La pianta è violacea, la spezia estratta è rosso fuoco, e dopo il passaggio in pentola si trasforma in quell’inconfondibile giallastro che tinge il nostro risotto alla milanese e migliaia di ricette asiatiche. La “magia” dello zafferano sembra però non limitarsi al colore (e al profumo), coinvolgendo altresì virtù terapeutiche, perfino dinanzi a una patologia estesa quanto per certi versi ancora misteriosa, ossia la più diffusa delle forme di demenza.
Non è una novità assoluta che lo zafferano abbia potenziali benefici verso l’Alzheimer, alcuni studi, soprattutto statunitensi, lo hanno già ipotizzato negli ultimi anni e in Iran, il suo principale produttore mondiale, li si rivendica da sempre nelle tradizioni locali.
L’ultima conferma scientifica arriva però dal nostro Paese, e appare anche tra le più convincenti e specifiche. La si legge sul Journal of the Neurological Sciences, in uno studio a firma del Laboratorio di Neurogenetica del Centro Europeo di Ricerca sul Cervello (Cerc) dell’Irccs Santa Lucia di Roma, che ha avuto come presupposto proprio nelle conoscenze acquisite sull’“enorme potenziale neuro-protettivo” della spezia. “Lo zafferano contiene potenti antiossidanti e molecole bioattive, quali crocine e crocetine”, spiega infatti il direttore del Cerc, Antonio Orlacchio. Da qui la sperimentazione, effettuata dapprima in vitro sulle cellule immunitarie di 22 pazienti con un declino cognitivo ancora lieve, e poi su alcuni roditori anziani, facendo leva, in particolare, sulla “trans-crocetina”, uno dei componenti attivi dello zafferano.
È così emersa la sua capacità di attivare un enzima di degradazione cellulare, chiamato catepsina B, che aggredisce la proteina tossica beta-amiloide, il cui accumulo è il principale indiziato della morte delle cellule nervose, e quindi dell’offuscamento cerebrale del malato di Alzheimer. “Il tutto senza che a livello cellulare sia emersa alcuna forma di tossicità”, nota soddisfatto Orlacchio.
Niente effetti avversi ed elevati potenziali terapeutici, dunque. L’orizzonte di un farmaco anti-Alzheimer ricavato dallo zafferano sembra concreto e abbastanza vicino. Serviranno ulteriori approfondimenti, e naturalmente il passaggio sperimentale in vivo sui pazienti. Secondo il direttore del Cerc, il potenziale sarebbe alto soprattutto per quelli affetti dalla forma non ereditaria della patologia, che è la più diffusa.
Se ci fanno schifo, ora abbiamo qualche motivo scientifico in più. Una ricerca della Penn State University (supportata dal governo di Singapore), pubblicata su Scientific Reports, ha accertato la capacità delle mosche, “ben superiore a quanto finora pensato, anche dalle autorità di salute pubblica”, di trasportare e diffondere centinaia di batteri, inclusi alcuni assai nocivi per la salute umana. Si tratta, cioè, dell’evidenza scientifica riguardo al ruolo di questi insetti come “potenti vettori di gravi patogeni”, avvertono gli studiosi americani.
Sono stati esaminati 116 esemplari della specie “Musca” domestica, presenti ovunque, nonché mosconi, detti “Chrysomya megacephala”, presenti perlopiù nei Paesi equatoriali. In questi ultimi sono state identificati 310 tipi diversi di batteri, nelle prime, che volano anche nelle nostre case, addirittura 351. Complici la loro attitudine a nutrirsi e toccare le feci e altre fonti “sporche”. E tra i batteri, ve ne sarebbero di molto pericolosi, quali l’Helicobacter pylori, foriero di gastriti e ulcere, e forse anche il cancro gastrico.
Un aspetto, giudicato “sorprendente” dagli stessi studiosi, è che la presenza batterica è risultata impennarsi negli ambienti urbani. Inducendoli a un sinistro monito: “E’ bene che pensiate due volte a mangiare un’insalata di patate a un picnic”, e se proprio vi piace il picnic, meglio una sana campagna che l’illusione inquinata di un parco urbano, dicono.
“È il primo studio capace di captare l’intero contenuto microbiotico del Dna di questi insetti”, rivendicano i ricercatori americani. Gli organi trasportatori più efficaci sarebbero le ali e, soprattutto, le zampe. A quanto pare, anche quando volano, “i batteri sopravvivono al viaggio, crescendo e riproducendosi sulle loro superfici”, lasciando a ogni tappa “una traccia di colonie microbiotiche”, quantomeno se trovano adeguata dimora molecolare nelle nuove superfici.
Allarmismi a parte, non tutti i mali vengono per nuocere, anzi. Tale “capacità” delle mosche potrebbe renderle una sorta di “droni viventi”, funzionali a un “sistema di early-warning delle malattie”. Potrebbero essere cioè utilizzate come indicatori della popolazione virale e batterica dei diversi ambienti, inclusi quelli più piccoli. Insomma, come negli avventurosi film d’animazione a lieto fine, le mosche potrebbero essere trasformate da insidie patogene a preziose sentinelle ambientali. A patto di saperle usare.
Tra eventi informativi, distribuzione di profilattici al supermercato (Coop), video promossi dal ministero della Salute (testimonial Giulia Michelini e Dario Vergassola), convegni scientifici e un’ampia copertura dalla stampa italiana, la Giornata Mondiale della lotta all’Aids, ricorsa lo scorso primo dicembre, ha segnato un oggettivo successo sul piano della divulgazione. Che forse è l’ambito più importante per una patologia su cui la scienza ha fatto molti passi avanti in tema di diagnosi e cura, ma che sconta ai giorni nostri un problema di ingiustificata sottovalutazione.
“L’Onu ci dice che l’Aids può essere sconfitto entro il 2030 se si mettono in atto tutte le opportunità di prevenzione e trattamento disponibili, assicurando a tutti e tutte parità e dignità di trattamento”, nota la Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (Lila), che ha tra l’altro celebrato i suoi trent’anni di attività, rinnovando il suo appello fondamentale: “pregiudizi, stigma e disinformazione sono i primi nemici della prevenzione e della salute”.
Nemici che negli ultimi anni hanno rialzato la testa: “Il numero annuo di nuove infezioni non cala in modo significativo da oltre un decennio”, nota il presidente Lila Massimo Oldrini, chiamando esplicitamente in causa “un progressivo calo dell’attitudine a proteggersi nei rapporti sessuali”. Nel dettaglio, sono state effettuate l’anno scorso 3.451 nuove diagnosi di infezione da Hiv, in diminuzione solo lieve, specie per quel che riguarda gli under 25. E la causa è stata identificata nel l’85,6% dei casi in rapporti non protetti.
Il problema riguarda solo i giovanissimi? Tutt’altro. L’età media del contagio è stata calcolata sui 39 anni tra gli uomini e attorno ai 36 per le donne. È insomma un difetto generalizzato, che si traduce in un fenomeno amplissimo di persone affette senza saperlo. Oltre la metà dei 778 nuovi casi di Aids nel 2016 e risultato costituito da pazienti che non erano neppure coscienti di essere sieropositivi.
