Stop ai “trionfalismi” dalla narrazione sulla lotta al tumore al seno, specie se in fase metastatica. Lo hanno chiesto quest’anno, in una lettera aperta alle redazioni italiane, un gruppo di circa 200 pazienti che dicono basta al silenzio in materia ma anche agli annunci di “vittorie di Pirro”, e invocano, invece, risposte concrete, e possibilmente definitive.
Il tumore al seno rimane infatti la prima causa di morte oncologica nel nostro Paese: le donne in cancro metastatico sono 30mila e, a ben vedere dai dati dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica, quelle “definitivamente guarite”, ossia con rischi di mortalità analoghi alle coetanee mai colpite da tumore, sarebbero solo il 16%.
Nondimeno, i passi avanti ci sono e sono reali, sicché la sopravvivenza media a 5 anni dalla diagnosi tumorale è oggi salita a circa l’87%. Migliorano i farmaci, e prendono al contempo il largo nuove metodiche, impensabili fino a pochi anni fa. In particolare, si fanno strada due approcci di tipo immunoterapeutico, che fanno leva sull’uso delle difese naturali del paziente, sollecitandone le cellule tramite terapia farmacologica oppure lavorando sulle cellule immunitarie. A quest’ultimo proposito una équipe del Maryland ha annunciato si annuncia l’esito notevole di una sperimentazione con quest’ultima metodica, tramite “linfociti T”, su una paziente ritenuta oramai “incurabile”, non avendo reagito a nessun altro trattamento, e ora, a due anni dalla guarigione, è del tutto libera dalla malattia, senza dover più ricorrere ad alcun farmaco.
“Lo studio è in fase sperimentale, ma poiché questo nuovo approccio all'immunoterapia dipende dalle mutazioni, non dal tipo di cancro, il progetto potrà essere esteso ad altri tipi di tumore”, spiegano i ricercatori americani. Ad avanzare, comunque, è anche l’efficacia delle terapie cosiddette “tradizionali”. Al Policlinico di Modena è stata trattata una donna con un raro carcinoma maligno in entrambi i seni, diagnosticato al quarto mese di gravidanza. Ė stata quindi calibrata una terapia chemioterapica, adattata per evitare danni al nascituro e al contempo ridurre la dimensione dei moduli prima dell’intervento, effettuato dopo il parto, con l’esito, anche qui, di una completa guarigione.
Non sempre va così bene, ma sono proprio i “casi limite” a raccogliere l’interesse della medicina, in quanto forieri di potenziali indicazioni sulle dinamiche che li determinano”. Al dipartimento di Oncologia dell’Università di Verona è stata dunque attivata un’unità consacrata ai cosiddetti “exceptional responders” . “Stiamo abbinando la diagnostica molecolare all'identificazione di sottogruppi di pazienti che rispondono meglio, o anche peggio, a determinati trattamenti” in relazione a vari tipi di tumore, spiega l’ordinario Giampaolo Tortora.
La ricerca quindi si muove, e i risultati ci sono, per un numero crescente di donne.
A dover ancora avanzare, comunque, è anche la prevenzione. Si stima che quasi il 10% dei nuovi casi di tumore al seno sia in fase metastatica già al momento della diagnosi. Numeri troppo elevati, per una malattia su cui la tempestività terapeutica rimane una variabile che può rivelarsi decisiva.
Sull’impiego degli schermi, e in particolare dei contemporanei dispositivi digitali, la lista delle possibili controindicazioni è oramai entrata nel linguaggio medico, a partire dalla concetto di Internet Addiction Disorder, già ricordato più volte in questi spazi. I problemi peraltro non compaiono solo in presenza di “abusi”, ma perfino in coincidenza con l’atto, in apparenza “creativo” o quantomeno “documentale”, dello scatto di una fotografia.
Lo spiega in questi giorni uno studio dell’Università della California-Santa Cruz, pubblicato sul Journal of Applied Research in Memory, che ha monitorato una quarantina di propri studenti impiegati in una visita virtuale a un museo. In particolare, è stato confrontato l’impatto cognitivo tra coloro che si limitavano a osservare le opere e quelli che invece le fotografavano con il loro smartphone.
Il confronto può far sobbalzare qualche professionista dello scatto, convinto (per ottime ragioni) che la fotografia possa aiutare a “guardare meglio” e a cogliere particolari che a occhio nudo potrebbero sfuggire, oltre a “rendere eterno” l’oggetto o lo scenario immortalato. L’esito di tale ricerca, eseguita tramite test mnemonici successivi alla visita, rovescia tutto. Chi fotografa sembra ricordare meno di ciò che ha visto rispetto a chi si limita a osservare, ed è una differenza netta, conteggiata in un calo mnemonico medio di circa il 20%. Lo scarto si attuava perfino tra coloro che usavano lo “Snapchat”, sapendo cioè che le immagini avrebbero avuto una durata di soli dieci secondi. La ragione, spiegata dagli studiosi, è l’attivazione di quel che viene chiamato “scarico cognitivo”, o “disimpegno attenzionale”, in cui l’attenzione cerebrale viene ridotta, in quanto “delegata” al dispositivo.
Il fenomeno concettualmente rimanda a un’altra ricerca, pubblicata in queste settimane sulla rivista Psychological Science, condotta dall’Università dell’Arizona sull’impatto della “chiacchiera futile” e superficiale sul benessere psichico. Studi precedenti l’avevano derubricata a fonte di infelicità, nel paragone con l’esercizio di discorsi “importanti e impegnativi”. Adesso arriva la smentita: anche la più banale delle interazioni è necessaria. Gli studiosi lo spiegano con una metafora sui farmaci. “Ognuno ha un principio attivo, e non potrebbe esserne privo – spiegano – e lo stesso riguarda le chiacchiere, sono in tutti casi un tassello essenziale della nostra vita sociale”, purché avvengano nella fisica prossimità.
Sui pericoli di “dipendenza” nell’era digitale la letteratura è estesa, con moniti rivolti in particolare ai più giovani, per la duplice ragione di trovarsi nell’età dello sviluppo e per il fatto di non aver sperimentato il mondo che c’era prima di tale era. Spunta peraltro una buona notizia. Uno studio sudcoreano, tra gli altri, ha recentemente documentato come il processo dell’Internet Addiction Disorder, con i relativi danni cognitivi, sia rapidamente reversibile, tramite appositi percorsi di “terapia cognitiva-comportamentale”. L’importante è saper riconoscere il problema, e possibilmente prevenirlo.
Ė una delle patologie in più rapido aumento nel mondo: si stima quasi mezzo miliardo di persone coinvolte. E quando si parla di diabete i fattori di rischio perlopiù indagati riguardano gli “stili di vita”, specie nelle economie avanzate e ma anche in quelle emergenti, tra sedentarietà e scelte alimentari “industriali”, con ricadute sugli indici di obesità e sui rischi metabolici. Ma c’è un’altra variabile che viene presa in sempre più seria considerazione, ed è quella dell’inquinamento.
