Suona come un paradosso, e invece sta emergendo a verità dai sempre più solidi riscontri scientifici. La periodica interruzione di una dieta non la vanifica, bensì può anzi risultare il viatico a una sua più alta efficacia, sia nel breve che nel lungo periodo. L’ultimo studio in proposito è dell’Università della Tasmania (in collaborazione con quella di Sidney), finanziato da un’autorità pubblica australiana (la National Health and Medical Research Council) e pubblicato sull’International Journal for Obesity.
L’esperimento ha coinvolto 51 uomini obesi, tutti sottoposti a un regime dietetico per sedici settimane, ma con una variante. Alcuni lo hanno seguito in maniera consecutiva, altri lo hanno seguito con alternanze bi-settimanali, e cioè osservavano la dieta per quindici giorni, e nei successivi quindici la sospendevano, benché senza strafare, ossia seguendo ritmi alimentari “normali”, limitati solo all’imperativo di non ingrassare, sicché il percorso complessivo, così “ammorbidito”, si è protratto per loro per un totale di trenta settimane.
Strano ma vero, l’esito è stato una discrepanza notevole in favore dei secondi, con una perdita di peso ben superiore. Inoltre, hanno allargato tale vantaggio nel tempo, tant’è che a un riesame effettuato sei mesi dopo la conclusione della dieta hanno ribadito un dimagrimento medio di otto chili in più, palesando quindi anche rischi inferiori di recupero del sovrappeso post-dieta.
Si tratta ora di capire il perché di tale fenomeno, la cui valenza sembra comunque oggettiva: “Le interruzioni della dieta sono decisive per il buon esito della stessa”, afferma Nuala Byrne, coordinatrice dello studio, ricordando gli analoghi esiti di altre recenti ricerche. Capire le ragioni di tale successo può essere del resto cruciale alla comprensione generale dei nostri meccanismi metabolici.
Gli studiosi australiani chiamano allora in causa “l’ambito energetico” implicato nel metabolismo, reso fin troppo “dormiente” durante la dieta, perciò almeno in parte vanificandola. Al contempo, esisterebbe una sorta di antica “reazione alla fame”, ossia un meccanismo di sopravvivenza innescato nei millenni dagli esseri umani, orientato proprio a vanificare gli effetti della mancanza di cibo. Tutto questo significa che le diete troppo drastiche tendono a funzionare poco, perché avremmo dentro di noi gli “anticorpi” per neutralizzare almeno in parte le carenze alimentari. Percorsi più equilibrati, o per l’appunto “alternati”, permetterebbero viceversa di disinnescare le “autodifese dalla dieta”, garantendone quindi l'obiettivo.
È una scoperta tutta italiana, che apre a nuovi orizzonti terapeutici in senso stretto, ma dice anche qualcosa di più ampio sulla natura “olistica” di un buon percorso terapeutico. La si legge sulla rivista internazionale Jama Oncology, ed è il frutto di un lavoro coordinato dal Dipartimento di Scienze Dermatologiche dell’Università di Firenze.
Gli studiosi hanno monitorato per un triennio oltre 50 pazienti affetti da melanoma, quasi la metà dei quali trattati con un comune ed economico principio attivo, il “propanololo”, utilizzato solitamente per il trattamento dell’ipertensione. La sperimentazione non è nata da una curiosa intuizione, ma dall’esperienza diretta. “Ci siamo accorti che avevamo pazienti 'long survivors' con melanomi molto aggressivi – spiega il coordinatore dello studio Vincenzo De Giorgi - e abbiamo notato che tutti avevano ipertensione e altre patologie per cui sono indicati i farmaci beta bloccanti”.
Da quel concreto segnale è dunque iniziato lo studio, che ha dato esiti oggettivamente notevoli. Anzitutto, “dopo tre anni il 41% dei pazienti non trattati aveva avuto una progressione della malattia, contro il 16% degli altri”, nota De Giorgi. Di più, è emerso che con tale farmaco “la progressione del melanoma si riduce dell'80%”.
Sono dati che, a detta degli stessi studiosi italiani, necessitano di riscontri scientifici di più vasta scala, ma l’indicazione appare significativa, e chiama già alle interpretazioni. Una riguarda la classe menzionata di farmaci, che, anche nel lungo periodo, andrebbe a “impedire la vascolarizzazione del tumore, una condizione necessaria per la sua crescita”, per giunta senza gli effetti collaterali che possono derivare da medicinali più aggressivi.
L’altra “è legata allo stress a cui sono sottoposti i pazienti, che provoca il rilascio di adrenalina che favorisce la comparsa dei tumori”, su cui agisce quel tipo di farmaco. In questo subentra l’indicazione più generale, ossia quella che punta il dito sulle pressioni psicologiche cui siamo sottoposti. Queste non sono solo turbative, magari controllabili, del solo ambito neurologico, bensì possono seriamente minare la nostra salute generale, sul piano della prevenzione quanto della cura, anche in ambito tumorale.
“Quando non sanno come prendere i soldi alzano i prezzi delle sigarette”, si lamenta da sempre, con ragioni inconfutabili, qualunque sia il Governo del momento. Solo che a invocare tali rialzi non sono stavolta i tecnici di qualche ministero o partito, ma gli stessi operatori sanitari, con appelli e cifre circostanziate divulgate da tempo.
Queste riguardano anzitutto la portata del problema del fumo, che secondo una recente indagine globale provoca una strage da 6 milioni di morti l’anno, circa 100mila solo in Italia, la metà per tumori, l’altra metà per patologie cardiovascolari e respiratorie, con tutto quel che consegue anche in termini di costi per i contribuenti e per l’intero sistema economico e sanitario.
Da qui l’appello, sottoscritto a inizio anno da una trentina di società scientifiche italiane per la messa in atto di un’aggressiva strategia nazionale che faccia leva soprattutto su politiche di prezzo. Il presupposto non è punitivo ma appunto scientifico. Un altro studio globale ha stimato recentemente che un aumento di prezzo consentirebbe di ridurre di circa un terzo l’entità di tale strage. Nel dettaglio, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “se tutti i paesi aumentassero le accise di circa 0,80 dollari a pacchetto, i prezzi al dettaglio delle sigarette aumenterebbero di circa il 42%, portando a una diminuzione dei fumatori pari al 9%, ovvero a 66 milioni di tabagisti adulti in meno".
