C’è una buona notizia, anche se un po’ meno buona di quanto viene per lo più titolato e tradotto, anche dalle agenzie italiane. La news è che esiste un trattamento immunoterapico contro le varie forme di rinite allergica, inclusa la cosiddetta “febbre da fieno”, e che, all’evidenza, fornisce esiti davvero incoraggianti. Il problema è che per ottenere questi risultati bisogna prolungare la terapia più di quanto si presumeva finora.
E’ quanto emerge da una ricerca realizzata dagli studiosi dall’Imperial College di Londra e pubblicata sulla rivista internazionale Jama. Lo studio ha coinvolto un centinaio di volontari, affetti da rinite, seguiti per diversi anni nel centro specialistico dell’ospedale Royal Brompton: una parte di essi è stata trattata con il prodotto in sperimentazione e una parte soltanto con un placebo.
L'esito è stato inizialmente deludente: la somministrazione, prolungata fino a due anni, conduceva sì a un effettivo sollievo, ma solo per un breve periodo. Ad un anno di distanza dalla sospensione della terapia gli effetti sembravano svanire del tutto. Si è visto però anche che prolungando il trattamento fino alla soglia di tre anni – del resto già suggerita da alcune agenzie internazionali – si ottengono risultati duraturi, che si protraggono per molti anni. L’esito dell'indagine – riferita specificatamente alla rinite allergica – sembra indirettamente ribadire il concetto generale dell'importanza dell'aderenza terapeutica. Abbandonare le cure prima del tempo prescritto perché ci si sente nel presente un po' meglio è una scelta deleteria, che ne inficia l'efficacia nel medio e lungo periodo.
“La nostra Costituzione stabilisce all'articolo 32 la tutela della salute come fondamentale diritto di ogni persona e come interesse dell'intera collettività […], un diritto pieno, non comprimibile, che attiene alla dignità e alla libertà di ciascuno, tanto che quello stesso articolo prevede la garanzia delle cure per coloro che si trovano in condizione di indigenza […] La sfida delle patologie meno conosciute, e delle risorse pubbliche limitate, non può esimerci dal ricercare, sempre, il pieno adempimento del dettato costituzionale”.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non poteva oggettivamente trovare parole migliori di quelle utilizzate della nostra Carta Costituzionale per sottolineare gli altissimi impegni in essa sanciti in tema di tutela della salute. E lo ha fatto parlando al Quirinale in occasione della giornata mondiale delle malattie rare, celebrata il 28 febbraio, quando rilanciato la sfida di tutte le sfide per tutti i sistemi sanitari mondiali, compreso il nostro Ssn: "Nessun malato, ovunque ma particolarmente nella nostra Repubblica, deve sentirsi invisibile o dimenticato".
Malati “rari”, non “invisibili”, insomma. Anche perché quell’aggettivo - “rare” - rischia di essere fuorviante. Per convenzione è definita tale una patologia che colpisce fino a cinque individui ogni diecimila. Ma, considerando che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tali patologie sono almeno seimila (senza contare quelle ancora non identificate dalla scienza), il dato aggregato sulle persone colpite è invece altissimo: se ne stimano 670mila solo in Italia.
Non mancano per la verità le buone notizie. Di recente l’Onu ha incluso a pieno titolo le malattie rare tra i diciassette principali “Obiettivi di sviluppo sostenibile” e il recentissimo decreto di aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza riconosciuti dal Servizio Sanitario Nazionale ha aggiunto ala lista 110 nuove patologie rare che prima non vi comparivano, come rivendicato in questi giorni dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
Un passo importante, anche se non risolutivo, alla luce anche dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss): le patologie finora catalogate con il codice di esenzione coprono meno di un terzo dei pazienti “rari”.
“Le malattie rare rappresentano una sfida paradigmatica – spiega il presidente dell’Iss Walter Ricciardi – che pone tra l’altro il problema dell’equità nell’accesso ai farmaci”. E proprio sulla questione dell’accessibilità salda l’alleanza tra i pazienti e il mondo dei farmaci equivalenti da cui è scaturita, lo scorso anno, l’intesa tra Assogenerici e la Fondazione Hopen, ospitata nella propria sede per promuove un network europeo delle associazioni che sostengono le famiglie colpite. “L’obiettivo – spiega Simona Bellagambi, referente di “Uniamo” (Federazione Italiana Malattie Rare Onlus per l'Italia, presente nella rete continentale di Eurordis) – è quello di dare vita a qualcosa di tangibile, di reale, di forte, che unisca tutti gli interessati verso un obiettivo comune. Quello di continuare a far considerare le malattie rare una priorità di sanità pubblica fino a quando i bisogni e i problemi legati a esse non saranno risolti”. Perché nessuno resti “invisibile”, appunto.
Mangiare bene è cruciale: lo sappiamo bene, anche se non sempre ci comportiamo di conseguenza. E che la dieta mediterranea fornisca probabilmente i “menù” più salubri al mondo è un fatto ampiamente riconosciuto dalla ricerca medica, a iniziare dall’ambito cardiocircolatorio, e perfino, come qui documentato un anno fa, a titolo di preziosa “profilassi” per la prevenzione influenzale. All’elenco di lodi per il nostro cibo se ne aggiunge un’altra legata all’accertamento scientifico di rilevanti virtù anti-depressive.
Titolare dell’approfondimento, tramite sperimentazione clinica, è una Università australiana, che ha pubblicato gli esiti dell’analisi sulla rivista BMC Medicine. I ricercatori hanno coinvolto 67 persone che soffrivano di depressione suddividendole in due gruppi e seguendole per dodici settimane: il primo ha mantenuto le proprie abitudini alimentari, l’altro ha invece virato verso i crismi della dieta mediterranea, dominata da cereali (specie integrali), frutta e verdura fresche, legumi, olio di oliva, uova, latticini non zuccherati.
Il primo gruppo, naturalmente, non ha riscontrato mutamenti umorali di rilievo al termine del trimestre. Il cambio di rotta è emerso nel secondo: un terzo dei partecipanti ha dichiarato un significativo miglioramento dei propri sintomi e del proprio umore. “Il sistema immunitario, la plasticità del cervello e un buon microbioma (l’insieme del nostro patrimonio genetico) sono cruciali non solo per il benessere fisico, ma anche per quello mentale”, commentano gli autori dello studio.
Non è per la verità una novità assoluta, tanto che la medesima rivista aveva pubblicato due anni fa un’altra ricerca in proposito, ancor più estesa nel tempo e nel campione coinvolto, svolta da un’Accademia spagnola delle Canarie che ha utilizzato i dati di migliaia di partecipanti, seguiti per oltre otto anni, ottenendo un esito analogo, ovvero la riduzione del 30% del rischio di depressione.
