Per sconfiggere l’avversario bisogna conoscerlo, e soprattutto capire perché le difese endogene a volte non funzionino. E’ su questa direttrice che i ricercatori dell’IRCCS dell’Ospedale San Raffaele, in collaborazione con altri istituti lombardi, hanno messo a fuoco il comportamento della proteina p53, nota come il “guardiano del genoma”, nelle sue azioni difensive e nei suoi inceppamenti. Comprenderli significa capire la genesi di molti meccanismi tumorali, e quindi le possibilità di cura.
L’osservazione diretta è stata possibile grazie a una tecnica di microspia innovativa, elaborata nel medesimo centro universitario-ospedaliero. L’aspetto di base è che tale “guardiano”, dinanzi a un danno cellulare, si trova di fronte a due opzioni difensive: avviare un processo di correzione degli errori del DNA o viceversa innescare l’autodistruzione della cellula stessa.
Il problema è che la sola presenza abbondante di tale proteina non è sufficiente a garantire quelle difese, tant’è che il 70% dei tumori è associato a una mutazione genetica che la colpisce e ne danneggia la struttura e potenzialità. Ma il nodo è anche un altro, ossia che il restante 30% si sviluppa anche in assenza di tale mutazione della p53. E’ ad esempio il caso del “neuroblastoma”, un cancro al cervello che colpisce soprattutto i bambini.
C’è dunque un problema di “comportamento” da parte del guardiano. A volte esso è ben presente, senza mutazioni, ma non funziona. Ebbene, all’evidenza dell’osservazione è emerso che la proteina ha bisogno di un aiuto esterno, per preservare la sua funzione anti-tumorale. Nelle parole dell’ideatore dell’apparecchiatura, il fisico Davide Mazza, “solo se attivata, p53 è in grado di associarsi al DNA abbastanza a lungo da avviare i processi per cui è programmata e grazie ai quali i tumori hanno vita tanto difficile”.
In altre parole, la p53 non si attiva da sola, ha bisogno dell’aiuto all’attivazione da parte di altre proteine. Il nostro corpo è un sistema complesso, le cui “cause prime” presentano dinamiche interrelate il cui protagonista non è uno solo, ma tanti. E’ un passo essenziale, dunque, per la comprensione dei meccanismi tumorali e dei bersagli più appropriati per la ricerca terapeutica. E forse anche per la comprensione del nostro sistema cellulare nel suo insieme.
http://www.hsr.it/press-releases/svelato-il-comportamento-del-guardiano-del-genoma/
Il messaggio è da passare con massima attenzione, perché si tratta del campo minato di uno dei comportamenti più deleteri nella storia dell’umanità, ossia il consumo, e soprattutto l’abuso, di alcol. Nondimeno, è interessante, e per certi versi sorprendente, l’esito annunciato da due ricerche europee in materia, che mettono in evidenza alcuni effetti viceversa benefici, naturalmente sempre con il condizionale delle piccole quantità.
La prima, realizzata dall’Università austriaca di Graz e pubblicata sulla rivista “Consciousness and Cognition”, rileva virtù sul piano cognitivo. L’esperimento è stato condotto su due gruppi, in uno si beveva una pinta di birra, nell’altro la si consumava analcolica, e dopo la consumazione i partecipanti venivano sottoposti a una serie di test intellettivi. Anzitutto, è risultato un “pareggio” tra i due gruppi sul piano della generale “capacità di pensiero”. Sul resto, gli “astemi” hanno vinto su un solo aspetto, la “capacità di controllo esecutivo” sul proprio operato.
Ma su altre variabili, è stata la “pinta” a trionfare. In particolare, una (lieve) alterazione sembra avere il potenziale di “sprigionare la creatività”. Viene in mente la buffa risposta dello scrittore Stephen King a chi gli chiedeva se bevesse: “Certo, l’ho già detto che sono uno scrittore”. Non si tratterebbe comunque solo di “fantasia artistica”, ma anche di “resilienza”, ossia di capacità di risolvere i problemi sfuggendo alle barriere razionali e trovando la via d’uscita altrove.
Il vero colpo di scena arriva però dalla Danimarca, dove gli studiosi hanno affrontato il caso del diabete di tipo 2, per il quale su cui l’alcol è generalmente (e giustamente, se assunto in grande quantità) ritenuto un serio fattore di rischio. L’Università di Copenhagen ha quindi riesaminato i dati sui consumi di oltre 70mila persone, svelando infine un colpo di scena. Se cioè l’alto consumo alcolico ha confermato l’aumento di esposizione al diabete, le “piccole quantità” sono risultate non solo innocue, ma addirittura utili alla prevenzione.
L’indagine ha preso in considerazione diverse tipologie di bevande. Tanto per fare qualche esempio, è emerso che gli uomini che bevono un paio di bicchieri di vino al giorno hanno un rischio addirittura dimezzato di contrarre il diabete. Anche una birra farebbe bene, sebbene con una riduzione di rischio inferiore, pari a circa il 21%. Insomma un paio di bicchierini, negli ambiti qui citati, sono addirittura amici della salute. La sfida è semmai quella di fermarsi lì, perché andare “oltre” resta deleterio.
Può sembrare solo un tema frivolo per animare la dialettica tra gli ombrelloni. Invece il quesito è serio e interroga gli scienziati, alla ricerca di una migliore comprensione della nostra struttura cerebrale, anche nelle dimensioni “di genere”, al fine ultimo di migliorare gli aspetti di prevenzione e di terapia dei disturbi neuro-degenerativi stessi.
La sussistenza di differenze tra i sessi nei meccanismi cognitivi è un fatto oramai consolidato nella ricerca medica, oltre che nell'ambito psico-antropologico, che però manca ancora di una “mappatura” dettagliata delle attività tra le varie aree del cervello. Ed è proprio quel che hanno ora tentato gli scienziati di un istituto californiano di Newport Beach, con una robusta ricerca pubblicata sul Journal of Alzheimer's Disease.
Sono state fatte oltre 46mila scansioni cerebrali tramite la risonanza detta Spect (tomografia a emissione di fotone singolo), su ben 128 regioni del cervello, ripetendole mentre i soggetti, di ambedue i sessi, erano impegnati in test cognitivi oppure a riposo, e valutando la diversa intensità degli flussi di sangue.
