Sulla qualità della nostra alimentazione conta anche l’orario, con tutto quel che consegue per il peso-forma e molto altro. Una ricerca sperimentale dell’Università della Pennsylvania, presentata nei giorni scorsi al Congresso Mondiale “Sleep 2017” a Boston, ha dimostrato più che mai il nesso tra la tempistica dei pasti e una catena di effetti per la salute.
Il “background” della ricerca era nel pregresso di conoscenze proprio sui disturbi del sonno - più che sul cibo di per sé – ossia sul loro impatto sui problemi di peso e sul processo metabolico nel suo insieme. E si è incrociato sistematicamente tale “acquis” con il tema di “quando si mangia”. Il gruppo di volontari è stato quindi sottoposto per otto settimane a un regime alimentare (tre pasti completi e un paio di spuntini) che si esauriva tra le 8 del mattino alle 19 di sera, e per altre otto (col “cuscinetto” di un intervallo di due settimane) la medesima dieta è stata traslata in avanti di quattro ore.
L’effetto è stato evidente. Mangiando più tardi il peso aumentava, e per giunta si innescavano altri profili metabolici negativi per la salute, con tra l’altro l’aumento della produzione di insulina, di glucosio a digiuno, di colesterolo e di trigliceridi, e quindi di rischi di diabete, problemi cardiovascolari e perfino respiratori.
Su tutto questo sorge il sospetto di una possibile controindicazione. Quella secondo cui il mangiare “troppo presto” possa incentivare l’abitudine, deleteria per la salute, di mangiare in uno stato pseudo-sonnambolico, in tarda notte. E invece no, al contrario il consumo diurno sembra agevolare conseguenze anche ormonali che “saziano” meglio il corpo, inibendo le irregolarità alimentari.
“Cambiare le abitudini alimentari non è mai facile, ma mangiare prima può valere davvero la pena per prevenire effetti sanitari cronici”, dicono gli studiosi. Il messaggio universale è dunque che anticipare un pochino i pasti, rispetto alle proprie consuetudini, non può far altro che bene.
La diagnosi precoce è sempre cruciale, e lo è in particolare per una patologia come il Parkinson, in cui il ritardo è un problema assai diffuso. Quando viene effettuata, larga parte dei neuroni dopaminergici – fondamentali per il movimento – risulta spesso già compromessa, mettendo a serio rischio l’efficacia dei trattamenti esistenti, potenzialmente capaci di prevenire o almeno ritardare la malattia. In tutto questo sta l’importanza delle novità sulla diagnostica.
L’ultima è annunciata (tramite una pubblicazione sulla rivista Brain, nonché presso il recente Congresso mondiale sul Parkinson, tenutosi a Vancouver) da un neurologo italiano, Lazzaro Di Biase, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, in collaborazione con l’Università di Oxford. Si tratta di un semplice orologio da polso, già brevettato, che consentirebbe di rilevare in una decina di secondi non solo il tremolio delle mani (che può derivare da una pluralità di motivi), ma anche l’eventuale presenza specifica del morbo.
“Da anni i neurologi tentavano di arrivare a questo strumento, un indice diagnostico non invasivo, con un'accuratezza vicina al 92%”, rivendica Di Biase, ricordando le tecniche onerose (foriere anche di lunghe liste d’attesa) finora in uso, come lo “Spect cerebrale”. Qui si tratterebbe invece di un semplice dispositivo che “necessita solo di un accelerometro che costa dai 3 ai 15 euro”.
Una buona notizia, insomma, per i circa i 300mila malati di Parkinson, e soprattutto per quelli futuri. Il tema dell’orologio ha suscitato del resto altre novità tecnico-scientifiche. Nei mesi scorsi un documentario della BBC (della serie chiamata “The Big Life Fix”) ha svelato i buoni esiti dell’esperimento di un altro orologio su misura, che aiuterebbe i malati a recuperare la capacità di scrivere e disegnare, limitando i tremori e incrementando le capacità manuali di controllo.
Applicazioni diagnostiche e fisiologiche innovative, ma anche tecniche psicologiche di recupero cognitivo. L’orologio è protagonista, da tempo, di sperimentazioni efficaci nell’ambito di varie patologie neurodegenerative, incluso l’Alzheimer: sin dagli anni ’80, in Svizzera, una ricercatrice di origine italiana, Angela Furlan, sperimentò una metodica psicoterapeutica incentrata proprio sul ruolo fondamentale delle capacità di controllo temporale.
“E’ una sanità pubblica in prognosi riservata”, lamenta la Fondazione Gimbe nel suo ultimo rapporto, discusso nei giorni scorsi in Senato, sulla “Sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale” riferita primariamente ai prossimi anni. Il dato critico di base è oramai piuttosto chiaro, quello di una “domanda di salute” che cresce in relazione all’invecchiamento della popolazione e al contempo di “un’offerta” messa a rischio dalle esigenze di bilancio pubblico. In mezzo ai grandi numeri, sale la sofferenza dei singoli, con la piaga, confermata proprio in questi giorni da un altro rapporto realizzato dal Censis, sugli italiani costretti a rinunciare alle cure.
Nel mirino del Gimbe anzitutto i tanti sprechi, tra corruzione, inefficienze e visite inutili (al prezzo di non garantire talvolta quelle necessarie), conteggiati nel 2016 a oltre 22 miliardi di euro, seppure in lieve calo rispetto all’anno precedente. E poi c’è una denuncia politica esplicita: “Secondo il Def 2017 nel triennio 2018-20 il rapporto tra spesa sanitaria e Pil diminuirà dal 6,7% del 2017 al 6,5% nel 2018. E arriverà al 6,4% nel 2019: per la prima volta sotto la soglia d'allarme fissata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, pari al 6,5%, al di sotto della quale si riducono le aspettativa di vita”, spiega il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta, che specifica: “Se inizialmente il definanziamento della sanità era conseguenza della crisi, oggi invece è diventata una costante irreversibile”.
Una scelta deliberata, dunque, e per giunta evitabile. La stessa Fondazione, con un “position statement”, ha ribadito nei mesi scorsi l’enorme potenziale offerto da un più esteso ricorso ai farmaci equivalenti che, seppur in recupero, vedono l’Italia ancora in ritardo rispetto agli altri paesi avanzati. Ed è su quel ritardo che è iniziato il secondo anno di campagna “IoEquivalgo” della rete associativa di Cittadinanzattiva, per informare i cittadini proprio sulla documentata e completa equivalenza dei generici, a un prezzo inferiore.