Quella “vecchia” ricerca poteva risentire di qualche variabile “di disturbo”, ad esempio il fatto che la “dieta mediterranea” – anche nella definizione datale dall’Unesco nel riconoscerla “Patrimonio dell’umanità” – non consista solo in un elenco di ingredienti specifici, ma anche di alcune abitudini “sociali”, in particolare dell’enfasi alla condivisione dei pasti attorno a uno stesso tavolo, fattore di per sé “anti-depressivo”. Nella ricerca australiana, invece, il test è stato puramente alimentare. E ci dice che la nostra tradizione culinaria fa davvero bene, anche all’umore, e non è roba da poco. Perché la salute non è solo assenza di malattia: se l’obiettivo è il benessere è assai di più.
Si tratta di una procedura ritenuta non priva di rischi, che al contempo molti collocano all’orizzonte della moderna medicina. È il cosiddetto “autotrapianto” di cellule staminali del sangue, che ora si sarebbe rivelato capace di fermare a lungo anche la progressione della sclerosi multipla, nell’ambito di uno studio che trova ancora una volta in prima linea gli scienziati italiani.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati nella rivista scientifica Jama Neurology, sulla base del lavoro condotto dai ricercatori dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze assieme a colleghi - anche connazionali- dell’Imperial College di Londra, che hanno esaminato i dati relativi a 281 pazienti – perlopiù selezionati tra quelli malati a uno stadio avanzato e poco rispondenti ad altre terapie pregresse - sottoposti ad autotrapianto nel periodo tra il 1995 e il 2006 in tredici Paesi e seguiti dopo la procedura per una media di circa sette anni.
La procedura ha previsto il prelievo di cellule staminali tramite chemioterapia e somministrazione di farmaci che ne determinano la fuoriuscita dal midollo osseo nel flusso sanguigno: la prima distrugge il sistema immunitario difettoso; la seconda permette la rigenerazione del sistema immunitario stesso tramite cellule “bambine”.
Nel 46% dei pazienti più gravi – hanno riferito i ricercatori - “si è assistito ad un arresto della progressione della disabilità a 5 anni dal trapianto”, e per alcuni addirittura a un miglioramento dei sintomi, percentuale che sale addirittura al 73% sul campione complessivo. E’ un risultato notevole, che fa del resto leva su una prassi “largamente utilizzata da circa 30 anni per il trattamento di alcuni tumori del sangue e del sistema linfatico”.
Nonostante il risultato positivo permangono le raccomandazioni alla massima cautela: nei primi 100 giorni di trattamento, tra i 281 pazienti del campione sono stati regitrati anche otto decessi come conseguenza della repentina messa in fuori gioco del sistema immunitario. L’orizzonte di ricerca sembra però tracciato, con prospettive promettenti, che coinvolgono ancora il nostro Paese. È di questi giorni, infatti, anche la notizia di un bando vinto da un consorzio internazionale coordinato dall’Ospedale San Raffaele di Milano, mirato proprio all’individuazione di farmaci contro la sclerosi multipla progressiva tramite le cellule staminali.
Allo stato attuale, si tratta di una scoperta “alla portata di mano” più o meno come quella dei pianeti forse “vitali” localizzati nei giorni scorsi a qualche decennio di anni luce. Nondimeno c’è chi ci lavora seriamente, e questo avviene anche e proprio in Italia. Si tratta della sperimentazione di possibili sviluppi di una sorta di ibernazione nella lotta al cancro, e lo “stato dell’arte” è stato illustrato nei giorni scorsi a Boston nel Congresso annuale dell’American Association for the Advancement of Sciences.
Il nodo di base è lo studio della cosiddetta “ipotermia indotta”, e i suoi potenziali effetti benefici, anzitutto per la salute. A una temperatura normale le cellule – malate e non – necessitano di un regolare apporto di ossigeno. Ora, quando il cuore smette di battere, l’apporto sanguigno di ossigeno cessa, sicché lo stesso cervello può resistere non più di cinque secondi circa prima di subire danni irreparabili, se non perire. E tuttavia, a temperature più basse, il bisogno cellulare di ossigeno cala perché l’insieme delle reazioni chimiche si rallenta, tanto che non mancano aneddoti di persone sopravvissute dopo decine di minuti di assenza di attività cardiaca, in quanto si sarebbero trovate per qualche incidente, ad esempio, in un lago ghiacciato.
La novità annunciata dal professor Marco Durante, direttore dell’Istituto di Trento per le Applicazioni della Fisica Fondamentale (Tifpa), in collaborazione con colleghi dell’Università di Bologna, è la scoperta di un “modo di indurre uno stato di quasi letargo in animali che normalmente non ci vanno, come i ratti”, identificando una zona cerebrale che regola la temperatura del corpo. “Inibendo specifici neuroni si abbassa la temperatura”, inducendo una sorta di “torpore sintetico”.
Da tutto questo scaturirebbe un’implicazione clinica cruciale, ossia la possibilità di effettuare pesanti radioterapie antitumorali, o addirittura di aumentarne le dosi, senza incorrere negli ora inevitabili effetti collaterali, in quanto le cellule sane, giacché “ibernate”, potrebbero sopportarli assai meglio.
Nell’obiettivo degli scienziati, dunque, “si potrebbero trattare tutte le metastasi senza uccidere il paziente: lo svegli ed è curato”. C’è chi già tenta la strada avveniristica di “ibernarsi”, magari per “vincere la morte”. Si tratta però solo di cronache amare, senza l’avallo della scienza, che considera ancora non possibile ibernare in modo sicuro un corpo umano. Nondimeno l’orizzonte c’è, e secondo gli studiosi italiani potrebbe concretarsi entro una decina d’anni. Alfine non di conseguire l’eternità, ma di poter combattere meglio le patologie più gravi.
In alto i cuori, e la speranza dei bambini, tutti, e soprattutto di quelli che stanno male. Questo il senso del lancio contemporaneo di migliaia di palloncini da ospedali, scuole e piazze di decine di città italiane avvenuto lo scorso 15 febbraio. L'iniziativa era peraltro internazionale, delle 183 associazioni (anche del nostro paese) che compongono la “Childhood Cancer International” (Cci) e hanno animato la quindicesima edizione della Giornata Mondiale contro il Cancro Infantile.
Si tratta di un ambito su cui cala perlopiù un colpevole silenzio, oltretutto a fronte di cifre preoccupanti. La stima globale è di 215mila nuovi casi l'anno nella fascia d'età tra 0 e 15 anni, e altri 85mila tra i 15 e i 19. L'Italia risulta tra i paesi più esposti, con 1380 ammalatisi l'anno scorso e 780 adolescenti. E se per i primi si rileva un lieve calo, dell'1% su base annua, per i secondi la tendenza continua a salire, del 2%
Serve dunque un salto in avanti nell'attenzione pubblica al fenomeno. Tra le priorità fissate dalla Cci si sottolinea il “diritto” a cure tempestive e efficaci, che ai fatti rappresenta un diritto negato per migliaia di bambini nel mondo. “Il cancro pediatrico è una patologia troppo spesso trascurata”, si denuncia, oltre a costituire “un induttore di povertà delle famiglie che ne sono colpite”, invocando perciò un'assistenza e un aiuto concreto.