Da tutto questo è emersa una differenza rilevante tra i due sessi: le donne sono risultate particolarmente attive sia nella corteccia prefrontale – associata nel controllo degli impulsi e della messa a fuoco - che nel sistema limbico – che regola le “emozioni”. L’attività cerebrale maschile ha però comunque segnato una “rivincita” nelle aree legate al coordinamento. Segnali che peraltro tendono a confermare che molti pensano intuitivamente. Emergerebbe dunque una superiorità femminile nel riconoscimento delle emozioni, nell’intuito, nella capacità empatica verso l’altro, mentre gli uomini si difenderebbero nell’ambito dell’analisi razionale.
L’obiettivo della ricerca era comunque terapeutico, mirando anzitutto a identificare le ragioni dell’esposizione a diverse patologie. Da quest’ottica, risulta che il genere maschile “vinca” in fatto di problemi “comportamentali” (incluso l’ambito criminale), ma le donne sono specularmente più esposte ad ansia, depressione, insonnia, disturbi alimentari e perfino patologie gravi come l’Alzheimer. Chissà se dietro a tutte queste verità fisiologiche non agiscano variabili culturali, antiche, di ruolo sociale. Qualunque sia la ragione prima, o ultima, la differenza c’è, e la sua comprensione è cruciale in vista di una “medicina di precisione”, nella quale il genere dei pazienti appare un fattore essenziale.
“Mangiate bene”, si consiglia spesso agli studenti o ad altri alle prese con esami e particolari sforzi cognitivi. Che la qualità alimentare sia una variabile rilevante per le capacità cognitive è un dato assodato, ma continua ad arricchirsi di ulteriori specifiche. L’Ultima, pubblicata dalla rivista Appetite, arriva dall’Università (australiana) di Newcastle, e introduce anche un curioso elemento di mistero.
In sostanza, da una sperimentazione su 4200 alunni delle scuole secondarie (che comunque “spuntava” altre variabili, quali il genere e il background socio-economico), è emersa un’incidenza rilevante di alcuni fattori alimentari sul rendimento scolastico.
Anzitutto, il consumo regolare di verdure a cena è risultato al vertice delle variabili. Poi, è emerso che almeno due frutti al giorno sono cruciali per conseguire voti più alti, soprattutto nelle materie linguistiche. Al vertice opposto, l’assunzione eccessiva di zuccheri e bevande industriali è risultata associata a voti più bassi, con particolare riferimento alla lettura.
Queste sono insomma le massime priorità, positive e negative. “Finora i dati scientifici in materia coinvolgevano perlopiù l’importanza di una buona colazione”, spiegano gli studiosi di Sidney, rivendicando la scoperta di correlazioni dirette degli alimenti citati, nel bene e nel male, con gli effetti cognitivi, e in particolare in tema di rendimento scolastico.
Permane un aspetto misterioso da esplorare, che ha destato sorpresa tra gli stessi ricercatori australiani. Le prescrizioni suddette hanno un effetto evidente in quasi tutte le materie di studio, ma ce n’è una che fa eccezione: la matematica. Su questo la qualità alimentare sarebbe irrilevante. E qui possono scatenarsi le interpretazioni. All’evidenza, sembra che una buona alimentazione possa irrobustire le capacità cognitivo-creative, e una cattiva alimentazione possa viceversa danneggiarle, ma la “struttura logica” del nostro cervello può “campare” lo stesso, nutrita anzitutto da solide variabili non-alimentari.
Nel rituale dei suggerimenti sanitari in tempi di torrida calura le indicazioni più ricorrenti sono quelle rivolte alla popolazione anziana. Non fa eccezione quest’estate, ritenuta “tra le più afose della storia”. Solo che ai sacrosanti consigli ai singoli va aggiunta una priorità superiore, ossia l’importanza di non lasciare gli anziani da soli. C’è chi si muove su questo, ed è il caso, tra gli altri, della Comunità di Sant’Egidio nell’area romana.
Il tema è vastissimo, in quanto le persone in età avanzata che vivono da sole in Italia sono quasi quattro milioni. E sono (assieme ai bambini) le più esposte ai problemi di disidratazione e di colpi di calore, che vanno ad aggiungersi alle pregresse debolezze e, talora, patologie. Anche Federanziani ha proposto un “decalogo” che ricorda i comportamenti corretti per difendersi dalle alte temperature.
Paletti forse scontati, ma non sempre osservati, sicché è bene ricapitolarli. Evitare le uscite nelle ore più calde, specie nelle zone molto trafficate. Bere tanto (acqua anzitutto, e comunque non alcolici), almeno un litro e mezzo di liquidi per reintegrare i sali minerali. Alleggerire i pasti, bene i carboidrati, la frutta fresca, la verdura di stagione, male i fritti e gli altri preparati grassi. Poi, naturalmente, aprire le finestre ma non nelle ore più calde della giornata, usare gli occhiali da sole (e le creme protettive della pelle, se si sta in spiaggia), e abiti leggeri con preferenza per le fibre naturali. Ancora, non trascurare le cure mediche o farmacologiche, come si tende spesso a fare d’estate, se non su consiglio medico.
Poi c’è il consiglio di cercare riparo vacanziero in luoghi freschi, ma il fatto è che tanti non possono permetterselo. E qui entra il nodo della necessaria solidarietà. “Più che il caldo è spesso l’isolamento sociale a fare vittime”, nota la Comunità di Sant’Egidio, con un appello a tutti a prestare attenzione agli anziani, parenti, ma anche vicini di casa, nonché persone incontrate in strada che vediamo in difficoltà.
A tal fine si inserisce il programma “Viva gli Anziani”, allestito dall’organizzazione già dal 2004 nella capitale, per una presa in carico che prevede un sistema articolato di sostegno, tra assistenza domiciliare, attivazione di reti sociali di supporto, monitoraggio sulla salute. Muovendo da una priorità: quella appunto di non lasciare nessuno da solo, che è il primo degli accorgimenti sanitari.
Nei giorni scorsi si sono moltiplicati i lanci d’agenzie stampa e gli articoli giornalistici sull’ultimo rapporto del Censis sulla salute degli italiani e i relativi costi, destando qualche perplessità di vari tipo tra gli addetti ai lavori (della sanità e dell’informazione) nonché tra cittadini e pazienti. Per questi ultimi, è stata una presa d’atto, se non la conferma, di una situazione di seria difficoltà delle persone a curarsi, specie in tempi di difficoltà economiche e limiti alla spesa pubblica. Per altri una ripetuta esagerazione.
