Perfino il New York Times ha rilanciato in questi giorni la storia di un bimbo napoletano di meno di tre anni, sepolto quasi mezzo secolo fa a Napoli, nella basilica di San Domenico Maggiore, e naturalmente mummificato nell’aria secca degli anfratti della chiesa, sui cui resti una squadra di ricercatori internazionali ha effettuato approfondimenti molecolari che hanno radicalmente modificato gli esiti iniziali dell’“autopsia”.
Gli ultimi risultati scientifici sono pubblicati sulla rivista Plos Pathogens, la firma è della McMaster University di Hamilton, con collaborazioni perfino da un istituto australiano, nonché dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, la stessa che trent’anni fa scoprì la piccola mummia in un’esplorazione nella basilica, ipotizzando che il bimbo fosse stato ucciso dal vaiolo, in una forma che avrebbe preceduto i suoi effetti pandemici dei secoli successivi.
Sembrava insomma un caso d’esordio di quella patologia. Invece si trattava di tutt’altro: fu solo un’epatite B dicono le evidenze degli odierni esami del Dna sui tessuti del bambino. Le pustole preservate sul suo volto che avevano suggerito la diagnosi di vaiolo non hanno trovato conferma nelle successive analisi. Dagli approfondimenti è emerso che tale sintomatologia può essere compatibile con l’epatite, patologia che, pur con qualche perdurante margine di dubbio ed errore, agli ultimi riscontri è risultata la più plausibile.
Per la storia, il piccolo – che indossava una veste monastica in seta molto ricca – proveniva senz’altro da una famiglia opulenta al pari delle altre mummie rinascimentali ritrovate nella Basilica. “Pensiamo appartenga alla casa ducale degli Aragona, duchi di Montalto: i test al radiocarbonio ci hanno permesso di datare i resti alla metà del Cinquecento, e anche l'abito corrisponde”, spiega il paleopatologo Gino Fornaciari.
Per la medicina, il tema è altrettanto intrigante. Si stima che oltre 350 milioni di persone oggi abbiano infezioni croniche da epatite B, e addirittura un terzo della popolazione odierna ne sia stata prima o poi infettata, almeno in forma lieve. Quel che ci dice la piccola salma è che il codice genetico di tale malattia, diffusissima in Italia anche all’epoca, è mutato pochissimo, a differenza di altre. Essendo trasmessa perlopiù per via sessuale e non tramite vettori animali, il virus non avrebbe avuto necessità di “adattarsi”. La notizia è che non è mutato, e nuoce ancora. “Comprendere l’evoluzione dei patogeni è la quintessenza per scovare il modo di sradicarli”, concludono gli studiosi.
È un tema per definizione “scivoloso”, perché sconta ambiguità e percezioni soggettive che, se di per sé utili, richiedono comunque una corretta interpretazione. E anche la stampa ha dato letture assai diverse, per certi versi agli antipodi, all’annuncio del calo della depressione in Italia, in seguito a un’analisi di “Epicentro”, portale epidemiologico dell’Istituto Superiore della Sanità.
Il dato di sintesi è che nell’ultimo triennio il 5,6% degli italiani tra 18 e 69 anni ha sofferto di sintomi depressivi, tanto da percepire come “compromesso” il proprio benessere psicologico per una media di quindici giorni al mese. La cifra è considerevole: si parla di circa quattro milioni di italiani, sicché il problema c’è e su larga scala. Ma il segnale statisticamente più rilevante è un altro, quello di un calo, piuttosto rilevante, rispetto a qualche anno prima. Nel 2008 la quota di “depressi” quindici giorni al mese era pari al 7,8%.
Non a caso il 2008 fu l’anno in cui esplose la recessione più grave dal dopoguerra. E questo alimenta qualche conclusione su un’evoluzione in parallelo tra l’andamento dei disturbi depressivi e le variabili macro-economiche: una ripresa, sia pure lenta, c’è stata e questo si rifletterebbe anche sullo stato d’animo dei cittadini. Il rebus è proprio qui, perché le date sembrano indicare quasi il contrario. La crisi è esplosa negli ultimi mesi del 2008, ma i suoi effetti sono stati avvertiti, specie dai ceti deboli, soprattutto in seguito. Oggi i dati ufficiali e le agenzie di rating, segnalano una ripresa timidamente in atto, ma le condizioni generali non sono ancora tornate ai livelli pre-crisi… insomma, il nesso appare quasi rovesciato: la depressione è più bassa oggi, quando lo stato dell’economia è ancora peggiore di quello di ieri.
Il tema in ogni caso è complesso: dai dati regionali emerge ad esempio che i disturbi depressivi in Italia sono più alti in Molise, Sardegna e Umbria, che non sono le Regioni più ricche, ma neanche le più povere. Inoltre gli immigrati irregolari risulterebbero meno “depressi” degli italiani, a dispetto della precarietà economica, e anche di cittadinanza.
La correlazione, allora, se c’è va forse rovesciata. La “depressione”, in senso clinico, non dipende soltanto dalle condizioni materiali di vita, può valere anche il contrario: come dicono gli economisti, la “fiducia” nell’avvenire ha essa stessa ricadute economiche. Nel 2008 era molto bassa, oggi è salita, il che è di per sé una buona notizia, anche per l’avvenire. Su questo però c’è una variabile in più, ed è quella sanitaria: c’è un nesso stretto tra lo stato di salute e i rischi depressivi. Avere cura delle persone avrebbe una ricaduta diretta sugli andamenti economici, personali e generali. Ebbene, secondo il Censis, vi sono 12 milioni di italiani che rinunciano alle cure per le proprie difficoltà finanziarie. Dato inaccettabile, non solo sull’etica dell’assistenza, ma dunque anche per le prospettive del nostro benessere.
“Stiamo esplodendo”, avverte la Società italiana di Medicina di emergenza-urgenza, riferendo di “un aumento del 15-20% degli adulti, soprattutto per gli over-65, con un incremento notevole dei casi di polmonite tra gli anziani come complicanza della sindrome influenzale”. Di influenza magari non si muore, ma le possibili complicanze sono tante e gravi, specie tra le fasce d’età più fragili, e intasano i Pronto Soccorso.
Se le agenzie di stampa esagerano con gli annunci periodici sul “picco” del contagio, la realtà che è in effetti stavolta la stagione influenzale sta colpendo più dello scorso anno, mentre a priori si stimava un andamento stabile, se non in calo. E per la verità anche i medici divergono nelle previsioni: c’è chi vede il massimo dell’incidenza proprio in questi giorni, complice anche l’inizio anticipato della stagione virale in relazione alle perturbazioni meteo pre-natalizie e chi invece pensa che il peggio debba ancora arrivare.