A rilanciarne il nesso, rispetto all’esposizione al diabete, è ora un esteso studio internazionale condotto negli Stati Uniti, che ha quantificato i danni delle polveri sottili sulla capacità del corpo di regolare correttamente gli zuccheri nel sangue. “Fino a una decina di anni fa pensavamo che l’inquinamento atmosferico causasse polmoniti, bronchiti, asma e poco altro, ora sappiamo che può causare tra l’altro danni cardiovascolari, tumori al polmone e malattie croniche al fegato”, ricorda lo scienziato newyorchese Philip Landrigan.
Per quel che riguarda il diabete, si è oramai compreso come il particolato atmosferico possa raggiungere attraverso i bronchi la circolazione sanguigna, aumentando i livelli di infiammazione e riducendo la produzione di insulina. Nell’ultima stima, pubblicata sulla rivista Lancet, si ritiene che le polveri sottili abbiano contribuito ad almeno 3,2 milioni di nuovi casi nel solo 2016, pari al 14% del totale delle nuove diagnosi.
Un altro aspetto rilevante dello studio è che vengono prese di mira perfino le “soglie di sicurezza” stabilite anche nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Negli Stati Uniti, ad esempio, dove il limite è fissato a 12 microgrammi per metro cubo d’aria, emerge che il rischio di diabete aumenti già a partire da 2,4 microgrammi.
E mentre in tutto il mondo i lobbisti sono al lavoro per allentare i pur cauti vincoli stabiliti sulle emissioni nocive, sarebbe viceversa oramai urgente “l’implementazione di politiche e interventi urbanistici orientati a diminuire l’inquinamento e aumentare l’attività motoria, tra piste ciclopedonali, strutture sportive a buon mercato, veicoli elettrici, controlli maggiori sulle emissioni auto, aree chiuse al traffico”, incalza il professor Gary O’Donovan, dell’Università delle Ande di Bogotà, in Colombia, una delle città in maggiore sofferenza. Il nesso insomma c’è, è assai stretto e, attenzione, si attiva perfino prima della nascita: tre anni fa uno studio svedese ha documentato come i rischi di diabete aumentino con l’esposizione all’inquinamento delle donne in gravidanza.
A volte è una scelta “ereditata”, in altre il ricorso a “quel medico” è un atto di mera abitudine, indipendentemente dalla nostra valutazione, spesso e volentieri abbiamo un rapporto motivato di intima fiducia. In ogni caso prevale una certa “inerzia” dinanzi alla scelta di cambiare il proprio medico di base. Del resto, da una ricerca britannica, dell’Università di Exeter, la più estesa mai realizzata nel suo genere, emergerebbero benefici significativi da tale “resistenza”.
Riesaminando gli esiti di 22 studi pregressi in proposito, condotti in nove Paesi (con differenze notevoli sul piano dell’organizzazione e dell’assistenza sanitaria), gli studiosi inglesi hanno documentato come la “continuità” abbia una ricaduta reale sulla salute. In quasi tutti i contesti, chi non cambia il medico attingerebbe infatti a rischi di mortalità notevolmente ridotti.
Perché esiste tale nesso? I ricercatori ipotizzano una duplice motivazione. Vi sarebbe anzitutto una dimensione “psicologica” con effetti sull’appropriatezza e aderenza terapeutica. Diminuirebbe cioè lo “stress da visita”, e al contempo si consoliderebbe un rapporto empatico che rafforzerebbe nel tempo la conoscenza e la fiducia tra medico e paziente, migliorando sia la pertinenza diagnostica sia la propensione a seguire correttamente i consigli del professionista.
L’altra ragione è che una buona relazione tra medico di base e paziente condurrebbe anche a una maggiore propensione a farsi seguire con continuità dagli specialisti chiamati in causa dal problema del singolo. Si potenzierebbe cioè un “rapporto a tre”, con tutto quel che consegue sul piano dell’attenzione e della qualità terapeutica.
Nondimeno, la scelta del medico di famiglia va ponderata per bene, e quella di cambiarlo è un diritto riconosciuto. La principale rete associativa italiana di pazienti, Cittadinanzattiva, ha perciò elaborato un apposito vademecum. I consigli forniti sono alquanto semplici, ma a volte li si dimentica. Si tratta di analizzare gli elenchi istituiti presso le Asl (a volte anche on-line), che dal 2005 impongono anche il curriculum dei singoli medici, inclusa dunque la loro specializzazione. Non secondario, è bene informarsi sull’indirizzo, gli orari di visita, la disponibilità a consulti telefonici o a comunicazioni digitali col paziente. E se si decide di cambiare, è importante motivare la propria scelta: l’Asl, e il medico stesso, hanno diritto e dovere di conoscere le ragioni dell’eventuale “ricusazione”.
Che la salute del corpo e quella della mente vadano strettamente a braccetto è un concetto chiaro agli umani sin dai tempi di Aristotele. Ė la scienza contemporanea peraltro a specificare progressivamente le dinamiche di tale nesso. L'ultima novità in tal senso è annunciata dall'Università australiana di Curtin e pubblicata sulla rivista Health Psychology.
Viene documentato come l’impiego della “fantasia” abbia conseguenze immediate sulla qualità dei comportamenti personali in termini di “stili di vita”, con infine ricadute rilevanti sul piano della prevenzione. “Esistono forti legami tra le malattie croniche, come quelle cardiache e il diabete, e il comportamento, gli interventi basati sull'immaginario offrono un modo economico ed efficace per promuovere comportamenti positivi come l'attività fisica e un'alimentazione sana”, spiegano i ricercatori.
I vantaggi “economici” della psicologia, e in particolare i benefici di risparmio e di salute di un miglioramento della condizione psicologica della persona, costituiscono oramai una letteratura consolidata, anche in Italia. “Studi precedenti hanno mostrato come interventi finalizzati a stimolare l’immaginazione fossero utili a stimolare le performance degli atleti, dei piloti e dei pazienti al seguito di un ricovero, ora si dimostra come essi stimolino inoltre comportamenti utili alla salute personale”, rivendicano dall’Australia. Chi è stimolato all’uso dell’immaginazione infine mangia meglio, fuma e beve meno, ed è più orientato all’attività sportiva.
Attenzione pero: serve anche la volontà personale di procedere in questa direzione. Un altro studio, compiuto dall’Università americana di Stanford su centinaia di partecipanti, ha documentato come i percorsi di “apertura” a interessi diversi dal proprio quotidiano costituiscano una variabile essenziale per la capacità di sviluppare collegamenti e connessioni.
È qui che entrano in gioco gli stili di vita, con un particolare riferimento alla proliferazione dei nuovi strumenti digitali, a partire da smartphone e tablet. Le utilità sono note, un po’ meno l’enormità dei rischi, soprattutto (ma non solo) per lo sviluppo dei più piccoli. Uno studio del Boston College ha dimostrato come i bambini, esposti a tali dispositivi, abbiano già smarrito l’85% dei livelli di creatività raggiunti dalle generazioni precedenti. Ė allora essenziale mettere dei paletti seri sul loro impiego, a tutela dello sviluppo cerebrale dei più giovani nonché, all’evidenza, della loro capacità di tutelare nel tempo la propria salute psico-fisica.
