol, e sale, seppur timidamente, quella che svolge qualche attività sportiva, circa un terzo della popolazione. E migliora anche la qualità della medicina, come documentano i dati sulla speranza di vita crescente delle persone affette da un tumore o da gravi malattie croniche.
Insomma, la scienza fa i suoi passi, e anche i singoli migliorano un po’ i loro stili di vita, eppure il sistema sanitario lamenta serie difficoltà, e questo emerge in particolare sul piano delle sperequazioni regionali. Lo documentano i dati sulla mortalità stessa dei malati, in rapido calo al nord, e non al sud, così come quelli sulla mortalità precoce. Tendenze che procedono in parallelo a quelle sulla prevenzione diagnostica: se nel Trentino, ad esempio, gli esami per il tumore del colon raggiungono il 72% dei cittadini, in Puglia si scende al 13%. “E' evidente il fallimento del Servizio Sanitario Nazionale nella sua ultima versione federalista, nel ridurre le differenze di spesa e della performance fra le regioni italiane”, commenta senza giri di parole Ricciardi.
E c’è un parallelo ulteriore. Le regioni meridionali, con qualche eccezione, sono anche quelle che ricorrono meno ai farmaci generici, forieri di risparmio pubblico e privato a parità di efficacia e sicurezza terapeutica. Segno che la discrepanza non è solo nelle risorse, ma anche nella qualità del loro impiego. A tal proposito emerge l’esigenza di preservare quantomeno un ruolo scientifico e decisorio centralizzato e uniforme in materia di validazione dei medicinali, incluso l’ambito degli equivalenti. “Riteniamo che la centralità dell’Agenzia del Farmaco in questo campo vada in tutti i modi salvaguardata”, incalza il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann. Nel nome della sicurezza, e di quell’orizzonte, seppur fragile, di una Sanità a disposizione di tutti.
Il subitaneo passaggio da temperature invernali all’afa estiva sta inquietando un po’ gli “esteti”, per l’inatteso anticipo della temuta “prova costume”. L’esigenza di mettersi un po’ a dieta e di migliorare la qualità alimentare è però anzitutto sanitaria. Il dilagare della popolazione in sovrappeso profila una vera e propria emergenza, che tra l’altro ricade in rischi aumentati di diabete.
A rilanciare l’allarme è stato nei giorni scorsi l’Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo), nel suo ultimo rapporto realizzato in collaborazione con l’Istat. Gli italiani obesi che hanno il diabete sono oramai circa due milioni, con un rischio di mortalità decuplicato rispetto ai diabetici non in sovrappeso. La cifra complessiva dell’obesità nel nostro Paese supera i 3,2 milioni, ossia il 5,6% della popolazione. E si tratta di cifre raddoppiate negli ultimi trent’anni. “Possiamo considerare diabete e obesità come una pandemia, con serie conseguenze in termini di riduzione dell'aspettativa e della qualità della vita, e notevoli ricadute economiche”, commenta il presidente dell’Ibdo Renato Lauro.
L’equivoco di fondo (percepito da molti) è che il diabete sia uno sfortunato accidente legato essenzialmente a variabili genetiche. Questo vale, in parte, per alcune varianti, ma nella maggior parte dei casi no, come documentato, tra l'altro, dall’incidenza della patologia tra le fasce di età: è inferiore al 2% tra le persone con meno di 50 anni, mentre sale a quasi il 10% nella fascia superiore.
Per il resto, il diabete ha una leggera prevalenza maschile, e soprattutto è strettamente legato a fattori socio-economici. Al Mezzogiorno, benché culla per definizione della dieta mediterranea, l’incidenza è assai maggiore, sia nell’esposizione alla malattia, sia sulle sue percentuali di mortalità. Pesano i risparmi nelle scelte alimentari, con ricadute sulla qualità, e pesa un quadro complessivo di peggiore assistenza sanitaria. Questione di denari, anzitutto, ma anche, in parte, di organizzazione del sistema salute nel suo insieme, considerando che generalmente sono proprio le Regioni del Sud (con qualche eccezione, come la Puglia) le più refrattarie all’uso di farmaci generici che, a parità di efficacia e sicurezza terapeutica, consentono risparmi rilevanti ai cittadini e alle casse pubbliche.