Inoltre c’è chi teme il coinvolgimento del nostro Paese da parte di un virus australiano, che in quel continente ha provocato già, in via diretta, oltre cinquanta decessi. “È ancora poco diffuso in Italia, mentre in Gran Bretagna sta mettendo in ginocchio il sistema sanitario”, nota il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’IRCCS Galeazzi di Milano.
Questo significa che non è tardi per vaccinarsi, anzi sarebbe ancora un’importante scelta di prevenzione: su questo i medici convergono senza esitazioni. In Europa l’influenza è la terza causa di morte tra le malattie infettive, e l’Italia nell’ultimo anno è amaramente svettata nelle classifiche continentali sui decessi attribuibili al virus, complici le campagne “no-vax”. Inoltre bisogna scegliere bene il tipo di vaccino, su consiglio del medico. Secondo Pregliasco, “i vaccini adiuvati, oltre all'antigene, cioè quella sostanza che è propria dei batteri o dei virus verso la quale dobbiamo innescare la difesa, contengono anche altre sostanze adiuvanti, che potenziano il sistema immunitario”.
A fianco della vaccinazione, c’è dell’altro che può facilmente aiutare la prevenzione. Il lavaggio frequente e scrupoloso delle mani, ad esempio, è essenziale, per la propria e per l’altrui salute. Allo stesso modo è essenziale usarle per coprire il volto mentre si starnutisce o si tossisce. Consigli semplici e antichi, che non guastano mai.
E se avessimo esagerato con i regali di Natale e soprattutto con i giocattoli? Il tema è da tempo dibattuto, sul piano etico quanto su quello pedagogico, ma ora una ricerca dell'Università di Toledo, pubblicata su Infant Behaviour and Development ne rilancia la problematica clinica, rilevando l'impatto negativo dell’eccesso di oggettistica sullo sviluppo cognitivo dei bambini.
La conferma è giunta da una sperimentazione piuttosto semplice. Sono stati reclutati 36 bambini facendoli giocare in una stanza per mezz'ora, monitorandone i dettagli comportamentali. Erano divisi in due gruppi, uno aveva a disposizione sedici giocattoli, l'altro solo quattro. È emersa una chiara differenza in favore dei secondi sia in termini di creatività dimostrata che di capacità di concentrazione.
"Abbiamo dimostrato che con troppi giochi peggiora sia la durata che l'intensità dello svago”, sottolinea la coordinatrice dello studio Carly Dauch. “È come se gli oggetti interferissero fra loro, rappresentando una distrazione dall'approfondimento, mentre durante l'infanzia i piccoli sviluppano la capacità di concentrazione ed è importante metterli nelle condizioni di non essere 'disturbati'”, aggiunge l'esperta.
Il monito è da prendere sul serio, anche considerando che, in base alle stime sul Regno Unito, ogni bimbo possiede 238 giochi ma solitamente ne usa solo una dozzina, ossia circa il 5%. Qualche segnale di presa di coscienza peraltro c'è, da parte delle famiglie, a leggere anche i dati sugli acquisti pre-natalizi. Dopo anni di boom, Confesercenti segnala ad esempio un lieve calo dei tablet, rispetto ai giochi tradizionali di intelletto. Nella stessa Gran Bretagna il sotto-settore che ha segnato gli incrementi maggiori è stato quello dei giochi da tavolo, che tra l'altro invitano alla socializzazione.
Si tende dunque al recupero di considerazioni di qualità pedagogica nella scelta dei doni. Tuttavia, permane, e anzi ai fatti si allarga, il tema della “quantità” sollevato dagli studiosi iberici. Nel Regno Unito il giocattolo ha segnato l'anno scorso un affare da tre miliardi e mezzo di sterline. In Italia la spesa è salita fino ad ammontare al 50% dei doni effettuati. A quanto pare sono ancora troppi. E il troppo spesso fa danno.
“Il diabete di tipo 2 è un fattore di rischio per l'Alzheimer”. È la premessa ricordata dagli scienziati dell'Università inglesi di Lancaster, riconoscendo un nesso già notato dalla scienza negli ultimi anni. Ribadito l'assunto, si sono però spinti oltre, cercando di scovare, con una ricerca pubblicata su Brain Research, nuovi percorsi terapeutici che possano permettere un beneficio a fronte di entrambe le patologie.
La sperimentazione, condotta su roditori (chiamati a percorrere un labirinto), ha coinvolto, nelle parole degli studiosi “nuovi farmaci a triplo recettore, originariamente sviluppati per il trattamento del diabete di tipo 2, che paiono efficaci anche per i loro effetti neuro-protettivi”, con esiti definiti “molto promettenti”. Non solo è stato riscontrato uno stop nella perdita delle funzioni cognitive, ma addirittura un'inversione di rotta.
È emerso in particolare un netto miglioramento delle capacità di apprendimento e memoria, un potenziamento dei fattori cerebrali protettivi delle cellule nervose, nonché una riduzione delle placche amiloidi (indiziate a innesco di patologie neuro-degenerative), dell'infiammazione e dello stress ossidativo.
Si tratta di risultati che attendono ancora il riscontro dell'ultima fase di sperimentazione clinica, anche per poter verificare la sussistenza di un impatto superiore, sugli umani, rispetto a quello accertato finora con l'impiego di altri farmaci anti-diabetici. La linea sembra comunque tracciata, e appare particolarmente rilevante anche in riferimento all'incidenza di ambedue le patologie, proiettata in aumento esponenziale, al punto da configurare un allarme sanitario globale. “In assenza di nuove cure, entro 15 anni dovremo trovare nuovi modi per affrontare l’Alzheimer”, incalza Doug Brown, direttore di ricerca e sviluppo dell'Alzheimer’s Society. Quello indicato sarebbe uno di quegli strumenti innovativi, e per di più già sostanzialmente disponibile.
La correlazione tra gli elementi di rischio del diabete e dell'Alzheimer rappresenta del resto, al di là dell'ambito della ricerca farmacologica, un'indicazione di rilievo anche in sede di prevenzione. Il problema crescente, anche in Italia, dell'obesità e del sovrappeso non è certo l'unico fattore scatenante del doppio problema, ma di certo l'ambito degli stili di vita e abitudini alimentari corrette è qui di primaria importanza.
Dall’inizio dell’anno sono nati ben quattro milioni di bambini nel pianeta e fanno parte di una generazione che potrebbe affacciarsi al ventiduesimo secolo. Si tratta però di una previsione solo virtuale, che in molte aree rappresenta un orizzonte irraggiungibile. Un comunicato lanciato all’alba del 2018 dall’Unicef (tramite le sue varie ramificazioni nazionali, incusa quella italiana) rilancia l’allarme sui livelli ingiustificabili della mortalità infantile nel mondo.