Gli strumenti per un’inversione di rotta ci sono, dalla presenza di semplicissimi test diagnostici eseguibili in pochi minuti nelle farmacie italiane, all’efficacia terapeutica di molti medicinali odierni, inclusi gli “equivalenti”.
All’evidenza, però, la svolta coinvolge innanzi tutto quel fenomeno di “ritorno d’ignoranza” degli ultimi anni sulla malattia e sulla prevenzione, ossia sulla necessità di “proteggere” i propri rapporti sessuali. L’obiettivo del 2030 dipende anche – anzi, prima di tutto – da ciascuno di noi.
Oltre due secoli nella cultura filosofica britannica si affermò la dottrina etica dell’utilitarismo che tra l’altro identifica il bene con il piacere e la felicità per il maggior numero di individui.
Il tema continua a essere oggetto di specifiche analisi a livello mondiale, anche in ambito medico-scientifico. In Danimarca (con collaborazioni internazionali) è stato creato un “Happiness Research Institute”, che adesso ha completato un apposito “World Psoriasis Happiness Report 2017”, per rilevare comparativamente il livello di “felicità” tra le persone affette da questa patologia.
L’indagine ha coinvolto anche l’Italia, che risulta purtroppo agli ultimi posti in classifica: 16esima sui 19 Paesi avanzati considerati. I pazienti italiani sarebbero mediamente “più stressati tristi degli altri”. L’aspetto interessante della classifica sta nelle variabili che l’hanno determinata, perché su alcuni aspetti la graduatoria in realtà si rovescia: nel nostro Paese a pesare negativamente è soprattutto il livello di assistenza nel suo insieme.
I sintomi più tipici, quali la comparsa di arrossamenti, chiazze e desquamazioni potrebbero suggerire la presenza di un “fattore culturale” legato all’enfasi sull’“estetica” nel nostro Paese, e alle percezioni correlate di un possibile stigma in proposito. Ad esempio, al pari degli altri Paesi, l’incidenza delle desquamazioni sul grado di felicità è inferiore a quello procurato dalla comparsa di problematiche articolari.
Più eloquente ancora, la sensazione di “solitudine” sociale legata alla patologia non è maggiore nel nostro Paese, ma anzi inferiore: coinvolge il 28% dei malati di psoriasi, mentre nel Regno Unito, ad esempio, si arriva al 48%. Analogamente, la maggioranza dei pazienti italiani valuta positivamente il livello di competenza e comprensione sulla loro condizione nel medico curante. Insomma, l’indagine sembra confermare la permanenza in Italia di una rete sociale di sostegno, che include il medico di base.
Cos’è che allora non va nella percezione degli italiani, tanto da collocarli agli ultimi posti negli indici complessivi di “felicità”? Il difetto più vistoso sta nella sfiducia nell’aiuto fornito dal Servizio Sanitario Nazionale. La media globale è intorno alla metà dei pazienti, in Italia si sale a due terzi. E’ solo un questionario e, benché esteso, non esaurisce certo l’esame della problematica, ma il contrasto emerso tra il sostegno “di prossimità” ricevuto e quello scarsamente percepito dal sistema-sanità nel suo complesso è un’indicazione che converge con altri studi analoghi.
Una curiosità a margine: sul sito dell’Istituto danese c’è una sezione che pone il quesito: “Come posso diventare più felice?”. La risposta sembra disarmante: “Purtroppo non abbiamo nessun consiglio, suggeriamo alle persone di chiedere aiuto personale ai professionisti della salute”. In realtà è la risposta esatta, ed è quella che ogni serio portale di informazione sanitaria dovrebbe fornire. Giornali e web possono e devono informare, ma le risposte e le terapie vanno cercate solo di concerto con il proprio medico.
C’è chi tira in ballo l’eccesso di partite, chi i nuovi scarpini che solleciterebbero troppo le articolazioni, chi la qualità dei terreni di gioco, inclusi i nuovi campi sintetici. Si discute, talvolta tra gli addetti ai lavori si litiga anche, ma sta di fatto che per i calciatori, a iniziare dai professionisti, i conti non tornano mai.
Gli infortuni ai crociati, anche gravi e reiterati sul medesimo atleta, sono in aumento e a primeggiare nell’amara classifica, secondo l’Uefa, è proprio il campionato italiano.
Su questa tematica ha preso il via nei giorni scorsi all’Università Campus Bio-Medico di Roma un apposito Master biennale di Secondo Livello in Traumatologia dello sport, che naturalmente interesserà non solo l’universo professionistico. Nel 2011 l’Istituto Superiore di Sanità ha documentato 300mila infortuni muscolo-scheletrici e articolari l’anno - in quasi la metà dei casi dovuti al calcio o al calcetto - che hanno determinato oltre 15mila ricoveri ospedalieri.
Dietro ai dati allarmanti non mancano peraltro un paio di buone notizie. La prima è che le tendenze all’aumento riflettono tra l’altro un incremento delle persone che svolgono attività fisica, anche in età molto avanzata, nonché il progressivo miglioramento dei trattamenti articolari, ortopedici e farmacologici, di prevenzione e di cura. La seconda è che l’attività fisica è di per sè foriera di miglioramenti capaci di incidere sulla stessa salute articolare.
In proposito, il co-direttore scientifico del Master, Vincenzo Denaro, cita uno studio recente, da cui emerge come l’attività motoria sia anche in grado di attivare due ormoni (l’irisina e l’osteocalcina, che a sua volta stimola le gonadi maschili a produrre testosterone), i quali, oltre a favorire lo sviluppo della massa muscolare, agiscono sul buonumore, con ricadute fisiologiche. “L'attività fisica - ricorda Denaro - è uno dei migliori presidi di carattere non farmacologico per la stimolazione della fase osteoblastica e quindi del metabolismo osseo, rappresentando uno dei migliori rimedi naturali per l'osteoporosi”, spiega l’ortopedico.
Il punto è che non bisogna esagerare, come emerge chiaramente tornando al professionismo. Una corposa indagine dell’Università di Nottingham sugli ex calciatori professionisti britannici ha rivelato che la loro esposizione all’artrosi e ad altre problematiche articolari è triplicata rispetto al resto della popolazione, il che chiamerebbe in causa il logorio dei “micro-traumi ripetuti” nell’ambito dell’attività sportiva pregressa. Rischi di infortuni, ma dunque anche problemi di lungo termine. Troppe partite, tempi di recupero scarsi, allenamenti non “calibrati: le cause possibili sono tante e (come il nostro corpo) vanno guardate nel loro insieme, con un approccio “olistico”. Non mancano, comunque, alcune colpe specifiche. “Nel nostro Paese esistono grandi centri che tentano di uniformare la loro attività agli standard europei, ma troppi invece sperimentano per conto loro”, denuncia il direttore del Master Rocco Papalia. E i risultati poi si vedono sul campo da gioco.