A pagare tali ritardi sono i cittadini, fino al punto di dover abbandonare le terapie. Il Censis rilancia l’allarme, ed è un allarme in preoccupante crescita. Nell’ultimo anno, si legge nel suo rapporto, gli italiani che hanno rinunciato o rinviato le prestazioni sanitarie sono stati addirittura 12,2 milioni, oltre un milione in più rispetto al 2015. Di questi, due terzi sono affetti da malattie croniche, a basso reddito, le donne e i non autosufficienti.
Per giunta, i pazienti hanno speso di tasca propria per le cure non di meno, ma di più, addirittura 35,2 miliardi solo l’anno scorso. Insomma, si taglia pian piano sul Servizio Pubblico, scaricando i costi sulle tasche dei cittadini, molti della quali non ce la fanno più. Non pare un modello accettabile, senza la salute un Paese non può star bene.
E’ un problema diffuso quanto sottovalutato. Le disfunzioni della tiroide sono state oggetto a fine maggio, non senza qualche colpa di sottovalutazione dei grandi media, di un’apposita “Settimana” e, all’interno di essa, di una “Giornata”, promossa dalle associazioni internazionali ed europee, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa tematica.
Pur agendo da co-protagonista nell’equilibrio metabolico dell’organismo umano la tiroide resta una ghiandola poco conosciuta e i sintomi del suo malfunzionamento si prestano facilmente, almeno nelle fasi iniziali, ad essere confusi con altre problematiche. Un eccesso (l'ipertiroidismo), infatti, provoca un'accelerazione dei processi, causando dimagrimento, irritabilità, rischi cardiovascolari, mentre un difetto (l'ipotiroidismo), li rallenta, innescando anche stanchezza, a volte difficoltà di concentrazione, in qualche caso anche depressione. Nelle difficoltà di diagnosi capita dunque di non accorgersi subito della natura del problema che, in realtà, è assai diffuso, coinvolgendo – si stima – circa sei milioni di italiani.
Qualche problema c'è nell'ambito terapeutico, con la recente presa d'atto di un eccesso di interventi chirurgici in Italia, a fronte di buoni rimedi farmacologici. “Il carcinoma tiroideo ha un comportamento clinico peculiare: difficilmente infiltra i tessuti circostanti, crea metastasi e porta a morte il paziente. Molte di queste varianti “buone” per anni sono state trattate come tutti gli altri tumori e asportate chirurgicamente”, spiega Luciano Pezzullo, presidente dell'Associazione delle Unità di Endocrinochirurgia Italiane.
Non mancano peraltro le buone notizie, anche sul fronte della prevenzione, inclusi gli esiti del programma nazionale di “iodioprofilassi” introdotto dodici anni fa. La carenza di iodio è riconosciuta come un rilevante fattore di rischio, specie in gravidanza. Il fabbisogno quotidiano di iodio in un adulto sano è di 150 microgrammi, e sale quasi al doppio fino all’allattamento. Ebbene, in base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, sia sulle vendite che sulla situazione clinica degli italiani, emerge che in solo una dozzina d’anni il consumo di sale iodato ha superato il 60% di quello complessivo di sali, raddoppiandosi.
Li hanno presi, frullati, liofilizzati e chissà che altro. Poi li hanno lanciati nello spazio. E loro - tomi tomi, avrebbe commentato Totò - hanno mantenuto integralmente la loro funzionalità biologia nell’arco di nove mesi, con tassi di fecondazione e nascita analoghi a quelli “terrestri”, tant’è che al ritorno sul pianeta hanno procreato prole sana e a sua volta fertile, generando poi “nipoti” altrettanto sani. Il tutto in un ambiente spaziale bombardato da radiazioni circa un centinaio di volte superiori rispetto a quelle registrate sulla superficie terrestre.
Protagonisti della singolare avventura gli spermatozoi di topolini al centro di una costosa ricerca giapponese che ha coinvolto la Stazione Spaziale Internazionale (Iss) nel tentativo di mettere un punto fermo sulle prospettive anche sanitarie di un’eventuale vita extraterrestre. Il tema è serio e affascinante, anche per la ricerca medica, tanto da meritare la pubblicazione nella rivista scientifica internazionale Pnas, sebbene a detta degli stessi scienziati dell'Università di Yamanashi permangano “quesiti e dubbi da sciogliere”.
Lo studio sembrerebbe comunque dimostrare che la riproduzione extraterrestre è possibile tra i mammiferi e che esiste anche un potenziale per la costruzione di una “banca del seme”, analoga a quella allestita per le piante in un’isola norvegese.
Certo i dubbi ci sono, ma forse c’è anche tutto il tempo per cercare di risolverli: “Se i campioni di sperma dovessero essere conservati nello spazio per periodi più lunghi è probabile che i danni genetici aumenterebbero e supererebbero le capacità riparative degli ovuli”, ipotizzano ad esempio gli studiosi nipponici. Gli stessi hanno però già ipotizzato qualche soluzione, suggerendo che uno scudo di ghiaccio potrebbe servire a proteggere i campioni dalle radiazioni.
E c’è anche chi nota che l’orbita dell’Iss non è abbastanza lontana da consentire la simulazione di una sperimentazione “lunare” o ancor più remota. “L’orbita dell’Iss si trova sotto la protezione della fascia di Van Allen, il campo magnetico che devia le radiazioni più alte evitando che colpiscano la Terra”, ha infatti commentato uno scienziato alla Bbc, osservando che il problema non sta solo nel concepimento, ma anche nella protezione della gestante nell’arco dei nove mesi.
Difficile per ora prevedere le ricadute immediate dello studio per la ricerca medica. Sembra plausibile però ritenere che siano state poste le basi per evitare l’estinzione delle varie specie quando il sole finirà il suo ciclo: un appuntamento che gli esperti collocano tra circa 5 miliardi di anni.
C’è un “mantra” che si ripete nel mondo della salute: più precoce è la cura migliori sono i risultati. Ed è vero: troppo spesso le diagnosi tardive rendono meno efficaci i trattamenti e le possibilità di guarigione. A volte, però, accade il contrario e si esagera per eccesso. Ne è convinta la Fondazione Gimbe - istituita per sostenere la formazione continua degli operatori sanitari, migliorare la qualità metodologica della ricerca e l’interazione con le decisioni professionali e di politica sanitaria - che proprio di recente ha lanciato un allarme in materia di chirurgia, contestando l’eccesso di esami prima di un intervento, facendo anche riferimento alle “linee guida” dell’autorità britannica in materia.