Le cifre sono quelle di un’autentica strage quotidiana, anche considerando che circa il 90% delle nascite ha luogo in zone ad alta incidenza di povertà. In India, ad esempio, si stima che in un giorno nascano oltre 69mila bambini, sette volte in più rispetto ai più estesi Stati Uniti. Il risultato è che ogni giorno muoiono circa 2.600 bambini nelle prime ventiquattr’ore. E quelli che spirano nel primo mese costituiscono la metà dei decessi nei primi cinque anni di vita.
Raccontato così può sembrare un fenomeno inevitabile sui grandi numeri. Ma il nodo è proprio qui: non è affatto vero. La gran parte di questi decessi, infatti – si stima l’80% dei casi - è determinata d a cause prevedibili e curabili, come la nascita prematura o qualche infezione alle vie respiratorie. Situazioni largamente trattabili grazie agli strumenti della medicina contemporanea cui però, drammaticamente, milioni di famiglie non hanno ancora accesso.
A dimostrazione che molto si può fare, i tragici numeri della mortalità infantile (5,6 milioni nei primi cinque anni di vita nel 2016), che segnalano al contempo un miglioramento senza precedenti rispetto a un ventennio fa, quando i decessi erano doppi. Si tratta allora di accelerare. E la stessa Unicef lancia una nuova campagna globale in proposito (“Every Child Alive”), per estendere le possibilità di cura a prezzi accessibili, anche sul fronte dei farmaci. “Abbiamo esteso ai Governi l’appello ad unirsi a questa battaglia per salvare le vite di milioni di bambini, dando il loro supporto con soluzioni economiche, ma concrete”, spiega incalza Giacomo Guerrera, presidente della sezione italiana Unicef.
Il tema naturalmente non è solo sanitario, coinvolgendo l’intero ambito delle diseguaglianze, su scala globale ma anche all’interno dei singoli Paesi. Ed è un tema non ideologico, perché non chiama in causa “l’economia di mercato” in sè – come ha spiegato in una recente conferenza italiana il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz – ma le sue regole mutate negli ultimi anni, che in molti contesti hanno allargato la forbice tra i pochi fortunati e i tantissimi indigenti, anziché ridurla”. Niente di “ineluttabile” cui doversi rassegnare: “L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile - è il j’accuse dell’economista americano - ma la conseguenza di scelte che avevano proprio quell’obiettivo”.
Nel dilagante dibattito sulle notizie fasulle il tema della salute è per definizione cruciale, data la sua importanza, nonché l'ampia presenza di luoghi comuni in materia, cliccati e condivisi fino a suonare autentici. L'allerta è stata rilanciata in questi giorni con un apposito approfondimento dal Censis, che documenta quasi nove milioni di casi di disinformazione su cui si sono imbattuti solo quest'anno i pazienti italiani, più della metà di coloro che hanno cercato informazioni sanitarie sul web.
Da notare che il Centro Studi non propone affatto una stroncatura “tout-court” dell'informazione sulla rete, né della prassi dell'automedicazione. Al contrario, ricorda che “sono molteplici i vantaggi dell'autocura” tramite i farmaci senza obbligo di ricetta. Con essi “17,6 milioni di italiani sono guariti dai piccoli disturbi” (occasionali mal di testa, raffreddori, influenze ecc.), con ricadute positive per giunta per le casse del Servizio sanitario nazionale (in quanto esenti da rimborso). Inoltre, si nota che, a fronte di una fiducia crescente degli italiani nei medicinali da banco (73,4% degli italiani), non manca la cautela.
7 italiani su 10 infatti chiede comunque consiglio al medico o al farmacista prima di procedere al loro acquisto, e il loro consumo (40 euro pro capite l'anno) ammonta a solo la metà rispetto agli altri Paesi europei. Insomma, emerge una complessiva maturità nel nostro paese dinanzi all'aumentare – di per sé positivo – dell'informazione disponibile in rete sulla salute, utilizzata dal 28,4% della popolazione, ma incrementano anche i rischi di “bufale”, con le allarmanti cifre citate sui milioni di loro vittime.
Il “vaccino” migliore, come riconosciuto dall'ampia maggioranza degli italiani, rimane quello di un consulto, se non di una prescrizione, da parte dello specialista. Ed è su questo che peraltro si incrocia, proprio in questi giorni, un'altra statistica, elaborata da Eurispes, ancor più allarmante. È quella sulla “fuga di massa” dei medici stessi: oltre diecimila negli ultimi dieci anni. Si tratta di un amaro quanto netto primato nell'ambito europeo, tant'è che oltre la metà dei camici bianchi espatriati dal proprio Paese sono italiani.
I dati fanno da cornice al clamoroso sciopero dei giorni scorsi da parte dei medici che, a margine di rivendicazioni contrattuali, hanno denunciato un “sottoinvestimento cronico” nel settore. Il problema è di urgente attualità ma ancor più di “prospettiva”. Secondo La Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, entro il 2023 andranno in pensione quasi 22mila medici, mentre quelli in ingresso, al momento, sono stimati a soli seimila.
L’offensiva dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda) – qui già raccontato, anche nelle scorse settimane – si irrobustisce di un nuovo tassello. Tra le assidue attività di monitoraggio sulla sanità italiana, con particolare riferimento alla cosiddetta “medicina di genere”, spunta un volume monografico, pubblicato significativamente da un editore scientifico (Franco Angeli), che riassume i tanti aspetti della problematica della salute femminile in età avanzata, proponendosi a strumento effettivo di lavoro, per gli operatori e le famiglie stesse. Il riconoscimento dei problemi – nonché dei propri diritti – è infatti di per sé un’imprescindibile arma per le persone, anche sul piano psicologico.
S’intitola “La salute della donna”, e il nocciolo sta nel sottotitolo: “La nuova longevità: una sfida al femminile”. Il nodo centrale è quello di un paradosso. Le italiane sono più longeve non solo dei maschi, ma anche delle donne di tutto il mondo, eccetto le giapponesi; al contempo, si ammalano di più. A pesare è in parte la stessa speranza allungata di vita, ma anche i ritardi nella presa in carico della specificità delle loro esigenze socio-sanitarie. Avrebbero bisogno di maggiore attenzione, ne ricevono di meno.
Un po’ di cifre: la loro aspettativa di vita supera gli 85 anni, cinque in più degli uomini, forbice che però si allarga in materia di “malanni”: ad avere due o più malattie croniche sono il 72% delle over 75, mentre tra gli uomini si scende al 58%. Sulle gravi disabilità le proporzioni sono, rispettivamente, il 37,8% e il 22,7%. Lo scarto si allarga ulteriormente per alcune patologie, quali l’artrosi, cefalee ed emicranie, osteoporosi, ansia e depressione, Alzheimer e altre demenze senili.