Su “quale dieta” scegliere, nell’imperativo di perdere un po’ di peso, la priorità è dunque la qualità alimentare nel suo insieme. Lo ha documentato recentemente anche uno studio della Fondazione Gimbe. “Qualsiasi dieta bilanciata a ridotto contenuto di carboidrati o di grassi fa dimagrire, ma non è possibile raccomandarne nessuna in particolare, viste le esigue differenze tra i vari regimi dietetici”, ha spiegato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione. Non esiste la “dieta perfetta”, l'una o l'altra cambia poco, e può calibrarsi in base anche alle preferenze alimentari di ciascuno. Esiste però una priorità, quella di ricominciare a mangiar bene.
Il pensiero corre subito all’attualità, ossia al caso recente di un campione dello sport, in apparenza sanissimo, il calciatore azzurro Davide Astori, colto da un arresto cardiaco per cause ancora non ben comprese. Per lui, comunque, l’anomalia genetica della cosiddetta “sindrome di Brugada” era stata esclusa. Si tratta comunque di una delle principali cause di morte cardiaca improvvisa (si stimano 400mila decessi l’anno in Europa, tre milioni nel mondo). Scaturisce da un disturbo dell’attività elettrica che può innescare gravi aritmie. Scoperta recentemente in Italia, è proprio dal nostro Paese che si annunciano in questi giorni novità assai importanti sul profilo della prevenzione e non solo.
Andiamo per ordine. La sindrome deve il suo nome a due scienziati spagnoli, i fratelli Pedro e Josep Brugada, che l’hanno descritta in modo accurato nel 1992, ma sulla base di caratteristiche già rilevate, e pubblicate, quattro anni prima da cardiologi italiani. Nessuna “competizione”, comunque, tant’è che l’esito della ricerca ora pubblicata dall’Irccs Policlinico San Donato sul Journal od the American College of Cardiology, scaturisce proprio dalla collaborazione tra gli scienziati italo-iberici.
Avrebbero scovato le cause delle anomalie elettriche, identificandole in tessuti di cellule raggruppate come “isole circondate da tessuto sano, come una cipolla, con un cerchio centrale caratterizzato da cellule più aggressive e predisposte a generare un arresto cardiocircolatorio”, nelle parole del direttore dell’Unità di Aritmologia del Policlinico, Carlo Pappone. Quelle “isole” finora erano sconosciute e, sebbene asintomatiche, sarebbero presenti sin dall’infanzia sulla superficie epicardica del ventricolo destro, con i rischi che conseguono, anche fatali, per tutto l’arco della vita.
Il nuovo studio, che ha arruolato centinaia di pazienti (sopravvissuti ad arresto cardiaco o con rischi cardiovascolari sfumati), ha anzitutto documentato come tali anomalie non siano captabili da un comune elettrocardiogramma. Al contempo, annuncia l’Irccs, è stato elaborato “un software in grado di riconoscere in modo automatico la distribuzione delle aree anomale e di particolari sonde in grado di emettere impulsi di radiofrequenza che 'ripuliscono come un pennello', la superficie anomala del ventricolo destro, rendendolo elettricamente normale”.
L’innovazione non coinvolge quindi solo la diagnosi ma anche la terapia. Si “evidenzia la possibilità di eliminare quelle isole anomale, utilizzando delle onde di radiofrequenza di breve durata, con lo scopo di riportare quelle cellule a un corretto funzionamento elettrico”. E sembra molto più di una possibilità: “350 pazienti sono stati sottoposti finora a tale procedura, mostrando la completa normalizzazione”, riferisce il professor Pappone, che aggiunge: “ciò che veniva considerata una falsa speranza può considerarsi realtà: oggi è possibile prevenire la morte improvvisa in giovani pazienti affetti dalla Sindrome di Brugada e salvare quelli con ripetuti arresti cardiaci altrimenti non trattabili eliminando le anomalie elettriche del cuore”.