C’è un drammatico paradosso, segnalato da un’indagine dell’Associazione Lotta alla Trombosi (Alt): solo un italiano su tre sa cosa sia la “trombosi”, evento che colpisce circa 600mila italiani l’anno (il doppio dei tumori) e ne uccide almeno 230mila. Si tratta di una condizione determinata dalla coagulazione del sangue nelle arterie o nelle vene da cui ha origine un “trombo”, ovvero un grumo, che può avere conseguenze gravissime: ad esempio un infarto (se il trombo ostruisce un’arteria coronarica o altre che nutrono il muscolo cardiaco), un’ischemia cerebrale o ictus (se raggiunge la carotide), o anche l’amputazione della gamba (se si forma nel cuore e si frammenta in emboli che bloccano le arterie degli arti inferiori).
Un capitolo particolare - segnala l’Alt - è poi quello relativo ai bambini: ad esserne colpiti sono uno su 50 mila, ma il dato si quintuplica per il piccoli ricoverati, specie per problemi cardiovascolari o tumorali, con l’aggravante di un difetto diffuso di diagnosi precoce.
Con questo obiettivo l’Associazione ha istituito da sette anni un apposito “Registro Italiano delle Trombosi Infantili” (Riti): “Con esso abbiamo raccolto dati preziosi, con la collaborazione di tutti i centri pediatrici ospedalieri italiani, e ora i medici iniziano a diagnosticare di più questi casi”, racconta uno dei suoi fautori, Paolo Simioni, dell’Università di Padova. Il Registro è un progetto che vive di contributi volontari, per questo è stato rilanciato in questi giorni, in occasione del “Black Friday”.
Effettuando una donazione di 20 euro (l’Iban è IT67C0311101626000000013538) si può ricevere l’“Agenda del cuore 2018”, a carattere informativo, contribuendo concretamente alla sfida della prevenzione: “In almeno un caso su tre – nota ancora l’Alt – la trombosi può essere evitata, e questo riguarda tutti”. Fondamentale, anche in questo caso, un corretto stile di vita: un’alimentazione equilibrata, senza eccessi – siano essi carboidrati o proteine – e con tanta frutta e verdura; naturalmente evitare l’alcol, il fumo e altre droghe. E soprattutto il movimento, perché la sedentarietà è la migliore alleata della trombosi.
Un'altra “giornata mondiale”, dedicata stavolta al pancreas, e motivata, anzitutto, dalle cifre assai preoccupanti. I tumori in proposito sono incrementati del 60% negli ultimi anni in Italia. 8600 furono diagnosticati nel 2002, quest'anno sono stimati a quasi 14mila. Le ragioni sono molteplici, dall'invecchiamento della popolazione ad alcune cattive abitudini, tra il fumo (l’indiziato numero uno), la sedentarietà e sregolatezze alimentari. Ma all'elenco va purtroppo aggiunta anche una serie di criticità strutturali in ambito sanitario.
Tra le “luci viola” accese simbolicamente in 27 Paesi del mondo, e gli eventi organizzati in varie città italiane - in particolare Roma, Milano, Napoli e Verona - da parte dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica e di diverse associazioni di pazienti, non è mancata infatti qualche parola di vera e propria denuncia. Anzitutto, il 95% dei pazienti italiani non è curato in centri specializzati, e questo è particolarmente grave per una patologia su cui l'intervento è delicato e ad alto rischio di complicanze.
“Inaccettabile”, commenta il direttore del Centro del Pancreas dell'IRCCS San Raffaele di Milano Massimo Falconi, notando che sono meno di venti i centri in Italia che eseguono più di tredici interventi l'anno. La questione dei “volumi” sembra centrale. “Un’analisi dei dati raccolti dal Ministero della Salute ha mostrato che in un ospedale con poca esperienza in chirurgia pancreatica, il paziente ha un rischio di morire 5 volte maggiore”, spiega.
Pochi i centri, e poche anche le risorse. Sebbene sia tra i tumori più diffusi, “il carcinoma pancreatico riceve meno del 2% di tutti i finanziamenti per lo studio del cancro in Europa”, lamenta Rita Vetere, Vice Presidente dell'Onlus Salute Donna, invocando “una chiamata alle armi che vada dalla ricerca alla prevenzione, intesa come attenzione alle terapie e agli stili di vita”. A proposito di questi ultimi, emerge un dato interessante: a differenza di altre patologie, sul pancreas la situazione è migliore nel Sud Italia, con circa il 27% di casi in meno rispetto al Nord, e il fenomeno è attribuito perlopiù alla dieta mediterranea, e in particolare a un maggior consumo di verdura e frutta fresca.
Le criticità suddette si riflettono sui dati sulla speranza di vita dei malati italiani, globalmente migliore sull’insieme dei tumori rispetto agli altri Paesi del Vecchio Continente, ma con l’eccezione proprio del pancreas. Esso presenta delle difficoltà oggettive anche in materia di possibilità di diagnosi precoce, ma proprio per questo gli esperti invocano un salto nell’attenzione pubblica al fenomeno. Sul piano scientifico, non mancano le novità, specie in materia di nanotecnologie. Il direttore di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona Giampaolo Tortora cita il caso del “paclitaxel legato all’albumina formulato in nanoparticelle”, dotato di un meccanismo di trasporto innovativo che “riesce ad arrivare alla radice del tumore”, rallendando la proliferazione della malattia, se non addirittura fermandola. Si tratta però di fare presto e meglio, anche dal punto di vista organizzativo.
Si chiama Graziano Pinna, originario di Oristano, laureato a Cagliari, con una carriera internazionale incentrata prima a Berlino e, ora, all’Università dell’Illinois, a Chicago, dove dirige uno dei più sofisticati laboratori mondiali per gli studi ormonali. È ritenuto un massimo esperto nella ricerca su depressione, ansia, sindromi post-traumatiche, specie per le sue ricerche su un particolare neurosteroide, chiamato “allopregnanolone” (o “allo”), prodotto dal cervello, scoprendone il ruolo nella regolazione del comportamento emotivo, e anche nella mediazione dell’azione farmacologica dei medicinali ansiolitici.
L’ultima novità in proposito, illustrata sulla rivista Neuropsychopharmacology, mette in relazione l’ambito depressivo con quello dei disturbi alimentari, e individua il nesso proprio in questo derivato dell’ormone femminile progesterone, che solitamente alimenta un umore positivo, di benessere. Già dimostrato che il suo difetto è associato ad alti rischi di depressione, ora emerge quanto esso sia a sua volta associato all’anoressia o, viceversa, all’obesità.
Gli studiosi americani coordinati da Pinna hanno coinvolto 36 donne, un terzo anoressiche, un altro terzo di peso normale, le altre in sovrappeso. Un aspetto cruciale è qui che nessuna aveva ricevuto diagnosi depressive o aveva ricevuto farmaci in proposito e, anche al seguito di esami specifici su altre variabili ormonali, non risultavano esposte a tali problematiche.