Il rapporto dice che gli italiani sono stati costretti, nel 2016, a spendere di tasca propria (per gli alti costi e le estenuanti liste d’attesa) la cifra di ben 37,3 miliardi di euro, mentre la spesa pubblica nel settore, in rapporto al Pil, è rimasta assai inferiore agli altri Paesi europei: da noi è al 6,8%, in Germania arriva al 9. L’esito ultimo, in tempi di bassi salari e disoccupazione, è che il numero degli italiani che rinunciano alle cure almeno una volta l’anno per mancanza di denari è salito a 12,2 milioni, ben 1,2 milioni in più rispetto all’anno precedente.
Dati talmente pesanti che lo stesso Ministero della Salute ha ritenuto di dover puntualizzare. Anzitutto notando come si trattasse di “dati vecchi”, già divulgati due mesi fa (e infatti pubblicati anche da noi). E poi contestando la cifra delle persone che rinunciano alle terapie. “E’ solo una proiezione su un’indagine campionaria, ed è in evidente contrasto con due precedenti indagini Istat su vastissima scala”, obietta il dicastero, argomentando che il dato reale corrisponderebbe solo a un terzo di quello indicato dal Censis.
Puntualizzazioni a parte, il problema c’è, fossero anche solo 4 milioni quelli che non possono permettersi di curarsi. E’ un problema esteso, che richiama anche la priorità etica di ricordare la possibilità di ricorso ai farmaci equivalenti, di accertata efficacia e sicurezza terapeutica. E ricade inoltre sulla qualità dell’alimentazione, in un circolo vizioso per la salute.
Una ricerca molisana, dell’Istituto Irccs Neuromed di Pozzilli, ha infatti accertato che “la dieta mediterranea fa bene, ma solo ai benestanti”. A parità di consumo di pesce, frutta, cereali “buoni” che hanno fatto la fama mondiale, oltre che la salute, delle nostre tradizioni, inciderebbe tantissimo la qualità (e quindi il costo) dei prodotti acquistati, sul nostro benessere. E’ un problema drammatico. Che coinvolge la scelta (per cause economiche) dei cibi, freschi o non freschi, ma, si badi, non riguarda invece affatto la scelta tra medicinali di marca o meno. Su questo la differenza di prezzo dipende solo dalla scadenza del brevetto del brand, nient’affatto dalla qualità.
“Signore, fate lo jogging”, dicono i ricercatori britannici. Sembra l’ennesimo e scontato appello alla mobilità fisica per la prevenzione dell’indebolimento osseo, specie tra le donne, ma c’è una specifica ulteriore, che per molte può fare la differenza: basterebbe davvero poco, pochissimo, per evitare guai peggiori.
Lo studio, condotto dall’Università di Exeter, in collaborazione con quella di Leicester, e pubblicato dall’International Journal of Epidemiology, fissa alcuni paletti, alla portata di tutti e rivolti in particolare ai soggetti più a rischio, ossia le donne in menopausa. Gli studiosi hanno esaminato i dati fisiologici di oltre 2.500 soggetti di sesso femminile valutando in particolare la salute delle loro ossa (valutata con scansione a ultrasuoni) e confrontandone i livelli di attività fisica, misurati con monitor da polso.
E' emerso che un solo minuto o due di movimento quotidiano ad alta intensità, ripetuto per cinque giorni alla settimana, è sufficiente a potenziare le ossa, con un margine di miglioramento calcolato al 4%. “Il nesso è evidente”, sottolineano i ricercatori, aggiungendo un solo elemento di cautela: “Non sappiamo ancora se sia meglio effettuare quel breve esercizio una volta al giorno, oppure accumulare il programma settimanale in un giorno solo”.
Basterebbe dunque assai poco per migliorare la salute ossa, sebbene gli stessi scienziati inglesi ammettano che, spingendo oltre la soglia dei due minuti, si possono ottenere risultati ancor più convincenti, salendo dal 4 al 6% nel potenziamento.
E' interessante anche l'enfasi posta sul movimento “intenso”, quale una corsa ben sostenuta, nei limiti delle proprie possibilità, naturalmente. Viene ritenuta più benefica per le ossa perfino al confronto con una più estesa passeggiata. Camminare fa comunque bene, naturalmente, e lo ribadiscono gli stessi ricercatori britannici, ma con un consiglio in più, quello di aggiungere appunto un pur breve scatto: “Come quando d'improvviso ci si mette a correre per prendere l'autobus in partenza”, concludono.
Molti lo chiamano così, alcuni lo ritengono un termine improprio. Il cosiddetto “pre-diabete” rappresenta una condizione ad alto rischio di contrarre il diabete mellito di tipo due, che andrebbe riconosciuta e trattata con serietà, per evitare seri guai successivi. E’ di questi giorni la pubblicazione dei risultati di uno studio in materia realizzato dall’Università australiana di Newcastle, nonché di un “pentalogo” proposto da una rivista divulgativo-scientifica britannica, che convergono su alcuni capisaldi di prevenzione.
Col termine “prediabete” si identifica uno stato largamente (se non del tutto) asintomatico, quindi spesso non riconosciuto dalle persone per lunghi periodi, definito da livelli di glucosio e insulina superiori alla norma, ma non al punto da determinare un diabete conclamato. E’ diagnosticabile alla luce di una alterata glicemia a digiuno e di una ridotta tolleranza al glucosio, variabili che possono e dovrebbero essere trattate tempestivamente.
La sperimentazione australiana, condotta su un centinaio di volontari tramite una dieta con pochi grassi e un aumento dell’esercizio fisico, è giunta alla duplice conclusione di una rilevante perdita di peso e un miglior controllo glicemico. Ma l'aspetto più innovativo consiste nel fatto che i risultati migliori sono stati registrati proprio tra i partecipanti “preglicemici”. Basta una passeggiatina di una mezz’oretta al giorno, all’evidenza anche di altri studi, e il rischio di contrarre il diabete risulterebbe più che dimezzato.
Sulla scia di questo e altri studi, la rivista britannica The Conversation ha dettagliato un percorso alimentare di prevenzione sulla base di cinque paletti fondamentali. In primis, un alto consumo di frutta e verdura, specie a foglie verdi, affiancato da una diminuzione dei consumi animali. Poi c’è il suggerimento di un consumo moderato caffè, magari decaffeinato, per usufruire dei suoi benefici effetti sul metabolismo.