Alla presentazione del libro erano presenti parlamentari, organizzazioni di produttori farmaceutici (le donne, proprio per tali problematiche, sono anche le principali consumatrici di medicinali) e le varie professionalità che hanno contribuito alla pubblicazione. L’approccio, da sempre perseguito da Onda, è infatti necessariamente multi-disciplinare, includendo gli aspetti socio-economici. Il reddito previdenziale femminile è di 6mila euro più basso di quello percepito dagli uomini. E sono le donne a subire due terzi dei maltrattamenti tra gli over 65.
Curiosamente, a testimonianza della loro “tempra”, quasi la metà delle anziane si dichiara comunque soddisfatta della propria esistenza. A maggior ragione, non meritano di essere lasciate sole o con cure poco adeguate, perfino in ambito ricreativo, visto che sono meno coinvolte degli uomini in attività ludiche. Battezzate come “generazione argento”, l’universo delle amate nonne va amato per davvero. “È la sfida più grande oggi: garantire alle donne un invecchiamento sano, attivo e positivo”, spiega la presidente di Onda Francesca Merzagora.
La qualità (oltre alla durata) della vita degli anziani affetti da cardiopatie è oggettivamente migliorata, grazie a un'interventistica sempre meno invasiva. L’ultimo Congresso a Roma, il 78esimo, della Società Italiana di Cardiologia (Sic), è stato anche l’occasione per una ricorrenza storica, quella dei quarant’anni dell’angioplastica, tecnica dilatatoria dei vasi sanguigni concepita nei suoi albori negli Stati Uniti, ma in realtà realizzata anzitutto in Europa, in Svizzera, grazie al radiologo tedesco Andreas Roland Grüntzig.
In Italia tali interventi a titolo “preventivo” sono oramai circa 150mila l’anno, a cui si aggiungono le angioplastiche primarie per il trattamento dell’infarto acuto, oltre quota 35mila. Il consesso non si è limitato del resto alla celebrazione delle conquiste acquisite, ma anche all’annuncio di nuove. È ad esempio il caso della “Tavi”, la tecnica con cui si impianta una valvola di maiale attraverso un catetere inserito in un’arteria della gamba, per combattere la “stenosi valvolare aortica”. Si pratica con un’anestesia solo locale, senza dover ricorrere all’apertura del torace.
Anch’essa, in realtà non è una novità assoluta, essendo già praticata da oltre dieci anni nei pazienti ad altissimo rischio chirurgico, ossia in età avanzata con comorbidità quali l’insufficienza renale o la broncopneumatia cronico-ostruttiva. Il passo avanti, che interessa decine di migliaia di persone, è che l’intervento è stato ora perfezionato e ritenuto pertinente anche per i soggetti a rischio intermedio o basso.
“È una novità riportata quest’anno dalle linee guida europee e ribadite dal documento degli esperti della Sic”, spiega il suo neopresidente Ciro Indolfi. L’aspetto critico è che nel nostro Paese si assiste a un fenomeno di sottoutilizzo. Il fabbisogno della Tavi è stimato in Italia in circa 300 pazienti per milione di abitanti, ma il suo impiego è ridotto a 68 per milione (ben al di sotto della media europea), per giunta con gravi sperequazioni regionali, a discapito delle aree del centro-sud.
Tra gli altri temi recenti, trattati a Congresso, anche la tecnica di riparazione della valvola mitrale (il cui ventricolo sinistro si dilata, riducendo la funzione contrattile) con un semplice “clip”, o anche la sua completa sostituzione per via percutanea, effettuata per la prima volta nell’uomo solo due anni fa, all’Università romana di Tor Vergata. Innovazioni rivoluzionarie, destinate a ridurre gli interventi a cuore aperto quasi al solo novero dei ricordi del passato.
“Pensavo peggio”, ci diciamo talvolta all’indomani di qualche tradizionale appuntamento che “chiama” all’abbuffata. È in particolare il caso delle festività natalizie, complici (oltre ai riti stessi e relative convivialità) le basse temperature che incoraggiano all’alto consumo. La realtà è che quella sensazione di aver decentemente superato lo spauracchio degli eccessi può essere a volte fondata, per la concomitanza di alcune buone ragioni.
La prima (non in ordine di importanza) è che in queste giornate si scatenano più che mai le tv, i giornali e i blog a impartirci consigli, richiesti o meno, su come “sopravvivere” alle tavole lautamente imbandite. L’informazione alimentare insomma dilaga, con ricette che vanno dall’ipotesi di un digiuno assoluto di “ricovero” a una più agevole aderenza alla miglior dieta mediterranea, fino a percorsi addirittura di “prevenzione”, per “disintossicarsi” anticipatamente rispetto alle grandi mangiate.
Le consulenze con i più solidi riscontri scientifici sono comunque quelle che, al netto di alcuni capisaldi universali – molta acqua, pochi grassi saturi, tanta frutta e verdura, ecc. – ricordano come l’ambito nutrizionale vada calibrato e personalizzato in base alle esigenze del singolo, e questo riguarda perfino (come documenta una recente revisione scientifica americana) il precetto, normalmente riconosciuto, sull’esigenza di “distribuire” l’alimentazione in tanti piccoli pasti, anziché in pochi e abbondanti: questo sembra andar bene per molte persone, ma appunto non per tutte.
In ogni caso, al di là della pertinenza di tanta divulgazione alimentare pre-festiva, essa ha comunque il merito di richiamare la nostra attenzione a quel che mangiamo. Insomma, siamo portati a “pensarci” un po’ di più, il che può esser di per sé positivo, e si aggiunge a un’altra variabile, ossia la qualità del cibo. Lo documentano anche le organizzazioni degli esercenti e degli agricoltori: gli italiani restano ai vertici europei in materia di spese natalizie, la cui prima voce (dopo i regali), è quella alimentare, anche grazie a scelte di qualità.
È un aspetto non da poco, che fa da contraltare all’allarme, rilanciato recentemente da un istituto molisano (qui già raccontato) circa l’impatto della crisi sulle scelte alimentari di risparmio (fuori dalle festività) degli italiani, nonché del loro impatto sulla salute, inclusa l’obesità. “Tra le persone che chiedono il sussidio di povertà, il 30% è obeso”, ricorda la francese Gabrielle Deydier, autrice di “Non si nasce grassi”, e testimonial di una “Giornata contro la grassofobia” mobilitata lo scorso 15 dicembre a Parigi. Il tema era la presenza di discriminazioni ed etichette sgradevoli nei confronti dell’obesità, che spesso è dovuta a specifiche patologie e non a un generico “mangiare troppo”. La scarsa qualità del cibo è invece un fattore inconfutato, e anche in Italia costituisce appunto un allarme socio-sanitario di rilievo. Le ricorrenze di fine anno, a quanto pare, fanno virtuosa eccezione.