“L'utilizzo routinario di test preoperatori per la chirurgia elettiva non incide sulla gestione chirurgica e il riscontro di risultati falsamente positivi genera un ulteriore sovra-utilizzo di prestazioni, come terapie inappropriate, consulti specialistici ed esami invasivi che possono determinare danni ai pazienti”, denuncia Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione. Non è un monito da poco, soprattutto se si tiene conto delle conseguenze dichiarate: sprechi economici e di tempo, “ritardi nel processo chirurgico” e, infine, danni per il paziente.
Il Gimbe fa riferimento per inciso anche alla norma contenuta all’articolo 5 della legge n. 24/2017 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 17 marzo), dove il dimostrato rispetto per le “linee guida elaborate da enti e istituzioni pubbliche e private nonché da società scientifiche, oltre che da buone pratiche clinico-assistenziali” varrebbero come ciambella di salvataggio contro eventuali accuse di imperizia. Il tema è quello - delicatissimo – della responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. Il punto nodale è che in Italia le buone pratiche ci sono, le linee guida formalmente ancora no.
In mancanza di meglio Gimbe fa riferimento alle direttive del National Intitute for Health and Care Excellence, che parte da un suggerimento solido e pieno di buon senso: “Includere i risultati di tutti i test pre-operatori effettuati dal medico di famiglia quando si richiede un consulto chirurgico, oltre che considerare tutti i farmaci assunti dal paziente prima di effettuare qualsiasi test pre-operatorio, proprio per evitare inutili duplicazioni”. Si può fare. Si dovrebbe fare. Anche senza guideline.
“I bambini crescono”, titola il 73mo Congresso della Società di Pediatria (Sip), in corso tra il 29 maggio e il I giugno a Napoli, lanciando già un duplice, correlato messaggio: “La pediatria è uscita dal confine temporale dell’età evolutiva - spiega il Presidente della Società Alberto Villani - “ha responsabilità dello stato di salute per tutta la vita, perché ciò che avviene nei primi anni fa la differenza”. A questo si lega il tema più specifico, quello dell’adolescenza, che segna il passaggio dall’età pediatrica a quella adulta, configurando talora un “limbo” anche sotto il profilo dell’assistenza sanitaria.
E all’evidenza il bisogno c’è ed è altissimo. Si stima che oltre il 15% dei ragazzi tra i 15 ai 17 anni soffra di una malattia cronica, e il 3,2% ne hanno addirittura più d’una, a iniziare dalle patologie allergiche e quelle respiratorie. Sono cifre che echeggiano un allarme, ancor più forte ed esteso, lanciato proprio nei giorni scorsi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), con la pubblicazione del Rapporto “Global Accelerated Action for the Health of Adolescents (AA-HA!): Guidance to Support Country Implementation”. Un richiamo all’attenzione nell’ambito dei Piani Sanitari nazionali, e la denuncia di un dato di fondo largamente negletto, ossia il decesso nel mondo di tremila ragazzi al giorno, ossia 1,2 milioni l’anno.
Nello specifico, le principali cause sono anzitutto gli incidenti stradali, poi le malattie respiratorie, in alcune aree del pianeta perfino le complicazioni della gravidanza, i disturbi neurologici, nonché i suicidi e i decessi accidentali legati a comportamenti autolesionistici. Da notare che questi ultimi salgono addirittura al vertice delle cause di morte tra gli adolescenti in Europa.
Dall’Oms le raccomandazioni spaziano dall’educazione scolastica nelle scuole, limiti più stretti al consumo di alcol, e soprattutto un’assistenza sanitaria adeguata. Il passaggio dal pediatra al medico di famiglia, tra i 14 e i 16, è un momento delicato, che viene sostanzialmente lasciato alla discrezione e responsabilità dei singoli operatori e famiglie. Addirittura, “ci siamo accorti con stupore che esiste una larga fascia di ragazzi per i quali il Sistema Sanitario Nazionale non prevede visite mediche – ha denunciato nei mesi scorsi Piernicola Garofalo, presidente della Società Italiana per la Medicina dell’Adolescenza. Insomma si possono fare psicologie e sociologie, ma il dato di fondo è che quei ragazzi non ricevono l’attenzione che richiedono.
Un Paese ancora relativamente “sano”, un Servizio Nazionale che, pur tra mille difficoltà e limiti, assicura ancora settori di eccellente assistenza, virtualmente rivolti a tutti. Ma anche una popolazione dove in tanti, troppi, a causa delle difficoltà economiche che continuano a mordere, arrivano al punto di non curarsi. Sono anni che denunciamo questa tendenza, e l’Istat, nel suo Rapporto annuale sulla Salute divulgato in questi giorni, ne fornisce un’amara conferma, con riferimento anche al lettino del dentista.
Nel 2015 il 6,5% degli italiani ha rinunciato alle terapie a causa dei loro costi, nel 2008 erano solo il 4%. E se poi si mette la lente sulle sperequazioni regionali e sociali, emergono realtà ancor più drammatiche. La proporzione di rinunce sale a oltre il 10% nel Mezzogiorno, e supera il 14% tra le fasce di reddito più deboli. Dati che poi si riflettono sulle condizioni di salute della popolazione, che risultano migliori al Nord Italia, nonché tra i più ricchi.
Insomma, l’amara realtà è che il portafoglio è un passaporto anche in quest’ambito, e la salute orale non fa eccezione. Nel 2005 circa il 40% delle famiglie italiane si rivolgeva al dentista o all’ortodontista, proporzione scesa di almeno due punti nell’arco di dieci anni. Per gli addetti ai lavori, si tratterebbe del resto solo di una sottostima del calo avvenuto. E qui, più che mai, il nodo è nei costi. Come documenta anche un’indagine di un’agenzia privata (l’Osservatorio di “UniSalute”), ben il 36% dichiara di aver rinunciato alle cure perché non può permettersele, e il 17% denuncia aumenti di prezzo anche negli ultimi tempi.
Temi che chiamano in causa i decisori, e in effetti, anche in ambito regionale, si è aperta la discussione sull’ipotesi di assicurare le cure odontoiatriche ai meno abbienti, coprendone i costi. Alla buona prospettiva se ne aggiunge un’altra, ossia che sta emergendo qualche segnale di un’inversione di tendenza. I dati Istat si basano sul 2015, ma da un sondaggio dell'Accademia Italiana di Odontoiatria Conservativa e Restaurativa, rivolto ai genitori di ragazzi under 14, emerge che il 90% li hanno portati dal dentista nell’ultimo anno almeno una volta.
Ci sarebbe dunque un recupero, ma i problemi non sono solo economici. La stessa indagine ad esempio rivela che oltre la metà della popolazione non sa che l’eccesso di zuccheri o una scarsa igiene orale siano tra le cause principali della carie, né che vanno curati anche i denti di latte, quando cariati. Alla nostra salute servirebbe dunque un po’ più di sicurezza materiale, ma anche di informazione.