Il risultato delle analisi è che i livelli di allo erano inferiori del 50% nel primo gruppo rispetto al secondo, e, per quel che riguarda le persone in sovrappeso, il divario saliva addirittura al 60%. In altri termini, a parità di altre condizioni, il disturbo alimentare mette a rischio la presenza di tale ormone, fenomeno che può implicare effetti depressivi. Spesso si è argomentato che è il “problema psicologico” a provocare quello alimentare, ma qui si dimostra che vale anche il contrario.
Al di là degli approfondimenti che saranno necessari per capire meglio, e con sperimentazioni su più ampia scala, il dettaglio dei rapporti di causa ed effetto, la realtà che qui emerge è quella di una problematica ormonale associata a quella alimentare, con ricadute sui disturbi d’ansia. Interessante di per sé, ma rilevante anche, e forse soprattutto, per la ricerca. “Farmaci che incrementassero l’efficacia degli enzimi che convertono il progesterone in allo possono essere cruciali”, spiega Pinna. Alla cura delle sindromi depressive e, vista la correlazione, anche all’aiuto verso quelle alimentari.
Migliaia di consulti, un massiccio lavoro di informazione e sensibilizzazione, confronti tra addetti ai lavori e pazienti. L’appena trascorsa 26esima edizione della Giornata Mondiale del Diabete ha ribadito l’attenzione di molti al problema, ma anche la permanenza di diverse criticità, anzitutto sui numeri. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) i diabetici nel 1980 erano 108 milioni, oggi sono almeno 422 milioni, con proiezioni che sfiorano i 650 milioni nel 2040, nonché costi altissimi e crescenti, per le persone e i bilanci sanitari.
I dati riflettono solo marginalmente l’aumento della popolazione, indicano piuttosto un progressivo aumento dell’esposizione all’iperglicemia (eccesso di zucchero nel sangue) per il mutare degli stili di vita, specie in ambito alimentare. La prevalenza in Italia è del 5,3% (ma secondo la Società Italiana di Diabetologia, Sid, è addirittura al 6,2%), ed è circa raddoppiata rispetto a 37 anni fa.
Non mancano le speranze di un’inversione di tendenza innescata dalla scienza. Di questi giorni ad esempio l’annuncio degli studiosi dell’Università di Milano (in collaborazione con Harvard), che sarebbero riusciti a ottenere la remissione del diabete di tipo 1 in un modello murino tramite l’infusione di “cellule staminali ematopoietiche ingegnerizzate”, rilanciando gli orizzonti promettenti della ricerca in tale ambito, ma, nell’attesa delle agognate ricadute cliniche il quadro rimane preoccupante.
L’ultimo rapporto della stessa Sid, redatto previa un’osservazione di oltre 10 milioni di italiani, pur riscontrando “ampie aree di miglioramento e la cura del diabete”, rileva problematiche che chiamano in causa anche i medici e ai pazienti. Ai primi si invoca un “maggiore rigore prescrittivo”, ai secondi una maggiore attenzione e aderenza terapeutica; tra l’altro, si nota che solo “la metà delle persone con diabete esegue il monitoraggio glicemico domiciliare”. Inoltre, si raccomanda di tenersi alla larga dal proliferare di “fake news” che disseminano improbabili “miracolosi” rimedi, e di far sempre riferimento all’esperto per le proprie scelte di cura.
Ma questo vuol dire anche un’altra cosa, assolutamente cruciale: serve un salto in avanti nella comunicazione tra pazienti e operatori, con l’ausilio dei suoi strumenti più moderni. “L’assistenza dovrà evolvere verso un approccio più razionale e moderno, indirizzandosi in remoto, grazie dalle tecnologie digitali”, spiega Domenico Mannino, Presidente dell’Associazione Medici Diabetologi. Sperimentazioni di sistemi di telefonia e app per aiutare i pazienti a gestire il diabete e a comunicare tempestivamente coi medici sono del resto già in atto perfino in aree difficili del pianeta, col sostegno dell’Oms, che rivendica: “col Ramadan, tra India ed Egitto, abbiamo raggiunto 175mila persone”.
È un disagio esteso quanto sottaciuto, sul quale però è grave la sofferenza dei bambini coinvolti, e anche dei loro genitori. Fare la pipì a letto è un disturbo che può gravemente inficiare l’autostima dei piccoli, nella delicata età della crescita. Il problema di fondo è che permane un tabù degradante, e che questo tabù si alimenta di un concetto, a volte anche tra gli adulti e, quantomeno nel recente passato, perfino tra gli addetti ai lavori, ossia che esso sia dovuto a una qualche sorta di profondo stress, trauma o disturbo psicologico.
Preconcetto completamente sbagliato, hanno rimarcato in questi giorni gli esperti riuniti in un convegno al Senato dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps). Lo stress, la scuola, il freddo, le liti o le separazioni domestiche possono incentivare il fenomeno, ma nell’opinione oramai prevalente degli specialisti, non ne sono affatto la causa primaria.
E al preconcetto errato se n’è accompagna un altro, quello per cui ci sia poco o nulla da fare. Tutto questo, incrociato col permanere del tabù, alimenta una tendenza purtroppo ancora troppo diffusa tra le famiglie: quello che non si affronta realmente e pragmaticamente il problema, mentre il bimbo avrebbe serio bisogno di aiuto, dai genitori, e i genitori dal pediatra. “Ritardare di affrontarlo ha ripercussioni importanti: il bambino che ha paura di bagnare il letto, spesso si vergogna, è frustato, può aver problemi di autostima, dorme poco o male, con ripercussioni anche sul rendimento scolastico”, avverte il presidente della Sipps Di Mauro.
Sul da farsi, non mancano i consigli di “rimedi naturali” (oltre al quello psicologico di tutelare comunque la serenità del bambino). Ci sono i fiori di Bach, le tisane, di camomilla o tiglio, che aiutano il rilassamento, da consumare comunque non subito prima di coricarsi, per non riempire la vescica. Idem per l’orario delle cene, in cui l’acqua va bene, mentre sono da evitare pesanti brodi o cibi troppo salati. Naturalmente, svuotare del tutto la vescica e magari concentrarsi un po’ sull’obiettivo di non bagnare il letto.