Da questi spazi abbiamo già lanciato l’allarme sul problema sociale, e anche sanitario, di un fenomeno che oramai è oggetto dell’attenzione allarmata degli scienziati e di terapie specifiche, anche negli ospedali italiani. Il termine medico è “Internet Addiction Disorder”, che genera effetti a catena dal piano emotivo a quello interpersonale, oltre che impennare i rischi di sedentarietà. Crolla “l’empatia”, sale la “dipendenza” da, in particolare, le interazioni sui social network. Negli ultimi anni quei rischi si sono impennati per la proliferazione di un’ulteriore tecnologia, quella degli smartphone, sicché il tema ora incombe potenzialmente su ogni attimo della nostra esistenza.
La problematica è stato approfondita in questi giorni dall’Università di San Francisco, con uno studio, pubblicato sulla rivista NeuroRegulation, che evidenzia analogie con l’uso di oppiacei. “La dipendenza dall'uso di smartphone inizia a formare connessioni neurologiche nel cervello in modo simile a quelle che si sviluppano in coloro acquisiscono una dipendenza da farmaci oppioidi per alleviare il dolore”, spiegano gli studiosi.
Hanno reclutato 135 studenti, rilevando che quelli che utilizzavano diffusamente i telefoni – anche mentre mangiavano o studiavano - palesavano maggiori sintomi di depressione e ansia, oltre che solitudine. Le ragioni sono in parte facilmente intuibili, nella propensione stessa a sostituire la relazione sociale a quella virtuale, in apparenza meno “impegnativa”, o anche nel gesto stesso di abbassare la testa e incollare gli occhi sullo schermo, perdendo il contatto con il mondo circostante.
I ricercatori californiani forniscono però una chiave di lettura anche “etologica”. I “push” del telefonino attiverebbero percorsi neuronali analoghe a quelli che anticamente ci avvisavano di un pericolo incombente, come l’attacco di un predatore. Con una differenza non da poco: “Quei meccanismi che una volta ci proteggevano ora ci dirottano verso le informazioni più banali”, spiegano. Ci consegnano, cioè, verso una modesta, sedentaria alienazione.
L’articolo statunitense è interessante anche perché suggerisce anche tecniche per tenersi alla larga da tale insidiosa dipendenza, alcune piuttosto curiose, sperimentate dagli stessi medici. Una studiosa racconta ad esempio che quando si ritrova in un bar con gli amici, mettono tutti i loro telefonini al centro della tavola. Il primo che lo tocca… avrà l’onere di pagare le consumazioni. “Dobbiamo recuperare un po’ di creatività per affrontare le nuove tecnologie in modo da poterle dominare, anziché subirle e farci trascinare fuori dal mondo reale”, spiega.
“Col web la disinformazione circola rapidamente ed è pieno di pifferai magici a cui è facile credere”, rimarcava nelle scorse settimane Piero Angela elogiando la costruzione di un nuovo portale da parte dell'Istituto Superiore della Sanità. “La scienza non è democratica, non prevede par condicio, non è la stessa cosa dire che la terra è quadrata oppure che è rotonda”, ha ricordato il decano dei divulgatori italiani. Tra gli obiettivi dichiarati del sito c'è proprio quello di contrastare le “bufale”, e l'ultimo dei capitoli coinvolge uno degli ambiti più rilevanti per la salute, quello dell'attività fisica, esso stesso esposto a un'enormità di fake news.
Tra le più diffuse - a volte dette scherzosamente ma non troppo - c'è il concetto che “faccio sport non per la pancia ma per poter poi mangiare di più”. Errore, perché se si sbilancia l'attività fisica con un'alimentazione scorretta si aggrava il corpo di una serie di corto-circuiti. Meno goliardicamente, si pensa talora che l'esercizio fisico sia “efficace se doloroso”. Il sacrificio, la fatica, sono importanti, ma il dolore, invece, è piuttosto il “mezzo con cui il corpo ci indica che si sta lavorando male oppure che si sta facendo uno sforzo troppo intenso".