A marzo la Settimana di prevenzione oncologica, ad aprile la Giornata della salute della donna, che ha collocato il tema in prima linea, adesso la “Race of the Cure”, dedicata specificamente ai tumori al seno, che ha allegramente occupato nei giorni scorsi le strade di Roma, proseguendo poi la sua corsa in altre città. Sta accadendo qualcosa in Italia, sulla scia di un lavoro avviato da anni, e si tratta di una diffusa presa di coscienza su quanto si debba e si possa fare per tutelare la salute, anzitutto femminile, in ambito oncologico.
L’evento più “vistoso” si è consumato domenica, con i cinque chilometri di corsa e i due di passeggiata allestiti intorno al Circo Massimo, e numeri da record. Gli organizzatori riferiscono di oltre 65mila iscritti, rendendola quella “con più partecipanti al mondo”, nelle parole di Riccardo Masetti, presidente di Komen Italia, la sezione nazionale della rete Susan G. Komen, attivata da medici e pazienti nel 1982 a Dallas, e poi sviluppatasi con ben 125 affiliati.
La sezione italiana è diventato dunque l’esponente di punta, grazie alla generosità delle persone, tanto da aver raccolto e distribuito in meno di diciott’anni 2,7 milioni di euro, destinati a centinaia di progetti, propri e di altre associazioni impegnate nel settore, incluse attività di aggiornamento degli operatori sanitari. Fatti concreti, così come il supporto fornito dagli itineranti “Villaggi della Salute”, con la partecipazione di specialisti e strutture sanitarie, pronte a fornire ecografie, esami alla tiroide, nonché attività di benessere, tra sedute di yoga e lezioni di teatro.
Poi ci sono gli aspetti di comunicazione e simbolici, come la scelta di declinare l’iniziativa in più giornate, partendo dalle periferie e arrivando solo dopo al centro, a Roma, come a Bari, Bologna, Brescia e altrove. Poi una campagna condotta assieme a Sky di promozione della salute femminile, articolata in una ventina di appuntamenti, tra interventi di esperti e “madrine” d’eccezione dal mondo dello spettacolo.
Tra una corsa e l’altra c’è la sostanza, ricordata in questi giorni dalla stessa Beatrice Lorenzin, citando i dati del suo Ministero: “Prevenire significa evitare la malattia, e farlo in tempo significa anche poterla curare”. A questo servono le campagne, e soprattutto gli screening. Sull’importanza di farli i livelli di consapevolezza sono in effetti aumentati tra le donne. Che tuttavia spesso poi finiscono a dire: “Lo farò domani”, a causa dei loro mille impegni. Le donne vanno quindi aiutate, magari anche levando alcuni di quegli impegni. E questo ancora non sempre avviene, anzi: l’Istat ha documentato in questi giorni che, a causa delle difficoltà economiche, tra le meno abbienti i controlli di prevenzione tumorale, anziché aumentare, diminuiscono.
Lo richiedono ancora alcuni documenti ufficiali e se ne tiene traccia perfino in qualche luogo di lavoro. Conoscere il proprio gruppo sanguigno è una variabile essenziale, specialmente in situazioni di emergenza che richiedono una trasfusione di “sangue compatibile”. Ma adesso, da una ricerca olandese, emerge che tale variabile può servire anche a molto altro, inclusa una valutazione su una maggiore, o minore, esposizione a problemi cardiovascolari.
Lo studio - realizzato dall’Università di Groningen e presentato nei giorni scorsi al Congresso della Società Europea di Cardiologia, a Parigi - ha rielaborato i dati raccolti in nove ricerche pregresse su oltre 1,3 milioni di persone. Ne è emerso un aumento del 9% dell’esposizione sia a eventi coronarici che cardiovascolari tra chi non appartiene al gruppo 0. Insomma, gli appartenenti ai gruppi A, AB e B sarebbe un po’ più a rischio.
Si tratterebbe della più estesa evidenza fin qui raccolta in proposito, anche se gli studiosi ammettono che “servono altri studi per accertare i rapporti di causa ed effetto”. Le ipotesi sono peraltro già sul tavolo. I gruppi sanguigni emersi più a rischio comporterebbero livelli più elevati di una proteina coagulante, associata ad esempio al rischio di trombosi, nonché della proteina “Gal-3”, associata a eventi infiammatori e a complicanze in caso di attacchi cardiaci o elevati livelli di colesterolo (e questo vale soprattutto per il gruppo A).
Per ora si tratta di in un piccolo e supplementare campanello di allarme, che richiederebbe una certa attenzione. L’orizzonte è quello dell’inclusione della categoria sanguigna nelle valutazioni personalizzate di rischio, in aggiunta alle variabili esistenti quali l’età, il colesterolo e la pressione. Aspetti di prevenzione, ma anche di appropriatezza terapeutica. “I portatori di gruppo A potrebbero aver bisogno di livelli di trattamento inferiori per la dislipidemia o l’ipertensione”, dicono tra l’altro i ricercatori olandesi. Dati e ipotesi da annotare, per i medici e per noi tutti.
Negli Stati Uniti rappresenta un vero proprio boom. E in parte è rimbalzata nella Vecchia Europa, Italia inclusa, tanto da diventare oggetto d’attenzione anche da parte de Le Iene. La “dieta” più “semplice” per definizione, ossia quella che banalmente suggerisce di rinunciare al cibo, sarebbe anche la più salubre e foriera di salute e longevità. E tuttavia, in base a nuovi riscontri scientifici, la realtà risulta ben più complessa, e soprattutto sembra almeno in parte smentire i decantati benefici.
L’esame è stato condotto dall’Università dell’Illinois, e poi pubblicato sulla rivista Jama Internal Medicine, coinvolgendo tra il 2011 e il 2015 un centinaio di persone obese, divise in due gruppi (oltre a un terzo, osservato a solo fini “di controllo”, di persone che non seguivano alcuna restrizione): il primo era sottoposto a una “dieta convenzionale”, con un consumo quotidiano pari al 75% dei bisogni calorici, il secondo seguiva un percorso alternato appunto di “digiuno”, nella fattispecie assumendo il 25% delle calorie necessarie nei giorni di sacrificio, il 125% negli altri.