Infine, non ultimo, a fianco dell’imperativo generale di evitare cibi ad alto contenuto glicemico (inclusi i carboidrati lavorati), c’è il “divieto” delle bevande industriali, che risultano attraenti soprattutto d’estate. Una sola bevanda al giorno è associata a un aumento di rischio diabetico del 13%. Consigli da prendere sul serio, per tutti. E per valutare chi è a particolare rischio, basta un semplice esame della glicemia a digiuno: chi sta sopra quota 100 e sotto quella di 125 è defnibile come “pre-diabetico”. Possiamo infischiarcene ma, allo stadio successivo, se non cambiamo qualche comportamento, ce ne pentiremo.
Da tempo c’è un gran parlare di “territorializzazione della Sanità”, per liberare la cura dalle mura ospedaliere – al di fuori naturalmente dei casi più gravi – e avvicinarla ai cittadini. La principale rete associativa nazionale, Cittadinanzattiva, ha allora cercato di fare il punto, in collaborazione con altre associazioni di pazienti, di professionisti sanitari, nonché enti territoriali e sindacati. Tracciando un quadro globalmente modesto, tra palesi lacune e gravi differenze regionali, con l’esito ultimo che sono i cittadini, infine, a pagarsi privatamente una buona parte dell’assistenza, del resto solo quando possono permettersela.
Tra le carenze, c’è la “cronicità” della lentezza e dei ritardi. Più di un cittadino su dieci attende oltre un mese per ricevere farmaci indispensabili, uno su quattro aspetta il medesimo lasso di tempo per un materasso o un cuscino antidecubito giudicati indispensabili, uno su tre per una carrozzina. Un paziente su sette poi incontra criticità nell’attivazione del servizio di infermieristica o fisioterapia, anche dopo la sua formale assegnazione. Quando il servizio è fornito i pazienti si dichiarano largamente soddisfatti per la qualità e la sensibilità degli operatori, salvo il problema, lamentato da quasi la metà dei cittadini, che tali operatori non sono quasi mai gli stessi, ruotano troppo spesso. Questione di burocrazie ancora poco accessibili. E di organizzazione.
I problemi emergono già nella semantica: gli appellativi cambiano anche solo sconfinando da una Regione all’altra. Su base nazionale ci sono le “Aggregazioni Funzionali Territoriali” (Aft), che però localmente si declinano in modalità variabile nelle cosiddette “Unità Complesse di Cure Primarie”. Queste si chiamano “Case della Salute” in Emilia Romagna, si sale oltre la “frontiera” del Veneto diventano “Medicine di Gruppo Integrate”. E nella confusione finisce che in una Regione su tre il previsto coordinamento tra Aft e Unità complesse non è stato neanche attivato.
A proposito di sperequazioni territoriali, emerge poi che i Centri diurni per la salute mentale sono 3 nel Molise, mentre sono 69 in Toscana, quelli per l’Alzheimer sono 4 in Campania e 109 in Veneto. Si dovrebbe allora quantomeno seguire il criterio adottato per gli ospedali: bisogna stabilire “standard qualitativi, strutturali, tecnologici a garanzia di tutti i cittadini in tutte le aree del Paese. Abbiamo bisogno di poter trovare nel territorio un punto di riferimento affidabile e presente sempre”, incalza il Coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva Tonino Aceti.
Tra disservizi e differenze regionali finisce che i costi vengano poi scaricati sui cittadini. Costretti a pagare di tasca propria l’assistenza essenziale in un caso su due, e in uno su dieci a spendere oltre mille euro al mese, tra badante, fisioterapista, materiale sanitario e farmaci. Un onere che potrebbe essere alleviato anche attraverso il ricorso ai farmaci generici, come ricorda “IoEquivalgo”, la campagna attivata sempre da Cittadinanzativa per sensibilizzare al loro uso e contenere almeno in parte il fenomeno dell’abbandono delle cure legato al costo elevato dei medicinali.
“Una robusta colazione al giorno leva il sovrappeso di torno”. Qualche blogger americano sintetizza così l’esito di uno studio californiano, in via di pubblicazione sul Journal of Nutrition, presentato in questi giorni a Washington all’International Conference on Nutrition in Medicine. Non è certo una novità il consiglio di un inizio ben nutrito della giornata, per l’energia che il nostro corpo richiede, nonché per la sua capacità di “bruciare” le calorie ingerite di buon ora, ma adesso arriva una specifica ulteriore tramite uno studio di vasta scala: quel pasto è cruciale perfino all’obiettivo di perdere peso.
Gli scienziati della Loma Linda University School of Public Health, in collaborazione con due Istituti di Praga, hanno esaminato nell’arco di sette anni le abitudini alimentari di oltre 50mila ultratrentenni, anche con il tramite di periodici questionari. L’esito più vistoso e meno confutabile riguarda la colazione. Chi la saltava teneva a ingrassare di più, e non di meno. Inoltre, chi faceva della colazione il pasto più succulento della giornata raggiungeva i risultati migliori in termini di Indici di Massa Corporea.
Più discutibile un altro risultato annunciato dai ricercatori, ossia che il numero complessivo di pasti giornalieri sia funzione diretta dei rischi di sovrappeso. Verrebbe cioè contraddetto l’imperativo del “mangiare poco ma spesso”, promuovendo invece un paio di “abbuffate” quotidiane, senza ulteriori apporti di merende o simili. L’aspetto debole qui sta nel fatto che la correlazione potrebbe anche determinarsi dal solo fatto di un quantitativo globalmente superiore di cibo in una quantità maggiore di pasti, e soprattutto non sembra tener sufficiente conto della loro qualità.
A tal proposito, uno studio italiano (finanziato dalla Fondazione Barilla) rilancia i benefici di una buona dieta mediterranea, per perseguire i propri obiettivi “di linea”, oltreché di salute. Nel “decalogo”, si ribadiscono le priorità su cereali integrali, l’olio extravergine di oliva, tanta acqua, frutta e verdura, il consiglio a ridurre la carne e i formaggi, da sostituire con le proteine vegetali, quali i legumi. Bene il pesce, specie quello azzurro, bene anche limitare il sale.
E poi, naturalmente, l’appello a un’adeguata attività fisica, a iniziare dalla semplice camminata o pedalata. Insomma, bisogna muoversi, almeno un po’, tranne in un caso, ossia proprio quando si sta a tavola. “Lentezza”, “convivialità”, le parole d’ordine, celebrate anche dall’Unesco nel riconoscere la dieta mediterranea come “Patrimonio dell’Umanità”. Con una priorità in più, a quanto pare: quella di una buona e solida colazione, senza troppe preoccupazioni sugli eccessi.