Non è una bocciatura della dieta mediterraena, è semmai un segnale d'allarme sul peggioramento della qualità delle scelte alimentari complessive in relazione all'irrompere, quasi dieci anni fa, della più grave recessione del dopoguerra. Lo lancia un'indagine, pubblicata sul Journal of Public Health, e realizzata dai ricercatori italiani dell'Irccs Neuromed (col sostegno di una borsa della Fondazione Veronesi) di Pozzilli, in provincia di Isernia, istituzione di punta nella ricerca sulla salute alimentare, e in particolare sull'obesità.
Lo studio è stato condotto su oltre 1.800 italiani tra i 28 e gli 83 anni. E' emerso anzitutto che oltre una persona su cinque ha modificato le proprie abitudini alimentari a causa della crisi. Scomponendo poi quel dato su variabili socio-economiche e territoriale, l'incidenza è risultata massima tra le fasce più deboli. “La tendenza a modificare l'alimentazione per effetto della recessione risulta maggiore per chi vive al Centro o nel Sud Italia, ma anche fra le persone con un livello d'istruzione più basso o con reddito familiare medio-basso, fra i disoccupati e fra chi svolge lavori manuali”, spiega l'epidemiologa Marialaura Bonaccio.
Notevole, in particolare, l'impatto su uno dei capisaldi della dieta mediterranea, il pesce, il cui consumo è stato ridotto dal 68% delle persone che hanno vissuto un peggioramento delle proprie condizioni, mentre è rimasto stabile l'acquisto dei cibi a più buon mercato, e in particolare i cereali. Si è insomma introdotto un grave fenomeno di “discriminazione alimentare”, che rilancia l'urgenza di risposte adeguate, nell'ambito dell'assistenza sanitaria e, più in generale, della lotta alle diseguaglianze.
L'effetto è anche sulla qualità dei prodotti acquistati, oltre che sulla quantità. “Alcuni ipotizzavano che la crisi potesse anzi diventare terreno fertile per limitare il consumo di alimenti non proprio benefici come prodotti lavorati, o 'osservati speciali' come la carne rossa”, nota Bonaccio, spiegando che l'indagine – così come uno studio analogo effettuato in Grecia – ha del tutto smentito tale ipotesi.
A essere smentito è anche l'ultimo Bloomberg Global Health Index, che quest'anno aveva promosso l'Italia quale “Paese al mondo dove la salute è migliore nonostante la crisi”. Che non fosse vero lo ha documentato tra l'altro un rapporto dell'Istat: siamo tra i più longevi, certo, e lo siamo anche grazie alla stessa dieta mediterranea, ma ci ammaliamo più spesso di altri, specie in età avanzata. E se questo avviene, è anche perché, a quanto pare, mangiamo peggio.
È un sottile quanto diffuso stereotipo, sovente rivendicato dalle donne. Quello di esser più “tenaci” all'irrompere di un'influenzetta, mentre l'altro sesso a volte si ritrova messo in ginocchio anche da un banale raffreddore o da un paio di linee di febbre. Ed è un preconcetto talmente esteso che in inglese sta nei dizionari, con la locuzione “man flu”, che descrive uno stato di lieve disagio, lamentato da molti maschi tragicamente, fino a denunciare pesanti influenze anche quando insussistenti.
Ora, un approfondimento canadese, pubblicato sul British Medical Journal, corregge il tiro, anche se per certi versi lo allunga. La smentita è sul fatto che l’uomo si lamenti invano, per qualche sorta di fragilità psicologica, mentre la realtà è che egli davvero soffre più del gentil sesso, per documentate ragioni fisiologiche.
Lo studio, firmato dal professor Kyle Sue, della Memorial University di Terranova, riesamina criticamente la letteratura scientifica pregressa in materia. Più un pamphlet, dunque, che una ricerca rivoluzionaria. Nondimeno, la conclusione è documentata ed eloquente: “Gli uomini hanno una risposta immunitaria più debole alle infezioni delle vie respiratorie e della febbre, con sintomi peggiori e rischi aumentati di finire in ospedale e di morire”.
Perché tanta debolezza? La colpa sarebbe del testosterone, che debiliterebbe l’uomo esponendolo ad un rischio maggiore di contrarre l’influenza, di sviluppare complicazioni fino a patologie respiratorie acute e perfino di ridurre l’efficacia della vaccinazione.
Dati da prendere sul serio, perché il permanere del pregiudizio può mettere seriamente a rischio la salute del genere maschile, inducendo a sottovalutare i suoi sintomi influenzali che viceversa meritano la dovuta attenzione e le necessarie cure.
Gli italiani tendono perlopiù a fidarsi e ad affidarsi al Servizio Sanitario pubblico, e del resto non potrebbero altrimenti, dati i costi per molti non sostenibili della sanità privata. Purtroppo, non è sempre una fiducia ben riposta. Lo documenta il rapporto annuale PIT Salute, relativo al 2016 (è il ventesimo), divulgato in questi giorni dalla più grande rete nazionale dei pazienti, Cittadinanzattiva, nel quale si lamentano disservizi e le troppe burocrazie, sullo sfondo di una preoccupante tendenza al risparmio del sistema sanitario nel suo insieme.
Tra le lamentele più diffuse, in vistosa crescita quelle sulle liste d’attesa (salite nell’arco di un anno dal 34,3% dei pazienti al 40,3%) e sugli alti costi dei ticket, con disagi per la mancata esenzione (segnalati dal 31%, 7 punti in più rispetto al 2015). Si attende di più, si spende di più, e si deve anche faticare di più con gli oneri burocratici. Oltre la metà delle persone coinvolte, ad esempio, lamenta problemi nella presentazione della domanda per il riconoscimento dell’invalidità, ed è costretta poi ad aspettare ben 7 mesi per la convocazione a prima visita, e altri 9 per la ricezione del verbale definitivo, mentre per l’erogazione dei benefici l’attesa arriva mediamente a un anno.
Il problema degli alti costi non esclude l’ambito farmacologico, il che rilancia l’urgenza del ricorso ai medicinali equivalenti, di identico principio attivo ma a minor prezzo rispetto ai brand, tanto da essere perorati dalla stessa Cittadinanzattiva in diverse campagne (inclusa “IoEquivalgo”).