Tutto questo però può non bastare, ma a quel punto l’imperativo è quello di non scoraggiarsi, perché i rimedi, per l’appunto, ci sono. Il disturbo è anzitutto fisiologico, e può anche banalmente derivare da un eccesso di profondità del sonno che azzera “l’allerta” della pipì in arrivo. In quanto fisiologico, esistono risposte mediche. “Per esempio con soluzioni farmacologiche capaci di regolare il traffico di acqua a livello renale, alterato nei bambini con enuresi”, spiega Maria Laura Chiozza, urologa a Padova. A cinque anni, mediamente, “si impara a fare la pipì”, e anche a trattenerla, ma fra i cinque e i quattordici anni sono oltre un milione gli italiani coinvolti nel disturbo. Troppi, per quel che soffrono, e per quel che si può fare.
http://www.repubblica.it/salute/2017/11/07/news/enuresi_bambini-180496950/
La strada era e rimane lunghissima, le ultime novità annunciate dagli scienziati oltreoceano non trovano ancora consenso tra gli addetti ai lavori, e in ogni caso serviranno ancora anni di controprove e approfondimenti. Nondimeno stanno emergendo alcuni esiti intriganti dalla ricerca i quali, se confermati, potrebbero rivoluzionare gli orizzonti della lotta all’Alzheimer. Che, insieme alle altre forme di demenza, colpisce oltre 1 milione e 200mila persone, con prospettive destinate ad aggravarsi con l’invecchiamento medio della popolazione.
Dall'Università californiana di Stanford arriva la notizia dell'esito di un esperimento, condotto su un gruppo (limitato) di 18 pazienti affetti dalla patologia, tra i 54 e gli 86 anni, sottoposti per un mese a infusioni settimanali di plasma da soggetti più giovani, tra i 18 e i 30 anni. La novità sta nell'effettuazione del test sulle persone, in quanto finora avevano essenzialmente interessato gli animali, lasciando parecchi dubbi sull'efficacia e sicurezza terapeutica nel passaggio all'uomo.
Il risultato annunciato è parzialmente positivo, riscontrando miglioramenti (rispetto a un gruppo di controllo sottoposto a placebo) quantomeno nell'esercizio di alcune azioni quotidiane, quali la spesa e la preparazione del cibo. Ancor più rilevante, non è emerso alcun temuto effetto avverso, sebbene i critici avvertano sull'ipotesi che tali infusioni possano condurre, nel tempo, a un'eccessiva stimolazione immunitaria, con eventuali effetti neurologici e danni ad altri tessuti.
Un'altra novità arriva dal Canada, dall'Università di British Columbia, a Vancouver, che, con una pubblicazione sulla rivista Nature, perora perfino l'ipotesi che l'Alzheimer possa essere “contagioso”, tramite proprio una trasfusione di sangue. L'ipotesi iniziale scaturiva dalla similitudine patogenetica con malattie da “prioni”, come la cosiddetta “mucca pazza”, potenzialmente trasmissibile (tant'è che per anni sono state vietate in Italia le donazioni da parte di soggetti presenti nel Regno Unito nel periodo di massima diffusione, circa una trentina d'anni fa).
Al dunque, per la prima volta (test analoghi non avevano dato in precedenza esiti significativi) è risultata a una sperimentazione animale la possibilità concreta di tale trasmissione. “Si è dimostrato che la proteina beta-amiloide penetra nel sangue e nel cervello da un altro topo e causa segni di Alzheimer”, annunciano gli scienziati. Serviranno altri riscontri, ma se emergessero conferme anche per le persone si aprirebbero spiragli inediti per la ricerca.
Ci siamo occupati recentemente del problema di alcuni eccessi e sovrapposizioni nelle prescrizioni di medicinali in ambito ospedaliero, lamentate dalla Società Italiana di Medicina Interna, con ricadute negative e circoli viziosi in tema di appropriatezza e aderenza terapeutica, fino talora a mettere a rischio l’efficacia dei medicinali stessi, con la complicità del “fai da te” dei pazienti nel loro impiego e la crescente diffusione del mercato farmacologico illegale, specie sui canali del web.
Più specificamente, abbiamo notato come tali problematiche abbiano un impatto su uno degli aspetti più critici della medicina contemporanea, quella dell’antibiotico-resistenza. A tale proposito, un aspetto particolarmente critico è l’abuso di antibiotici somministrati agli animali da allevamento, anche quando sani.
Ebbene, un inedito raggruppamento di tantissime associazioni, sindacati, fondazioni e perfino imprese (da Legambiente a Cittadinanzattiva, da Cgil ad Altroconsumo, dal Wwf a Slow Food), ha proposto un decalogo e chiesto di aggiornare il Piano nazionale proposto dal governo sull’antibiotico-resistenza, con particolare riferimento all’uso degli antibiotici in zootecnia. Viene chiesto, soprattutto, un divieto all’“uso routinario” o “preventivo” degli antibiotici, specie per i trattamenti di gruppi in cui nessun animale è malato.
Ma a scendere in campo è ora anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che già tre anni fa aveva denunciato: “Il problema è così grave da mettere a rischio le conquiste della medicina moderna”. E ora rilancia, con un duro monito sull’abuso negli allevamenti. “Stop all’uso di antibiotici negli animali d’allevamento sani, al fine di prevenire il grave fenomeno dell’antibiotico-resistenza nell’uomo”, raccomanda l’Oms, notando che in alcuni Paesi l’utilizzo animale arriva all80% del consumo totale di antibiotici. “Bando totale all’uso negli animali per favorire la crescita o per prevenire malattie in assenza di diagnosi”, si legge.
Il fenomeno, che purtroppo è prassi diffusa, “è una minaccia alla sicurezza altrettanto grave di un’epidemia improvvisa e mortale”, spiega il direttore generale dell'Oms Tedros Ghebreyesus. Qualche restrizione sarebbe già in atto in sede europea, da undici anni è bandito l’uso degli antibiotici per promuovere la crescita degli animali, e vengono suggerite alternative per la prevenzione delle malattie, da un miglior uso delle vaccinazioni a condizioni igieniche e di vita più adeguate. In altre parole, è il caso di trattarli meglio, altrimenti saremo anche non infine a pagare, con la nostra salute.
I tumori restano la principale causa di morte in Italia, dopo le malattie cardiovascolari, eppure non mancano le buone notizie, anzitutto dai buoni esiti della ricerca. Emerge dalla campagna dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, chiamata “I giorni della ricerca”, ora prorogati al “mese” in corso, che documentano come i passi in avanti, nell’epoca delle strette di bilancio ma anche della generosità dimostrata da milioni di italiani, abbiano un impatto reale sulle speranze di cura.
Un numero verde (il 840 001 001), un altro per gli sms (il 45510), iniziative in piazze, scuole e Università, una cerimonia al Quirinale, testimonial illustri, specie dallo sport (quali Alessandro Del Piero) e una buona copertura radio-televisiva dall'emittente pubblica. Si rinnova così la corposa mobilitazione che l'anno scorso ha conseguito la raccolta di ben 102 milioni di euro, grazie a 4,5 milioni di piccoli donatori, destinati a 680 progetti di ricerca e programmi di formazione per oltre cinquemila ricercatori.
Una generosità tutt'altro che vana, viste le ricadute sull'efficacia terapeutica. I dati raccolti dall'Associazione Italiana Registri Tumori sulle persone che ricevono una diagnosi tumorale restano drammatici: ogni giorno mille italiani colpiti, con leggera prevalenza tra gli uomini, sicché si stima che la metà di questi ultimi e un terzo delle donne sono destinati ad ammalarsi nell'arco della loro vita.