Danni fisiologici, rischi tumorali, l’inquinamento causato dalle onde emesse dai dispositivi. Sono diversi gli allarmi e gli studi che, seppur tra qualche parziale obiezione qua e là, forniscono un sacrosanto richiamo alla cautela sull’uso dei telefonini. Dall’Università del Texas (ad Austin) ne arriva uno ulteriore, che si concentra sugli aspetti psicologico-cognitivi, e ne documenta il danno.
Gli studiosi americani hanno coinvolto quasi 800 utilizzatori di smartphone, sottoponendoli a una serie di test, e introducendo alcune variabili in relazione al dispositivo stesso: questo veniva posizionato per alcuni sulla scrivania, per altri nella loro tasca o borsa, per altri ancora in un’altra stanza, in tutti i casi con la raccomandazione di disattivarne i suoni, in modo che non fossero mai di apparente disturbo alla concentrazione sul lavoro richiesto.
Ebbene, al termine dei vari test, è emerso un esito chiaramente migliore tra i partecipanti che tenevano il telefonino nell’altra stanza, a decrescere progressivamente in relazione alla sua accessibilità. “Una tendenza lineare, quanto più lo smartphone è percettibile, tanto più le capacità cognitive diminuiscono”, spiegano gli scienziati americani, notando per giunta come fosse irrilevante la variabile sull’accensione o meno del telefonino.
Insomma, la sola presenza sarebbe sufficiente a “spegnere” almeno parzialmente il cervello. “Non è che il cervello pensi coscientemente allo smartphone, ma il fatto che si sia attiva il cosiddetto brain drain, ossia il processo attraverso il quale ci si richiede di meno, ci si permette di limitare l’uso delle proprie risorse cognitive”, commentano dal Texas.
In altre parole, il nostro cervello tende ad adagiarsi a quel che tende a considerare il proprio sostituto, o quantomeno un prezioso ausilio. Si tratta di esiti che possono essere scontati, ma che rivelano una verità profonda, da consegnarsi non solo alla scienza e all’ambito psicoterapeutico, ma al genere umano, sin dall’età evolutiva. Quell’oggetto che sembra racchiudere il mondo, per le sue possibilità infinite di informazione e di comunicazione, pubblica e privata, in realtà toglie qualcosa a noi stessi. All’evidenza, dimenticare ogni tanto quell’oggetto a casa può non essere un problema, bensì la nostra salvezza.
Tra i tanti misteri che ancora avvolgono le origini di una patologia così grave prende corpo un’ipotesi pressoché nuova e, a quanto pare, assai plausibile. Si tratta dell’intestino, ovvero della sua flora batterica, ed è una pista tracciata proprio uno studio in Italia, sostenuto dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (e relativa Fondazione), con esiti pubblicati sulla rivista internazionale Science Advances.
Gli studiosi dell’Ospedale San Raffaele di Milano hanno esaminato nell’arco di due anni i tessuti intestinali di 19 malati di sclerosi multipla recidivante-remittente (distinguendo poi tra quelli con malattia in fase attiva e i pazienti in fase remissiva), comparandoli coi tessuti di 18 persone sane, osservando sia le cellule del sistema immunitario che le popolazioni batteriche.
E’ emersa in particolare, tra i malati, una quantità aumentata dei linfociti TH17. Questi, ricordano i ricercatori, “sono le prime cellule del sistema immunitario a superare la barriera ematoencefalica e a raggiungere il sistema nervoso centrale, contribuendo al danno del rivestimento mielinico”, tant’è che una molecola da loro prodotta, l’interluchina-17, è ampiamente presente nelle lesioni cerebrali seguite alla malattia. Da qui la conclusione che tali cellule immunitarie possano essere responsabili della stessa sclerosi.
Ma che c’entrano in tutto questo i batteri? Qui sta la documentata novità, in quanto nei pazienti con malattia attiva spuntano al contempo “due vistose anomalie, una quantità ridotta di Prevotella, batterio che riduce il differenziamento dei linfociti in cellule TH17, e l'aumento di due ceppi di Streptococco (oralis e mitis) che solitamente risiedono nella cavità orale e hanno notevoli capacità infiammatorie”.
Morale - anche se serviranno, a detta degli studiosi stessi, ulteriori riscontri e specifiche sui rapporti di causa ed effetto - la flora batterica intestinale ha senz’altro un ruolo nella patogenesi della malattia. “I batteri che vivono nel nostro intestino interagiscono continuamente con il sistema immunitario. L'alterazione del loro equilibrio favorisce uno squilibrio immunologico a livello intestinale ma anche sistemico, con conseguenze importanti nel campo di tutte le malattie immuno-mediate”, spiegano gli scienziati. Tra queste, oltre alla sclerosi, c’è il diabete di tipo 1, a ulteriore sottolineatura del potenziale di questo filone di ricerca rilanciato in Italia, con quel che comporta sul piano degli orizzonti terapeutici.
“Cucinare ingrassa”, si dice spesso, pensando perlopiù all'inevitabile pur cauto assaggino, qua e là, della pietanza in preparazione. Ebbene, da una ricerca scientifica americana, pubblicata sulla rivista Cell Metabolism, arriva non solo una conferma scientifica, ma altresì l'individuazione di una causa ulteriore e sorprendente, ossia l'olfatto. Basterebbe cioè “annusare” il cibo per mettere sotto pressione il nostro peso forma.
In una serie di sperimentazioni sui roditori, è emerso che quelli che annusavano il cibo, o avevano comunque un senso più sviluppato dell'olfatto, tendevano a ingrassare molto più degli altri, a parità di consumi alimentari. La spiegazione data dagli scienziati è che l'olfatto spingerebbe il corpo a conservare le calorie piuttosto che bruciarle, e, a controprova di questo c'è il fatto che le nostre capacità olfattive tendono ad aumentare quando siamo affamati, mentre diminuiscono dopo mangiato.