Sull’obiezione di una penalizzazione selettiva delle fasce più deboli innescata dall’aumento del prezzo, gli esperti rovesciano il problema. “Sono soprattutto i fumatori a reddito basso e con bassi livelli di scolarizzazione a beneficiare dell’aumento del prezzo”, spiega l’epidemiologo Giuseppe Gorini, notando che i più abbienti siano viceversa meno sensibili, proprio per la loro migliore situazione materiale, alle strategie basate sui costi.
“L’aumento del prezzo è una strada già percorsa con successo da altri Paesi come l'Australia, la Norvegia e l'Irlanda”, incalza il presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica Carmine Pinto, che stima un “recupero di 700 milioni di euro l’anno” per il solo rialzo di un centesimo a sigaretta. Sempreché, naturalmente, non si tratti di un sotterfugio fiscale per coprire qualche “buco” qua o là, bensì di una seria “battaglia di civiltà” orientata strategicamente a spendere quei risparmi nel miglioramento della ricerca e nel sostegno farmacologico alle famiglie.
È soprattutto la stampa inglese, a iniziare dal Guardian, più ancora di quella americana, ad aver dedicato in questi giorni ampio e ripetuto spazio al tema del riposo, forse nella consapevolezza dell’importanza della problematica, nonché dell’approccio “rivoluzionario” perorato dal direttore del Center for Human Sleep dell’Università della California. Il tema è sollevato da un libro di Matthew Walker, che fissa alcuni concetti fondamentali sull’importanza del riposo per la nostra salute, fuori da una serie di preconcetti, anche culturali, che lo disturbano. Secondo l’autore, sarebbe in atto una “catastrofica epidemia di perdita del sonno”. Nel 1942, nota, meno dell’8% degli euro-americani sopravviveva con 6 ore di sonno o meno, per giunta in tempi di guerra, mentre ora è il tempo di riposo che caratterizza circa la metà della medesima popolazione. Ammiriamo i nostri nonni, constatiamo la longevità dei sopravvissuti, e al contempo non ci accorgiamo che essa si sia costruita “nonostante” quel difetto di riposo, e non in suo merito, come talora siamo condotti a pensare per la frenesia dei tempi moderni. Ed è un pensiero sbagliatissimo. “Nella società occidentale odierna, ci si vergogna a dire che si dorme molto, dormire poco viene considerato un distintivo di onore, qualcosa di cui vantarsi: è imbarazzante ammettere in pubblico che si dormono otto ore per notte, si fa la figura del pigro”, nota Walker, mentre la verità sanitaria è l’opposta: “Dopo una sola notte di 4 o 5 ore di sonno, le cellule naturali killer, quelle che attaccano le cellule tumorali che appaiono nel tuo corpo ogni giorno, diminuiscono del 70%, una mancanza di sonno è legata ai rischi di infarto, ansia, depressione, diabete, ictus, al cancro dell'intestino, alla prostata e al seno, tanto che perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha classificato qualsiasi forma di lavoro a turni notturni come un possibile cancerogeno”. Per ricordare qualche numero, la stessa Oms classifica le otto ore di sonno come imperative, e al di sotto delle 7 si arriva a seri rischi sanitari e a una speranza di vita media di poco più di 60 anni: Ancora, uno scarso riposo inficia perfino le capacità riproduttive, oltre che le probabilità di incidenti e i cali di performance sportiva. Insomma, conclude Walker, “le scuole dovrebbero cominciare a considerare un inizio ritardato la mattina, e le aziende dovrebbero cominciare a considerare il riposo come fattore di produttività anziché il contrario”. A conferma del fatto che il primo medicinale per il nostro corpo, il suo elisir di lunga vita, è proprio il riposo.
È uno dei problemi più dibattuti nella medicina dei nostri giorni, talmente diffuso da sfuggire a volte perfino all'attenzione degli operatori sanitari. È noto da vent'anni che, tra le terapie maggiormente esposte a una scarsa “aderenza”, ossia a un cattivo utilizzo o all'abbandono dei farmaci a detrimento degli effetti terapeutici, svetta il diabete di tipo 2. A pesare, probabilmente, la frequenza dei trattamenti prescritti e magari l'istinto a prendersi qualche “pausa” in relazione a provvisorie sensazioni di benessere. A rilanciare l'attenzione sul tema è ora la pubblicazione, sulla rivista Diabates Care, degli esiti di uno studio in materia del Boston Children's Hospital. I ricercatori hanno riesaminato i dati clinici di oltre 52mila pazienti, di cui quasi 23mila sottoposti ad un trattamento “di seconda linea”, dopo il fallimento delle terapie di prima istanza. L'alta incidenza di questi ultimi - quasi la metà delle persone osservate - è di per sé ritenuta dagli studiosi un indicatore di conti che non tornano. In effetti, approfondendone la storia pregressa, è emerso che solo l'8,2% dei pazienti di seconda linea aveva seguito correttamente la terapia coi farmaci di prima linea nei due mesi precedenti al cambio di trattamento. Addirittura, il 28% non li aveva assunti affatto. La poca aderenza alle terapie è un rischio concreto per la salute, specie in età avanzata, come documentato anche da un recente convegno di Federanziani, che richiama alla responsabilità l'intero settore socio-sanitario, inclusi medici, farmacisti, familiari e fa appello anche all’utilizzo delle nuove tecnologie a supporto di una maggiore adesione dei pazienti al corretto percorso terapeutico. La ricerca Boston Children's Hospital svela peraltro una problematica ulteriore. Una cattiva aderenza terapeutica porta con se il rischio di ripercussioni anche sull'appropriatezza delle prescrizioni. “Apparenti fallimenti del trattamento farmacologici vengono spesso confusi con la scarsa aderenza terapeutica”, documentano gli scienziati americani. In altre parole, accade che i medici prescrivono erroneamente medicinali “di seconda linea”, magari più aggressivi, presumendo l'inadeguatezza di quelli prescritti in precedenza, mentre magari il problema sta solo nel solo fatto che “i primi” sono stati semplicemente usati male.