Ma è “la linea” il tema prevalente nelle “bufale sportive”. “Più sudo più dimagrisco”, si pensa, magari preferendo le comode saune all'attività fisica. Sbagliato, perché “attraverso il sudore perdiamo solo liquidi e sali minerali”, e non il grasso, perché non lo contiene. Analogamente, non si butta giù la pancia con i soli esercizi addominali, che tonificano i muscoli “ma non comportano la perdita del grasso che li ricopre”.
Altri preconcetti sbagliati riguardano i presunti divieti sportivi per alcune categorie deboli, quali gli anziani e le donne in gravidanza, che invece non sussistono (salvo naturalmente la necessità di far uso di adeguata cautela), o anche il fatto che i bambini facciano sufficiente attività fisica giocando. Qui l'errore è grave, con l'esito che i bimbi italiani in sovrappeso risultano oramai ai primi posti in Europa. Dovrebbero invece fare sport almeno tre volte alla settimana, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).
A tal proposito la stessa Oms, proprio in questi giorni, ha aggiornato le proprie stime sulla sedentarietà in Europa, e sono piuttosto preoccupanti. Il 42% della popolazione non svolge un'attività fisica adeguata (conteggiata in almeno 150 minuti alla settimana per gli adulti, un'ora al giorno per bambini e giovani). E a esser maglia nera è proprio l'Italia, dove i sedentari salgono al 60%. In questo sta l'allarme e, forse, il più grave pregiudizio da superare. Lo sport è una medicina e una variabile fondamentale di prevenzione, ma per conseguire i suoi benefici non basta un'occasionale “sudata”. Si tratta di muoversi, senza eccessi ma con costanza, ovvero con un minimo di regolarità organizzata.
Bambini troppo coccolati, viziati, “atomizzati” da eccessi di attenzione, scarsa responsabilizzazione, pochissima cessione di autonomia. I rischi ci sono, gli errori possibili sono molteplici, e altrettanti i loro effetti sullo sviluppo psicofisico della persona che cresce. L’educazione pediatrica è materia infinitamente complessa e soggetta nell’ultimo secolo a parecchi scossoni, rivoluzioni e controrivoluzioni. Ma tra tante ideologie e teoremi si perde talora il senso di qualche verità inconfutata, a iniziare da quella che tale autonomia non si costruisce negando l’attenzione dei genitori, ma anzi rassicurandone la presenza.
Una conferma arriva da un’interessante pubblicazione sulla rivista Pediatrics, che spiega gli esiti di un’estesa sperimentazione effettuata a New York. I pediatri hanno seguito un insieme di bambini per anni, dalla nascita fino all’età scolare.
Alcuni sono stati sottoposti per tre anni a un programma (“Video Interaction Project”), in cui i genitori leggevano ad alta voce delle storie ai figli e giocavano a “fare finta di” (con infinite varianti possibili), mentre venivano filmati, per poi confrontarsi con gli esperti, sulla base dei video. L’osservazione è durata per oltre tre anni e ha incluso anche altri bambini, rimasti estranei a tale progetto, tutti seguiti per un follow-up ulteriore di un anno e mezzo dopo la conclusione del progetto.
La differenza è risultata “molto significativa” su tutti i parametri considerati. Il gruppo seguito in tale progetto ha palesato rischi notevolmente diminuiti, rispetto agli altri, di manifestare, crescendo, deficit di attenzione, iperattività, comportamenti aggressivi o scarso autocontrollo. Gli autori dello studio commentano sottolineando il potenziale dell’attività genitoriale di lettura e di gioco “per lo sviluppo emotivo e sociale del bambino”.
Qual è il limite temporale sull’importanza di tale attenzione? In realtà non c’è, e anzi la stessa indagine ha mostrato come i benefici per la salute psico-fisica del piccolo tendano ad aumentare se si protrae il medesimo tipo di attività oltre il periodo considerato dal programma. Al di là delle mille variabili che determinano una buona pedagogia, la semplice verità è che lo sviluppo psico-fisico del bambino è alimentato dai genitori, mai dalla loro assenza. L’autonomia si trasmette con la presenza e l’empatia, guai a dimenticarcene.