Non a caso sono proprio i genitori a mobilitarsi in prima linea sul tema, per il tramite, in particolare, della Federazione Italiana Associazioni Genitori Oncoematologia Pediatrica (Fiagop), in collaborazione con l'Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatica (Aieop). Tantissime le iniziative, tra eventi festosi e convegni pubblici, attivate nell'arco della Giornata, e anche nei giorni precedenti e successivi, molti dei quali centrati sul nodo della prevenzione, a iniziare dalle buone abitudini alimentari.
L'obiettivo non è peraltro solo quello di alzare l'asticella della sensibilizzazione sul problema, ma anche un salto di qualità nell'assistenza farmacologica. “Riconvertire ad uso pediatrico i farmaci concepiti per gli adulti porta a un utilizzo non del tutto adeguato del medicinale stesso a cominciare dalla modalità, dal dosaggio e soprattutto non tiene conto dell’individuo a cui viene somministrato”, spiega il presidente Fiagop Angelo Ricci, nell'appellarsi alle istituzioni e al mondo scientifico: per una medicina capace di calibrarsi davvero sulle esigenze specifiche dei piccoli.
Sembra una banale “americanata” raccontare che una diminuzione del consumo di sale abbia un impatto sanitario e addirittura economico, ma il nesso c’è. E ha ora ricevuto perfino l’avallo di un’articolata ricerca scientifica, pubblicata sul British Medical Journal. Ma al racconto va fatta un’aggiunta: nel nostro Paese il dato è già assunto come scontato, al punto da essere oggetto di concrete iniziative regionali, che peraltro meriterebbero un seguito di più ampia scala.
Ma andiamo per ordine. che si è messo A fare i conti in testa sul consumo di “sodio” (che si trova tipicamente nel sale, ma anche nel pane, latte, uova, carne, nonché naturalmente in una varietà di cibi industriali, e rappresenta un riconosciuto fattore di rischio di alta pressione, e quindi di patologie cardiovascolari, che costituiscono la principale causa di morte nel mondo) è stato un centro di ricerca di Boston: la “Tufts Friedman School of Nutrition Science”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ammontare “sano” del consumo di sale si attesta a un paio di grammi al giorno, l’equivalente di un cucchiaino. Intorno a quel paletto si sono mossi i ricercatori, indagando sui dati raccolti in varie ricerche in ben 183 Paesi. Dall’analisi è emerso che se si riducesse mediamente l’assunzione di sale di almeno il 10% in dieci anni, si salverebbero annualmente, e globalmente, 5,8 milioni di “anni di vita persi” – il cosiddetto Disability-Adjusted Life Year, unità di misura che somma il sacrificio temporale della morte patologica prematura.
Si morirebbe di meno, dunque, e ci si ammalerebbe molto meno. Di qui anche il calcolo economico, in base al quale il costo di tale decesso prematuro è calcolato in oltre 200 dollari l’anno a persona, in relazione alla perdita della sua “produttività” in senso lato. Sono stime naturalmente virtuali, che peraltro i ricercatori americani considerano “prudenti”, perché non tengono conto dell’aggravio ulteriore, quello dei costi sanitari della cura di chi si ammala.
In altre parole si valutano “finanziariamente vantaggiose” le eventuali politiche (e i relativi costi) per promuovere una riduzione del consumo di sale, perfino senza considerare le spese sanitarie conseguenti a, viceversa, la sua assunzione in eccesso. E c’è chi già si è materialmente mosso su questo, appunto in Italia, con un’intesa siglata tra la Regione Piemonte e l’Associazione regionale dei Panificatori per diminuirne, appunto l’impiego. Piccoli passi, ma che dicono parecchio, ben al di là dell’oggetto specifico dell’iniziativa. Ricordano che “investire nella prevenzione sanitaria” non è un costo, ma una fonte di risparmio, oltre che di beneficio per la nostra vita. E su questo, in Italia, da anni, anziché aumentare, colpevolmente si taglia.
Il problema dei tumori è spesso quello di arrivare tardi, a volte di arrivarci con una diagnosi poco accurata, altre ancora di mettere in atto trattamenti farmacologici verso i quali il corpo sviluppa alcune resistenze. In altre parole, il nodo prioritario è quello della rapidità, semplicità e accuratezza della diagnosi. Dinanzi a tutto questo si annuncia un’innovazione promettente, centrata su una biopsia liquida, e l’annuncio arriva proprio dal nostro Paese.
Lo hanno divulgato sulla rivista Oncogene (nell’ambito del portale della celebre Nature) i laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità, ovvero un gruppo di ricerca coordinato dal professor Ruggero De Maria e la ricercatrice Désirée Bonci, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma (in collaborazione con altri Istituti capitolini e torinesi). Si tratta di un “nuovo approccio”, dicono, già sperimentato su pazienti affetti da tumore alla prostata, e in corso di approfondimento per altri colpiti da cancro al polmone e al colon.
Tecnicamente, lo studio – che ha ricevuto un finanziamento del ministero della Salute destinato ai giovani ricercatori – ha identificato una correlazione tra l’attivazione dell’“oncogene-c-Met”, che innesca la metastasi, e un piccolo gene, il “miR-130b”, nell’ambito dei processi di progressione tumorale e di resistenza alla terapia ormonale. E così, è stata sviluppata la suddetta biopsia liquida, di semplice utilizzo, che permette di captare le vescicole rilasciate dal sangue nei tumori, le quali veicolano le aberrazioni molecolari.
“Questo tipo di biopsia, adeguatamente sviluppata, ci potrà permettere di avere un metodo non-invasivo per monitorare il tumore fin dall’esordio, per individuare tempestivamente le recidive e l’insorgenza di resistenza alle terapie”, spiega il professor De Maria. In altre parole, tale metodica consentirebbe “per la prima volta di valutare segnali proteici attivati e indicativi di tumore e dello stato molecolare del cancro in pazienti affetti da neoplasie al polmone, colon e prostata”.
“Tecniche innovative, sofisticate e sensibili”, aggiunge. Risultati in apparenza importanti e promettenti, dunque, che agiscono sul nodo di fondo della “difficoltà di individuare una terapia unica ed efficace”, nelle parole della dottoressa Bonci, considerando anche “la frequente imprevedibilità della risposta del singolo paziente ai farmaci”. Il passo avanti rivendicato, dunque, non è solo “tecnico-scientifico”, ma anche sul piano dell’approccio alla terapia. Da centrare davvero sulla logica del “trattamento personalizzato”.