I tumori più frequenti in Italia sono, nell'ordine, alla mammella, al colon retto, al polmone e alla prostata. Ma è proprio per le neoplasie più diffuse (in particolare al seno e alla prostata) che si riscontrano i progressi più vistosi, con una sopravvivenza media a cinque anni per le forme maligne giunta a quasi il 90%. La media, per la totalità delle forme cancerogene, è del 60%, percentuale che colloca comunque l’Italia ai vertici europei. I dati assoluti sulla mortalità oltretutto sottostimano i miglioramenti, in quanto “scontano” l'invecchiamento della popolazione, e quindi gli aumenti medi di rischio. Sono meglio visibili quelli sui bambini, per i quali i decessi sono oggi circa un terzo di quelli registrati nei primi anni '70.
Il sostegno, pubblico e privato alla ricerca è dunque prezioso, sia per il lungo che il breve periodo. La scienza progredisce nel trovare nuove strategie e prodotti, ma anche nello scoprire inattesi benefici da principi attivi esistenti. È ad esempio il caso del comune acido acetilsalicilico (il principio che nei “brand” determina l'aspirina). Da uno studio dell'Università di Hong Kong, presentato al recente congresso a Barcellona dell'United European Gastroenterology, emergerebbero benefici di rilievo nella sua assunzione di lungo periodo. Monitorando oltre 600mila persone per dieci anni, è risultato che chi li prendeva aveva una riduzione di rischio del cancro all'esofago o del fegato del 47%. Esiti da approfondire, e da soppesare, anche considerando gli effetti collaterali del medicinale, ma il segnale, sul merito e sul metodo, sembra davvero incoraggiante.
Sui benefici della dieta mediterranea la letteratura scientifica è sconfinata, a conforto della sua classificazione come “Patrimonio dell'umanità” da parte dell'Unesco. Eppure, alla luce dei dati sui problemi cardiovascolari e sul giro-vita sempre più ampio degli italiani, c'è qualche conto che sembra non tornare.
A rilanciare ora il tema sono le dichiarazioni di un'esperta, Simona Giampaoli, del dipartimento Malattie cardiovascolari, dismetaboliche e dell'invecchiamento dell'Istituto Superiore di Sanità, che in una recente intervista ha sottolineato come il nostro Paese sia particolarmente a rischio di ictus, non solo per l’età media avanzata, ma anche per qualche element della tanto decantata dieta.
Quest’ultima, infatti, ha spiegato la Giampaoli, oltre ai tanti aspetti positivi “è caratterizzata anche da un elevato consumo di sale, fattore non indifferente nello sviluppo di ipertensione arteriosa, malattie cardio-cerebrovascolari, patologie renali, tumori del tubo digerente, osteoporosi”. I dati oggettivi citati dalla studiosa fanno riflettere: quasi 200mila casi di ictus l’anno che esitano in un decesso nel 20% dei casi e in gravi disabilità in un altro 25%.
Eppure, nota ancora Giampaoli, “la ricerca ha dimostrato che più del 50% degli eventi può essere prevenuto”. Come? Con i trattamenti farmacologici, sempre più efficaci anche in sede di prevenzione, ma anche con stili di vita adeguati: prioritari, lo stop al fumo, l’attività fisica, la riduzione dell’alcol, di grassi animali e colesterolo, nonché, appunto, del sale.
Qui sta il punto: il consume di sale non sempre appropriate nell’ambito della pur salutare dieta mediterranea che uno studio recentemente pubblicato sul International Journal of Epidemiology, ha definite “salubre solo per i ricchi”. Argomento serissimo che inquadra il problema sulla qualità degli acquisti alimentary.
Su questo la stampa britannica ha nei mesi scorsi celebrato la “rivincita del Nord” in termini di esposizione ai rischi vascolari e all’obesità, rispetto ai Paesi mediterranei. L’abbondanza di persone in sovrappeso è in effetti una conferma visibile, ma ci sono anche riscontri di indagini internazionali. Come ha documentato la rivista Lancet, la percentuale di bambini e adolescenti obesi si è triplicata in Italia negli ultimi trent’anni, arrivando nel 2016 a oltre il 10% delle ragazze e a quasi il 15% dei ragazzi. Dati che un tempo potevano suonare sintomatici di benessere, oggi rivelano il contrario, e richiedono risposte non solo sanitarie.
“Troppi farmaci prescritti dall'ospedale”, sintetizzano alcune agenzie, per segnalare una presa di posizione, in parte anche autocritica, dei medici di base. Il nodo è in realtà più complesso, e per certi versi più semplice. È un importante richiamo all’ordine degli stessi prescrittori che - avendo come obiettivo l’appropriatezza e l’ aderenza terapeutica - invitano ad una maggior attenzione personalizzata al paziente - in particolare agli anziani, specie all’atto delle dimissioni dall’ospedale - che tenga conto della storia e delle esigenze specifiche del singolo.
Il fenomeno, analizzato e stigmatizzato nei giorni scorsi a Roma, in occasione del Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Intern, è quello di una sorta di “automatismo”, una “cascata prescrittiva” che si verificherebbe soprattutto in occasione dei “transiti ospedalieri”. Da un'indagine dell'Istituto Mario Negri, è emerso infatti che dopo il ricovero - evento che interessa annualmente cinque milioni di anziani - il paziente si ritrova con due prescrizioni di farmaci in più, che si aggiungono ai cinque mediamente in uso, con una proporzione di inappropriatezza prescrittiva stimata al 42%.
Come conseguenza di tale sovrapposizione un over-65 su cinque sarebbe costretto a un nuovo ricovero nell'arco di tre mesi, in relazione anche all'insorgenza di effetti avversi. L’approssimazione della prescrizione avrebbe anche ricadute in termini di scarsa aderenza alla terapia prescritta: secondo l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), infatti, solo poco più di un terzo dei pazienti riesce a seguire correttamente il trattamento, gli altri lo seguono male o lo abbandonano, complici alcuni errori prescrittivi e anche le difficoltà economiche dei singoli.
La raccomandazione è allora quella di una prescrizione meglio adattata ai pazienti, che meritano inoltre di essere aiutati e monitorati nel loro percorso di cura, specie in età avanzata. Gli imperativi forniti dall'Aifa in tema di appropriatezza sono la correttezza diagnostica e terapeutica, indicazioni precise e motivate su dosi e tempi del trattamento, l'attenzione alle possibili controindicazioni, nonché alle eventuali interazioni con altri medicinali.
Per i pazienti il messaggio è quello di evitare il fai da te, per i medici quello di un'attenzione in più. Per le istituzioni, c'è un imperativo ulteriore, quello di frenare il dilagante traffico di farmaci illegali. L'ultima stima, consegnata dai Carabinieri dei Nas e presentata anche al G7 Salut, tenutosi in questi giorni a Milano, quota un mercato illegale da oltre 21 miliardi di dollari l'anno, che si nutre soprattutto delle vendite on-line.