L’esito è che i due gruppi dopo un anno hanno riscontrato livelli quasi identici di perdita di peso, ossia rispettivamente il 5,3% e il 6%, quindi senza benefici comparati di rilievo. Ancor più increscioso il confronto sull’“aderenza” alla dieta, uno degli aspetti più delicati e significativi in sede di valutazione sull’efficacia della stessa. Ebbene, il tasso di abbandono tra chi seguiva una dieta tradizionale si è fermato al 29%, mentre tra i “digiunanti” si è impennato al 39%. Esistono del resto diverse varianti alla cosiddetta “dieta del digiuno”. Tra le più popolari, c’è la cosiddetta “5.2”, che consiste in due giorni settimanali di rinuncia drastica, confinata tra le 500 e le 600 calorie (a seconda del sesso della persona), e gli altri cinque di consumo illimitato, facendo comunque attenzione a evitare gli eccessi di grassi saturi e di attenersi a una soglia tendenziale tra le 2000 e 2600 calorie.
L’effetto riscontrato da una buona dieta non si limita alla perdita di peso in eccesso, ma coinvolge anche un miglioramento generale della salute, incluso un calo della pressione del sangue, dei livelli di colesterolo e di glucosio, nonché un potenziamento delle difese immunitarie. Solo che tali risultati, all’evidenza raccolta dagli scienziati americani, non sembrano perseguibili con maggior efficacia in chi sceglie l’impervia strada del digiuno. La dieta è una cosa seria, talmente seria da essere tra l’altro sconsigliata ad alcune categorie, incluse le donne in gravidanza. Il messaggio è chiaro: evitare le facili suggestioni e il “fai-da-te”. Meglio - anzi, a volte, assolutamente necessario - farsi consigliare da uno specialista.
Tra discussioni, allarmismi e qualche provocazione giornalistica, c’è una verità di fondo che si fa strada sul papilloma virus: quella che gli italiani in realtà ne sanno relativamente poco, e questo riguarda soprattutto gli uomini, nonché i rischi della malattia per gli stessi. A fotografare il problema è una nuova ricerca in proposito del Censis, centrata in prevalenza sui genitori.
Il dato assoluto non sembra peraltro pessimo. Circa l’85% delle mamme dichiara di avere informazioni sul virus, si tratta di un dato in aumento rispetto a un’analoga indagine di 6 anni fa. Sono i papà a essere sempre i meno informati (intorno al 75%), sebbene siano oggi più attivi e coinvolti nelle vicende domestiche e nonostante la copertura vaccinale sia carente soprattutto tra i maschi. Il 56,6% delle famiglie dichiara infatti di aver immunizzato le figlie, mentre per i figli la proporzione crolla al 7,3%. Dati che sembrano essere una diretta conseguenza del nodo “di genere” sulla consapevolezza delle conseguenze del virus: quasi tutte le madri (oltre il 91%) lo associa correttamente all’esposizione al tumore al collo dell’utero, ma meno della metà sa che può innescare tumori anche nell’uomo, e il 36,6% pensa addirittura che il papilloma colpisca solo le donne.
Difetti di conoscenza, e soprattutto parecchia confusione, ammessa dagli stessi genitori. La metà lamenta carenze di pubblica informazione, un terzo dice che l’informazione c’è ma risulta contraddittoria. E tutto questo richiama alla responsabilità gli stessi operatori del settore, anche considerando che il 44% delle famiglie dicono di essersi informate in proposito sui media tradizionali, un altro 30,7% sul web.
A ostacolare un’esauriente informazione c’è anche una resistenza sul nodo dei costi: “Nel portare a casa il piano vaccinale abbiamo incontrato tante resistenze da parte delle Regioni, che considerano i vaccini una spesa in più e tendono ad intervenire solo in stato di emergenza come accaduto per la meningite”, lamenta Ranieri Guerra, Direttore Generale della Prevenzione sanitaria del Ministero della Salute, chiamando alla responsabilità i medici e anche le scuole, in ragione tra l’altro degli ottimi esiti di alcune iniziative locali di informazione tra i giovani.
E i giovani stessi? Ne sanno ancora meno, come ha illustrato un’altra recente indagine dello stesso Censis, da cui è emerso che tre quarti degli adolescenti dichiarano di sapere dell’esistenza del virus, e circa la metà sa della possibilità di vaccinarsi. Anche in questo caso i comportamenti dichiarato sono lo specchio di un tasso di “confusione” preoccupante, anche sul piano della prevenzione contraccettiva. Il 92,7% dei giovani interpellati ha dichiarato di utilizzare gli anticoncezionali, ma a far paura è la gravidanza, molto più della malattia. E il 17,6% è addirittura convinto che per proteggersi dal virus e dalle altre malattie sessualmente trasmissibili vada bene anche la pillola.
“Risultati entusiasmanti, è un passo avanti cruciale”. Ha espresso così la propria soddisfazione Paul Eggleton, dell’Università britannica di Exeter, che, in collaborazione con l’Università canadese di Alberta, avrebbe identificato una proteina apparentemente responsabile dell’insorgere della sclerosi multipla, patologia devastante che colpisce circa due milioni di persone nel mondo (specie tra ventenni e trentenni), finora curata perlopiù con terapie sintomatologiche, proprio per la scarsa chiarezza sulle sue origini.
La proteina si chiama Rab32 ed è una parte della cellula che immagazzina il calcio. E’ emersa in grande quantità solo nel cervello dei pazienti ammalati, e avrebbe il potenziale deleterio di alterare i mitocondri, il cui malfunzionamento è già sospettato di essere al cuore del danno neuronale. Sarebbe cioè proprio la prossimità tra la Rab32 e i mitocondri a innescare l’effetto tossico sulle cellule cerebrali. La scoperta, pubblicata sul Journal of Neuroinflammation, è rimbalzata ampiamente in questi giorni sulla stampa, soprattutto anglosassone, che parla di “svolta”, o quantomeno di importante punto di partenza per la ricerca farmacologica, all’indomani della celebrazione della “Settimana” appena trascorsa “della Consapevolezza sulla Sclerosi Multipla”.
Minor eco mediatico, colpevolmente, ha ottenuto l’annuncio proprio in questi giorni di un’altra novità scientifica che arriva dal nostro Paese, sulla base di uno studio internazionale, partito dalla Sardegna ed estesosi in vari paesi europei, nonché pubblicato sul New England Journal of Medicine, il tutto grazie al finanziamento dall’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, un’organizzazione sostenuta da mezzo secolo da oramai circa settemila volontari.