Tra termometri riesumati e l'imminente arrivo del periodo vaccinale, consigliato tra metà ottobre e fine dicembre, si è già aperta la lunga stagione delle influenze, con qualche segnale preoccupante dall'emisfero meridionale, in particolare dall'Australia, dove la stagione fredda ha conosciuto picchi endemici ben più estesi rispetto agli anni precedenti, col risvolto di un aumento dei ricoveri, specie tra gli anziani, per problemi polmonari. Ad alimentare qualche timore sono anche i numeri sulle prime febbriciattole post-estive, alimentate dagli sbalzi di temperatura e dai ritorni a scuola, sicché almeno 80mila italiani sarebbero già costretti a letto in questi giorni. E i virus identificati sono addirittura 262, che però non rappresentano delle vere e proprie “influenze”, e si differenziano anche per il contesto meteo nei quali prosperano, ossia non il freddo intenso quanto i repentini mutamenti di temperature comunque miti. Ciò detto, a dispetto di qualche titolo giornalistico, l'allarme non c'è, o meglio le stime per la prossima stagione invernale sembrano sostanzialmente ricalcare quelle dell'anno precedente. I ceppi virali saranno gli stessi, quindi noti alla ricerca vaccinale, con una sola novità attesa, ossia l'A/H1N1, detta “Michigan”, del resto già “coperta” dai nuovi vaccini. Nelle parole degli specialisti, si prevede un “anno interpandemico”, di “media entità”, come conferma anche il ministero della Salute. Niente allarmismi, dunque, anche se le proiezioni stesse sulle persone colpite, in linea con i mesi scorsi, sono tutt'altro che esigue. L'influenza in senso stretto colpirà circa 5 milioni di italiani, altri 10 milioni saranno coinvolti da virus parainfluenzali, con conseguenze talora assai pericolose. I “morti di influenza” accertati in senso stretto sono stati 68 nell'ultimo inverno, ma quelli legati a comorbidità sono stimati addirittura a 8mila. La fascia più a rischio rimane quella degli anziani, ai quali è prioritariamente raccomandato il vaccino, la cui efficacia, spiega il presidente dell'Associazione Microbiologi Italiani Pierangelo Clerici, “è stimata al 70-90%”. Tuttavia, l'anno scorso la copertura non ha raggiunto neppure il 50%. “Troppo poco se si pensa che in questa fascia d’età il 10% dei casi di influenza va incontro a complicanze”, segnala lo specialista Fabrizio Pregliasco, dell'Università di Milano. “Tuttavia -conclude il virologo - anche su questo che emergono segnali incoraggianti: dopo una disaffezione per il vaccino antinfluenzale, parallela a quella per gli altri vaccini, ultimamente i dati sono in miglioramento”.
È un fenomeno dei nostri tempi, che sta cambiando il nostro rapporto con il mondo, incluse le persone più vicine, a velocità impressionante. L’immagine di persone che deambulano a testa bassa, chine sul proprio smartphone, sono un segnale inquietante che, vissuto individualmente, sembra oramai una normale prassi, almeno a tratti necessaria, ma guardata con una sorta di “grandangolo” svela aspetti di pericolosa patologia collettiva. L’allarme è anche sanitario, come sottolinea in questi giorni uno studio australiano. È cioè in atto una vera e propria dipendenza patologica da internet, e in particolare dai social network. “I sintomi tipici sono simili a quelli della dipendenza da droghe e alcool: sbalzi di umore, uso crescente nel tempo di internet, possibili crisi di astinenza, conflitti, e ricadute dopo che l'uso di internet viene ristretto”, spiega Mubarak Rahamathulla, della Flinders University di Adelaide, che ha elaborato in proposito una “teoria generale della tensione”, sulla base di un dato riscontrato di fondo, ossia “la relazione diretta tra dipendenza da internet e comportamenti problematici nei siti social”. Il problema però non è solo quello del comportamento sul web, ma nella stessa vita reale, e questo mette a rischio soprattutto i più giovani, non solo per la minore età, ma anche per il fatto che non hanno mai conosciuto un mondo “senza” social, telefonini e internet. Rischia di sfociare in tendenze violente, il ritiro sociale, l’incapacità di concentrarsi e l’abuso dei giochi. Ed è soprattutto sui giovani stessi che lo psichiatra americano Ivan Goldberg ha coniato la formula dell’Internet Addiction Disorder, ossia appunto la “sindrome da dipendenza dal web”. I sintomi vanno dalla frenetica esigenza a rispondere ai messaggi, alla “sindrome del cellulare fantasma” (il diffuso sentore di sentire le vibrazioni del cellulare anche quando non ci sono), dalla paura di rimanere poco aggiornati da quel che dicono gli “amici”, alla preferenza del cellulare alla conversazione fisica con gli amici e parenti mentre si sta a cena, dall’ansia da “astinenza” nei momenti in cui si è lontani dal cellulare, allo scarso rendimento a scuola o al lavoro per l’ossessiva consultazione della rete. La preoccupazione è anzitutto per le nuove generazioni, dunque, ma l’implicazione socio-sanitaria è per tutti. “Si genera una barriera alle emozioni, contro il dialogo e l’empatia della condivisione”, spiega Federico Tonioni, responsabile dell’Area delle dipendenze del Policlinico Gemelli di Roma, riferendo che “dal 2009 abbiamo seguito più di 1.100 nuclei familiari tra ragazzi e genitori”, e notando che “spesso è il percorso dei secondi a portare ad un miglioramento dei primi”. Quel percorso inizia semplicemente spegnendo spesso e volentieri il prezioso dispositivo, specie quando si sta insieme.