Tra le tante caratteristiche della nostra epoca si tende a dimenticare la più evidente. Siamo nel pieno di una bomba demografica senza precedenti, che ha quadruplicato la popolazione nell’arco di un secolo. Al momento siamo circa 7,5 miliardi e, sebbene l’Onu da qualche anno parli di un rallentamento della crescita (per il calo dei tassi di fecondità in molte aree, a iniziare dalla nostra), ha dovuto, anche all’ultimo rapporto in materia, rivedere viceversa al rialzo le sue stime per i prossimi decenni. Sicché, già poco dopo il 2050 sfonderemo la soglia dei 10 miliardi di anime.
Il problema è non solo che siamo tanti, probabilmente troppi, e sempre di più, ma anche perché saremo sempre più vecchi, specie nel nostro continente, complice il passare degli anni per i cosiddetti “baby-boomers” nati intorno agli anni ’60. Nel prossimo mezzo secolo la popolazione europea in età lavorativa diminuirà del 14,2%, quella sopra i 65 anni (su cui l’Italia è già al vertice in Europa) salirà dal 17% a quasi il 30%, gli over-80 si triplicheranno. Le autorità europee da anni affrontano il fenomeno con la priorità dell’“active ageing”, anzitutto dal punto di vista del coinvolgimento sociale ed economico, ma il tema è anzitutto sanitario, come riconosciuto dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.
A determinare la piramide invecchiata è soprattutto il successo della medicina contemporanea, che ha allungato notevolmente la speranza di vita, ma è ora proprio il sistema-salute a essere sotto pressione, sui numeri, e anche sul cambio delle priorità e modalità dell’assistenza. Se n’è parlato nei giorni scorsi a Trieste (incantevole centro, curiosamente esso stesso ai vertici europei per l’età media degli abitanti), al 18esimo Congresso nazionale della Società Italiana di Riabilitazione Neurologica (Sirn).
"L'invecchiamento della popolazione è tipicamente accompagnato da un aumento delle malattie non trasmissibili come quelle cardiovascolari, il diabete, la malattia di Alzheimer e altre patologie neurodegenerative, tumori, malattie polmonari croniche ostruttive e problemi muscoloscheletrici”, nota Stefano Paolucci, direttore alla Fondazione S. Lucia-IRCCS di Roma, citando tra l’altro il caso delle persone affette da demenza nel mondo: se ne stimano attualmente 47 milioni, saranno oltre 130 milioni entro il 2050.
Alcuni numeri sono promettenti, come la tendenza alla diminuzione dell’incidenza degli ictus, ma non bastano a fermare una tendenza complessiva che dovrà porre sempre più al centro dell’attenzione alle patologie legate alla terza età, e farlo con un approccio multidisciplinare che coinvolga medico, fisioterapista, terapista occupazionale, psicologo, infermiere. “Stimolare corpo e mente, promuovere uno stile di vita atto a vivere in maniera sana, senza eccessi, come fumo, stress, malnutrizione e alcol”, riepiloga Carlo Cisari, presidente Sirn, ricordando che gli anziani malati, “lasciati a sé, perdono drasticamente le loro capacità”. Non deve più accadere.
“Un aumento così netto su tutti i fronti non si era mai registrato nel settore dei trapianti negli ultimi dieci anni”, annuncia il ministero della Salute, presentando gli ultimi dati in materia: “A crescere non solo i numeri sulle donazioni e i trapianti di organi, tessuti e cellule ma un’intera rete sanitaria, che dimostra di essere tra le più efficienti del nostro Paese”. Conclusione: “A beneficiare di questo trend positivo sono i pazienti in lista di attesa che, per il secondo anno consecutivo, registrano un calo”. Tra cronache di “malasanità” e bilanci sanitari al risparmio qualcosa insomma sembra funzionare piuttosto bene in Italia e, con l’adozione il dicembre scorso del nuovo Piano triennale, è un miglioramento destinato a proseguire, in quanto orientato a “uniformare sull’intero territorio nazionale l’individuazione del potenziale donatore e la segnalazione dello stesso”.