Il “c’era una volta” qui non vale più, anche se si tende, colpevolmente, a pensare il contrario. Le “malattie socialmente trasmissibili” (Mst) rappresentano non solo una perdurante attualità, bensì perfino un fenomeno di ritorno, anche su patologie ritenute debellate. L’allarme è stato rilanciato nei giorni scorsi, all’ultimo Congresso nazionale dell’Associazione Dermatologi Ospedalieri (Adoi) a Roma.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le Mst più diffuse coinvolgono addirittura mezzo miliardo di persone, con tendenze all’aumento. In Europa, ad esempio, dal 2008 sono più che raddoppiati i casi di gonorrea. Il dato più impressionante in Italia è sulla sifilide, che si è quadruplicata dal 2000. Nel complesso, i contagi di Mst sono stati circa 3500 nel 2006, pochi anni più tardi sono stimati al doppio. Gli aumenti più netti riguardano le malattie batteriche, ma coinvolgono anche quelle virali, incluse le epatiti e l’Hiv.
La tendenza al recupero è iniziata “dalla metà degli anni ’90, soprattutto nelle grandi città”, spiega Antonio Cristaudo, presidente del Congresso, che punta il dito sulla “facilità degli incontri sessuali occasionali”, alimentata, a suo dire, anche dalla diffusione della comunicazione digitale a livello globale. Tra i casi limite, c’è il “linfogranuloma da Chlamydia”, prima confinato all’India e America Latina, e diffusosi negli ultimi quindici anni nel Vecchio Continente, al punto che l’European Surveillance of Sexually Transmitted Infections non lo considera più una “malattia rara”, ma un’autentica “epidemia”.
Cruciale, naturalmente, la prevenzione. “Allargare tra i ragazzi l'uso routinario del preservativo”, l’appello rinnovato dall’Adoi, ed è un'urgenza documentata da recenti indagini sui comportamenti degli adolescenti italiani, la metà dei quali non userebbe il profilattico, neppure in rapporti occasionali. Attenzione, però, perché il problema non riguarda solo i giovani. Al contrario, gli ultimi dati rivelano un picco di infezioni da Hiv soprattutto nella popolazione over-50, come se oltre una certa età ci si sentisse al riparo dai rischi.
Prevenzione comunque non significa solamente l’uso di contraccettivi. “Migliorare l’accesso alle strutture cliniche per le persone che sospettano un’infezione”, esorta Massimo Giuliani, dell'Istituto Dermatologico San Gallicano di Roma, ricordando tra l’altro l’esistenza di tecniche semplici, rapide e fuori dall’ospedale: “Oggi si può diagnosticare una sifilide su una goccia di sangue da un dito o fare nello stesso modo un test HIV a casa”.
Non è più fantascienza ma scienza, con qualche applicazione già avviata da qualche anno, soprattutto in superficie. La possibilità di rimediare a ferite senza ricorrere ad aghi e fili è una realtà che si alimenta di progressivi riscontri scientifici di promettente applicazione nel breve-medio periodo. L’ultima novità in materia arriva dall’Università di Harvard, in collaborazione con altri istituti americani e australiani, che in una pubblicazione sulla rivista Science Translational Medicine annuncia una “supercolla” chirurgica, altamente efficace e completamente biocompatibile.
L’hanno battezzata “MeTro”, acronimo di MEthacryloyl-substituded TROpoelastin, e avrebbe la capacità di chiudere le ferite, anche interne, in meno di un minuto. “Un buon sigillante dev’essere elastico, adesivo, non tossico e biocompatibile, la maggior parte dei prodotti attualmente sul mercato possiedono un paio di queste caratteristiche, ma non tutte”, spiegano da Boston, annunciando che la sostanza elaborata, invece, le avrebbe.
A renderlo possibile, tra l’altro, è il fatto che la proteina è derivata da fibre che compongono i tessuti umani, il che ne assicura al contempo la biocompatibilità e un’elasticità tale da poter funzionare dinanzi a tessuti altamente umidi e in movimento, come cuore, polmoni e arterie.
Si tratta di uno sviluppo che segue un’altra scoperta annunciata quest’anno dalla stessa Università americana, che aveva fatto leva sulle lumache, ossia sul loro muco, dotato di qualità assai adesive. L’esito di sperimentazioni su vari animali e su diversi organi, incluso il cuore e il fegato, è stato valutato molto positivamente.
Il passo in avanti di MeTro sarebbe in una tempistica accelerata dell'azione collante e nella sua origine umana, che permetterebbe al corpo di “riconoscere” subito la sostanza adesiva e poi assorbirla senza controindicazioni. Al contatto col tessuto, com’è emerso anche qui in test su animali con ferite interne, il gel si solidifica immediatamente, mantiene le sue proprietà per il tempo necessario alla completa saldatura (pochi secondi, per le piccole lacerazioni, ma nei casi più gravi il processo naturalmente può richiedere mesi), terminata la quale esso si degrada senza lasciare alcuna traccia di tossicità. Serviranno ulteriori riscontri da sperimentazioni umane, ma il passaggio clinico è oramai all’orizzonte, con i benefici che potrà apportare alla chirurgia, e anche alla medicina di pronto soccorso.
“Il problema è così grave da mettere a rischio le conquiste della medicina moderna”, scriveva già tre anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) prendendo il caso talmente sul serio da prospettare l’allarme di “un’era post-antibiotica” e produrre un voluminoso rapporto, destinato a governi e cittadini. Questo suggeriva sostanzialmente due cose: che non va fatto l’errore di mettere in discussione l’importanza della terapia antibiotica, imprescindibile in molti contesti e settori, ma che al contempo serve con urgenza un monitoraggio “coordinato e armonizzato” oltre che un salto in avanti nell’informazione ai cittadini.
A tale obiettivo è stato ultimato in questi giorni un Piano nazionale, sulla scia di consultazioni regionali, nonché un vero e proprio “decalogo” presentato al ministero della Salute, alla presenza della Fao e della stessa Oms, da parte del “Gruppo Italiano per la Stewardship Antibiotica”. Quest’ultima è una società scientifica orientata proprio a un approccio multidisciplinare al problema “attraverso il confronto equo tra specialisti e prescrittori”. La presenza degli attori internazionali è cruciale per la natura globale del fenomeno, che in altri Continenti assume proporzioni ancor maggiori, mettendo a rischio le eventuali buone pratiche locali.
La strategia comprende tra l’altro una catena di “laboratori sentinella” a livello ospedaliero, sistemi di coordinamento regionali e nazionale, standard uniformi di monitoraggio, programmi di formazione, aggiornamento e ricerca, metodi accelerati di diagnostica, un ambito di comunicazione tramite un apposito sito web. Su tutti, però, emerge la priorità di un buon uso individuale dei farmaci, e di una maggiore attenzione in proposito da parte dei medici di base.