L’appena trascorsa 24esima “Giornata Mondiale” dedicata all’Alzheimer, tra convegni scientifici, rapporti, conferenze ed eventi socio-pedagogici allestiti in decine di città italiane, è stata anche l’occasione per fare il punto sulla patologia, e su come affrontarla. Con segnali per certi versi poco incoraggianti, tra il consenso crescente sullo scarso esito delle terapie sviluppate contro la demenza conclamata e le previsioni sul dilagare del problema. Ogni anno si accertano nel mondo quasi dieci milioni di nuovi casi di demenza, raggiungendo la cifra complessiva di circa 47 milioni di persone, due terzi delle quale specificamente malate di Alzheimer. L’Italia è all’ottavo posto nella triste classifica, con 1,4 milioni di malati di qualche forma di demenza, in circa la metà dei casi Alzheimer. E le proiezioni dicono che questi numeri si triplicheranno a livello mondiale entro il 2050, complice l’invecchiamento della popolazione. A fronte di questo, mancano ancora trattamenti risolutivi. “Gli anticorpi contro il peptide beta amiloide (primo indiziato tra i presunti colpevoli dell'Alzheimer) che sono stati oggetto di tanti studi clinici – spiega tra gli altri Stefano Govoni, dell’Università di Pavia - non hanno raggiunto esiti clinici apprezzabili e i benefici per i pazienti, sin qui osservati, sono davvero molto modesti”. Il riconoscimento di un sostanziale “fallimento” finora è pressoché unanime, così come l’annuncio di un “cambio di paradigma”, legato alla natura “complessa e multifattoriale” del problema, che include processi infiammatori, fattori molecolari, problemi vascolari e anche aspetti sociali (incluse le percezioni altrui) e comportamentali (ovvero gli stili di vita). Ma è proprio in quel cambiamento che la buona notizia c’è, soprattutto sul fronte della prevenzione, incluso l’aspetto diagnostico. L’orizzonte, ritenuto imminente, è quello di un insieme composito di test. Si tratta cioè di combinare una serie di esami facili e a basso costo, del sangue (per cercare molecole presenti solo nel plasma di chi è destinato ad ammalarsi anche 10-20 anni dopo), della retina e di altri tessuti che possano presentare anomalie predittive, nonché di una risonanza cerebrale decodificata da un software messo a punto, a quanto annunciato, dall’Università di Bari. Saranno esami destinati a individuare fattori di rischio, riscontrati i quali potranno eseguirsi test più costosi e invasivi (dalla tomografia all’esame cerebro-spinale). In quel cambio paradigmatico c’è anche una dimensione di pubblica informazione, a iniziare dall’imperativo di “combattere lo stigma”, tuttora attuale. Nelle parole di Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, “la persona con demenza deve essere vista per quello che è: prima di essere un malato, è una persona esattamente come tutti noi, con una dignità che va rispettata e tutelata”.
L’insufficienza di vitamina D fa impennare il rischio per le donne di ammalarsi di sclerosi multipla. Lo ha documentato un esteso studio dell’Università di Harvard, pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista Neurology, che arriva a invocare “ampi interventi delle autorità sanitarie pubbliche per incrementarne i livelli”. La ricerca è stata condotta sui campioni di sangue prelevati da ben 800mila donne in età fertile della Finlandia: una scelta determinata proprio dalla storicamente diffusa e acclarata carenza di tale vitamina nella popolazione femminile, dovuta forse alla relativa scarsità di luce solare, che permette al nostro corpo di sintetizzare la vitamina. Lo studio ha preso anche in esame 1.092 donne che si sono ammalate nei nove anni successivi ponendo dati rilevati a confronto con quelli registrati relativo ad altre 2.123 donne che non hanno sviluppato la patologia. Il parametro usato per definire la “carenza” vitaminica è nella quantità inferiore ai 30 nanomoli al litro. I livelli sono poi definiti “insufficienti” tra i 30 e i 49 nanomoli, al di sopra dei quali si rientra nella normalità. Sulla base di questo, le finlandesi “carenti” sono in effetti risultate tantissime, ossia il 58% della popolazione osservata. L’aspetto più rilevante è peraltro proprio l’alta incidenza del difetto della vitamina D sull’esposizione alla malattia. Le donne con “insufficienza” vitaminica risultano avere un rischio incrementato del 27% di sviluppare la sclerosi multipla, e il balzo arriva al 43% per quelle “carenti”. Sebbene gli autori americani riconoscano la necessità di ulteriori riscontri e la presenza di limiti in questo studio (quali la mancata comparazione con soggetti maschi), le cifre sono statisticamente assai significative di una tendenza reale. E’ una conferma che allarga il concetto dell’importanza – ovvero dei “molteplici benefici”, nelle parole degli studiosi di Harvard – di un adeguato controllo sui livelli vitaminici, nonché, nel caso della vitamina D, del contributo del sole su tanti aspetti della nostra salute, inclusa la prevenzione da alcune tra le più insidiose malattie.
E’ a malapena nel nostro vocabolario, eppure è una patologia diffusa e letale, tanto da contagiare circa 250mila italiani l’anno (e circa 26 milioni di persone nel mondo), uccidendone circa un quarto. Si tratta di un’infezione diffusa, che può colpire in una sorta di paralisi gli organi essenziali, dal cervello ai polmoni, dai vasi sanguigni al cuore, e non assolve gli ambiti ospedalieri, tanto da coinvolgere anzi, fino al 7%, i pazienti ricoverati, per le resistenze e le contaminazioni ivi attivate.
E’ chiamata anche “sepsi”, dall’eloquente termine greco che indicava la “putrefazione”, quale reazione infiammatoria all’invasione dell’organismo di microrganismi patogeni, un fenomeno che, seppur largamente sconosciuto, ha tassi di mortalità superiori perfino a disgrazie diffuse come l’infarto o l’ictus.
Pericolosità tali che addirittura, lo scorso maggio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha decretato la setticemia come “emergenza sanitaria globale”. Non lo è più il virus Zika, per esempio, lo è la “sepsi”, seppure non rappresenti una “nuova” patologia, ma un’infezione antica. Il problema principale, a detta degli esperti stessi, è la scarsa conoscenza, a fronte per giunta di costi di cura e ospedalizzazione enormi, oltre i 25mila euro a paziente.
Può colpire chiunque, anche se le categorie deboli, anziani e bambini, restano le più esposte. Con tassi di mortalità appunto elevatissimi, che si innalzano dell’8% per ogni ora di ritardo nel trattamento.
Il tema è pubblico, e rivolto anche ai pazienti, tant’è che nei giorni scorsi è ricorsa la “Giornata Mondiale”, con eventi informativi in varie città italiane, ma il messaggio è anzitutto rivolto agli addetti ai lavori. Si tratta di usare per bene gli antibiotici, riconoscere i sintomi, prescrivere i farmaci più adeguati a ridurre le resistenze attivate dalla malattia che alimentano le infezioni. L’informazione pubblica è anche qui essenziale, ma il salto di qualità nell’attenzione è in questo caso richiesto soprattutto ai medici.