“Non si deve abbassare la guardia”. Lo ribadiva alla fine dell'anno scorso il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e ne facemmo l'incipit di un altro pezzo che documentava al contempo i progressi nella scienza e l'urgenza del lavoro di sensibilizzazione sull'Aids. Insomma, la medicina avanza ma l'informazione no, e a farne le spese sono anzitutto i giovani. A rilanciare il tema sono ora gli esiti - preoccupanti - di un'indagine del Censis sulla sessualità tra i cosiddetti “Millennials”.
Emerge che l'età media per i primi rapporti sessuali completi si è oramai abbassata a 17 anni, eppure metà degli adolescenti ammette di avere idee assai confuse sulla sessualità, inclusi gli aspetti sanitari. Così, sebbene il 93% degli intervistati è esplicitamente orientato ad evitare il rischio di gravidanze indesiderate, solo il 70% delle giovani coppie usa il profilattico, nella convinzione che per proteggersi dalle malattie trasmissibili sia sufficiente evitare rapporti promiscui.
Su tali patologie, peraltro, la conoscenza è piuttosto scarsa. Il 90% dichiara di conoscere l'Aids, ma meno di un quarto degli interpellati sa qualcosa di sifilide, gonorrea, epatite, herpes genitale e così via. In particolare, solo il 15% conosce il papilloma virus, un'infezione capace di generare sia nella donna che nell’uomo lesioni che possono degenerare in forme tumorali.
Poca informazione, dunque, e perlopiù tratta sommariamente da amici o dal web – terreno anche di tante “bufale”. “Il nostro Telefono Verde Aids e Infezioni sessualmente trasmesse riceve oltre mille chiamate al mese, e di queste solo il 10% proviene dai giovani”, sottolinea il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, che aggiunge: “spesso pensano che le infezioni siano un problema legato a determinate fasce di popolazione e non causate da comportamenti a rischio”.
Sull'Aids il progresso mondiale nella prevenzione e nelle cure è stato in effetti vistoso. Nel 2005 fece due milioni di morti, e la cifra si è quasi dimezzata nell'arco di un decennio. Nello stesso anno le persone infettate furono due milioni e mezzo, nel 2015 eravamo ancora sopra i due milioni. Insomma il calo nelle infezioni è assai più lento di quello sui decessi, confermando che i passi avanti nella medicina sono stati ben più lunghi di quelli dell'informazione. Con esiti a volte quasi paradossali: un'altra indagine, effettuata negli Stati Uniti sugli omosessuali, rivela una netta tendenza alla diminuzione nell'uso dei profilattici, ed è un fenomeno spiegato proprio per la loro accresciuta fiducia nelle terapie. Invece bisogna arrivare prima, e dobbiamo ricominciare a dirlo, anzitutto ai giovanissimi.
Se “la salute è la prima cosa”, l’offerta di un medicinale è il più nobile dei doni, specie in tempi di difficoltà economiche. “Italia campione della solidarietà”, titolammo esattamente un anno fa, sulla scia degli ottimi esiti della Giornata di Raccolta del Farmaco. E se era vero allora, oggi lo è ancor di più. Alla diciassettesima edizione della ricorrenza annuale, celebratasi lo scorso 11 febbraio, la generosità ha fatto segnare nuovi e impressionanti record, pur nel silenzio di larga parte dei media – a fronte di un evento che aveva l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica e la collaborazione di istituzioni, aziende produttrici e rappresentanze professionali dei farmacisti.
In poche ore sono state raccolte oltre 370mila confezioni di medicinali, ossia il 4,6% in più rispetto alla Giornata del 2016, con identico incremento delle farmacie coinvolte su quasi tutto il territorio nazionale, 3850, con per giunta la donazione di quasi 600mila euro da parte dei farmacisti stessi.
Dietro al lavoro delle farmacie c’è però anzitutto quello di oltre 14mila volontari, nonché dei 1723 enti caritativi convenzionati con la Fondazione Banco Farmaceutico onlus, che dal 2000 promuove l’iniziativa, e negli anni successivi l’ha anche “esportata” in altri paesi europei, africani e asiatici. E l’impatto è enorme, considerando la stima di più di 580mila beneficiari italiani dell’aiuto, segnando anche qui un progressivo incremento rispetto agli anni precedenti.
La solidarietà cresce, dunque, ma anche la povertà sanitaria. "Nonostante siano tantissimi i farmaci raccolti durante la Giornata copriranno solo una parte di quel bisogno”, ricorda Paolo Gradnik, presidente di Banco Farmaceutico. Quel bisogno è conteggiato in oltre un milione di confezioni e, tra i problemi economici delle famiglie e i tagli alla spesa sanitaria, segna un’allarmante escalation. Solo l’anno scorso la richiesta di farmaci è salita del 16%, e le persone assistite addirittura del 37,4%. Non è solo un tema di “povertà assoluta” (che coinvolge oltre 4 milioni e mezzo di italiani), ma anche di quella relativa, tale da indurre oltre 12 milioni di persone – secondo un recente dossier dello stesso Banco Farmaceutico – a limitare le visite e i medicinali.
E’ dunque un tema drammaticamente esteso, che coinvolge l’intera politica sanitaria e le esigenze (riconosciute anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco, Aifa) di promuovere tra l’altro il ricorso ai medicinali che costano meno a parità di efficacia e sicurezza terapeutica, ossia i generici. Ed è un tema che non si risolve in una Giornata. Si può donare, sempre. Esiste anche un’app, chiamata “DoLine”, e soprattutto ci sono nelle farmacie aderenti degli appositi contenitori per la raccolta. “Donare un caffè” quando ci rechiamo al bar, anche lasciandolo al consumo di ignoti bisognosi, è una bellissima tradizione italiana. Si sappia per bene che possiamo fare lo stesso anche con i farmaci.
Signore e signori, oggi, 13 febbraio, ricorre la giornata mondiale dell’epilessia. Ebbene, pochissimi se ne accorgeranno, e pochi dedicheranno anche solo un marginale frammento di pensiero. Peggio (forse), qualcuno avrà anche un impercettibile moto di fastidio. La ragione è sempre quella: l’epilessia, o, come dice giustamente una fondazione italiana, “le epilessie”, sono ancora oggetto, anziché di attenzione, di un più o meno sottile “stigma”, per il banale motivo che quel che non conosciamo fa un po’ paura.