Si dice gran caldo e si pensa subito a ventilatori e condizionatori. Il contrasto alle alte temperature -con i loro effetti debilitanti e, specie per i soggetti a rischio, pericolosi - si gioca però anche a tavola. Non sempre i consigli che proliferano in questi giorni sulla stampa divulgativa sono davvero precisi e pertinenti, ma l'alta attenzione a una dieta corretta rimane una reale priorità, soprattutto nel pieno della stagione estiva.
Cruciale è anzitutto l'ambito dell'idratazione, che si alimenta non solo bevendo molta acqua, ma anche scegliendo cibi freschi come frutta e verdura. “Sono ricchissime d'acqua e permettono così una reidratazione più veloce del nostro corpo”, ricorda a Repubblica Loreto Nemi, nutrizionista all'Università Cattolica di Roma, che specularmente suggerisce la rinuncia agli alimenti di difficile digestione, quali “fritture e cibi molto elaborati e cotti come arrosti, spezzatini, bolliti o timballi”. Cuocere troppo tende ad appesantire, e anche a cancellare alcuni nutrienti essenziali. I peperoni, ad esempio, sono ricchi di vitamina C, la quale, nota il dietista, “è una vitamina idrosolubile che si perde durante la cottura”.
L'elenco di ciò che andrebbe “messo al bando”, o quantomeno limitato ai minimi, è del resto ben più lungo. Vanno evitati gli alcolici (che tra l'altro tendono a innalzare la temperatura del corpo e a favorire la disidratazione), i cibi precotti, che con l'afa sono più esposti a eventuali contaminazioni batteriche, l'eccesso di sale e di zuccheri, e anche l'acqua ghiacciata, che può innescare congestioni. Sono rischi da tenere in seria considerazione, in quanto il corpo è sotto stress, e lo è soprattutto nei giorni di repentino balzo delle temperature.
Non è tuttavia solo una questione di rinunce, la lista dei cibi suggeriti offre un’ampia scelta. “L’ideale è una tartare di pesce crudo per fare incetta di Omega 3 e proteine”, suggerisce Nemi. O ancora, un bel piatto di spaghetti con le zucchine, in quanto “ricche di potassio, acqua, acido folico, clorofilla e sali minerali”.
Prioritario è un alto consumo di vitamine, presenti soprattutto, per l'appunto, nella frutta e nella verdura fresca. Tra i mille benefici, Coldiretti ricorda anche quello dell'abbronzatura. In particolare, “i cibi ricchi in vitamina A favoriscono la produzione nell’epidermide del pigmento melanina che protegge dalle scottature e dona il classico colore scuro alla pelle”. L'organizzazione dei coltivatori stila anche una “classifica” tra gli alimenti che ne sono più ricchi. A primeggiare, nettamente, è la carota, seguita nell'ordine da spinaci e radicchio, poi albicocche, cicoria, lattuga, melone giallo, sedano, peperoni, pomodori, pesche gialle, cocomeri, fragole e ciliege.
“Ė una di quelle scoperte che aprono nuove frontiere nella medicina”, proclama La Stampa. E in effetti quel che è emerso da uno studio sviluppato dall’ospedale Molinette della città della salute di Torino (Dipartimento di Neuroscienze, diretto dal professor Riccardo Soffietti) insieme a un gruppo di studiosi di Madrid, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, sembra suggerire il potenziale di una decisa correzione di rotta nella ricerca oncologica, ben al di là dell’ambito specifico trattato.
L’obiettivo dello studio era quello di comprendere i meccanismi di crescita delle metastasi cerebrali, complicanza sempre più frequente dei tumori “solidi”, quali quello al polmone o alla mammella, difficilmente contenibile fino ad oggi con la semplice terapia farmacologica. “Sono stati studiati circa cento campioni di metastasi provenienti da interventi neurochirurgici”, spiega Soffietti.
L'esito, che sposta i paradigmi della ricerca materia, è che la crescita è risultata facilitata da un fattore molecolare presente non tanto nelle cellule tumorali quanto in quelle sane del cervello, finora ritenute, viceversa, una potenziale barriera difensiva alla metastasi stessa.
“Abbiamo dimostrato per la prima volta che i pazienti con espressione di Stat3 sugli astrociti reattivi hanno una sopravvivenza molto più breve – spiega Soffietti. – ovvero che questi specifici astrociti reattivi, quando esprimono l’antigene Stat3 esercitano 'un’attarzione fatale' sulle cellule tumorali, facilitando il loro ingresso nel cervello”.
Si apre pertanto, grazie alla ricerca italiana, un nuovo orizzonte farmacologico. L'obiettivo è ora quello di verificare, tramite studi clinici, la possibilità di bloccare l'azione della molecola identificata con specifici principi attivi.
Ci sono oltre 700 italiani che ogni anno perdono un braccio, a causa di incidenti stradali, domestici o sul lavoro. Per loro, solitamente, la speranza è perlopiù quella di una “protesi cosmetica”, insufficiente a compiere movimenti autonomi. La prospettiva sembra però poter cambiare, con la notizia di un intervento assai innovativo al Policlinico Campus Biomedico di Roma su una 27enne, che le permetterà, a quanto pare, di muovere l’arto solo grazie a impulsi cerebrali.
La prima parte dell’operazione è stata effettuata con successo, la seconda è prevista tra pochi mesi, e sarà seguita da un percorso riabilitativo per addestrare la paziente al nuovo dispositivo. La tecnica è quella della “reinnervazione muscolare mirata”, che permette di riattivare la “comunicazione” tra le terminazioni dei nervi e la protesi. Nel primo intervento “si è dovuto prima denervare il grande muscolo pettorale e altre fasce muscolari, quindi prendere dal plesso brachiale i tre grandi nervi residui, radiale, mediano e ulnare, che muovono mano e polso, e applicarli alle fibre muscolari”, spiega Giovanni Di Pino, co-responsabile del progetto.
Operazione delicata e complessa, dunque. “La protesi è di tipo modulare, ovvero costituita da più moduli per il ripristino delle articolazioni di gomito, polso e mano e, in fase sperimentale, anche di spalla”, spiega Loredana Zollo, responsabile ingegneristica del piano, citando anche l’impiego di sofisticati algoritmi per calibrare i segnali tra gli impulsi neurali e il braccio meccanico.
Medicina, ingegneria e algebra insieme, dunque. In effetti l’ambito delle protesi ortopediche è in rapida crescita. Quelle al ginocchio si sono raddoppiate nell’ultimo anno in Italia, per la spalla si sono addirittura quintuplicate, anche se è l’anca a detenere ancora il primato, con oltre la metà degli interventi. In totale, ne vengono effettuati quasi duecentomila l’anno,solo nel nostro Paese. Dati che trovano riscontro anche negli Stati Uniti, con l’esito, rilevato dall’Università della Pennsylvania, che l’età media degli interventi si sta rapidamente abbassando.