Credits immagine: cnbc.com
Definire “filantropo” – come spesso fanno i media – l’uomo più danaroso al mondo è probabilmente un complimento eccessivo. Nondimeno ci sono un paio di oggettive virtù nella Fondazione istituita e alimentata da Bill Gates: l’enormità dei danari erogati in attività sociali (su cui da qualche anno lavora a tempo pieno, avendo abbandonato le sue cariche societarie), nonché il fatto che difficilmente le sue iniziative e prese di posizione siano sospettabili di portare chissà quali “interessi occulti”, in quanto il ricchissimo signore dell’internet economy non ne ha più certo bisogno.
E’ quindi interessante che la Fondazione stessa, storicamente orientata alla lotta alla povertà, abbia ora deciso di puntare la sua attenzione soprattutto sui temi sanitari, lanciando in questi giorni una serie di rapporti e campagne che coinvolgono non solo le aree più povere, ma l’intera popolazione. Con messaggi, nell’insieme, tutt’altro che “allarmistici”.
Viceversa, si sottolinea il ruolo salvifico dei moderni sistemi sanitari, in tutto il mondo, inclusi i più fragili, e si avverte semmai che sono conquiste da consolidare con l’impegno della ricerca scientifica e dell’attività medica. Guai cioè a darle per scontate per l'avvenire, perché non lo sono, e se anzi si torna indietro si rischia di rialimentare l’apparizione di patologie, nuove e anche vecchie
“Abbiamo fatto molta strada nell’impegno su diverse malattie endemiche, dalla malaria alla tubercolosi”, spiega lo stesso Gates al Corriere della Sera - ma il progresso non è inevitabile. Sul fronte dell’Aids, ad esempio, da qui al 2030 avremo ben 5 milioni di morti in più se si materializzerà un taglio dell’assistenza del 10 per cento”. E non è solo un’ipotesi: “La riduzione di fondi che si sta delineando in varie realtà”.
Discorso analogo sui vaccini, che hanno salvato in questi anni milioni di vite alzando significativamente la speranza di vita ovunque: “Una fortuna che è anche un handicap: abbiamo avuto talmente tanto successo con le vaccinazioni che la gente nei Paesi avanzati non vede più da decenni morti per malattie di questo tipo”. Fino a far percepire quei risultati, appunto, come scontati. “Sta diventando un nodo dolente in molti Paesi avanzati, dove in una parte limitata ma significativa della popolazione si registra una crescente diffidenza nei confronti delle vaccinazioni e un’aperta ostilità per la profilassi obbligatoria dei bimbi in età scolastica”, lamenta Gates, e lo lamentano i medici, perfino i più critici e sospettosi verso il mondo della ricerca farmacologica.
180 piazze, medici, altri operatori sanitari e volontari sono lì, a disposizione dei cittadini, per elargire informazioni e raccogliere concrete disponibilità, con la coda del coinvolgimento del campionato di serie A (la quinta giornata, l’infrasettimanale del 19-20 settembre). Si chiama “Match It Now”, è la “settimana della donazione del midollo osseo e delle cellule staminali emopoietiche”, tema su cui molti connazionali sono virtuosi, eppure non basta. Era solo una “giornata”, e lo è ancora a livello mondiale, ora in Italia si è deciso di alzare l’asticella.
A livello globale sono quasi 29 milioni le persone iscritte nel registro dei donatori di midollo, e l’Italia è, assieme alla Francia, il paese più “generoso,” con circa 1700 donazioni all’anno, del resto in maggioranza dai familiari dei malati. Le patologie coinvolte sono principalmente le leucemie acute, ma anche i linfomi, le mielodisplasie (16%), altre neoplasie ematologiche (8%) e patologie non neoplatiche (9%).
In effetti la vicinanza del donatore rispetto al malato è un aspetto clinicamente rilevante. “E' più facile che un individuo che abiti in Sardegna trovi compatibilità con un donatore sardo. Serve un registro ben differenziato che offra scelta nelle diverse Regioni”, spiega il genetista Licinio Contu, presidente della Federazione Italiana Associazioni Donatori Cellule Staminali. La ragione è che “le persone possono ricevere cellule emopoietiche solo da persone compatibili geneticamente, cosa che raramente avviene”, chiosa Nicoletta Sacchi, direttrice del Registro Nazionale Italiano Donatori di Midollo.
Ed è anche per questo che a volte si elude il problema, pensando che una donazione possa non essere realmente utile. E' un ragionamento sbagliato, perché per approdare alle compatibilità i grandi numeri sono necessari, mentre le donazioni destinate agli sconosciuti crollano sotto la modesta cifra delle 200 l'anno. Insomma, siamo nell’insieme generosi, ma perlopiù quando c’è un’emergenza che ci coinvolga.
C’è un’altra barriera che sotto sotto incombe, ossia la paura che ci possa “far male”. Non è così, soprattutto con le nuove tecnologie. Per donare cellule staminali emopoietiche bastano, nella maggioranza dei casi, prelievi analoghi a quelli che si fanno quando si dona il sangue. La donazione può anzi fare assai bene, anche al donatori. “Con le donazioni si attivano controlli e valutazioni che altrimenti non si farebbero”, ricorda il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi.
Alcuni titoli giornalistici (anche di testate assai serie) sono fuorvianti, lanciando l’ipotesi controcorrente che “i grassi fanno bene”. La realtà, emersa da uno studio americano pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, è un po’ diversa, e meno “confortante”, soprattutto per noi mediterranei. Il tema è la cosiddetta, e piuttosto controversa, “dieta chetogenica”, un percorso alimentare che si caratterizza per l’abbondanza di proteine, piuttosto che di grassi, e soprattutto per il sacrificio dei carboidrati.
Il presupposto è che il livello basso di questi ultimi riduce l’impiego corporale di glucosio, il che permetterebbe di produrre composti chiamati appunto “chetoni” che alimenterebbero l’energia necessaria a bruciare grassi. Confrontando tale dieta con altri regimi alimentari è infatti emerso che la prima avrebbe un impatto positivo sia sulla longevità, sia sulla memoria, sia sulle funzioni motorie (forza e coordinamento), e perfino sui marcatori di rischio tumorale. In sintesi, essa sarebbe capace di rallentare in modo rilevante gli effetti dell’invecchiamento.