“Ancora una volta è utile ricordare quanto questa malattia sia accompagnata da pregiudizi, disinformazione e ignoranza“, commenta un’esperta italiana, Clementina Boniver, dell’Università di Padova. E del permanere dello stigma si parla purtroppo ogni anno. Quindi è bene ripetere. In senso stretto non è neppure una “malattia”, bensì una serie di condizioni neurologiche (“sono colpito da qualcosa”, dice genericamente l’etimo greco) di “eziologia” parzialmente ignota ma rintracciabile nell’elettrocardiogramma, che hanno in comune l’insorgere di crisi improvvise, perlopiù brevi, anche se accompagnate da manifestazioni motorie involontarie o addirittura perdita di conoscenza.
Una problematica solitamente non grave, e al contempo assai comune, perché coinvolge almeno 65 milioni di persone nel mondo, e circa 500mila solo in Italia. Ciononostante, la disinformazione permane, tant’è che, sebbene i primi attacchi si riscontrino spesso già dall’età scolare, la maggioranza degli insegnanti italiani, secondo recenti indagini, si rivela impreparata a gestirli.
E allora, come si affrontano gli attacchi epilettici? Senza pregiudizi e senza paura, ovviamente, e anche senza iperprotettività. Si tratta solo rassicurare la persona con gentilezza, evitare che cada o si faccia male, allentarle i vestiti stretti, non immobilizzarla o inserirle dita in bocca o anche darle subito farmaci, necessari solo se la crisi persiste per diversi minuti. Quasi sempre basta esserci, e un tocco o un abbraccio lieve (non soffocante) è la miglior terapia.
Niente paura, insomma, né per il paziente e i suoi familiari, né per chi si trova di fronte a qualcuno soggetto a una crisi. L’epilessia, nelle parole di Boniver, “è curabile e quindi compatibile con una vita normale nel 70% dei casi, andare a scuola, svolgere attività sportiva, lavorare ed avere dei figli”. Nulla di grave, dunque, lo sappiano tutti, epilettici e non epilettici: un attacco fa meno male del permanere dell'immotivato stigma.
Se lo chiamiamo “l’amico migliore dell’uomo” ci sono ottime e conclamate ragioni. Il cane ha capacità di affetto e fedeltà talmente generose da non essere scalfite neanche dai più gravi torti subiti dall’uomo. Se a questo si aggiungono le sue doti di forza, coraggio e fiuto, il quadrupede diventa anche il più prezioso alleato nelle attività di protezione civile, ordine pubblico, gestione dei soccorsi. A detta di tanti, peraltro, quei soccorsi non si limitano solo alle emergenze – quando si tratta di trovare e salvare qualcuno – ma anche al nostro quotidiano benessere psico-fisico, proteggendo la nostra salute fino ad allungarci la speranza di vita.
Su questa base sono proliferate negli ultimi anni, in Italia come altrove, tante belle iniziative e organismi spontanei, di studiosi e appassionati, quali l’“Associazione Internazionale Educazione Cinofila e Cani Sociali”, orientata all’organizzazione di attività cinofile a favore della disabilità e all'educazione dei cani a tale scopo, o l’associazione “Pet Theraphy”, dedicata specificamente alla promozione della “terapia canina” in ambito sanitario.
La base scientifica c’è, ed è stata rilanciata in questi giorni anche in Italia. Si tratta in particolare dei risultati di uno studio curato dall’American Heart Association per la rivista “Circulation”, che ha tentato di mettere insieme la letteratura scientifica pregressa di rilievo per trarne delle indicazioni. La conclusione di massima è che la “Pet Therapy” sembra funzionare davvero. Chi ha un cagnolino e soffre, in particolare, di patologie cardiovascolari, vivrebbe (in media) sensibilmente più a lungo.
Dalla versione integrale dello studio emergono tuttavia precisazioni, cautele e la necessità di approfondimenti. Non sono chiari i rapporti di causa ed effetto, né risultano certezze sull’incidenza per diverse patologie, a eccezione di quelle al cuore, e delle ragioni del beneficio, a eccezione degli accertati benefici dell'induzione all’attività fisica. Tecnicamente, la presenza di un cane non andrebbe quindi considerata come “un imperativo sanitario primario”.
Insomma, non si sa bene il perché, ma sta di fatto che, a una significativa evidenza statistica, avere un cagnolino risulta far bene, al punto da allungare la vita a molti, specie grazie a quello stimolo motorio, affettivo e psicologico da lui infuso. Ed è una verità che viene ora presa sul serio perfino da strutture ospedaliere, anche italiane. Da questo mese il Centro Cuore degli Istituti di ricovero e cura Iseni-Sanità di Malpensa annuncia l’avvio della “Pet Therapy”, aiutando i pazienti ad adottare un animale abbandonato. Una bella notizia, per il paziente, e probabilmente anche per il suo prossimo “miglior amico”.
Quasi tremila trapianti eseguiti solo l'anno scorso, quasi due milioni di italiani che hanno firmato il loro consenso alla donazione. Il primato già ampiamente celebrato del nostro Paese - tra la competenza degli operatori e la generosità dei cittadini - si è arricchito negli ultimi giorni si è arricchito di ulteriori novità che nobilitano la medicina italiana.
A Roma, all'Ospedale pediatrico Bambino Gesù, è stato effettuato il primo trapianto di fegato con la tecnica “domino” su due pazienti pediatrici. E cioè, l'organo asportato a un adolescente – che aveva ricevuto una donazione da cadavere – è stato utilizzato per un suo coetaneo, affetto da altra patologia. L'esito è stato ottimo, senza alcun problema post-operatorio, tanto che entrambi sono stati presto dimessi.
A garantire il successo è tra l'altro la peculiare natura “plastica” del fegato stesso, rispetto ad altri organi vitali. E anche su questo arrivano specifiche di rilievo dalla medicina della Penisola. In particolare è emerso, da studi effettuati per la prima volta direttamente sull'uomo, come il fegato rallenti il proprio processo di invecchiamento se trapiantato in una persona più giovane del donatore, palesando anzi notevoli proprietà di rigenerazione.
Come si legge sulla rivista Aging Cell, gli studiosi dell'Università di Bologna e dell'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma hanno individuato “nuovi marcatori di invecchiamento e l'incremento di alcune piccole molecole di RNA attive nella regolazione dell'espressione dei nostri geni”, che hanno poi evidenziato “segni di ringiovanimento indipendentemente dall'età del donatore”.
L'esito è rilevante, tanto più che è stato riscontrato tramite biopsie da donatori nell'arco dell'estesa fascia d'età tra i 12 e i 92 anni. Di più, a detta degli studiosi, aprirebbe le porte a “ulteriori filoni di ricerca nella valutazione dell'invecchiamento dell'organo”. Il riferimento è anche all'ambito della “perfusione”, che con appositi macchinari alimenta artificialmente la rigenerazione circolatoria e l'ossigenazione dei tessuti. Il fegato, però, come appunto dimostra la chirurgia e la ricerca italiana, ha comunque le doti che servono per farcela da solo.