Particolarmente critici alcuni aspetti relativi alla qualità dell'assistenza. In particolare, oltre la metà dei pazienti lamenta “dimissioni improprie” dopo un ricovero, come se l'ospedale avesse fretta di sbarazzarsi del caso, e quasi un terzo denuncia difficoltà a essere poi preso in carico dall'assistenza territoriale in sede di riabilitazione. Una buona notizia arriva invece sul fronte degli errori, diagnostici o terapeutici, percepiti in calo.
Curiosamente, l'ultimo aspetto – con relativi “scandali” - è proprio quello che tende a occupare di più le pagine dei giornali, mentre le problematiche lamentate dai pazienti sono generalmente ben altre, e strutturali. “I cittadini non ce la fanno più ad aspettare e a metter mano al portafoglio per curarsi, serve più Servizio Sanitario Pubblico, più accessibile, efficiente e tempestivo”, incalza Tonino Aceti, Coordinatore del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva, La ricetta indicata è semplice: servono più fondi per la Sanità, non di meno.
Che non sia usato come ennesimo alibi ma, a quanto pare, l’efficacia delle strategie anti- tabagismo è condizionata anche da fattori genetici, rilevabili tramite un semplice prelievo del sangue. Lo documenta una ricerca italiana, dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, pubblicata nei giorni scorsi anche su Scientific Reports (gruppo Nature).
Sono stati seguiti per dodici mesi 337 fumatori che hanno seguito una terapia orientata appunto a smettere. Il risultato è stato raggiunto dal 70% di loro, anche se, al riscontro al termine dell’anno, il “passo” è risultato definitivo solo nel 47% dei casi. La novità “clinica” è comunque nell’identificazione di alcune variazioni del Dna, localizzate nei geni che determinano i recettori della nicotina, i quali avrebbero un duplice impatto: sull’esposizione al rischio di dipendenza dalla stessa; ma anche sul livello di difficoltà ad abbandonare il fumo.
È il secondo aspetto qui a interessare, perché apre la strada a “strategie personalizzate” di emancipazione dal fumo, in funzione del proprio “codice genetico”. Si tratta del “primo passo verso l'individuazione di un profilo genetico individuale, sulla base del quale si potrà definire un percorso terapeutico di disassuefazione dal fumo il più personalizzato possibile”, spiega la ricercatrice Francesca Colombo, coordinatrice dello studio.
La letteratura scientifica sui gravissimi danni del fumo è abbondante (con una strage stimata ad almeno 6 milioni di morti l’anno), così come la “calibratura” degli effetti di breve e lungo periodo dell’atto di smettere. Nelle ultime linee guida dei Centers for Disease Control and Prevention americani, si ricorda tra l’altro che il completo azzeramento dei rischi sanitari – rispetto ai non fumatori – viene raggiunto solo dopo vent’anni.
Attenzione, però, perché gli spauracchi sui tempi di un completo recupero, assieme all’intera narrazione sulle “grandi difficoltà” a smettere di fumare, di fatto suonano altamente scoraggianti, tanto da esser graditi alle multinazionali del tabacco, se non addirittura parte delle loro strategie di marketing. Smettere può invece essere relativamente facile, e la ricerca milanese è destinata a produrre strategie e attenzioni che semplificheranno ulteriormente il “passo”. Soprattutto, al di là del permanere di alcune “tracce” del danno nel lungo termine, la realtà è che il sollievo per l’organismo è immediato: lo stesso documento statunitense ricorda che a soli 20 minuti dall’ultima sigaretta si arriva a un ripristino delle funzionalità cardiache, che solo dodici ore di astinenza consentono una purificazione di polmoni e sangue, e che i livelli di nicotina si azzerano solo dopo tre giorni.
Esistono finalmente “ospedali a misura di donna”, almeno un po’ attrezzati alle esigenze specifiche di cura dell’universo femminile, e tuttavia “molti non si fanno ancora valutare”. Non è sempre colpa dei giornalisti se, nell’arco degli anni, riscrivono sul tema sostanzialmente lo stesso articolo, a volte perfino con lo stesso titolo: la notizia è purtroppo il perdurare della problematica, nonostante le campagne e le prese di posizioni, anche dai vertici della Sanità italiana.
Il primo dato che salta agli occhi dall’ultimo “censimento” (consultabile on-line) diffuso in questi giorni con un evento al ministero della Salute – a dieci anni dal primo - è infatti la ribadita riluttanza di molte strutture a prestarsi al questionario di circa 300 domande (suddivise in 16 aree specialistiche), sebbene promosso dal riconosciuto Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna, e curato da una commissione coordinata dal presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi. Sono state interpellate un migliaio di strutture italiane, tra i circa 1500 ospedali e case di cura convenzionate, ma hanno risposto purtroppo solo in 324.
Il bicchiere, comunque, è anche “mezzo pieno”. Di quelle strutture, ben 306 sono state “promosse” (con prevalenza per le regioni del centro e soprattutto del nord, ma qualche eccellenza anche al sud e nelle isole), mentre all’ultimo sondaggio erano state 242. Morale, ha risposto perlopiù chi aveva qualcosa da dire, ed è una cifra in seppur timida crescita. Tra le strutture premiate, 52 hanno ottenuto una “stella”, 183 ne ha avuto due, altre 71 tre, con “menzione speciale” per tredici ospedali attrezzati di un percorso diagnostico-terapeutico dedicato alle donne anche nel delicato, quanto rilevante, ambito della cardiologia.
I criteri sono infatti quelli della presenza di aree specialistiche dedicate alla popolazione femminile, l’appropriatezza dei percorsi diagnostico-terapeutici, ma anche l’offerta di servizi aggiuntivi, dalla telemedicina all’assistenza sociale. Sono insomma i capisaldi della “medicina di genere” che, come qui più volte segnalato, lungi da essere un concetto “ideologico”, muove dall’assunto che i due generi richiedono attenzioni fisiologiche e sociologiche specifiche, dalla diagnosi alla terapia, e perfino nella ricerca farmacologica.
“Non è un fattore politico ma scientifico”, ribadisce la stessa ministra Lorenzin, elencando gli obiettivi: “Il benessere riproduttivo, l’appropriatezza dell’assistenza nel percorso nascita e la promozione della salute della mamma e del suo bambino, l’informazione delle donne relativamente ai rischi collegati al periodo post-fertile come quello osteoporotico e cardiovascolare, oltre a tutte le politiche di prevenzione dei tumori e delle patologie sessualmente trasmissibili”.
Tra periodiche discussioni e non poche “fake news” sul tema generale dei vaccini (consigliati anche dai medici più critici verso il mondo farmacologico), con conseguenze negli ultimi anni sulla propensione a immunizzarsi, esiste qualche ragionevole quesito sull’opportunità o meno di vaccinarsi contro l’influenza per alcune categorie specifiche. È il caso, in particolare, delle donne in gravidanza. Va da sé che la miglior risposta è, anche in questo caso, quella condivisa tra medico e paziente, in relazione alle sensibilità e situazioni specifiche.