Gli stessi ricercatori si son detti “sorpresi e impressionati” dalla differenza riscontrata: un aumento del 13% della vita media dei topi coinvolti nello studio, che hanno seguito una dieta ad alto contenuto di grassi e meno carboidrati, che nell’uomo sarebbe pari a 7/10 anni di vita in più”.
Quell’equazione è peraltro solo virtuale. Sebbene gli studiosi ricordino che alcune caratteristiche metaboliche di fondo sono analoghe tra roditori e umani, l’equivalenza non esiste, tant’è che per qualsiasi conclusione definitiva in ambito medico-scientifico serve il passaggio a una sperimentazione sulle persone. Saranno pertanto necessari ulteriori riscontri, a iniziare dalla ricerca di base.
Nel frattempo, rimane inoltre essenziale evitare il “fai da te”, privo di consulti di specialisti, soprattutto dinanzi alla tentazione di scelte alimentari drastiche. Nondimeno l’indicazione sembra piuttosto chiara, a conferma quantomeno del fatto che il nostro amore per i carboidrati vada soddisfatto con cautela.
Una storia disperata, con un lieto fine che si avvera proprio nel nostro paese e che spalanca una strada finora ritenuta inesplorabile in ambito pediatrico. I protagonisti sono Milana, una bimba ucraina di 2 anni, e l’Irccs Ismett di Palermo. La piccola, sin dalla nascita, soffriva di un’atresia delle vie biliari, che l’ha indotta a un’insufficienza terminale epatica, con l’aggravante di aver contratto l’epatite C, sembra al seguito di una trasfusione di sangue infetto praticatale nel suo Paese d’origine.
L’associazione di una doppia patologia, dunque, rara e grave, e per giunta ritenuta una condizione ostativa sia al trapianto del fegato che, soprattutto, a un trattamento farmacologico anti-virale. Nelle parole del professor Jean de Ville de Goyet, che l’ha poi curata, “quando si è costretti a procedere con il trapianto del bambino in età precoce, la progressione della malattia diventa molto veloce ed il rischio che l’organo trapiantato si ammali nuovamente rendendo il trapianto vano è molto elevato”.
Ed è anche per questo che i familiari si sono trovati ad affrontare diversi no, anche da altri Paesi. In Polonia, ad esempio, racconta la madre Olga, “mi hanno detto che la cura per l’epatite C non era prevista per bambini così piccoli”.
Si è allora giunti alla disponibilità offerta dall’Istituto siciliano, anche per il tramite di una macchina internazionale di sensibilizzazione e solidarietà, per finanziarle il viaggio e per la donazione di organi ed emocomponenti. La scorsa primavera è stato eseguito l’intervento, con trapianto di fegato (donato dalla mamma stessa), seguito da un protocollo sperimentale incardinato su medicinali ad azione anti-virale. L’esito è stato eccellente, con un fegato perfettamente funzionante, senza traccia dell’epatite. “Ha ripreso tutto, dorme tutta la notte, gioca con suo fratello. E’ ritornata ad essere una normale bambina di due anni”, il racconto emozionato della donna.
L’eccezionale novità sta nel fatto che mai un paziente così piccolo era stato trattato con questi farmaci. Ed è un risultato che può estendersi anche al di fuori dei casi di trapianto, quando si preferisce evitare gli anti-virali per il motivo opposto, ossia per il fatto che la progressione di tale patologia nei bambini è solitamente lenta, sicché si preferisce attendere la guarigione prima di somministrarli. A detta dei medici palermitani, si è quindi aperto uno spiraglio inedito, che per molti bambini può essere risolutivo.
Da chiarire subito, a detta degli stessi studiosi americani che hanno scoperto potenziali benefici antitumorali dallo studio di Zika, non si tratta affatto di una smentita circa gli “effetti neurologici devastanti” del virus. Lo scorso novembre l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva declassato l’allarme, lanciato nove mesi prima, quale “emergenza sanitaria globale”, ma ne ha confermato le insidie e l’esigenza di strategie di lungo periodo per una patologia che ha colpito, tra gli altri, almeno un milione e mezzo di brasiliani, con la documentata conseguenza, in particolare, di circa duemila casi di microcefalia, trasmessa dalle gestanti per via fetale.
Nel medesimo orizzonte di lungo periodo balza però una novità promettente, già testata in vitro e su animali. E’ stata annunciata nei giorni scorsi sul Journal of Experimental Medicine, da una ricerca condotta da universitari di Washington e San Diego. Avrebbero documentato che il virus stesso avrebbe la capacità, oltre che di uccidere le cellule progenitrici dei neuroni (ingenerando le anomalie nei feti), anche di eliminare le cellule staminali impazzite. Addirittura, riuscirebbe a debellare quelle che resistono a chemioterapie e radioterapie, legate al “glioblastoma”, ossia alla forma più diffusa (e tra le più letali) di cancro al cervello. L’azione sarebbe per giunta selettiva, bersagliando cioè specificamente le cellule malate e risparmiando quelle sane.
Da notare inoltre che il ceppo utilizzato nella sperimentazione su roditori malati era poco aggressivo, ossia una forma di Zika facilmente contenibile, nei suoi effetti pericolosi, dal sistema immunitario dell’organismo. Al contempo, tuttavia, l’esito è stato rilevante ma non risolutivo, risultando perlopiù efficace nel rallentare la progressione tumorale, non a eliminarla del tutto.
L’intuizione dei ricercatori statunitensi circa i potenziali benefici del “principio attivo” del virus ha dunque trovato riscontro positivo dai test preliminari, ma serviranno perfezionamenti e altre sperimentazioni, anche perché non è detto che il passaggio all’uomo rechi i medesimi effetti. Nondimeno la novità c’è, e apre una strada del tutto nuova nella strategia antitumorale. L’impatto per i pazienti non è dietro l’angolo ma neppure troppo lontano, a parere degli scienziati. “Crediamo che l’utilizzo di Zika in combinazione con le attuali terapie arriverà a sradicare l’intero tumore”, dicono.
Quando incoraggiate I bambini a fare qualche attività fisica non state dando loro solo l’opportunità di un’adeguata e corretta crescita fisica. Il consiglio si rivelerà prezioso anche per le ricadute in età avanzata, con riferimento perfino alle capacità cognitive. Insomma, il “mens sana in corpore sano” prescritto dai latini (che per la verità davano alla frase un significato leggermente diverso) è più che mai valido, e lo è perfino nel lunghissimo termine.