Tutto bene? Sì, ma con un’avvertenza molto seria. Non si tratta di operazioni da scegliere con leggerezza, se non quando assolutamente necessarie. “L’artroprotesi non perdona errori, serve una protesi di qualità ma anche un chirurgo esperto e una riabilitazione adeguata”, ricorda la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia. Va insomma effettuata solo se strettamente necessaria, e non quando si tratta di disturbi e patologie su cui esistono alternative farmacologiche, terapie infiltrative, strategie ortopediche e altro. “Queste sostituzioni hanno una durata limitata – aggiungono gli esperti - con l’aggravante che la seconda operazione non ha lo stesso successo dell’intervento iniziale, richiede più tempo e il paziente ha vent’anni di più”, con rischi aumentati di complicanze.
Leucemia, novità ed eccellenze italiane
Francesco Lo Coco, 63 anni, palermitano di origine, ordinario di Ematolologia all’Università romana di Tor Vergata. A lui è andato il riconoscimento annuale dell’omonima Società Europea, riunita a Stoccolma, per l’importanza delle sue ricerche sulla leucemia. Il premio è dedicato a una leggenda, vivente, il tenore Josè Carreras, che dopo aver scoperto la malattia, oltre trent’anni fa, ha istituito un’apposita Fondazione, i cui riconoscimenti confermano le eccellenze italiane in materia. Ad aver già trionfato sono stati Lucio Luzzatto nel 2002 e Brunangelo Falini nel 2010.
Ma quel che è qui importante segnalare è il contenuto della ricerca premiata, che si aggiunge a un quadro generale oramai piuttosto promettente dei progressi scientifici in materia. Essa si è rivelata assai efficace con particolare riferimento alla leucemia promielotica acuta, una forma particolarmente grave e rapida, tanto che si stima che il 15% dei pazienti vada incontro a emorragie fatali (specie a livello gastrointestinale, del sistema nervoso centrale e genito-urinario) prima ancora di ricevere la diagnosi.
Gli esiti principali dello studio condotto da Lo Coco sono stati pubblicati già cinque anni fa sul New England Journal of Medicine. Nelle sue parole, “abbiamo messo le fondamenta di un nuovo paradigma diventato oggi standard di cura, senza chemioterapia: la combinazione di acido retinoico e triossido di arsenico, in grado di distruggere soltanto le cellule cancerose”. Nel concreto, per tale patologia “si può morire in 4 giorni, ma le terapie sono in grado di guarire i pazienti in oltre il 90 per cento dei casi, se viene identificata in tempi rapidi”.
Dal medesimo Congresso in Svezia si annuncia un’altra novità di rilievo, e anche in questo caso permette di evitare il ricorso alla chemioterapia. Coinvolge i malati di leucemia linfatica cronica, un altro tumore del sangue, più diffuso, specie tra gli ultrasessantenni, tanto che solo in Italia si contano ben tremila nuovi casi l’anno. Ė stato condotto un trial clinico su ben quattrocento pazienti in cento centri di cura di venti Paesi al mondo, incluso l’ospedale Niguarda di Milano. Ė stata testata l’associazione tra due principi attivi, il venetoclax e l’anticorpo monoclonale rituximab, risultata capace di determinare un calo del rischio di progressione della malattia o di morte del paziente dell’81% rispetto alle terapie tradizionali.
La ricerca dunque procede spedita, e questo riguarda anche la sfera della prevenzione. Con qualche sorpresa. L’Institute of Cancer Research di Londra, al seguito di una revisione degli ultimi trent’anni di studi sulla leucemia linfoblastica acuta, arriva a concludere che la “troppa igiene”, in particolare l’eccessiva protezione dai microbi nella prima infanzia, costituisce un fattore di rischio di contrarre tale patologia, il che in parte ne spiegherebbe inoltre la maggiore incidenza nelle società avanzate.
“Siamo in un’epoca di guerra”, arriva a dire il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), Walter Ricciardi, riepilogando le difficoltà economiche dei nostri tempi e fissando la priorità di salvare, anzitutto, il sistema-salute, urgenza rilanciata anche dai dati preoccupanti, divulgati dagli stessi medici, sul calo dei posti letto e del personale in Italia. Una problematica estesa, oltre che cruciale, che chiama alla responsabilità tutti gli attori del settore, incluso l’ambito delle scelte farmacologiche.
Ricciardi riepiloga le principali sofferenze globali, inclusa quella delle migrazioni, citando anche la separazione di migliaia di bambini dai loro genitori negli Stati Uniti. Soprattutto, sottolinea l’entità delle difficoltà economiche che hanno coinvolto l’Italia nell’ultimo decennio. “Nella Seconda Guerra Mondiale perdemmo il 7,5% del prodotto interno lordo, con questa crisi economica abbiamo perso il 10%”, nota il leader dell’Iss, avvertendo peraltro che la sfida del rilancio resta soprattutto nelle nostre mani. “Nessuno ci regalerà niente in quest’epoca geopolitica così complessa”, ha detto.
C’è una cosa che però possiamo e dobbiamo fare subito: salvare il Sistema sanitario, compito tutt’altro che agevole. “Dal punto di vista pratico molti cittadini, soprattutto al Sud, non accedono più a servizi essenziali, sono costretti a muoversi o a rinunciare ai servizi o a pagarseli di tasca propria”, lamenta Ricciardi, peraltro congratulandosi con la ministra della Salute Giulia Grillo, che ha avviato i primi passi per un piano nazionale che abbatta i tempi delle liste d’attesa, nonché con le Regioni che ci sono già riuscite: “L’Emilia Romagna di fatto ha quasi azzerato le liste”.
A riconoscere le criticità della Sanità pubblica sono anzitutto i medici. Il loro sindacato, in un dossier, conteggia la perdita di ben 70mila posti letto, rendendo impietoso il confronto con altri Paesi avanzati: ci sono 3,7 posti per mille abitanti, mentre in Francia si sale a 6, e in Germania a 8. “Tra le ragioni di questo declino, i tagli selvaggi, l’aziendalizzazione, il decentramento, le privatizzazioni” spiega Pina Onotri, segretaria del Sindacato Medici Italiani, che naturalmente sottolinea la criticità della carenza di personale: “Nel Ssn il ricorso al precariato è cresciuto tra il 2014 e il 2015 di circa 3.500 unità per complessivi 43.763 lavoratori, tra cui 9.500 medici, 1.500 solo in Sicilia”.
Il sistema-salute richiederebbe un rilancio dal punto di vista delle risorse investite e dell’efficienza nella spesa, anche farmacologica, come recentemente sottolineato anche dal ministro della Salute, Giulia Grillo. I farmaci equivalenti consentono ai cittadini e alle amministrazioni un notevole risparmio che può generare un potenziamento dell’assistenza. Lo documentano anche gli ultimi dati, relativi al primo trimestre 2018. Il settore è in crescita costante raggiungendo il 21,72% del volume totale del mercato farmaceutico, e il 12,7% in valore (differenza che segnala, essa stessa, l’entità del risparmio), ma ancora lontano da altri Paesi avanzati. Soprattutto alla luce del perdurare di sperequazioni tra Regioni, con una corrispondenza: quelle che ricorrono di più ai generici sono tendenzialmente le stesse che conseguono i parametri migliori nella qualità del Servizio sanitario.