Non è un tema “burocratico”, e neppure di complicata comprensione. Il nodo degli sprechi nella Sanità è collocato al cuore delle esigenze dei cittadini non solo dalle agenzie internazionali e da scoop giornalistici, ma anche dalle associazioni dei consumatori e dei pazienti, che al contempo lo incrociano con gli appelli a un maggior ricorso ai farmaci equivalenti. E’ il caso ad esempio della principale rete associativa italiana del settore, Cittadinanzattiva, che lo scorso anno – e non è la prima volta – ha posto al cuore della sua festa annuale, “SpreKo”, il lancio di una campagna nazionale (“IoEquivalgo”) in favore dei generici.
E adesso arriva la lente d’ingrandimento dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che sugli sprechi offre alcune utili comparazioni internazionali nel rapporto “Tackling Wasteful Spending on Health”, interessanti per aiutare il decisore pubblico (ma anche il cittadino) a capire come e quanto si può fare di più. Frodi ed errori sanitari hanno un impatto sulla spesa totale stimato globalmente al 6%; un cittadino su tre ritiene la Sanità un ambito di grave corruzione. E l’Italia è al vertice dei Paesi avanzati anche per il ricorso inappropriato ai Pronto Soccorso (20%).
Un capitolo speciale viene dedicato proprio ai medicinali generici, sia per il loro impatto sul risparmio – ad assoluta equivalenza nei principi attivi e nell’efficacia e sicurezza terapeutica – sia per le enormi differenze tra Paesi, con una penetrazione che varia dal 10% all’80%. Di nuovo l’Italia si ritrova amaramente nelle posizioni peggiori. “Deospedalizzare l’assistenza e utilizzare più frequentemente i farmaci generici” è il cuore del suggerimento che l’Ocse regala ai Paesi stretti nella tenaglia delle difficoltà economiche e delle crescenti esigenze di cura dovute all’invecchiamento della popolazione.
A supporto dell’obiettivo di incoraggiare l’uso dei generici equivalenti l’Ocse cita alcuni esempi recenti, ritenuti virtuosi: Francia e Ungheria, ad esempio hanno introdotto incentivi per i medici che li prescrivono, mentre in Grecia è stata fissata per gli ospedali una quota minima del 50% degli equivalenti, rispetto al volume totale. In Norvegia – citata più volte nel rapporto per l’efficienza e l’ampiezza dell’assistenza terapeutica – il ricorso nel settore pubblico a tali farmaci è stato assicurato tramite meccanismi di centralizzazione degli acquisti.
E il nostro Paese – che pur su altri fronti mantiene valutazioni positive sull’assistenza sanitaria – in questo conferma il ritardo. Da un altro rapporto dell’Ocse, riferito al 2015, emerge che il settore degli equivalenti rappresenta solo l’11% del mercato farmaceutico totale, meno della metà della media dei Paesi avanzati. C’è peraltro un rovescio della medaglia, segnalato in questi giorni da un rapporto Federfarma: un’accelerata tendenza al recupero. Nell’ultimo anno, infatti, tale percentuale è salita al 16% in valore, e a circa il 25% in volume (scarto che segnala esso stesso i potenziali di risparmio). Per i portafogli di tanti, così come per le casse pubbliche, è un recupero che può far la differenza nell’assicurare o meno le cure.
E’ il dilemma di tante mamme (e papà). Il bimbo sta maluccio, ma non malissimo, magari si sta riprendendo dopo qualche giorno di assenza, e sale la tentazione di rimandarlo subito a scuola. Il dilemma c’è ed è spesso comprensibile, date anche le esigenze lavorative dei genitori. Ed è un dubbio che coinvolge gli stessi pediatri, sovente messi sotto pressione per il rilascio del loro fatidico consenso al rientro in aula.
Al quesito ha dato ora un approfondimento di inchiesta e analisi un centro ospedaliero di ricerca dell’Università del Michigan, con l’epilogo di una serie di raccomandazioni alle famiglie che, viste dall’Italia, suonano per la verità assai “morbide”. Dal sondaggio, che ha coinvolto quasi 1500 genitori con almeno un figlio tra i 6 e i 18 anni, emerge che in oltre la metà dei casi essi scelgano di mandarlo a scuola anche se ha una leggera febbre, nel 42% se ha vomitato una volta, nel 20% se ha la dissenteria. Le proporzioni sfiorano poi il 90% in caso di tosse o raffreddore.
Insomma, emerge una notevole disinvoltura tra le famiglie americane, ma - e qui sta la sorpresa maggiore - la risposta degli scienziati del Michigan non pare affatto orientata a una “stretta”. Bene mandarlo a scuola, dicono, se ha solo il naso che cola senza altri sintomi di rilievo (appetito, letargia, problemi umorali), idem nel caso di un “picco di febbre”, purché poi non si protragga oltre le 24 ore, o anche in presenza di un episodio singolo di vomito se non accompagnato da dolore o febbre.
E’ un approccio che fa di certo sobbalzare gli esperti italiani, e le stesse famiglie, per la nostra maggior cautela dinanzi ai sintomi e ai rischi di complicanze e di esposizione ad altri contagi. “Raccomandazioni” così morbide possono rintracciarsi tra i portali scientifico-divulgativi italiani solo quando citano, per l’appunto, ricerche americane.
Da noi la parola d’ordine rimane invece quella di “non avere fretta a rimandare i figli a scuola”, e di attenersi alla tempistica suggerita dal pediatra, perfino per i ragazzi più grandi, quando i problemi e i rischi di ricaduta diminuiscono. Il precetto di almeno un giorno senza febbre dopo un’influenza, ad esempio, rimane un imperativo, così come l’assenza di altri chiari sintomi di malessere. Altrimenti si espone il figlio al rischio di malattie ricorrenti, nonché di diffondere il virus in classe. “Rischiare”, del resto, non ne vale la pena, anche perché sono le stesse scuole a chiamare anzitempo i genitori se si accorgono del malessere dell’alunno, e lo fanno perché hanno il dovere di tutelare la salute anche degli altri. Poi, certo, c’è il problema che oggi uno stipendio non basta e magari i genitori sono privi di “coperture” in caso di malattia del figlio. E questo è un problema reale, che chiama all’attenzione i decisori pubblici ben al di là del settore sanitario.
Che “l’elisir di lunga vita” sia anche, e anzitutto, a tavola è un concetto oramai abbastanza acclarato nell’opinione pubblica, oltre che tra gli addetti ai lavori, con menzioni speciali ampiamente riconosciute alla dieta mediterranea. C’è però chi si spinge oltre, sottolineando non solo i benefici di una dieta equilibrata e di qualche sacrificio, ma suggerendo addirittura di rendere perenni i sacrifici stessi.