La conferma arriva dalla Deakin University di Melbourne, con uno studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Ageing Neuroscience, che ha riesaminato la letteratura scientifica in materia. Emerge, e non sorprende, che l’età tra i 40 e i 60 anni è decisiva per costruire le difese contro la demenza. Gli ultra-settantenni che hanno svolto negli anni precedenti almeno un paio d’ore di attività fisica settimanale (anche moderata) hanno rischi quasi dimezzati di sviluppare l’Alzheimer.
Il dato più sorprendente è però un altro, ossia che l’attività fisica nell’adolescenza risulta statisticamente il più forte fattore protettivo contro il deficit cognitivo a 71 anni. La ragione è nel lungo respiro temporale dei cambiamenti cerebrali, che possono tra l’altro manifestare segni di degradazione già vent’anni prima che compaiano seri problemi di memoria.
Il nesso viene spiegato con riferimento all’aumento, alimentato dall’esercizio fisico, dell'ormone della crescita chiamato IGF (insulin-like growth factor) che ha una forte influenza sulla memoria. “Si riteneva che fossimo nati con tutte le cellule cerebrali che avremo avuto a disposizione nel corso della nostra esistenza, ora sappiamo invece che le cellule cerebrali si possono rigenerare nel corso del tempo e che l'esercizio può promuovere una nuova crescita", spiegano gli studiosi australiani.
Si tratta di indicazioni intriganti, che sottolineano le connessioni, anche in un quadro temporale esteso, tra salute fisica e psichica. “Tradizionalmente pensiamo che l’attività fisica porti a benefici cerebrali indiretti, quali il calo di rischio di obesità, diabete, malattie cardiovascolari, tumori, ma all’evidenza emerge un ruolo più diretto, strutturale e funzionale”, aggiungono da Melbourne. In particolare, spiegano, “l’esercizio fisico promuove sia la neuroplasticità - ossia la capacità del cervello di adattarsi continuamente nell’arco della vita – che la neurogenesi – ossia la nascita di nuovi neuroni”. Il mantenimento di tali qualità è protetto dall’attività motoria in età avanzata, ma la loro genesi, a quanto pare, viene avviata in giovanissima età.
Le cifre sono impressionanti, e per giunta in crescita. A livello globale le ha rivelate nei giorni scorsi un’indagine dell’Università di Washington pubblicata sulla rivista The Lancet Respiratory Medicine. I malati di sindrome polmonare cronico-ostruttiva (BPCO) sono un’enormità, quasi 175 milioni (e si tratta solo di casi accertati, ci sono stime che raddoppiano tale cifra), e ne muoiono 3,2 l’anno (proiezione su dati 2015), con un aumento costante negli ultimi trent’anni. Nel dettaglio, i decessi erano stati 400mila in meno nel 1900, e lo scarto è ancor più esteso sulle persone ammalate, incrementate del 44,2% in tale lasso.
La differenza tra i due scarti rivela comunque qualche timido segnale positivo. Se ci si ammala di più e si muore di meno vuol dire che qualche passo rilevante è stato fatto a livello di terapie. Quella differenza è ancora più palese per l’asma, aumentato del 12,6%, mentre i decessi si sono ridotti del 26,2%, scendendo sotto la soglia dei 400mila morti annui.
In secondo luogo, anche a detta degli studiosi americani, tali aumenti non sono dovuti a un peggioramento della salute mondiale della popolazione, semmai al suo invecchiamento. Altro dato di relativo sollievo, il problema è esteso anche in Italia, ma un po’ meno rispetto agli altri Paesi avanzati. Sulla BPCO si rilevano 1.765 casi su 100mila abitanti, mentre negli Stati Uniti sono a quasi il doppio. Per quel che riguarda l’asma, i casi sono 3.756 su 100mila, nel Regno Unito quasi il quadruplo.
A incidere su questo andamento sono gli aspetti climatici (legati alla qualità dell’aria, per ragioni climatiche e per diversi livelli di inquinamento), ma anche una presa di coscienza e relativa riduzione (pur solo graduale, con qualche periodico segnale di controtendenza) di alcune cattive abitudini personali, a iniziare dalla più deleteria per il respiro, la sigaretta.
Fondamentali, in tutto questo, anche i progressi scientifici. A Parma, lo scorso maggio, gli esperti mondiali sono convenuti nel “Respiration Day”. Tra le tante novità della ricerca in materia figura anche quella proposta dall’ospitante Fondazione Chiesi: un unico inalatore per a tripla azione, contenente un antinfiammatorio corticosteroide per via inalatoria, un broncodilatatore agonista a lunga durata e un broncodilatatore antagonista del recettore muscarinico. Un dispositivo che semplifica il trattamento con l’obiettivo di aumentare i livelli dell’aderenza terapeutica
Per sconfiggere l’avversario bisogna conoscerlo, e soprattutto capire perché le difese endogene a volte non funzionino. E’ su questa direttrice che i ricercatori dell’IRCCS dell’Ospedale San Raffaele, in collaborazione con altri istituti lombardi, hanno messo a fuoco il comportamento della proteina p53, nota come il “guardiano del genoma”, nelle sue azioni difensive e nei suoi inceppamenti. Comprenderli significa capire la genesi di molti meccanismi tumorali, e quindi le possibilità di cura.
L’osservazione diretta è stata possibile grazie a una tecnica di microspia innovativa, elaborata nel medesimo centro universitario-ospedaliero. L’aspetto di base è che tale “guardiano”, dinanzi a un danno cellulare, si trova di fronte a due opzioni difensive: avviare un processo di correzione degli errori del DNA o viceversa innescare l’autodistruzione della cellula stessa.
Il problema è che la sola presenza abbondante di tale proteina non è sufficiente a garantire quelle difese, tant’è che il 70% dei tumori è associato a una mutazione genetica che la colpisce e ne danneggia la struttura e potenzialità. Ma il nodo è anche un altro, ossia che il restante 30% si sviluppa anche in assenza di tale mutazione della p53. E’ ad esempio il caso del “neuroblastoma”, un cancro al cervello che colpisce soprattutto i bambini.