Un grido d’allarme, fondate ragioni di ottimismo, l’esigenza di potenziare la pubblica informazione e di sgombrare il campo dai molti equivoci, per migliorare la prevenzione e per anticipare i tempi di diagnosi e cura, variabile cruciale per l’efficacia terapeutica. Nei giorni scorsi la “Lega Europea Contro i Reumatismi” (Eular) si è riunita a Congresso ad Amsterdam, tracciando qualche punto essenziale in materia, con la partecipazione degli esperti della Società Italiana di Reumatologia (Sir).
L’allerta è nella proporzione del problema. “In Europa ogni anno spendiamo 200 miliardi di euro per l’assistenza socio-sanitaria ai malati reumatici, oltre 4 miliardi l’anno solo in Italia. Si tratta di malattie in netta crescita in tutto il continente”, nota Roberto Caporali, segretario nazionale Sir, che ammette la difficoltà a individuare tempestivamente la malattia: “Servono più strutture sanitarie specializzate attive nelle varie Regioni”. Più strutture, ma anche più informazione, ricorda la Sir, su questo impegnata in prima linea con la campagna itinerante “Reumadays” in diverse città italiane.
Il più diffuso luogo comune è sull’incidenza dell’umidità e del freddo. “Invece il meteo non c’entra nulla, non provoca malattie reumatiche”, taglia corto Luigi Di Matteo, direttore dell’Unità di Reumatologia all’AUSL di Pescara. Tuttalpiù può alimentare il sintomo doloroso modificando la pressione sulle articolazioni, in alcuni casi specifici. In altri può valere anche l’opposto: “L’eccessiva esposizione può far peggiorare l’attività delle malattie autoimmuni come il lupus eritematoso sistemico”, avverte l’esperto.
I fattori di rischio sono soprattutto altri. Anzitutto il sovrappeso, per i suoi effetti sul consumo delle cartilagini articolari specie di anche e ginocchia, ma anche “l’eccessiva magrezza, per l’osteoporosi – spiega Di Matteo - in quanto la scarsezza di massa muscolare si accompagna a una bassa massa ossea e a un’aumentata fragilità scheletrica”. Correlativamente, è importante seguire un’alimentazione equilibrata, evitare la sedentarietà, l’eccesso di alcol e anche le sigarette, ritenute l’“alleato” principale, in particolare, dell’artrite reumatoide. “Gli anticorpi anti-CCP, che identificano le forme più severe di artrite per capacità erosiva e di danno, si formano nel polmone per effetto del fumo e precedono anche di anni l’insorgenza dell’artrite”, ricorda Mauro Galeazzi, presidente Sir.
Ma l’equivoco più grande è nel fatto che non ci si possa curare. Da un recente sondaggio della stessa Sir emerge che il 45% degli italiani neppure sa dell’esistenza di terapie appropriate verso le varie patologie reumatiche. “Abbiamo sempre più armi terapeutiche a nostra disposizione che sono in grado di controllare e contrastare la progressione di patologie anche gravi come artrite reumatoide, spondilite o reumatismi extra articolari”, aggiunge Galeazzi. Da sapere però che le possibilità di guarigione dipendono molto dalla tempestività della cura. Invece la maggior parte dei pazienti tende a trascurare a lungo le avvisaglie. Sta a loro, anzitutto, di prenderle subito sul serio, e chiederne la pronta attenzione del medico.
Senza fobie, ipocondria inclusa, ma l’igiene domestica è una priorità da tenere nella giusta attenzione, specie se ci sono bambini. Non basta chiudersi in casa per tenere fuori l’inquinamento e lo sporco. Dal Congresso annuale dell’American Society of Microbiology arriva il nuovo monito da una ricerca, presentata dall’Università di Mauritius, che svela verità inquietanti sulla popolazione batterica che può annidarsi in diversi oggetti, con particolare riferimento allo strofinaccio da cucina.
Nel dettaglio, è emersa una quantità batterica “ad alto rischio” nella metà degli asciugamani da cucina impiegati, ossia quelli “polivalenti”, che servono ad asciugare mani, piatti e altro, con l’aggravante ulteriore che, essendo umidi, l’esposizione di per sé aumenta. Nel dettaglio, il 36,7% sviluppa “coliformi”, stessa proporzione per gli “enterococchi”, e il 14,3% gli “stafilococchi aurei”. Le percentuali tendono ad aumentare in proporzione alla popolazione domestica e comportano rischi, anzitutto, di disturbi e patologie gastrointestinali, da evitare, in particolare, in presenza di categorie deboli, quali anziani, neonati, diabetici o altre persone con deficienze nel sistema immunitario.
Ė allora utile ricapitolare qualche imperativo sull’igiene domestica. Essenziale, al proposito, limitare l’uso multiplo dello stesso strofinaccio: meglio averne due, uno per i piatti e l’altro per le mani. Sui vestiti, fare attenzione a un frequente ricambio, separare per bene quelli in uso e gli altri, e naturalmente lavarli spesso, possibilmente a temperature medio-alte. Cruciale, anche, curare un’adeguata ventilazione della casa, perché il “ristagno” favorisce la circolazione patogena. Fondamentale, di nuovo, la pulizia della cucina, possibilmente operando – se si hanno i capelli lunghi – con un fermaglio, e proteggendo l’igiene dei cibi stessi custodendoli negli appositi contenitori, rinunciando preferibilmente alla plastica, agente inquinante su cui è pur tardivamente in atto una presa di coscienza globale.
Il tema della plastica – contestualmente a quello dell’igiene – richiama infatti un’allerta ulteriore, quella che non si deve esagerare. L’uso eccessivo di detergenti, saponi, cosmetici e solventi domestici avrebbe un impatto inquinante non inferiore a quello del traffico urbano, secondo uno studio americano della National Oceanic and Admospheric Administration, pubblicato sul Science.
E non è solo un problema per l’ambiente esterno, ma anche per il nostro corpo. La rivista New Scientist ha recentemente rilevato come l’uso smodato di prodotti che contengono antibatterici stia concorrendo perfino ad aumentare la resistenza dei batteri agli antibiotici. Non si tratta allora di puntare patologicamente all’obiettivo di una “casa del tutto sterilizzata”, che non esiste. Virus, batteri e funghi abitano ovunque, e il nostro corpo è generalmente pronto alla convivenza. Il problema è negli eccessi. Seguire qualche fondamentale norma di igiene è importante quanto evitare di cadere in una mania che può essere ancor più deleteria, per l’ambiente e per noi stessi.
Non deve mancare l’attenzione per i più piccoli quando si parte, e al contempo non si deve affatto esagerare. Dal 74esimo Congresso della Società Italiana di Pediatria (Sip), riunitosi nei giorni scorsi a Roma, arriva una consulenza aggiornata sul da farsi per una “sana” partenza familiare in vacanza, che naturalmente vale in larga parte anche come suggerimento su quel che bisognerebbe sempre avere a portata di mano anche quando si sta a casa.
“Ė importante essere bene informati sui possibili rischi a cui si può andare incontro prima, durante e dopo il viaggio”, ricorda il presidente Sip Alberto Villani. Anzitutto si raccomanda una visitina di routine dal pediatra stesso qualche settimana prima della partenza, specie per i più piccoli, controllandone altresì il calendario vaccinale e magari ripetendo la visita al rientro, specie se si tratta di Paesi ad alta endemia.