L’ultimo segnale in tal senso arriva dalla rivista Nature, tramite una ricerca dell’Università del Maryland condotta su un gruppo di macachi. L’esito ultimo è presto detto: la restrizione calorica farebbe vivere i primati mediamente tre anni in più rispetto al normale (circa 26 anni), il che equivarrebbe a una decina di anni di vita in più per gli esseri umani.
L’indagine è iniziata negli anni ’80 ed è ancora in corso, ma l’evidenza ha indotto gli studiosi a rivelarne già gli esiti, seppur parziali, che tra l’altro contengono dati ancor più vistosi per le scimmie femmine che, con una dieta ipocalorica, vedrebbero estendere la propria longevità di ben sei anni, in alcuni casi superando addirittura la soglia dei 40. Sono dati accreditati anche da un esperto italiano di rilievo, Luigi Fontana, dell’Università di Brescia, che ha annotato tra le variabili decisive di tale scarto “tassi inferiori di malattie cardiache e tumorali”. Il “segreto” è dunque anzitutto in un fatto noto, ossia nell’importanza di una moderazione alimentare per la prevenzione di tali patologie.
Non mancano per la verità le obiezioni. Anzitutto, le “proiezioni” di tali indagini sull’essere umano sono essenzialmente esercizi matematici, senza ancora un’adeguata controprova medica. Insomma, il “passaggio” non è automatico, e alcuni ricercatori si dicono anzi delusi da tali esiti, notando che analoghe ricerche sui topolini avevano rivelato scarti ben più vistosi, con una longevità allungata fino al 50%.
E non mancano comunque gli appelli alla riflessione e ad evitare eccessi e controindicazioni. Arrivano addirittura dalla Calorie Restriction Society, pasdaran della prassi del “sacrificio”: il nostro corpo – ricordano - ha comunque bisogno di un adeguato nutrimento e perfino di un pur moderato contenuto di grassi. Ci serve per la forza, per l’umore e perfino per la libido, tutte variabili utili alla prevenzione sanitaria. “Restringere” ed eliminare le abbuffate può essere una scelta preziosa, ma solo se fatta bene, senza percorsi “fai da te” (ovvero privi di una consulenza professionale), e senza rinunciare all’altrettanto prezioso concetto di base: la tavola è e deve restare un piacere.
“Andare dal medico”: è anche la lingua a ricordarci un pregiudizio di genere che, in questa come in altre professioni, ai fatti non ha più ragion d’essere. La “rivoluzione culturale” c'è indubbiamente stata, ma adesso siamo per giunta prossimi al sorpasso, alla luce di alcuni numeri sugli addetti ai lavori e perfino di qualche indagine sulle loro capacità professionali. L'ultima, particolarmente significativa, è pubblicata sul Journal of American Medicine Asssociation, e documenterebbe “performance” migliori nei camici bianchi appartenenti al gentil sesso.
Gli studiosi dell'Harvard Medical School hanno riesaminato le cartelle cliniche di circa un milione e mezzo di pazienti trattati nel quadriennio tra il 2011 e il 2014, con risultati oggettivamente eloquenti. In generale, sono state riscontrate diagnosi mediamente più corrette da parte delle dottoresse, che rappresentano poco meno di un terzo della categoria negli Stati Uniti.
Ma le cifre più significative riguardano gli esiti terapeutici. I pazienti curati da donne hanno riscontrato un tasso di ricadute, con ri-ospedalizzazione entro il mese, ridotto del 5%. Il calo è del 4% sulla mortalità in tale lasso, ed è una differenza che viene conteggiata in cifre assolute sui 32mila decessi in meno nell'arco di un anno.
I dati sono interpretati dai ricercatori in relazione all'apparente maggior attenzione femminile agli aspetti psicologici e di prevenzione, oltre che a un maggior tempo dedicato alle visite. Ma c'è anche un'indicazione implicita, quella sulla fondata domanda di una “medicina di genere”, qui più volte segnalata, in relazione alle specifiche esigenze sanitarie dell'universo femminile, dalla ricerca alla terapia. E su questo, è facile intuire una sensibilità supplementare nel caso in cui il medico sia appunto una donna.
A tutto ciò fa riscontro un netto recupero femminile nel personale, anche in Italia. Le dottoresse sono già in maggioranza nella popolazione dei professionisti tra i 25 e i 50 anni, e si stima che lo diventeranno sulla totalità della categoria entro vent'anni. Lo sono già in alcune specializzazioni, come la pediatria e la neuropsichiatria infantile, anche se restano nettamente minoritarie in altre, come la chirurgia e la cardiologia. Tutto bene, dunque? No, purtroppo. I ruoli apicali restano largamente un quasi-monopolio dei maschi, che occupano ad esempio i vertici di 100 dei 106 Ordini dei medici italiani. Di più, da una recente indagine della sezione Giovani dell'associazione Anaao-Assomed, emerge che oltre la metà delle dottoresse lamenta una penalizzazione di carriera se diventano madri, e quasi la metà denuncia qualche discriminazione, nonostante la bravura ad esse generalmente riconosciuta.
“Niente paura”. Lo canta Ligabue, ma adesso è anche un rilevante consiglio medico. Una ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston in collaborazione con l’Icahn School of Medicine di New York, pubblicata sulla popolare rivista scientifica Lancet, ha infatti accertato i meccanismi di uno stretto legame tra l’iperattività di un’area cerebrale sensibile allo stress e l’esposizione ai rischi cardiovascolari.
Che il legame sussista non è propriamente una novità, ma gli scienziati statunitensi rivendicano di averne finalmente scovato le ragioni, aprendo così la strada a rimedi più appropriati. Per quattro anni hanno “fotografato” il cervello di 293 persone, seguendone le evoluzioni nelle situazioni di stress e osservando al contempo lo stato della milza e del midollo osseo. E qui è emersa la corrispondenza: l’iperattività di una specifica regione cerebrale era accompagnata da un analogo comportamento degli altri organi citati.
La conseguenza è dunque l’innesco di una sovrapproduzione di cellule immunitarie (globuli bianchi) e processi infiammatori a danno delle pareti delle arterie con conseguente aumento del rischio di formazione di placche arteriosclerotiche, e quindi di rischi cardiovascolari, inclusi l’ictus e l’infarto. Per verificare e dettagliare tali esiti l’esperimento è stato poi ripetuto su tredici soggetti con disturbi da stress post-traumatico, traendone piena conferma
La regione cerebrale coinvolta si chiama “amigdala”, proprio come l’antichissimo arnese di pietra fabbricato già dall’homo erectus, in quanto richiama vagamente la forma di una “mandorla”, da cui eredita l’etimo greco. Linguistica a parte, si tratta di un gruppo di strutture interconnesse che gestisce le emozioni, e in particolare la Linguistica a parte, si tratta di un gruppo di strutture interconnesse che gestisce le emozioni, e in particolare la paura. Cruciale tanto nell’elaborazione e nell’apprendimento emotivo quanto nella memoria, è lei a emettere salvifici segnali nelle situazioni di pericolo, ma anche a conservare i segni che vorremmo dimenticare derivanti dalle sofferenze pregresse.