C’è dunque un problema di “comportamento” da parte del guardiano. A volte esso è ben presente, senza mutazioni, ma non funziona. Ebbene, all’evidenza dell’osservazione è emerso che la proteina ha bisogno di un aiuto esterno, per preservare la sua funzione anti-tumorale. Nelle parole dell’ideatore dell’apparecchiatura, il fisico Davide Mazza, “solo se attivata, p53 è in grado di associarsi al DNA abbastanza a lungo da avviare i processi per cui è programmata e grazie ai quali i tumori hanno vita tanto difficile”.
In altre parole, la p53 non si attiva da sola, ha bisogno dell’aiuto all’attivazione da parte di altre proteine. Il nostro corpo è un sistema complesso, le cui “cause prime” presentano dinamiche interrelate il cui protagonista non è uno solo, ma tanti. E’ un passo essenziale, dunque, per la comprensione dei meccanismi tumorali e dei bersagli più appropriati per la ricerca terapeutica. E forse anche per la comprensione del nostro sistema cellulare nel suo insieme.
http://www.hsr.it/press-releases/svelato-il-comportamento-del-guardiano-del-genoma/
Il messaggio è da passare con massima attenzione, perché si tratta del campo minato di uno dei comportamenti più deleteri nella storia dell’umanità, ossia il consumo, e soprattutto l’abuso, di alcol. Nondimeno, è interessante, e per certi versi sorprendente, l’esito annunciato da due ricerche europee in materia, che mettono in evidenza alcuni effetti viceversa benefici, naturalmente sempre con il condizionale delle piccole quantità.
La prima, realizzata dall’Università austriaca di Graz e pubblicata sulla rivista “Consciousness and Cognition”, rileva virtù sul piano cognitivo. L’esperimento è stato condotto su due gruppi, in uno si beveva una pinta di birra, nell’altro la si consumava analcolica, e dopo la consumazione i partecipanti venivano sottoposti a una serie di test intellettivi. Anzitutto, è risultato un “pareggio” tra i due gruppi sul piano della generale “capacità di pensiero”. Sul resto, gli “astemi” hanno vinto su un solo aspetto, la “capacità di controllo esecutivo” sul proprio operato.
Ma su altre variabili, è stata la “pinta” a trionfare. In particolare, una (lieve) alterazione sembra avere il potenziale di “sprigionare la creatività”. Viene in mente la buffa risposta dello scrittore Stephen King a chi gli chiedeva se bevesse: “Certo, l’ho già detto che sono uno scrittore”. Non si tratterebbe comunque solo di “fantasia artistica”, ma anche di “resilienza”, ossia di capacità di risolvere i problemi sfuggendo alle barriere razionali e trovando la via d’uscita altrove.
Il vero colpo di scena arriva però dalla Danimarca, dove gli studiosi hanno affrontato il caso del diabete di tipo 2, per il quale su cui l’alcol è generalmente (e giustamente, se assunto in grande quantità) ritenuto un serio fattore di rischio. L’Università di Copenhagen ha quindi riesaminato i dati sui consumi di oltre 70mila persone, svelando infine un colpo di scena. Se cioè l’alto consumo alcolico ha confermato l’aumento di esposizione al diabete, le “piccole quantità” sono risultate non solo innocue, ma addirittura utili alla prevenzione.
L’indagine ha preso in considerazione diverse tipologie di bevande. Tanto per fare qualche esempio, è emerso che gli uomini che bevono un paio di bicchieri di vino al giorno hanno un rischio addirittura dimezzato di contrarre il diabete. Anche una birra farebbe bene, sebbene con una riduzione di rischio inferiore, pari a circa il 21%. Insomma un paio di bicchierini, negli ambiti qui citati, sono addirittura amici della salute. La sfida è semmai quella di fermarsi lì, perché andare “oltre” resta deleterio.
Può sembrare solo un tema frivolo per animare la dialettica tra gli ombrelloni. Invece il quesito è serio e interroga gli scienziati, alla ricerca di una migliore comprensione della nostra struttura cerebrale, anche nelle dimensioni “di genere”, al fine ultimo di migliorare gli aspetti di prevenzione e di terapia dei disturbi neuro-degenerativi stessi.
La sussistenza di differenze tra i sessi nei meccanismi cognitivi è un fatto oramai consolidato nella ricerca medica, oltre che nell'ambito psico-antropologico, che però manca ancora di una “mappatura” dettagliata delle attività tra le varie aree del cervello. Ed è proprio quel che hanno ora tentato gli scienziati di un istituto californiano di Newport Beach, con una robusta ricerca pubblicata sul Journal of Alzheimer's Disease.
Sono state fatte oltre 46mila scansioni cerebrali tramite la risonanza detta Spect (tomografia a emissione di fotone singolo), su ben 128 regioni del cervello, ripetendole mentre i soggetti, di ambedue i sessi, erano impegnati in test cognitivi oppure a riposo, e valutando la diversa intensità degli flussi di sangue.
Da tutto questo è emersa una differenza rilevante tra i due sessi: le donne sono risultate particolarmente attive sia nella corteccia prefrontale – associata nel controllo degli impulsi e della messa a fuoco - che nel sistema limbico – che regola le “emozioni”. L’attività cerebrale maschile ha però comunque segnato una “rivincita” nelle aree legate al coordinamento. Segnali che peraltro tendono a confermare che molti pensano intuitivamente. Emergerebbe dunque una superiorità femminile nel riconoscimento delle emozioni, nell’intuito, nella capacità empatica verso l’altro, mentre gli uomini si difenderebbero nell’ambito dell’analisi razionale.
L’obiettivo della ricerca era comunque terapeutico, mirando anzitutto a identificare le ragioni dell’esposizione a diverse patologie. Da quest’ottica, risulta che il genere maschile “vinca” in fatto di problemi “comportamentali” (incluso l’ambito criminale), ma le donne sono specularmente più esposte ad ansia, depressione, insonnia, disturbi alimentari e perfino patologie gravi come l’Alzheimer. Chissà se dietro a tutte queste verità fisiologiche non agiscano variabili culturali, antiche, di ruolo sociale. Qualunque sia la ragione prima, o ultima, la differenza c’è, e la sua comprensione è cruciale in vista di una “medicina di precisione”, nella quale il genere dei pazienti appare un fattore essenziale.