Sul viaggio in sé, comunque, niente paura, i bimbi sani e nati a termine possono volare in aereo già a 48 ore dalla nascita, anche se solitamente si suggerisce prudenzialmente di attendere almeno una settimana. E poi ci sono cose che ei più piccoli sopportano in realtà meglio degli adulti, come i cambiamenti di fuso orario. Detto questo, è consigliabile collocarli verso il centro del velivolo, per limitare i rischi di nausea e vomito, e comunque cercare poi di regolarizzarne gli orari del sonno e dei pasti.
Sui farmaci, fermo restando l’imperativo di “evitare di caricarsi di farmaci inutili” (ricordato prioritariamente, tra gli altri, dal “decalogo” dell’ospedale romano Bambino Gesù), vi sono, secondo la Sip, alcuni precetti essenziali: tra questi, un gel disinfettante per le mani, un antipiretico-analgesico, un antibiotico ad ampio spettro, reidratanti orali, prodotti antizanzare, creme solari ad alta protezione e, se consigliato per il Paese di destinazione, un antimalarico. Senza naturalmente dimenticare i medicinali prescritti in uso e l’eventuale certificato di assicurazione sanitaria.
Quel che invece non va portato in vacanza, o quanto meno limitato nell’impiego, sono i dispositivi elettronici come smartphone e tablet. L’abuso ha comprovati effetti di deficit di attenzione e socialità. I paletti della Sip sono i seguenti: “massimo 1 ora al giorno nei bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni, massimo 2 ore al giorno per quelli tra i 5 e gli 8 anni”. E poi: “No al dispositivo ‘pacificatore’ per calmare i bimbi, o durante i pasti e prima di andare a dormire”.
Guardiamoci intorno, se non allo specchio. Stiamo messi maluccio, perlopiù in sovrappeso, soprattutto nel Mezzogiorno. Eppure saremmo non solo i custodi della “dieta mediterranea”, ma anche appassionati cultori di una moltitudine di trasmissioni televisive e siti web dedicati alla cucina e alla qualità alimentare, nonché alla salute e all’estetica del corpo. A spiegare il paradosso è ora una ricerca realizzata dall’Associazione Italiana Dietisti (Andid) assieme all’Università di Messina, presentata nel corso di un convegno a Roma, che ha acceso i riflettori su una cinquantina di cosiddetti “dietisti digitali”.
La conclusione è che in quella sorta di “bulimina informativa” gli italiani risultano infine assai confusi, col risultato ultimo che spesso mangiano male. Emerge che solo il 4% vanta un'ottima cultura alimentare, mentre risulta del tutto insufficiente per un adulto su cinque, e “problematica” in più della metà della popolazione. Nel dettaglio, tra i difetti maggiori emerge la scarsa capacità di pianificare la dieta (57%), di scegliere concretamente e correttamente il cibo (67%), di preparare e consumare gli alimenti (71%).
Tra gli errori più comuni su cui inciampano gli italiani svettano alcuni nuovi “tabù”, verso ad esempio la farina bianca e il latte per gli adulti. “Non si deve ridurre tutto all’estrema semplificazione, questo ingrediente fa male, questo fa bene”, spiega tra gli altri Giorgio Donegani, consigliere della Fondazione Italiana per l'Educazione Alimentare. Gli “integralismi” sono ad alto rischio. L'enfasi sui “senza”, dal glutine al sale, dallo zucchero al caffè, e soprattutto la rinuncia al “gusto” non servono alla salute (se non su esplicita indicazione del proprio medico), e possono anzi rivelarsi nocive.
Il segreto della salute alimentare sta invece nella moderazione sui singoli ingredienti, sugli equilibri complessivi. Basterebbe ricordarci un po' le nostre tradizioni. Paradossalmente, invece, da un rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità dedicato all'obesità infantile, emerge che i Paesi europei che la seguono meglio sono quelli scandinavi, mentre quelli mediterranei sono i più deficitari, con l'esito che oltre il 40% dei bambini di Spagna, Grecia e Italia risultano in sovrappeso, tra merendine e altri disordini alimentari.
Quali rimedi? L'Andid sollecita una presa di coscienza, anzitutto tra dietisti e comunicatori, per un salto di qualità nell'informazione alimentare, fino a suggerirne l'ingresso nei programmi didattici delle scuole. Ma c'è un altro aspetto, sottolineato dal presidente dell'associazione Marco Tonelli: “Ridurre le diseguaglianze”. Non è un tema generico, ha un'immediata ricaduta sanitaria. Il nesso è confermato dalla stessa indagine: a mangiare peggio, tendenzialmente, sono le persone che appartengono alle categorie e ai ceti socio-economici più deboli.
La performance in campo sanitario è più che mai cartina di tornasole nella valutazione della situazione sociale di una comunità e della sua capacità di prendersi cura, anzitutto, delle fasce più deboli. In questi giorni sono usciti alcuni dati interessanti, che coinvolgono anche il tema dell’immigrazione, chiarendone l’entità e documentando la percezione e l’azione concreta degli operatori sanitari, dai medici al mondo farmaceutico.
Anzitutto, i numeri. Il ministero della Salute riferisce che nell’ultimo anno i controlli sanitari effettuati sui migranti sbarcati in Italia sono stati circa 111mila, in netto calo, di oltre 60mila unità, rispetto all’anno precedente, e i dati sui primi mesi 2018 sembrano confermare la tendenza. Le patologie trattate documentano soprattutto i segni drammatici dell’odissea cui essi sono stati esposti: “Disidratazione, sindromi febbrili, traumatismi, ustioni chimiche, ferite da armi da fuoco e intossicazioni per esposizione a vapori tossici nelle stive […] cardiopatie, diabete, affezioni neurologiche, esiti psichiatrici, connessi a torture e violenze intenzionali”, si legge nell’ultimo rapporto in materia.
Sull’ambito delle patologie, non molto da segnalare, soprattutto niente di “esotico”. Primeggiano le “parossitosi cutanee”, come scabbia e pediculosi, anch’esse legate generalmente alle condizioni di viaggio, che sono risolte in un paio di trattamenti. Non esiste, per essere chiari, un problema di malaria. I casi, del tutto eccezionali, segnalati periodicamente in Italia, sono accertati su persone che tornano da qualche viaggio, non certo da traversate nel Mediterraneo nel corso delle quali le “zanzare colpevoli” non hanno possibilità di sopravvivere.
Poi ci sono i dati che confermano l’importante impegno dei medici italiani. Da una recente indagine emerge che l’88% si occupa anche dell’assistenza a cittadini non italiani, con numeri che si impennano nelle regioni “frontaliere” come la Sicilia e il Friuli-Venezia Giulia, ma coinvolgono in prima linea anche quelle con una solida qualità ricettiva, come l’Emilia-Romagna. Professionalità e generosità sono comprovate, altrettanto lo è però l’esigenza di maggiori risorse a favore delle fasce deboli, reclamata da due terzi degli operatori,
Sul tema generale della “povertà sanitaria”, che va ben oltre l’ambito dell’immigrazione, si segnala la presa in carico da parte degli stessi produttori, nell’ambito dei medicinali equivalenti. “Il bisogno di farmaci, non riguarda più solo immigrati e profughi, ma sempre più persone e famiglie italiane”, nota Enrique Hausermann, presidente di Assogenerici, che ha stretto una partnership con Banco Farmaceutico. “Un italiano su tre rinuncia a farmaci, visite o esami per ragioni economiche”, sottolinea Hausermann, ricordando la prima “mission” dell’associazione: “Una maggiore possibilità d’accesso ai farmaci in tutte le principali aree terapeutiche riducendo le disuguaglianze”.