Dopo sei anni di indagine, gli scienziati sono riusciti a documentare il nesso diretto tra la variante un gene, denominata BAFF-var, e il rischio di sviluppare la sclerosi o anche il lupus. Si tratta di “linfociti B”, che, nelle parole del coordinatore dello studio Francesco Cucca, “producono anticorpi che normalmente ci difendono da certi tipi di microbi ma che, in qualche caso, possono diventare auto-anticorpi e partecipare così alla risposta infiammatoria”. Un altro tassello di rilievo, a quanto pare. E si tratta di novità complementari, oltre che preziose. “Sono 'malattie multifattoriali', in cui il processo autoimmune è determinato dall’azione congiunta di diversi fattori genetici e ambientali”, aggiunge Cucca. Più li si conosce, più sarà possibile intervenire con la sperimentazione di nuovi medicinali e, in parte, anche con quelli esistenti.
Un’estesa ricerca britannica ha consolidato i sospetti circa il nesso tra una pubertà precoce e l’esposizione futura ad alcune patologie, anche tumorali. La correlazione emerge dalla più dettagliata mappatura mai realizzata con riferimento all’età di quel delicato passaggio adolescenziale. Lo studio - coordinato dall’Università di Cambridge e pubblicato su Nature Genetics - ha preso in esame le varianti del genoma di quasi 370mila persone di vari Paesi, arrivando a identificare ben 389 segnali genetici che sarebbero associati alla tempistica dell’avvento della pubertà.
Insomma l’“orologio” sarebbe scritto nel Dna, e con esso anche la possibilità di ammalarsi in futuro. Nel dettaglio, tra le donne l’esposizione al tumore al seno è stimata elevarsi del 6% per ogni anno di “anticipo” nell’arrivo della pubertà, calcolato mediamente sugli 11 anni; percentuale che sale all’8% per il tumore all’ovaio. Tra gli uomini, che normalmente arrivano alla pubertà un anno più tardi, l’aumento di rischio di un cancro alla prostata è calcolato al 9%. Sono dati tendenziali, da prendere senza “automatismi” o allarmismi, ma che reclamano un’attenzione supplementare al tema della pubertà precoce, e all’arma principale della lotta ai tumori, che rimane quella della prevenzione e di una diagnosi tempestiva. Inoltre gli stessi autori ribadiscono che su tale “orologio”, nonché sui rischi tumorali, possono comunque intervenire un’infinità di altri fattori.
Molto, comunque, sarebbe rintracciabile nella genetica. In particolare, rivendicano di aver “isolato”, e quindi neutralizzato, il “fattore di disturbo” rappresentato dal sovrappeso, già sospettato di essere una variabile di rilievo sull’incombere della pubertà precoce. “Altri studi avevano documentato un’associazione tendenziale tra l’età della pubertà e i problemi futuri di salute, ma finora non era chiaro se questi derivassero piuttosto da fattori secondari quali il peso corporeo”, spiega il coordinatore dello studio John Perry. La ricerca di Cambridge ci sarebbe riuscita, identificando il nesso “a prescindere” della presenza di tali variabili.
“L’associazione tra pubertà precoce e rischi tumorali futuri potrebbe forse spiegarsi nella maggior presenza di ormoni sessuali nell’arco della vita”, aggiunge Perry, precisando che si tratta peraltro solo di un’ipotesi. Per ora c’è la mappatura, con per giunta qualche curiosità “intrigante”: è il caso delle varianti di due dei geni che sarebbero responsabili dell’anticipo della pubertà; la cosa sorprendente è che l’effetto si produce solo se sono ereditati dal padre, e non dalla madre.
Certo, a margine di qualche ragionevole quesito su casi e patologie specifiche, ci sono le polemiche, le “fake news”, le storie che confondono le acque senza portare nessun vantaggio alla cultura sanitaria dei Paesi avanzati, che a volte sembrano voler buttare a mare i traguardi raggiunti.
Troppo spesso, però, ci si dimentica che l’altra faccia del problema sono quei quasi venti milioni di bambini non vaccinati del pianeta: una carenza che tiene sotto scacco intere aree povere, impedendo il superamento di diverse patologie, già ampiamente debellate altrove. Il dato è risuonato nei giorni scorsi, in occasione, come oramai da tradizione a fine aprile, della Settimana dell'Immunizzazione, promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), sullo sfondo di qualche novità di rilievo dalla ricerca. E così, sono partite nuove campagne di sensibilizzazione da parte di diverse sigle di specialisti, nonché una linea telefonica diretta, allestita per l’occasione la scorsa settimana dalla Società Italiana di Pediatria (Sip), per rispondere alle domande e ai dubbi circa le diverse vaccinazioni, obbligatorie o meno.
Tutto questo anche perché il problema in realtà non riguarda solo qualche area africana o asiatica, bensì lo stesso Vecchio Continente. “Dei 10,7 milioni di bambini nati ogni anno in Europa, quasi 650mila non completano il ciclo vaccinale delle tre dosi di difterite, tetano e pertosse nel primo anno di vita”, lamenta il Presidente della Sip, Alberto Villani. E un'amara menzione speciale è dedicata proprio al nostro Paese. Gli ultimi dati consolidano quanto qui già segnalato in precedenza con riferimento in particolare al morbillo. Degli oltre seimila casi rilevati in tutta l'Unione Europea nell'ultimo anno, quasi un quarto si sono verificati in Italia, superata in negativo solo dalla Romania, tendenza che sembra accelerarsi nei primi mesi del 2017.
Tra un allarme e l'altro non mancano comunque le buone notizie. Secondo le stime dell'Oms i vaccini salvano ogni anno la vita a circa tre milioni di persone,. Numeri che potrebbero presto ingrossarsi con l'annuncio, da parte della stessa Organizzazione, del via al test su larga scala di un nuovo “vaccino anti-malaria” nell'Africa sub-sahariana (teatro di oltre il 90% dei circa 430mila decessi l'anno per l'infezione), e in particolare in Kenya, Ghana e Malawi. La profilassi, in base alle sperimentazioni, si è rivelata capace di prevenire 4 casi di malaria su 10. Obiettivo, da qui al 2020, immunizzare almeno 360mila bambini
Il tema della “salute” appassiona eccome, più di quanto si pensi. Basta prestare orecchio alle chiacchiere da bar: il tema è secondo solo allo sport e forse alla politica, tra disquisizioni a volta strampalate e perfino spudorate, con tanti che non esitano a esternare pubblicamente le proprie magagne, incluse prostate, problemi cardiaci o altro, nonché le proprie conoscenze scientifiche. E’ un argomento “popolare” per eccellenza, con l’attenzione che reclama per gli addetti ai lavori.