“Per la prima volta si dimostra che se riusciamo a manipolare gli input olfattivi possiamo realmente alterale le percezioni mentali sulla bilancia energetica, e quindi il modo con cui la regola”, annunciano gli studiosi dell'Università della California. E la dimostrazione si è avuta anche testando una terapia genica che agisce sull'ambito neurologico delle percezioni, “silenziandole”: gli esiti hanno confermando le intuizioni suddette, ma il trattamento utilizzato ha come controindicazione dell'incremento dell'ormone chiamato “noradrenalina”, a livelli che, per gli umani, aumentano i rischi di infarto.
Il concetto comprovato è comunque rivoluzionario e promettente per la ricerca. “I nostri meccanismi sensoriali hanno un ruolo nel metabolismo: l'accumulo di peso non è solo la misura delle calorie ingerite, ma anche della loro percezione”, spiegano gli scienziati. Il che apre a ricadute non solo sul controllo della “linea”, ma anche sul trattamento di seri disordini alimentari.
Insomma l'intero tema del metabolismo sarebbe anche una questione di “testa”. Spesso – notano ancora i ricercatori – i malati di Parkinson, tra gli altri, diventano anoressici, senza che sia mai stato chiaramente trovata la spiegazione scientifica. Motivi di stress, depressioni, se non patologie psichiche, che sovente si associano alla perdita di appetito. In ogni caso, l'ambito emotivo, neurologico, c'entra eccome.
Riconoscere un problema è il primo passo per poterlo superare. L’importanza, definita “epocale” di una ricerca anglo-americana, risiede proprio in questo: l’esser riusciti a visualizzare per la prima volta, ad altissima risoluzione, i dettagli atomici della cosiddetta “proteina Tau”, largamente ritenuta la molecola celebrale chiave nel processo neuro-generativo legato all’Alzheimer.
Il notevole passo avanti, annunciato anche dalla rivista Nature, è di un gruppo di scienziati del britannico Medical Research Council assieme all’Indiana University School of Medicine. Lo studio ha permesso di individuare con chiarezza i filamenti della proteina, invisibili ai tradizionali microscopi, la cui presenza è considerata un marcatore dell’Alzheimer, alterando la funzionalità “stabilizzante” della molecola. Il risultato è stato ottenuto tramite “crio-micro-spia elettronica”, una tecnica utilizzata di recente per la visualizzazione molecolare a temperature molto basse.
“Si tratta di risultati scientifici importanti e promettenti, i più importanti nell’ultimo quarto di secolo”, sottolineano i ricercatori. E sarebbe un’ottima notizia per una patologia che coinvolge in Italia circa 600mila ultrasessantenni, e che richiede anzitutto una diagnosi tempestiva, su cui si fa in effetti molta ricerca nel nostro Paese, fino a poter predire forme di demenza “con un anticipo di otto anni”, secondo un recente approfondimento dell’Università di Firenze sulla base di dati comportamentali.
Sempre dall’Italia, è emersa di recente, dall’Università Campus Bio-Medico di Roma, la scoperta di un meccanismo di origine della malattia, scovato nell’area cerebrale della produzione della dopamina, neurotrasmettitore cruciale sulle dinamiche “umorali”, coinvolgendo anzitutto la cosiddetta area tegmentale ventrale, prima ancora dell’ippocampo. In altre parole, i processi di perdita della memoria non nascerebbero dall’area a essa primariamente associata, ma dal malfunzionamento di tali “meccanismi emozionali”.
Sono intuizioni preziose, che dal nostro Paese allargano la metodica e l’orizzonte dello studio della patologia. Dallo studio anglo-americano emerge però ora la possibilità coadiuvante di “vederla”, come prima non era mai stato possibile. Con quel che potrebbe rapidamente conseguire per dettagliare la comprensione del problema, dalla sua genesi ai potenziali terapeutici.
Rischi tumorali, melanomi, carcinomi, seri problemi agli occhi, invecchiamento precoce della pelle. Sono tantissime le controindicazioni di un'eccessiva esposizione al sole, e tuttavia gli italiani, sebbene rivendichino generalmente di essere padroni ed esperti della materia, spesso si proteggono assai male. A rinnovare l'allerta in materia è l'esito di un'apposita indagine divulgata nei giorni scorsi sui nostri comportamenti in spiaggia.
Emerge tra l'altro che oltre la metà degli italiani non prende le giuste cautele perché ha fretta di scurirsi. Il 45% addirittura utilizza creme abbronzanti al posto di quelle protettive, con l'esito che il 66% si procura rilevanti scottature, e un terzo dei bagnanti subisce colpi di calore.
Alcuni degli errori sono suscitati dall'istinto di accelerare appunto l'abbronzatura, ma a incombere è anche una diffusa disinformazione. Un portale internazionale ha fatto ad esempio il punto sui “falsi miti” in materia di creme solari. Tra i più plateali, l'idea che non sempre esse siano necessarie, ad esempio quando il cielo è nuvoloso; poi quella secondo cui la protezione non faccia assorbire la benefica vitamina D, mentre in realtà bastano pochi minuti al processo. Ancora, il falso secondo cui chi ha la pelle più scura non necessiti protezione. Oppure il mito che un'applicazione basti per la giornata, mentre andrebbe applicata ogni due ore o poco più, specie se dopo la prima applicazione si è fatto un bagno.
I concetti sono largamente ripresi nelle avvertenze del ministero della Salute, che ricorda i seri rischi sanitari della sovraesposizione, e aggiunge qualche consiglio concreto. Anzitutto, utilizzare le creme “per integrare, ma non per sostituire, i metodi fisici di protezione dalle radiazioni UV (indumenti, cappello, occhiali, ombra) soprattutto nelle ore centrali e più calde della giornata”.
Confermata inoltre la “bocciatura” degli autoabbronzanti (“hanno solo un effetto cosmetico e non "preparano" la pelle al sole”) e delle lampade solari (“un ulteriore rischio per l'insorgenza dei tumori della pelle e sicuramente accelerano l'invecchiamento cutaneo provocando un aumento delle rughe e delle macchie”), sfatando in proposito un altro mito perorato da alcuni: “Anch'esse – si legge - non hanno alcun effetto protettivo rispetto ai raggi solari”. Sapevamo tutti già tutto? All’evidenza, purtroppo, no.
“Quando la moglie va in vacanza” ci rievoca la magnifica e spiritosa Marilyn Monroe, o anche il grande regista Billy Wilder, pur tra battute e qualche lacrima di nostalgia. Ad andare in vacanza, tuttora, è però anche il medico, il che solleva a volte qualche ansia, soprattutto per le sacrosante esigenze degli anziani. E’ allora tempo di ricordarci qualche appiglio possibile in assenza dell’operatore (e soprattutto in presenza di temperature insopportabili), nell’ambito dell’assistenza sanitaria ma anche dei comportamenti privati.