Dalla Germania si annuncia un nuovo passo di rilievo nella lotta al Parkinson, che avrebbe per giunta il beneficio di una ricaduta immediata sul piano terapeutico. Lo si legge nella rivista Cell Reports, che dà conto di una ricerca condotta dal Centro Tedesco per le Malattie Neurodegenerative dell’Università di Tubinga in collaborazione con quelle di Friburgo e di Cambridge, con il coordinamento di una studiosa di origine italiana, Michela Delaidi.
Viene documentato come una semplice vitamina, la B3, abbia la capacità di “salvare” i neuroni attaccati dal morbo, rallentandone sensibilmente la degenerazione. Si tratta dei “neuroni dopaminergici” che, a causa di una sorta di deficit energetico, non sarebbero in grado di sfruttare la “benzina” dell’organismo fornita da organelli cellulari chiamati “mitocondri”, e quindi morirebbero. Prelevando quindi cellule di pazienti malati, hanno provato, tramite un esperimento in vitro, a nutrirle di tale vitamina. L’effetto è risultato duplice: non solo essa preveniva il decesso dei neuroni, ma favoriva la nascita di nuovi mitocondri sani.
Gli stessi esiti, assai promettenti, sono stati poi raggiunti sugli animali, ovvero sui “moscerini della frutta”, affetti da una condizione genetica foriera di sintomi analoghi a quelli del Parkinson, come la perdita di controllo dei movimenti. Rimane ora il passaggio alla sperimentazione umana, ma trattandosi di una sostanza evidentemente sicura, nonché ampiamente presente nella carne, nei cereali e, in particolare nelle noci (oltre che in integratori, già utilizzati, tra l’altro, in ambito oncologico), la previsione è quella di un passaggio piuttosto rapido, e di rapida applicazione.
Sono inoltre esiti che convergono con altre ricerche sulla medesima patologia. Una ricerca inglese, dell’Università di Leicester, pubblicata un anno e mezzo fa su Biology Open, aveva tra l’altro accertato il potenziale “riparatore” della stessa vitamina B3, con particolare riferimento al Parkinson ereditario.
Conferme che consolidano la prospettiva di un nuovo e promettente percorso terapeutico nella lotta al morbo, che ha recentemente segnato altri risultati importanti. Uno di questi si chiama MrgFUS, un macchinario concepito in Israele e installato recentemente presso l’Ospedale Borgo Trento dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. Sarebbe in grado, con una sola sessione, di curare i tremori scaturiti dal Parkinson, con un’efficacia annunciata nell’80% dei casi.
Si può riflettere, sviscerare, dibattere, ma alla fine alcuni dati sono semplici, e dicono tutto. Dinanzi al diritto sacrosanto (e costituzionale) alla salute, nell’ultimo anno ben sette milioni di italiani sono stati costretti a indebitarsi per potersi curare, in ragione di un ammontare di circa 150 milioni di euro di esami e visite non rimborsate dal Servizio Sanitario Nazionale, tanto da sollevare sentimenti di “rancore” verso lo stesso. Sono cifre divulgate dal Censis, e sono parallele a quelle pregresse sui milioni di italiani che addirittura rinunciano alle terapie per difficoltà economiche.
Sempre in questi giorni, un altro studio, elaborato dalla Fondazione Gimbe, ha denunciato un problema strutturale di “de-finanziamento pubblico” della sanità, dinanzi a un quadro di fabbisogno crescente, complice tra l’altro l’invecchiamento della popolazione. Avanti così, nell’arco di pochi anni si creerà un “buco” di una ventina di miliardi di euro, a detrimento anche dei livelli attuali di assistenza. Poche risorse, ma anche troppi “sprechi”, notano gli osservatori. E tra i principali sprechi, come più volte denunciato dalle associazioni dei pazienti – inclusa la più estesa, Cittadinanzattiva, promotrice tra l’altro della campagna “IoEquivalgo” – figura proprio il ricorso ancora insufficiente ai farmaci generici, nonostante l’equivalenza nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica, nonché i costi inferiori.
Sono stati fatti passi in avanti innegabili, ma siamo ancora indietro rispetto agli altri Paesi europei: sul totale delle ricette, senza distinzioni di classi di rimborso, solo il 20% è 'senza marca. Una proporzione inferiore alle medie continentali, che poi si scompone in gravi sperequazioni sul territorio nazionale. Segnalando tra l’altro un nesso: le Regioni che ricorrono di più ai medicinali equivalenti sono tendenzialmente quelle (perlopiù nel Nord Italia) dove l’assistenza sanitaria risulta più capillare e qualitativa. La ragione è semplice, risparmiare sui generici consente di liberare risorse private e pubbliche consentendo di ampliare la platea dei pazienti e delle cure.
Le cifre aggregate e i tanti appelli, perfino quando arrivano dai pazienti, possono risultare a limitato impatto nella percezione delle persone, ma se ad associarsi sono ora i “primi custodi” della salute, ossia gli stessi medici di base, il messaggio sale ulteriormente di potenza e significato. “Non esistono farmaci più sicuri dei generici, perché straordinariamente testati”, ha dichiarato recentemente Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (Simg).
Il motivo della superiore sicurezza è molto semplice: si tratta di medicinali utilizzati da un tempo così lungo da superare la scadenza brevettuale, potendosi replicare quindi come “generici”, salvo per giunta ulteriori controlli a certificarne l’equivalenza. Concetto semplice e anche “etico”, perché è una scelta che può fare la differenza tra potersi curare o meno, per ciascuno di noi e per la collettività.
“Mangiare se stessi”. L’etimo greco è esplicito, e viene utilizzato dalla scienza contemporanea per descrivere un meccanismo cellulare alla base dei sistemi interni di conservazione/rinnovamento quanto di degradazione. Dall’Università del Texas ora si annuncia, con una pubblicazione sulla rivista Nature, l’identificazione di una molecola che, agendo su tale dinamica, potrebbe rappresentare un potenziale “elisir di lunga vita”.
La proteina si chiama “beclin-1”, e sarebbe appunto alla base della cosiddetta “autofagia”. Attivandone una “mutazione”, avrebbe la capacità di promuovere la longevità e ridurre il rischio di diverse malattie cardiovascolari e renali, e anche di tumori. Sperimentata sui topi, riuscirebbe ad allungare l’aspettativa di vita media di circa il 12%. “Un esito importante, che dimostra come sia possibile interferire sui meccanismi dell’invecchiamento, ritardandone i segni”, commentano scienziati estranei allo studio.