Da qui l’eccellente idea di un vero e proprio “Festival della Scienza Medica”, giunto nei giorni scorsi a Bologna alla terza edizione. Un evento che non si è confinato in qualche sala conferenze, ma ha coinvolto i palazzi e i portici dell’intera città in un’opera di confronto pubblico, intorno al filone della “tradizione e innovazione”. Visite museali, aperture ospedaliere, mostre, concerti, incontri con gli studenti, in un approccio spintamente “multidisciplinare”, tra ricerca e tecnologia, il tema medico e insieme sociologico della “medicina di genere”, i nodi economici, incluso quello dei costi dei farmaci e quindi dell’importanza del ricorso ai farmaci generici, i “nuovi” orizzonti terapeutici quali la “pet therapy”, e perfino l’apporto della scienza medica alla criminologia.
Tra esposizioni, curiosità e dibattiti, non sono mancati i contributi “alti”, sul piano scientifico e istituzionale: tra gli altri, il Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco Mario Melazzini, che è intervenuto proprio sul tema dei costi farmacologici. Presenti in massa gli studiosi tedeschi (la Germania era il “Paese Ospite” di quest’anno), e ben quattro Premi Nobel per la Medicina, Jules Hoffmann, Louis Ignarro, Thomas Lindahl ed Edvard Moser. Per giunta, con un epilogo postumo, il 22 maggio interverrà anche – a proposito dell’“interdisciplinarità” del tema-salute – un celebre Nobel per l’Economia, l’indiano Amartya Sen, che parlerà dell’“importanza dei sistemi sanitari universalistici per l'economia” stessa. Ovvero: perché l’obiettivo di curare tutti (e bene) non è un “costo”, bensì anzitutto un’opportunità, anche sul piano materiale.
Dietro a tutto questo un sottotitolo, reclamato dall’attualità, quello sul dilagare delle “bufale”, con i rischi che comporta per la salute di ognuno e di tutti. Da una recente ricerca internazionale dell’Università slovena di Maribor (“The Spreading of Misinformation Online”), emerge che circa l’80% dei pazienti si informa sul web. E in tale ambito “si tende ad accordare più fiducia all'aneddotica personale che ai dati scientifici”, commenta l’Ordinario bolognese Luigi Bolondi, con la conseguenza che “la comunicazione deve diventare sempre di più una priorità”. Un appello alla responsabilità, rivolto ai comunicatori, ma prima ancora ai medici stessi. “Il paziente ha bisogno di essere ascoltato e confortato dal medico”. Il rischio-bufale aumenta quando questo supporto viene a mancare.
Ci sono diversi tipi di colesterolo, tanto da ingenerare qualche confusione e dubbio, perfino tra gli addetti ai lavori, sulle possibilità, e talora anche sull’opportunità, di trattarlo. Un salto in avanti, di chiarezza e di possibilità terapeutica, è segnalato da una ricerca americana illustrata in questi giorni a un convegno a Washington, nonché sulla rivista New England Journal of Medicine.
Ricerca che convince anche gli scienziati italiani: “A questo punto non abbiamo più dubbi: il cattivo è lui, il colesterolo Ldl. E per i pazienti il beneficio clinico è proporzionale alla sua riduzione”, commenta all’AdnKronos Alberto Zambon, lipidologo all’Università di Padova. La novità – dal punto di vista terapeutico - è rappresentata da un anticorpo monoclonale che si sarebbe rivelato capace di aumentare la capacità endogena del fegato di diminuire i livelli di colesterolo dal sangue.
Le qualità del prodotto sono state testate su un campione estesissimo, più di 27mila pazienti di 49 Paesi, monitorati per oltre due anni, tra il 2013 e il 2015: nei pazienti che lo hanno utilizzato è stata registrata una riduzione media del colesterolo del 59%, rispetto ai partecipanti del “gruppo di controllo”, ai quali era stato somministrato solo placebo. A fronte della somministrazione è stata registrata anche una diminuzione dei rischi cardiovascolari, con una diminuzione del 27% per gli infarti e del 21% per gli ictus.
Dati definiti “rivoluzionari” da molti, anche nel contesto italiano, dove l’ipercolesterolemia risulta crescere a ritmi vertiginosi, raddoppiando l’incidenza nell’arco di un decennio in base alle rilevazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, e superando oramai la quota di un terzo della popolazione. Con l’aggravante, nota lo stesso professor Zambon, che “è trattata in modo appropriato in meno del 50% dei pazienti ad alto rischio”.
Fa bene allo sviluppo del cervello, alla salute del cuore, alla prevenzione tumorale. I benefici del latte materno sono oramai riconosciuti e acclarati, sebbene permangano ancora quesiti e misteri sul dettaglio dei rapporti di causa ed effetto, nonché sulla specifica “chimica” così foriera di salute. Ed è proprio per gli esiti solo parziali dei “tentativi di imitazione” (oltre che per contrastare le pratiche commerciali assai controverse, messe in atto da alcuni produttori di latte in polvere, specie nei paesi poveri), che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità da tempo consiglia di utilizzare integralmente il latte materno almeno fino ai sei mesi.
Su tutto questo un salto di consapevolezza c’è comunque stato. L’Istat ha recentemente rivelato che tra i quasi tre milioni di donne italiane che hanno avuto figli negli ultimi cinque anni, la percentuale che ha allattato al seno è salita all’85,5%, rispetto all’81,1% del periodo precedente, così come si è prolungato il periodo medio di allattamento, da 6,2 mesi a 8,3. E la presa d’atto è stata anche “politica”, come documenta la direttiva del 3 febbraio scorso della Presidenza del Consiglio, che ha intimato le pubbliche amministrazioni a non ostacolare l’atto materno, sia per le lavoratrici che per le utenti dei servizi aperti al pubblico, sebbene la cronaca certifichi ancora il permanere di qualche tabù.
A promuovere tale salto sono state naturalmente soprattutto le donne, come quelle che da quasi 60 anni animano “La Leche League”, aiutando e informando le neomamme sui benefici e le buone pratiche di allattamento. La rete è distribuita su ben 72 Paesi, in Italia è presente dal 1979, con circa 120 consulenti con esperienza pregressa di maternità e allattamento stesso e formate grazie ad un tirocinio. L’attività di sensibilizzazione, indirizzata anche agli addetti ai lavori, è culminata nei giorni scorsi con tre giorni di convegno nell’area bolognese proprio in occasione proprio della “Giornata Mondiale dell’Allattamento”, celebrata il 21 aprile: l’evento – a conferma della presa di coscienza odierna – ha registrato il “tutto esaurito” con tre mesi di anticipo.
In un altro recente simposio scientifico internazionale, tenutosi a Firenze, nove tra i massimi esperti mondiali hanno fatto il punto sui benefici del latte materno accendendo i riflettori su Hamlet, detto anche“Golden Milk”, il complesso anti-cancro scoperto nel latte materno al centro dell’attenzione degli scienziati per essersi rivelato capace di uccidere in vitro oltre 40 tipologie di cancro nei ratti.