“Abbattere l’uso scorretto, spesso dovuto alle cure fai da te, ma ottimizzare anche l’impatto terapeutico, soprattutto nei pazienti più a rischio, cercando di ricorrere alla terapia più adeguata e per il minor tempo possibile”, sintetizza Francesco Menichetti, Presidente del Gisa. Nel piano, si fissa l’obiettivo di un a riduzione dell’impiego degli antibiotici entro il 2020 di almeno il 10% in ambito territoriale, del 5% in ambito ospedaliero, e del 30 nel settore veterinario.
Il tema è serio, le stime riferiscono di 4 milioni di infezioni l’anno da germi antibiotico-resistenti in Europa, con la conseguenza di oltre 37mila decessi prematuri. L’Italia è amaramente ai vertici, con una proporzione di pazienti infetti che arriva al 10%, ossia circa 300mila persone, con proiezioni che vedono per il futuro un’ulteriore impennata del fenomeno, fino a superare le morti causate dai tumori. Drammi personali, alti costi, anche pubblici, per le infezioni, stimati sui 230 milioni di euro l’anno, più o meno gli stessi che vengono spesi per i piani vaccinali. Sui farmaci serve appropriatezza e aderenza terapeutica (e questo riguarda anche gli animali, specie di allevamento), col fai da te si rischia un abuso che finisce a vanificarli.
http://www.informasalus.it/it/articoli/antibiotico-resistenza-italia-rischio.php
Qualcuno la chiama il “mal di testa del suicidio”, tanto è dolorosa, assidua e invalidante. Sulla cefalea a grappolo cronica – come peraltro per altri disturbi alla testa – le conoscenze mediche e i rimedi sono ancora parziali, a dispetto della gravità del problema. Una speranza arriva proprio dal nostro Paese, con la sperimentazione di una serie di anticorpi (alcuni prossimi alla commercializzazione) che, come annunciato all’ultimo congresso della Società Italiana di Neurologia a Napoli, addiverrebbero a risultati fin qui sconosciuti.
La ricerca è stata centrata su un piccolo “peptide”, chiamato Calcitonin Gene Related Peptide (CGRP), coinvolto nella trasmissione dei segnali dolorosi. “I suoi livelli aumentano in concomitanza delle crisi e tornano alla normalità quando l’attacco si risolve”, spiegano gli studiosi. Bloccandone l’azione, si arriverebbe quindi a disinnescare o a prevenire la crisi.
Ed è con tale obiettivo che si è tentata la strada degli anticorpi monoclonali. Sono in corso attualmente quattro sperimentazioni, che hanno finora fornito segnali assai promettenti. Il più vicino all’impiego clinico (su cui è già stata presentata domanda di autorizzazione al commercio presso l’apposita Agenzia europea), denominato Erenumab, a detta dei ricercatori è capace di “ridurre in media del 70% la frequenza e l’intensità degli attacchi di emicrania cronica con una sola iniezione sottocute al mese”.
La previsione è che i nuovi farmaci saranno utili soprattutto ai pazienti più gravi, ossia in presenza di cefalea cronica (oltre 14 attacchi al mese da almeno tre mesi) o episodica ma senza rispondenza dalle terapie farmacologiche standard. “Nella nostra casistica ci sono perfino pazienti che hanno di fatto risolto il mal di testa liberandosi dalle crisi”, riferiscono gli scienziati.
La speranza è dunque concreta e in un orizzonte temporale stimato abbastanza corto. Nel frattempo, come è emerso anche all’ultimo Congresso Europeo delle Cefalee a Glasgow, permane un problema che riguarda i farmaci preventivi, ed è il loro mancato utilizzo, stimato al 90% dei casi. Omissioni terapeutiche da superare con urgenza, considerando anche l’ampiezza del disturbo, che coinvolgerebbe circa l’1% della popolazione, che merita di essere curato.
Diversi giornali si sono “stuzzicati” citando soprattutto il caso dell'imminente scadenza brevettuale di un farmaco copiosamente acquistato contro le disfunzioni erettili, ma il tema è ben più vasto. Si tratta della salute degli italiani, ovvero delle possibilità di curarsi, purtroppo messe seriamente a repentaglio – all'evidenza di diverse indagini – dalle difficoltà economiche che coinvolgono una parte rilevante della popolazione. Tanti rinunciano, perché costa troppo. E la scadenza del brevetto vuol dire proprio questo: a “scadere” non è il prodotto, bensì la possibilità di produrlo e acquistarlo senza dover pagare i pur legittimi costi del suo “copyright”.
E quello in corso, per i farmaci generici, è un anno importante, perché le scadenze coinvolgono diversi medicinali, alcuni di amplissima diffusione. Si va dall'antistaminico all'anticolesterolo, dal farmaco per i problemi di prostata all'antipertensivo, dall'antivirale all'antiallergico, dall’analgesico all’antibiotico, dall’immunosoppressore all’antinfiammatorio. L'elenco è insomma copioso e include un vasto spettro terapeutico.
Le possibilità di risparmio sono notevoli, e in parte già in atto, tant’è che un’agenzia internazionale di monitoraggio, l’Ims Health, ha stimato una diminuzione del prezzo de farmaci in Italia del 15% negli scorsi cinque anni, proprio in relazione all’avanzata degli equivalenti. Ed è una tendenza destinata appunto ad accelerarsi con la quantità di brevetti in scadenza. Il settore è infatti in crescita, arrivando quest’anno al 21% del mercato in volumi (l’11,6% in valore, proprio per il minor prezzo), anche se si può fare molto di più, vista la comparazione con altri Paesi avanzati, e vista anche la discrepanza regionale, col Mezzogiorno ancora in ritardo. Insomma, si perdono ancora occasioni di risparmio a parità di cure, sia a livello individuale sia a livello ospedaliero, tant’è che nel “salvadanaio della salute” di Assogenerici si calcola nell’ordine di oltre 835 milioni di euro il differenziale pagato dal cittadino negli acquisti di medicinali “branded” rispetto agli equivalenti nel solo periodo da gennaio a settembre 2017.
È dunque cruciale alzare il livello di consapevolezza di tutti sull’importanza della posta in gioco, che tra l’altro non incide solo sulle tasche dei consumatori, ma perfino sull’efficacia delle cure. Un interessante studio americano ha recentemente documentato come la differenza di prezzo abbia un “effetto placebo” o addirittura “nocebo” sui pazienti: e cioè, se il farmaco costa di più, sono portati a pensare che esso sia più “potente”, sia sugli effetti terapeutici che su quelli avversi, e questo sembra poter indurre a un impatto psico-fisico reale, almeno nella loro percezione.
Sono pertanto i pazienti stessi ora a mobilitarsi per una svolta in proposito, ad esempio con la loro principale rete associativa, Cittadinanzattiva, che sta conducendo un apposito tour nelle regioni italiane. Si chiama “IoEquivalgo”, e mira a informare la collettività su una verità semplice quanto ancora, per l’appunto, osteggiata da qualche resistenza psicologica: la completa equivalenza dei generici – per legge e per rigorosi controlli - rispetto ai farmaci di marca. Il principio attivo è lo stesso, così come l’efficacia e la sicurezza terapeutica, a cambiare è solo il prezzo.