Tra le cifre: nel 2017 i donatori (viventi o deceduti) di organi sono stati 1741, con un incremento annuo del 9%, che sale al 29% rispetto a cinque anni fa. A guidare la classifica, nei numeri assoluti, è la Lombardia, mentre sul pro-capite la Regione più virtuosa è la Toscana, con menzioni speciali anche per Friuli-Venezia Giulia e Veneto. A incidere positivamente è inoltre il calo delle “opposizioni” alla donazione, scese di oltre 4 punti percentuali (al 28,7%). Immediata la ricaduta sui trapianti, che sono stati 3950 l’anno scorso, 252 in più rispetto al 2016, con prevalenza, nell’ordine, per reni, fegato, cuore e pancreas.
I dati si riflettono anche in quelli delle iscrizioni al Registro Italiano Donatori di Midollo Osseo, saliti a oltre 390mila, 12mila in più rispetto all’anno precedente. Al circolo virtuoso (al quale andranno recuperate anche le donazioni di sangue ed emoderivati, su cui abbiamo segnalato recentemente qualche difficoltà, specie in tempi di influenza, con riferimento soprattutto alle disponibilità dei giovani), contribuisce anche l’attivazione nei Comuni del servizio di registrazione di volontà sulla donazione di organi e tessuti nell’atto del rilascio o del rinnovo delle Carte d’identità, anche in virtù dell’adozione progressiva del documento elettronico.
Al processo si aggiungono, proprio questi giorni, novità importanti sul piano scientifico. A Padova è stata realizzata con successo la prima catena di trapianto di rene da vivente tra coppie donatore-ricevente incompatibili innescata da un donatore deceduto. Il cosiddetto “cross-over” funziona così: se il coniuge del donatario è incompatibile, effettua comunque la donazione a beneficio di ignoti, mentre il partner riceve l’organo da una persona compatibile, aumentando la rapidità ed efficacia dell’intero sistema. La prassi è in atto da tempo, ma la novità è che si è riusciti stavolta ad attuare il meccanismo utilizzando un soggetto deceduto. E questo apre la strada alla possibilità di “aumentare il pool di potenziali donatori compatibili da utilizzare per l’avvio di un numero maggiore di catene”, spiega il professor Paolo Rigotti, direttore del centro trapianti veneto.
Un’altra novità preziosa è annunciata dall’ospedale Molinette di Torino, in collaborazione col nosocomio di Brescia. Per la prima volta è stato eseguito in Italia un doppio trapianto di rene da paziente dializzato. Gli organi renali sono stati cioè impiantati a due diversi pazienti, e prelevati da un donatore deceduto per una patologia congenita, procedimento reso possibile grazie a una rivitalizzazione completa degli organi stessi.
Apporto energetico, formazione muscolare, coagulazione sanguigna, sistema immunitario. Le proteine sono una variabile essenziale della salute del nostro corpo. Eppure, non bisogna esagerare, come in ogni ingrediente, anche se salubre. Da decenni è in corso un dibattito, tra gli stessi studiosi, su quale sia il “punto di equilibrio”, fermo restando il criterio della “personalizzazione”, ossia il fatto che ognuno di noi, per definizione, abbia esigenze diverse, per fascia d’età, attività motorie, abitudini alimentari complessive.
Negli Stati Uniti, in particolare, pur tra pareri assai diversi (salvo il comune riconoscimento di un generale eccesso proteico nelle abitudini nazionali), le autorità federali hanno fissato un parametro (riconosciuto generalmente anche in Europa), che consiste nell’assunzione di 0,8 grammi di proteine al giorno per ogni chilo del proprio peso al giorno. Alcuni, però, suggeriscono che tale soglia possa addirittura raddoppiarsi. Un documento dell’American Dietetic Association, Dietitians of Canada e l'American College of Sports Medicine, lo sostiene con particolare riferimento agli sportivi. Molti altri perorano un’integrazione proteica anche per il mantenimento e lo stimolo muscolare tra gli anziani.