Lo studio statunitense ha individuato anche effetti concreti dello stress sull’incidenza degli eventi cardiovascolari. Per questo i ricercatori suggeriscono di trattare lo stress, e soprattutto le situazioni post-traumatiche, alla stregua di altri fattori di rischio per il cuore, quali l’alta pressione o il fumo, nell’ambito della prevenzione. E intravedono un’altra frontiera: la possibilità futura – peraltro tutta da sperimentare - di curare farmacologicamente altre patologie gravi - dalle infiammatorie fino a quelle tumorali - agendo anche sui livelli di stress.
A volte la giusta diagnosi non basta, e non è sufficiente neanche lo sforzo fisico ed economico di recarsi in farmacia per accedere all’agognato medicinale. Si tratta poi di ricordarsi di assumerlo, nelle modalità suggerite dal medico. Ebbene, questo passaggio finale - tra dimenticanze e altro - è tutt’altro che scontato, con conseguenti effetti sul portafoglio e, soprattutto, sulla salute. Il tema dell’“aderenza terapeutica” è oramai prioritario nell’ambito dell’assistenza sanitaria, tanto da essere stato collocato al cuore di ben cinque giorni di iniziative realizzate a Milano dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), assieme ad altre otto associazioni e società scientifiche.
Al Winter Village si sono articolate, la scorsa settimana, ben quattro sezioni orientate ad abbracciare l’ambito della salute a tutto tondo: dall’area “food” all’esplorazione digitale del corpo (centrata sulla prevenzione, ossia sulla scoperta degli effetti nocivi dei comportamenti scorretti), dall’area salute in senso lato (teatro di dibattiti e consulenze) a quella concretamente – e gratuitamente – consacrata a check-up di ogni tipo.
Trasversale a tutto questo, il nodo dell’uso appropriato dei medicinali, che Onda ha rilanciato snocciolando i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: solo un paziente su tre segue correttamente la terapia prescrittagli, un altro terzo la segue solo in parte, e gli altri addirittura per nulla. Non va bene, e il danno può esser grave, specie per i pazienti. Nelle parole dell’Agenzia Italiana del Farmaco, “la scarsa aderenza alle prescrizioni del medico è la principale causa di non efficacia delle terapie farmacologiche ed è associata a un aumento degli interventi di assistenza sanitaria, della morbilità e della mortalità, rappresentando un danno sia per i pazienti che per il sistema sanitario e per la società”.
Detta così, suona un può colpevolizzante per i singoli. “Italiani birichini, indisciplinati”, sintetizzano anche alcuni media. Ed è su questo che Onda obietta, e chiama invece “l’intero sistema socio-sanitario a una migliore comunicazione, da un dialogo costruttivo medico-paziente alla semplificazione della terapia”. Si tratta di consigliare e seguire il paziente con la massima semplicità e chiarezza: se non lo si fa l’aderenza è evidentemente a rischio, specie per gli anziani, ossia la categoria più utilizzatrice di farmaci.
E infatti, una recente ricerca dell’Università di Gent ha fotografato una realtà ancor assolutamente preoccupante: solo il 17% degli anziani seguirebbe correttamente le prescrizioni, il 67% sotto-utilizzerebbe le terapie, il che farebbe aumentare del 26% le probabilità di ricovero e addirittura del 39% la mortalità. Sullo sfondo, c’è anche il nodo dei costi, tanto che l’anno scorso undici milioni di italiani hanno rinunciato alle cure per difficoltà economiche, rilanciando anche l’urgenza del ricorso ai generici. Insomma, la colpa della mancata aderenza terapeutica non è quasi mai dei pazienti.
Se ne parla poco, eppure è addirittura la terza causa di morte in Italia, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie, provocando oltre il 10% dei decessi, ed è addirittura la principale fonte di invalidità. L’ictus arriva così, e quando arriva è inaspettato quando deleterio. Tuttavia non tutto è dovuto al fato, e soprattutto non è che non si possa far nulla per prevenirlo. Questo vale soprattutto oggi, quando una ricerca ha scovato un enzima chiave nel suo innesco, e si tratta per giunta una ricerca italiana.
Lo studio ha meritato la pubblicazione sull’“Atherosclerosis Thrombosis Vascular Biology”, la rivista scientifica ufficiale dell'American Heart Association, ed è stato condotto da alcuni ricercatori dell’Università La Sapienza, sotto il coordinamento di Francesco Violi, direttore della Prima Clinica Medica del Policlinico Umberto I. In particolare, hanno individuato un enzima, il “Nox2”, che sarebbe responsabile dell’ostruzione della carotide, principale via d’accesso del sangue al cervello, che è la causa primaria del verificarsi dell’ictus.
“Era un enzima noto per l’utilità nella difesa dalle infezioni, tanto da esser presente nei leucociti dove svolge un’azione battericida, ma studi recenti hanno dimostrato che è presente anche nelle arterie”, spiega il professor Violi, ed è su questo che si è calcata la mano. Sono stati quindi studiati per cinque anni in vari centri italiani alcuni pazienti affetti da granulomatosa cronica, che consiste proprio in un deficit ereditario di tale enzima, una patologia rara quanto in apparenza estranea all’arteriosclerosi. Ebbene, si è così constatato che tale condizione invece si accompagna, rispetto ai soggetti sani, sia a una maggior dilatazione delle arterie sia a uno spessore inferiore della carotide.
Insomma il nocciolo del problema sembra essere ora identificato, tanto che viene ora annunciato l’imminente brevetto di un metodo per misurare la presenza di quell’enzima nel sangue, utilizzabile tanto per i soggetti ritenuti a rischio che per la popolazione generale. Di più, sono già state sperimentate negli animali alcune molecole capaci di inibire l’enzima e, correlativamente, la placca arteriosclerotica. Il test verrà presto effettuato sull’uomo, ma le premesse sembrano decisamente incoraggianti.
La scoperta non consiste naturalmente nell’“eliminazione dell’ictus”, ma nell’identificazione preventiva di uno dei principali fattori di rischio. E non è roba da poco, considerando appunto l’ampiezza del problema: circa 200mila casi ogni anno solo nel nostro paese, un’incidenza addirittura del 6,5% tra le persone sopra i 65 anni. Il senso è che si può arrivare prima, e una strada per arrivarci sembra ora tracciata.