Qualche informazione di portata generale comunque c’è, tanto da trovare espressione anche in un bollettino aggiornato nei giorni scorsi dal Ministero della Salute. Ebbene, la vaccinazione per le donne incinte è, non solo consigliata, ma anzi raccomandata nel secondo e terzo mese di gravidanza, tanto da includerle nelle categorie “sensibili” (quali gli anziani, i bambini e gli adulti affetti da malattie respiratorie o cardiovascolari), per le quali è “offerta attivamente e gratuitamente”.
Le ragioni di questo sono state recentemente ricordate, ad esempio, sul Corriere della Sera, da Antonio Clavenna, dell’Istituto Mario Negri di Milano responsabile dell’Unità dell’Unità Farmaco-epidemiologia del Laboratorio per la Salute Materno-Infantile. Spiega che l’esistenza di rischi per il feto derivante da un’influenza della gestante sono ancora dubbi. C’è chi ipotizza un aumento di rischio di aborto prematuro o di aborto spontaneo, ma è un “riscontro non confermato in altre analisi”.
Il rischio però c’è e riguarda la gestante stessa, e questo coinvolge appunto gli ultimi sei mesi di gravidanza. In questa fase “l’organismo va incontro a modifiche che riguardano, tra l’altro, la circolazione sanguigna e l’apparato respiratorio, la donna in attesa si trova in una situazione di maggiore fragilità, per certi aspetti simile ad altri gruppi a maggior rischio di complicanze influenzali”. Insomma l’influenza andrebbe seriamente evitata, anche se, nota ancora l’esperto, l’immunizzazione diminuisce il rischio di ammalarsi, ma non lo azzera del tutto.
E per quel che riguarda gli eventuali rischi derivanti invece dal vaccino? Del tutto insussistenti, sia per la madre che per il nascituro. Rimane il quesito sul perché lo stesso Ministero confini la sua raccomandazione al secondo e terzo trimestre e non coinvolga il primo. La risposta è semplicemente in quanto già detto: anche se non sono mai emersi danni dal vaccino influenzale, si preferisce tenere una prudenziale, massima cautela, confinando gli appelli alle categorie più a rischio di complicanze per l’arrivo dell’influenza: le gestanti dopo il terzo mese di gravidanza sono tra queste.
La pianta è violacea, la spezia estratta è rosso fuoco, e dopo il passaggio in pentola si trasforma in quell’inconfondibile giallastro che tinge il nostro risotto alla milanese e migliaia di ricette asiatiche. La “magia” dello zafferano sembra però non limitarsi al colore (e al profumo), coinvolgendo altresì virtù terapeutiche, perfino dinanzi a una patologia estesa quanto per certi versi ancora misteriosa, ossia la più diffusa delle forme di demenza.
Non è una novità assoluta che lo zafferano abbia potenziali benefici verso l’Alzheimer, alcuni studi, soprattutto statunitensi, lo hanno già ipotizzato negli ultimi anni e in Iran, il suo principale produttore mondiale, li si rivendica da sempre nelle tradizioni locali.
L’ultima conferma scientifica arriva però dal nostro Paese, e appare anche tra le più convincenti e specifiche. La si legge sul Journal of the Neurological Sciences, in uno studio a firma del Laboratorio di Neurogenetica del Centro Europeo di Ricerca sul Cervello (Cerc) dell’Irccs Santa Lucia di Roma, che ha avuto come presupposto proprio nelle conoscenze acquisite sull’“enorme potenziale neuro-protettivo” della spezia. “Lo zafferano contiene potenti antiossidanti e molecole bioattive, quali crocine e crocetine”, spiega infatti il direttore del Cerc, Antonio Orlacchio. Da qui la sperimentazione, effettuata dapprima in vitro sulle cellule immunitarie di 22 pazienti con un declino cognitivo ancora lieve, e poi su alcuni roditori anziani, facendo leva, in particolare, sulla “trans-crocetina”, uno dei componenti attivi dello zafferano.
È così emersa la sua capacità di attivare un enzima di degradazione cellulare, chiamato catepsina B, che aggredisce la proteina tossica beta-amiloide, il cui accumulo è il principale indiziato della morte delle cellule nervose, e quindi dell’offuscamento cerebrale del malato di Alzheimer. “Il tutto senza che a livello cellulare sia emersa alcuna forma di tossicità”, nota soddisfatto Orlacchio.
Niente effetti avversi ed elevati potenziali terapeutici, dunque. L’orizzonte di un farmaco anti-Alzheimer ricavato dallo zafferano sembra concreto e abbastanza vicino. Serviranno ulteriori approfondimenti, e naturalmente il passaggio sperimentale in vivo sui pazienti. Secondo il direttore del Cerc, il potenziale sarebbe alto soprattutto per quelli affetti dalla forma non ereditaria della patologia, che è la più diffusa.
Se ci fanno schifo, ora abbiamo qualche motivo scientifico in più. Una ricerca della Penn State University (supportata dal governo di Singapore), pubblicata su Scientific Reports, ha accertato la capacità delle mosche, “ben superiore a quanto finora pensato, anche dalle autorità di salute pubblica”, di trasportare e diffondere centinaia di batteri, inclusi alcuni assai nocivi per la salute umana. Si tratta, cioè, dell’evidenza scientifica riguardo al ruolo di questi insetti come “potenti vettori di gravi patogeni”, avvertono gli studiosi americani.
Sono stati esaminati 116 esemplari della specie “Musca” domestica, presenti ovunque, nonché mosconi, detti “Chrysomya megacephala”, presenti perlopiù nei Paesi equatoriali. In questi ultimi sono state identificati 310 tipi diversi di batteri, nelle prime, che volano anche nelle nostre case, addirittura 351. Complici la loro attitudine a nutrirsi e toccare le feci e altre fonti “sporche”. E tra i batteri, ve ne sarebbero di molto pericolosi, quali l’Helicobacter pylori, foriero di gastriti e ulcere, e forse anche il cancro gastrico.
Un aspetto, giudicato “sorprendente” dagli stessi studiosi, è che la presenza batterica è risultata impennarsi negli ambienti urbani. Inducendoli a un sinistro monito: “E’ bene che pensiate due volte a mangiare un’insalata di patate a un picnic”, e se proprio vi piace il picnic, meglio una sana campagna che l’illusione inquinata di un parco urbano, dicono.