Da notare che la ricerca dell’università americana segue il filone di un’altra, che ha dimostrato un notevole impatto di tale metodica dinanzi a patologie neuro-degenerative come l’Alzheimer. Su quest’ultima, inoltre, uno studio californiano ha annunciato la scoperta di un gene, l’“apoE4”, presente in circa un quarto della popolazione, neutralizzando il quale permetterebbe di dimezzare l’esposizione e il decorso della patologia. Esiti che destano parecchia speranza tra gli studiosi americani. “La ricerca sull’Alzheimer ha conosciuto molti fallimenti negli ultimi dieci anni, ma entro i prossimi dieci – pronostica ad esempio Michel Goedert, dell’Università di Cambridge – diventerà una malattia perlopiù gestibile”.
Tornando allo specifico dell’“autofagia”, si tratta ancora di meccanismi, nell’insieme, largamente da esplorare. Gli accademici texani rivendicano anche potenziali antitumorali alla loro metodica, tuttavia altri studi hanno viceversa rilevato come la stessa autofagia tenderebbe a favorire la progressione cancerogena, sia negli effetti cellulari che nella modulazione del “microambiente tumorale”.
In altri termini, l’autofagia sarebbe un meccanismo necessario non solo alla “sopravvivenza” del paziente, ma anche a quella dei tumori, sicché i due obiettivi potrebbero, almeno in alcuni casi, risultare alternativi. Ed è chiaro che serviranno ancora anni di studi perché si arrivi a far pendere la bilancia dal lato giusto.
Creare illusioni con roboanti annunci è uno degli errori più frequenti e colpevoli dell’informazione sulla salute, specie con riferimento a uno degli ambiti più drammatici, quello della patologia tumorale. Su questo, tuttavia, la ricerca sta compiendo reali passi avanti, in aggiunta ai traguardi già raggiunti negli ultimi decenni, che hanno significativamente innalzato la speranza di vita e di guarigione di molti. Negli ultimi giorni, in particolare, sono state annunciate novità di rilievo che convergono sull’obiettivo di limitare il ricorso ai trattamenti più invasivi, in particolare la chemioterapia.
Il caso più clamoroso - che ha trovato ampia eco nella stampa divulgativa (specie anglosassone), oltre che su quella scientifica - è quello di una 52enne americana affetta da un cancro al seno, su cui ben sette diversi cicli chemioterapici erano risultati privi di efficacia. Giunta a uno stadio di metastasi, estese in tutto il corpo (con ben 62 mutazioni tumorali), i medici hanno tentato un nuovo “approccio”, sperimentando una metodica immunoterapica, orientata a riattivare e potenziare le difese interne.
L’esito, a due anni di distanza, è una completa guarigione. “Ho iniziato a sentirmi meglio già dopo due settimane, e anche i dottori ballavano per la felicità”, ha raccontato la paziente. Il trattamento consisteva in un “trasferimento cellulare adottivo” basato sul prelievo di alcune centinaia di “cellule-T” poi moltiplicate in oltre 80 miliardi di globuli bianchi, che hanno poi avuto la meglio sulla malattia. Un “cambio di paradigma”, sottolineano gli scienziati, anche quelli estranei all’esperimento, ricordando che “per molti anni si era pensato che il carcinoma mammario diffuso non potesse essere attaccato dal sistema immunitario”. Invece, ai fatti, si può.
Il caso è stato tra l’altro discusso in queste settimane anche al Congresso annuale a Chicago dell’American Society of Clinical Onclolgy, dove sono emersi ulteriori riscontri di analoga portata. Uno studio newyorkese, in particolare, ha sperimentato un test su 21 geni tumorali di donne colpite da cancro al seno. In sintesi, è emerso che la chemio dopo l’intervento sarebbe evitabile per il 70% delle pazienti. Sarebbe loro sufficiente una meno invasiva terapia ormonale. Si prospetta dunque un cambio notevole nella pratica clinica, riconosciuto anche dagli scienziati italiani. “Parliamo di milioni di donne che potranno evitare la chemioterapia: è entusiasmante”, commenta il professor Giuseppe Curigliano, dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.
E non si parla solo del tumore al seno. Da un’altra ricerca presentata al medesimo Congresso, è stato documentato come, dinanzi al cancro alla prostata metastatico, una terapia “chemio-free”, costituita da un trattamento ormonale standard con l’aggiunta di una molecola, l’“abiraterone”, permetta di ridurre il rischio di morte del 36%.
Un’altra conferma allo stesso concetto: è il nostro corpo a essere depositario delle migliori difese. La medicina del futuro, e in parte già del presente, è quella che sa riconoscerle e “risvegliarle”.
“Tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina”, notava il filosofo Friedrich Nietzsche. “La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada; la vita stessa è un viaggio da fare a piedi”, sosteneva l’esploratore Bruce Chatwin. “Solvitur ambulando”, camminando si risolve, dicevano già gli antichi. Che la passeggiata sia un atto propizio per le nostre attività cerebrali è nella coscienza comune, sebbene messa ad alto rischio ai nostri giorni dalla sedentarietà, imposta da molte professioni e alimentata anche dall’illusione di poter realmente “viaggiare” stando immobili dinanzi allo schermo di un computer o smartphone.
Al contempo, si tratta di un nesso ancora, in parte, da esplorare e comprendere, sul piano fisiologico e neurologico. Un contributo di rilievo è stato annunciato in proposito nei giorni scorsi dall’Università Statale di Milano, tramite una pubblicazione su Frontiers in Neuroscience. I ricercatori hanno cercato di capire come il movimento fisico influenzi la neurogenesi, ossia la formazione di nuovi neuroni.
Hanno quindi tenuto sotto osservazione per 28 giorni due gruppi di topolini, uno dei quali veniva sottoposto a restrizioni al movimento. Nelle parole dei ricercatori, “abbiamo utilizzato un modello animale di topo in cui venivano impediti i movimenti antigravitari degli arti inferiori (ma non di quelli superiori), quali camminare, arrampicarsi, accovacciarsi e tutte le azioni in cui vi è attrito fra le gambe e il terreno”. Insomma, una condizione analoga a quella dei “pazienti costretti a letto o in sedia a rotelle oppure negli astronauti che fluttuano a bordo dei veicoli spaziali”.
Al termine, hanno analizzato, tramite risonanza magnetica, la “zona subventricolare”, ossia la sede cerebrale della neurogenesi nel cervello adulto. E qui le differenze tra i due gruppi sono risultate notevoli. Tra queste, una diminuzione del 70% delle cellule staminali neurali tra gli “immobilizzati”, uno sviluppo incompleto degli oligodendrociti, che costituiscono una protezione esterna ai tessuti nervosi, alterazioni perfino nella struttura genetica. Per gli scienziati, si tratta di “aspetti importanti per capire meglio i meccanismi alla base di complesse malattie neurologiche responsabili di disabilità”, quali la sclerosi multipla e l’atrofia muscolare spinale. Il messaggio è peraltro rivolto a tutti, e a ogni fascia di età. L’attività motoria, a iniziare dalla semplice camminata, è nutrimento essenziale non solo al nostro essere “in forma”, ma anche allo sviluppo del cervello, nonché un indispensabile argine alla neuro-degenerazione.