Ed è su questo che il Brigham and Women's Hospital di Boston, con una ricerca pubblicata su Jama Internal Medicine, ha compiuto un estesa verifica scientifica. Sono stati ingaggiati 78 uomini di almeno 65 anni, sottoponendoli per sei mesi a diversi regimi alimentari.
L'esito è stato piuttosto chiaro e univoco. Il gruppo che consumava più proteine di quelle raccomandate dal citato parametro non mostrava differenze significative con riferimento a nessuno dei criteri considerati, ossia la massa e la forza muscolare, la massa grassa, le funzionalità fisiche e l'esposizione alla fatica.
“È sorprendente come gli esperti continuino a consegliare agli anziani diete ad alto contenuto proteico, e lo facciano sulla base di evidenze finora poco consistentii”, commentano gli autori dello studio, chiamando i nutrizionisti e gli altri specialisti a un'inversione di rotta. Che un'alimentazione iperproteica sia d'aiuto per gli anziani esposti a fragilità o a patologie croniche rappresenta un mito non suffragato, agli ultimi riscontri, da alcuna evidenza.
Tra convegni e nuove ricerche scientifiche si parla molto del fegato in questi giorni. E lo si fa sulla scia di dati piuttosto preoccupanti sulle patologie che lo coinvolgono, nonché del nesso, sempre più evidente, sull'incidenza di un'alimentazione sbagliata. Il cosiddetto “fegato grasso” - in termini scientifici la “setaosi epatica non alcolica” (Nafld) - include un ampio gruppo di malattie al fegato (che possono culminare nella cirrosi), definite da una presenza di grassi che supera il 5-10% del peso dell'organo stesso. Ebbene, se ne calcola oramai una prevalenza del 20-30% nei Paesi occidentali, e non risparmia i bambini, stimati al 10%.
“La NALFD ha raggiunto livelli di epidemia e ha un impatto sostanziale sulla salute pubblica”, ricordano gli scienziati del Framingham Heart Study, nel Massachusetts, che hanno pubblicato nei giorni scorsi, sulla rivista Gastroenterology, gli esiti di una corposa ricerca condotta su 1521 pazienti, seguiti per sei anni.
Da notare che nessuno dei partecipanti aveva una storia di eccessivo consumo di alcol, proprio per concentrare l'attenzione sull'ambito della sola alimentazione. In breve, è emerso un nesso strettissimo tra una dieta eccessivamente ricca di grassi e l'alterazione di tutti i principali marcatori della salute del fegato. Specularmente, un miglioramento nella qualità alimentare ha determinato un beneficio diretto sugli stessi parametri.
Gli scienziati americani avvertono inoltre che la Nafld aumenta i rischi di altre patologie al fegato, incluso il tumore e l'epatite. Il problema è estesissimo negli Stati Uniti, ma lo è anche nel nostro Paese, nonostante una dieta complessivamente più salubre: si stimano oltre due milioni di casi l'anno di epatite B o C, e circa 20mila decessi. I dati sono stati ricordati nei giorni scorsi dall'associazione EpaC Onlus, che ha promosso un convegno scientifico alle Terme di Chianciano intorno alle parole d'ordine della “personalizzazione della cura”, nonché della “multifattorialità e multidisciplinarietà della malattia epatica”.
Per quel che riguarda i tumori, in Italia sono rilevate quasi 13mila nuove diagnosi l'anno (con prevalenza maschile). Anche su questo, non mancano le novità dalla scienza: recentemente, ad esempio, l'Università elvetica di Basilea ha annunciato la scoperta di una proteina (chiamata “Lhpp”), che avrebbe la capacità di “disattivare” la crescita incontrollata delle cellule tumorali nel fegato e, a detta dei ricercatori, potrebbe rivelarsi utile anche per altri tipi di cancro. La medicina fa dunque i suoi passi, ma la realtà è che la lotta alle patologie epatiche è responsabilità di ciascuno di noi, a iniziare dalla tavola.