Anzitutto meritano di essere rispolverate un po’ di informazioni di pubblica utilità, visto che talvolta è la stessa ignoranza sui propri diritti a innescare angosce, anche al di fuori dell’ambito sanitario. Per esempio, non tutti sanno che se non c’è il medico di famiglia si può consultare il sostituto, da lui nominato, e tenuto alla reperibilità, quantomeno negli orari e giorni feriali (ossia dal lunedì al venerdì). In sua ulteriore assenza, le Regioni devono comunque allestire una rete di ambulatori disponibili nell’ambito della propria Asl.
Al di fuori di tali orari, inoltre (e al di là dei servizi di assistenza e volontariato allestiti in molti territori, raggiungibili tramite il numero telefonico ministeriale 1500), dovrebbe essere sempre attivo un servizio di Guardia Medica, nonché quello per le emergenze sanitarie, contattabile al 118.
Al di là di tutto questo, peraltro, vale sempre, soprattutto nei contesti e periodi di assistenza ridotta, la regola che si può aver cura di sé prima dell’insorgenza del problema, e questo riguarda anzitutto le fasce deboli per eccellenza, ossia gli anziani stessi. Un ulteriore riscontro sull’importanza della prevenzione è arrivato nei giorni scorsi da uno studio dell’Università di Singapore che documenta come il rischio di deficit cognitivi aumenti di ben 8 volte tra gli anziani fisicamente fragili, e la compresenza delle due debolezze incrementi di 20 volte l’esposizione alla disabilità, al ricovero o addirittura alla morte.
Tali esiti possono suonare scontati, ma il problema è che spesso non ci si muove di conseguenza. E bisognerebbe farlo, come hanno sperimentato gli stessi studiosi. Una combinazione di una buona attività fisica, di un’adeguata alimentazione e di uno stimolo cerebrale ha il documentato potenziale di ridurre al contempo la fragilità fisica e i sintomi cognitivo-depressivi. In definitiva, l’assistenza sanitaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, anche quando il medico è in vacanza, ma la prima cura (e spesso la migliore) rimane quella che ciascuno, anche in età avanzata, può mettere preventivamente in atto, pur nei limiti delle proprie possibilità e inclinazioni.
Viaggiare è per molti il massimo dei piaceri, al punto che, secondo le stime diffuse dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2015 i turisti sono stati complessivamente circa 1,2 miliardi, con tendenze all'ulteriore aumento. A volte però ci si rovina la vacanza ammalandosi, ed è un rischio che si alimenta in alcuni contesti, dove permangono patologie e virus insidiosi, altrove debellati. Nei giorni scorsi le autorità sanitarie statunitensi hanno quindi aggiornato il loro apposito “Yellow Book”, che tiene conto delle segnalazioni internazionali e include nelle sue “avvertenze” anche il nostro Paese.
In cima alle preoccupazioni rimangono l'Asia e l'Africa Sub-sahariana, dove si registrano globalmente il 60% delle malattie di viaggio, quali malaria, dengue e febbre enterica. Poi ci sono i virus ritenuti “emergenti”, come zika (prevalentemente in America Latina) ed ebola, nonché alcuni allarmi specifici, come la polio in Nigeria o la mers (sindrome respiratoria mediorientale) nell'area tra il Libano e l'Iran, con particolari criticità nei luoghi e nei tempi dell’afflusso massiccio legato ai pellegrinaggi (come quello a La Mecca).
La guida americana, oggetto di frequenti aggiornamenti nella versione digitale, include anche “buone notizie”, come il nuovo vaccino contro il colera, nonché consigli utili, che vanno dalle immunizzazioni alla prevenzione di alcuni disturbi diffusi, dalla nausea alla diarrea, dal problema del jet lag alla gestione delle alte quote, oltre naturalmente ai consigli alimentari.
In mezzo a consulenze e allarmi, non manca qualche curiosità, tra cui la stessa inclusione del nostro Paese tra quelli “a rischio”. La citazione è in particolare sul morbillo, che da noi ha rialzato la testa negli ultimi anni, complice qualche difetto nelle vaccinazioni. Il Ministero italiano della Salute si è quindi attrezzato in proposito anche con lo strumento di un bollettino settimanale.
E anche l'ultimo è tutt'altro che incoraggiante. 3346 casi e due decessi solo dall'inizio dell'anno, in larga parte (88%) tra i non vaccinati o tra i vaccinati con una sola dose (7%). Non mancano per i pazienti alcune complicanze (35%), tanto che nel 40% si arriva al ricovero. E non ne sono immuni neppure gli operatori sanitari, con oltre 250 casi nel 2017. Solo la Romania ci supera in tali cifre a livello europeo. Magra consolazione: l'allerta morbillo è lanciata, oltre che per Italia e la stessa Romania, anche per Germania e Belgio. “Andateci solo se immunizzati”, dicono gli americani. E questo dovrebbe preoccupare, a maggior ragione, anche chi ci vive.
Lo chiamano oramai così, il “diabete urbano”. Non è una variante della patologia ma una drammatica presa d'atto di quanto essa coinvolga primariamente le città, tanto da suscitare in questi giorni analisi, convegni (uno al Senato, organizzato dal “think tank” Health City Institute), e perfino un appello che l'Associazione Nazionale Comuni Italiani ha rivolto a se stessa, ossia ai sindaci, per sensibilizzarli al problema.
L'impatto della malattia in Italia ha raggiunto cifre impressionanti: nei conteggi ufficiali sono 3,3 milioni le persone colpite, secondo l'Istat, ossia il 5,4% della popolazione, e molte di loro sono esposte ad altri rischi sanitari. Si stima ad esempio, che ogni 7 minuti un diabetico abbia un attacco cardiaco, ogni 10 un altro sviluppi un problema serio alla vista, mentre solo la metà dei pazienti consegue un buon controllo glicemico.
Tra i tantissimi pazienti, ci sono molti che si curano male, non seguono per bene le terapie o le indicazioni alimentari, e ci sono anche quelli (come l'amato Paolo Villaggio) che scelgono perfino di non curarsi affatto. E poi c'è un nodo ulteriore, rappresentato dal fatto che tali cifre sono solo una sottostima dell’entità del problema, tant'è che si calcola che c’è un altro milione di italiani affetti da diabete senza saperlo.