“È il primo studio capace di captare l’intero contenuto microbiotico del Dna di questi insetti”, rivendicano i ricercatori americani. Gli organi trasportatori più efficaci sarebbero le ali e, soprattutto, le zampe. A quanto pare, anche quando volano, “i batteri sopravvivono al viaggio, crescendo e riproducendosi sulle loro superfici”, lasciando a ogni tappa “una traccia di colonie microbiotiche”, quantomeno se trovano adeguata dimora molecolare nelle nuove superfici.
Allarmismi a parte, non tutti i mali vengono per nuocere, anzi. Tale “capacità” delle mosche potrebbe renderle una sorta di “droni viventi”, funzionali a un “sistema di early-warning delle malattie”. Potrebbero essere cioè utilizzate come indicatori della popolazione virale e batterica dei diversi ambienti, inclusi quelli più piccoli. Insomma, come negli avventurosi film d’animazione a lieto fine, le mosche potrebbero essere trasformate da insidie patogene a preziose sentinelle ambientali. A patto di saperle usare.
Tra eventi informativi, distribuzione di profilattici al supermercato (Coop), video promossi dal ministero della Salute (testimonial Giulia Michelini e Dario Vergassola), convegni scientifici e un’ampia copertura dalla stampa italiana, la Giornata Mondiale della lotta all’Aids, ricorsa lo scorso primo dicembre, ha segnato un oggettivo successo sul piano della divulgazione. Che forse è l’ambito più importante per una patologia su cui la scienza ha fatto molti passi avanti in tema di diagnosi e cura, ma che sconta ai giorni nostri un problema di ingiustificata sottovalutazione.
“L’Onu ci dice che l’Aids può essere sconfitto entro il 2030 se si mettono in atto tutte le opportunità di prevenzione e trattamento disponibili, assicurando a tutti e tutte parità e dignità di trattamento”, nota la Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (Lila), che ha tra l’altro celebrato i suoi trent’anni di attività, rinnovando il suo appello fondamentale: “pregiudizi, stigma e disinformazione sono i primi nemici della prevenzione e della salute”.
Nemici che negli ultimi anni hanno rialzato la testa: “Il numero annuo di nuove infezioni non cala in modo significativo da oltre un decennio”, nota il presidente Lila Massimo Oldrini, chiamando esplicitamente in causa “un progressivo calo dell’attitudine a proteggersi nei rapporti sessuali”. Nel dettaglio, sono state effettuate l’anno scorso 3.451 nuove diagnosi di infezione da Hiv, in diminuzione solo lieve, specie per quel che riguarda gli under 25. E la causa è stata identificata nel l’85,6% dei casi in rapporti non protetti.
Il problema riguarda solo i giovanissimi? Tutt’altro. L’età media del contagio è stata calcolata sui 39 anni tra gli uomini e attorno ai 36 per le donne. È insomma un difetto generalizzato, che si traduce in un fenomeno amplissimo di persone affette senza saperlo. Oltre la metà dei 778 nuovi casi di Aids nel 2016 e risultato costituito da pazienti che non erano neppure coscienti di essere sieropositivi.
Gli strumenti per un’inversione di rotta ci sono, dalla presenza di semplicissimi test diagnostici eseguibili in pochi minuti nelle farmacie italiane, all’efficacia terapeutica di molti medicinali odierni, inclusi gli “equivalenti”.
All’evidenza, però, la svolta coinvolge innanzi tutto quel fenomeno di “ritorno d’ignoranza” degli ultimi anni sulla malattia e sulla prevenzione, ossia sulla necessità di “proteggere” i propri rapporti sessuali. L’obiettivo del 2030 dipende anche – anzi, prima di tutto – da ciascuno di noi.
Oltre due secoli nella cultura filosofica britannica si affermò la dottrina etica dell’utilitarismo che tra l’altro identifica il bene con il piacere e la felicità per il maggior numero di individui.
Il tema continua a essere oggetto di specifiche analisi a livello mondiale, anche in ambito medico-scientifico. In Danimarca (con collaborazioni internazionali) è stato creato un “Happiness Research Institute”, che adesso ha completato un apposito “World Psoriasis Happiness Report 2017”, per rilevare comparativamente il livello di “felicità” tra le persone affette da questa patologia.
L’indagine ha coinvolto anche l’Italia, che risulta purtroppo agli ultimi posti in classifica: 16esima sui 19 Paesi avanzati considerati. I pazienti italiani sarebbero mediamente “più stressati tristi degli altri”. L’aspetto interessante della classifica sta nelle variabili che l’hanno determinata, perché su alcuni aspetti la graduatoria in realtà si rovescia: nel nostro Paese a pesare negativamente è soprattutto il livello di assistenza nel suo insieme.
I sintomi più tipici, quali la comparsa di arrossamenti, chiazze e desquamazioni potrebbero suggerire la presenza di un “fattore culturale” legato all’enfasi sull’“estetica” nel nostro Paese, e alle percezioni correlate di un possibile stigma in proposito. Ad esempio, al pari degli altri Paesi, l’incidenza delle desquamazioni sul grado di felicità è inferiore a quello procurato dalla comparsa di problematiche articolari.
Più eloquente ancora, la sensazione di “solitudine” sociale legata alla patologia non è maggiore nel nostro Paese, ma anzi inferiore: coinvolge il 28% dei malati di psoriasi, mentre nel Regno Unito, ad esempio, si arriva al 48%. Analogamente, la maggioranza dei pazienti italiani valuta positivamente il livello di competenza e comprensione sulla loro condizione nel medico curante. Insomma, l’indagine sembra confermare la permanenza in Italia di una rete sociale di sostegno, che include il medico di base.
Cos’è che allora non va nella percezione degli italiani, tanto da collocarli agli ultimi posti negli indici complessivi di “felicità”? Il difetto più vistoso sta nella sfiducia nell’aiuto fornito dal Servizio Sanitario Nazionale. La media globale è intorno alla metà dei pazienti, in Italia si sale a due terzi. E’ solo un questionario e, benché esteso, non esaurisce certo l’esame della problematica, ma il contrasto emerso tra il sostegno “di prossimità” ricevuto e quello scarsamente percepito dal sistema-sanità nel suo complesso è un’indicazione che converge con altri studi analoghi.
Una curiosità a margine: sul sito dell’Istituto danese c’è una sezione che pone il quesito: “Come posso diventare più felice?”. La risposta sembra disarmante: “Purtroppo non abbiamo nessun consiglio, suggeriamo alle persone di chiedere aiuto personale ai professionisti della salute”. In realtà è la risposta esatta, ed è quella che ogni serio portale di informazione sanitaria dovrebbe fornire. Giornali e web possono e devono informare, ma le risposte e le terapie vanno cercate solo di concerto con il proprio medico.