Anche in questa occasione è stato tra l’altro ribadito l’obiettivo di proteggere l’allattamento: “Per le prime due settimane dopo il parto le madri dovrebbero solo mangiare, dormire e allattare, lasciando letteralmente ogni altra incombenza ai padri”, dicono gli scienziati. E in caso di problemi, ci sono le “banche del latte”: in Italia sono 35 ed è un felice primato europeo. A gestirle sono donatrici e donatarie, sotto rigoroso controllo medico, tanto che la maggior parte sono istituite nell’ambito di strutture ospedaliere. Segno di civiltà. E di salute.
Sigle mediche e associazioni di pazienti non sono sempre dalla stessa parte. Stavolta, però è davvero così. E a cementare l’alleanza è stato il tema “caldo” delle vaccinazioni, in preoccupante calo anche sulla scia del fenomeno delle cosiddette “fake news”, che minimizzano l'importanza delle conquiste avvenute per la salute pubblica, tanto da contestarle e mettere a repentaglio i traguardi consolidati.
Per questo la Società Italiana di Medicina Generale (Simg) e la rete associativa di Cittadinanzattiva hanno siglato assieme un sintetico ma esauriente opuscolo informativo, disponibile on-line, e in arrivo in formato cartaceo negli ambulatori, nelle farmacie e nelle stesse sedi dell'associazione. Obiettivo: fugare “diffidenze e dietrologie”, ma anche rispondere ad alcuni dubbi, quali ad esempio l’utilizzo dei vaccini durante la gravidanza o in caso di malattia.
In altre parole, si tratta, puntando all'informazione, di invertire la rotta sulle vaccinazioni, che “hanno avuto un impatto dirompente senza pari a beneficio della salute”, nelle parole dello stesso ministro Beatrice Lorenzin. “Le percentuali, in età pediatrica, per molte gravi malattie infettive sono scese sotto la soglia limite di sicurezza del 95%, per la poliomielite, difterite e tetano è immunizzato solo il 93% dei bambini, su parotite, rosolia e morbillo siamo a meno dell’85%”, nota preoccupato il Presidente Simg, Claudio Circelli.
La conseguenza, già segnalata in questi sito, è ad esempio nel rinnovato allarme sul morbillo, ritornato in Italia a uno stato definito “endemico”, avendo già sfondato quota mille casi solo dall'inizio di quest'anno. Sui vaccini il pensiero va subito alle esigenze attuali e future dei bambini, ma il tema coinvolge tutte le fasce d'età, e in particolare gli anziani. A causa dell'influenza, ad esempio, “l'inverno appena terminato ha registrato un boom di decessi tra gli anziani, il 15% in più rispetto alle previsioni”, documenta ancora la Simg.
Fondamentale, dunque, immunizzarsi, levando di torno ogni dubbio in materia di sicurezza dei vaccini, del tutto immotivato data la natura strettissima dei controlli sull'intero settore farmacologico, in Italia e in Europa. “Basta diffidenze sui vaccini”, incalza anche Tonino Aceti, Coordinatore del Tribunale dei Diritti del Malato di Cittadinanzattiva. L'urgenza della sensibilizzazione in materia è dunque riconosciuta e condivisa, e per giunta va paradossalmente estesa agli stessi operatori sanitari italiani, anch'essi ai fatti piuttosto pigri. Da un'indagine divulgata in questi giorni emerge tra l'altro che oltre il 40% non si è sottoposto al richiamo per il tetano negli ultimi dieci anni, e meno di un terzo si è vaccinato quest'anno contro l'influenza.
“E’ il male del secolo”. Lo si dice per la depressione, e per la verità anche per altre patologie, ma a leggere i dati rilanciati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che in questi giorni ha celebrato la propria “Giornata”, dedicandola proprio a essa, è un epiteto amaramente meritato. “E’ la causa principale di malattia e disabilità al mondo”, scrive l’Oms, segnalando come la depressione sia tuttora un problema pericolosamente sottovalutato, a fronte di un rapido aumento della sua incidenza. Il 50% dei pazienti non accede ad alcuna cura, e perfino nei Paesi ricchi i sistemi sanitari non dedicano alla depressione più del 5% delle proprie risorse.
Tale contesto sottolinea l’importanza delle novità scientifiche orientate a facilitare la diagnosi e l’appropriatezza terapeutica. Un annuncio interessante proveniente da un’Università texana è stato pubblicato sulla rivista “Psychoneuroendocrinology”, che ha approfondito l’analisi di una particolare proteina infiammatoria, la cosiddetta “proteina C reattiva”, captabile con una banale analisi del sangue.
Il suo nesso con gli stati depressivi era già stato identificato in recenti ricerche. La novità è ora che su tale presupposto è stata riscontrata la possibilità di predire in anticipo la combinazione di farmaci e il dosaggio più adatti al singolo paziente, tema tra i più complessi e delicati nel percorso terapeutico. I test per ora sono stati realizzati solo su alcune molecole e serviranno altri riscontri tuttavia le prospettive sono importanti proprio in relazione alla facilità dei rilevamenti dai test del sangue a fronte dell’estensione del fenomeno e della numerosità delle patologie di cui la depressione è “causa principale”, come sottolinea l’Oms.
Agli studi fin qui realizzati si è aggiunta recentissimamente una novità proveniente dalla ricerca italiana e riferita all’Alzheimer. Da uno studio condotto da istituti romani, apparso sulla prestigiosa “Science”, è emerso che la malattia, caratterizzata da irreversibili perdite di memoria, non avrebbe origine nella stessa area “mnemonica” del cervello, bensì piuttosto in quella “emotiva”, l’“area tegmentale ventrale”, che rilascia la “dopamina”, il cosiddetto “neurotrasmettitore dell’amore”. Ripristinandone i livelli, gli scienziati italiani hanno scoperto che le cavie recuperavano, al contempo, il ricordo e la motivazione.
Del peso specifico della depressione si nel frattempo accorto il business dell’Information Technology: al XXV Congresso dell’Associazione Europea di Psichiatria (Epa), svoltosi nei giorni scorsi a Firenze, ha tenuto banco ad esempio il dato riferito alle migliaia di “app” realizzate proprio per rispondere ai bisogni legati alla salute mentale, che rappresentano addirittura il 6% dei prodotti che appaiono negli appositi negozi informatici. Insomma il problema della depressione è serio, globale, collettivo e foriero di altri problemi di salute, e quindi non va gestito in silenzio. I modi per affrontarlo, prima e bene, ci sono, e sempre più sofisticati.