Se poi si scompone tale dato su base territoriale, balza appunto agli occhi il problema delle città. Oltre la metà dei diabetici italiani vive nei cento più grandi centri urbani. A Roma, ad esempio, l'incidenza della patologia sale, dalla citata media nazionale del 5,4%, al 6,5%. E se si mette la lente sul rapporto tra centro e periferie, si vede che in queste ultime la proporzione si impenna al 7,3%. “Una chiara evidenza dell'impatto dell'ambiente sullo sviluppo della malattia”, nota Chiara Frontoni, presidente del Comitato scientifico dell’Italian Barometer Diabetes & Obesity Forum.
Al di là degli aspetti terapeutici, e dei progressi scientifici in materia, il tema chiama dunque in causa l'assistenza in senso lato. Il diabete è una “pandemia sociale”, nella definizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, e come tale va “curato”. Coinvolge selettivamente le aree urbane, specie quelle più disagiate, nonché le fasce deboli, a iniziare dagli anziani. E lo fa in almeno due aspetti, incidendo sia sul rischio di ammalarsi (stili di vita, qualità dell'aria, alimentazione), sia sulla difficoltà a curarsi, data la solitudine in cui si trovano in città moltissimi pazienti, soprattutto in età avanzata. “Le campagne di comunicazione per migliorare i comportamenti privati di prevenzione sono fallimentari”, ha ammesso anche il presidente della Società Italiana di Medicina Generale, Claudio Cricelli. Si tratta invece di non lasciare le persone sole. E questo è un tema non solo sanitario.
Sorpresa: tagliare drasticamente il consumo di sale potrebbe non essere benefico. E’ uno dei segnali più sorprendenti lanciati dal 27mo Congresso della Società Europea dell’Ipertensione, tenutosi nei giorni scorsi a Milano.
E sembra contrastare con l’ampia letteratura in materia, specie in relazione al tema stesso della pressione arteriosa, nonché con le politiche attivate anche in Italia per limitarne l’assunzione nell’obiettivo di benefici sanitari, e perfino economici, già segnalati su questo portale. In realtà, a ben vedere, la contraddizione non c’è, il segnale si limita a un monito, comunque rilevante, a evitare gli “integralismi”. Nel dettaglio, gli studi clinici hanno finora accertato che l’abbassamento di pressione avviene con un consumo di sale inferiore ai 3 grammi al giorno, e tuttavia “la dose ottimale di sodio per il benessere dell’organismo è un dato ancora da stabilire”, ha rimarcato il presidente del Congresso Giuseppe Mancia, nonché autore di una ricerca di revisione in materia.
La conclusione di tale studio rimane quella di evitare gli eccessi salini, ma senza scendere sotto la soglia dei 7,5 grammi, “perché non conosciamo ancora le conseguenze per la salute” di tagli ulteriori. Il nostro corpo, dinanzi soprattutto a situazioni patologiche, ha bisogno di equilibri, e anche una limitata presenza di sodio può essere un fattore attivo, sicché le soluzioni drastiche sembrano da evitarsi, in quanto prive di riscontri scientifici certi.
Il tema è serio, specie in quanto l’ipertensione arteriosa coinvolge un adulto europeo su tre, superando addirittura il fumo e l’inquinamento atmosferico come fattore di rischio cardiovascolare, con prospettive di peggioramento legate all’invecchiamento della popolazione. Un problema esteso, dunque, e al contempo spesso affrontato male. La metà dei pazienti, ad esempio, sospende arbitrariamente le cure, e si controlla in modo discontinuo.
La scarsa aderenza terapeutica è spesso determinata dal fatto che si sta provvisoriamente un po’ meglio. E le soluzioni drastiche fai-da-te come l’azzeramento del sale in generale non hanno un riscontro scientifico. Sono tutte cattive abitudini da eliminare, perché l’ipertensione richiede invece un’attenzione cauta quanto di lungo periodo. Gli eccessi e le scorciatoie, incluso l’azzeramento del sale, non sono una soluzione.
Viene definita “una delle scoperte più importanti nella storia della ricerca oncologica”. Arriva da Napoli, dagli scienziati del Tigem (Istituto Telethon di Genetica e Medicina), in collaborazione con l’Istituto Europeo di Oncologia, meritando la pubblicazione anche nella prestigiosa rivista internazionale Science. La novità è nell’individuazione di una sorta di “interruttore” biologico, responsabile della proliferazione incontrollata delle cellule tumorali, “spento” il quale la crescita cancerogena stessa verrebbe bloccata.
Al cuore della scoperta, giunta al culmine di un percorso decennale, c’è lo studio dei cosiddetti “lisosomi”, micro-organi cellulari che funzionano come dei veri e propri “termovalorizzatori”, sprigionando energie (da molecole “dormienti”) quando mancano, ad esempio in assenza di cibo o nel contesto di un esercizio fisico prolungato. L’aspetto cruciale è che tale meccanismo invece si arresta automaticamente col ripristino dell’alimentazione e del riposo. Ebbene, è emerso che il “blocco” dei lisosomi fa inceppare tale dinamica, e induce alla replicazione e alla crescita delle cellule cancerogene, in particolare di melanomi e tumori al rene e al pancreas. Specularmente, il loro “sblocco” ferma l’avanzata tumorale, ripristinando tale meccanismo difensivo del corpo.
Sono diversi gli aspetti suggestivi di tale studio, oltre che promettenti. In generale, è interessante la sua metodica, che fa leva sugli aspetti endogeni delle capacità difensive del corpo, sicché l’orizzonte farmacologico diventa quello del loro ripristino. Più specificamente, l’analisi dell’attività dei lisosomi (e delle situazioni di loro malfunzionamento) è scaturita dallo studio di malattie cosiddette “rare”, già rivelatosi prezioso per la comprensione di altre patologie diffuse.
“Basti ricordare come le statine, farmaci comunemente usati per abbassare i livelli di colesterolo, siano stati sviluppati a partire dallo studio di una condizione rara, l'ipercolesterolemia familiare”, nota Francesca Pasinelli, direttore generale della Fondazione Telethon (co-finanziatrice del progetto, insieme all’Airc). Ora si tratta di arrivare al dunque, specificando i rapporti di causa ed effetto, nonché i relativi antidoti. Sicché si va avanti, anche con annunciati contributi regionali.