C’è un “mantra” che si ripete nel mondo della salute: più precoce è la cura migliori sono i risultati. Ed è vero: troppo spesso le diagnosi tardive rendono meno efficaci i trattamenti e le possibilità di guarigione. A volte, però, accade il contrario e si esagera per eccesso. Ne è convinta la Fondazione Gimbe - istituita per sostenere la formazione continua degli operatori sanitari, migliorare la qualità metodologica della ricerca e l’interazione con le decisioni professionali e di politica sanitaria - che proprio di recente ha lanciato un allarme in materia di chirurgia, contestando l’eccesso di esami prima di un intervento, facendo anche riferimento alle “linee guida” dell’autorità britannica in materia.
“L'utilizzo routinario di test preoperatori per la chirurgia elettiva non incide sulla gestione chirurgica e il riscontro di risultati falsamente positivi genera un ulteriore sovra-utilizzo di prestazioni, come terapie inappropriate, consulti specialistici ed esami invasivi che possono determinare danni ai pazienti”, denuncia Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione. Non è un monito da poco, soprattutto se si tiene conto delle conseguenze dichiarate: sprechi economici e di tempo, “ritardi nel processo chirurgico” e, infine, danni per il paziente.
Il Gimbe fa riferimento per inciso anche alla norma contenuta all’articolo 5 della legge n. 24/2017 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 17 marzo), dove il dimostrato rispetto per le “linee guida elaborate da enti e istituzioni pubbliche e private nonché da società scientifiche, oltre che da buone pratiche clinico-assistenziali” varrebbero come ciambella di salvataggio contro eventuali accuse di imperizia. Il tema è quello - delicatissimo – della responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. Il punto nodale è che in Italia le buone pratiche ci sono, le linee guida formalmente ancora no.
In mancanza di meglio Gimbe fa riferimento alle direttive del National Intitute for Health and Care Excellence, che parte da un suggerimento solido e pieno di buon senso: “Includere i risultati di tutti i test pre-operatori effettuati dal medico di famiglia quando si richiede un consulto chirurgico, oltre che considerare tutti i farmaci assunti dal paziente prima di effettuare qualsiasi test pre-operatorio, proprio per evitare inutili duplicazioni”. Si può fare. Si dovrebbe fare. Anche senza guideline.
“I bambini crescono”, titola il 73mo Congresso della Società di Pediatria (Sip), in corso tra il 29 maggio e il I giugno a Napoli, lanciando già un duplice, correlato messaggio: “La pediatria è uscita dal confine temporale dell’età evolutiva - spiega il Presidente della Società Alberto Villani - “ha responsabilità dello stato di salute per tutta la vita, perché ciò che avviene nei primi anni fa la differenza”. A questo si lega il tema più specifico, quello dell’adolescenza, che segna il passaggio dall’età pediatrica a quella adulta, configurando talora un “limbo” anche sotto il profilo dell’assistenza sanitaria.
E all’evidenza il bisogno c’è ed è altissimo. Si stima che oltre il 15% dei ragazzi tra i 15 ai 17 anni soffra di una malattia cronica, e il 3,2% ne hanno addirittura più d’una, a iniziare dalle patologie allergiche e quelle respiratorie. Sono cifre che echeggiano un allarme, ancor più forte ed esteso, lanciato proprio nei giorni scorsi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), con la pubblicazione del Rapporto “Global Accelerated Action for the Health of Adolescents (AA-HA!): Guidance to Support Country Implementation”. Un richiamo all’attenzione nell’ambito dei Piani Sanitari nazionali, e la denuncia di un dato di fondo largamente negletto, ossia il decesso nel mondo di tremila ragazzi al giorno, ossia 1,2 milioni l’anno.
Nello specifico, le principali cause sono anzitutto gli incidenti stradali, poi le malattie respiratorie, in alcune aree del pianeta perfino le complicazioni della gravidanza, i disturbi neurologici, nonché i suicidi e i decessi accidentali legati a comportamenti autolesionistici. Da notare che questi ultimi salgono addirittura al vertice delle cause di morte tra gli adolescenti in Europa.
Dall’Oms le raccomandazioni spaziano dall’educazione scolastica nelle scuole, limiti più stretti al consumo di alcol, e soprattutto un’assistenza sanitaria adeguata. Il passaggio dal pediatra al medico di famiglia, tra i 14 e i 16, è un momento delicato, che viene sostanzialmente lasciato alla discrezione e responsabilità dei singoli operatori e famiglie. Addirittura, “ci siamo accorti con stupore che esiste una larga fascia di ragazzi per i quali il Sistema Sanitario Nazionale non prevede visite mediche – ha denunciato nei mesi scorsi Piernicola Garofalo, presidente della Società Italiana per la Medicina dell’Adolescenza. Insomma si possono fare psicologie e sociologie, ma il dato di fondo è che quei ragazzi non ricevono l’attenzione che richiedono.
Un Paese ancora relativamente “sano”, un Servizio Nazionale che, pur tra mille difficoltà e limiti, assicura ancora settori di eccellente assistenza, virtualmente rivolti a tutti. Ma anche una popolazione dove in tanti, troppi, a causa delle difficoltà economiche che continuano a mordere, arrivano al punto di non curarsi. Sono anni che denunciamo questa tendenza, e l’Istat, nel suo Rapporto annuale sulla Salute divulgato in questi giorni, ne fornisce un’amara conferma, con riferimento anche al lettino del dentista.
Nel 2015 il 6,5% degli italiani ha rinunciato alle terapie a causa dei loro costi, nel 2008 erano solo il 4%. E se poi si mette la lente sulle sperequazioni regionali e sociali, emergono realtà ancor più drammatiche. La proporzione di rinunce sale a oltre il 10% nel Mezzogiorno, e supera il 14% tra le fasce di reddito più deboli. Dati che poi si riflettono sulle condizioni di salute della popolazione, che risultano migliori al Nord Italia, nonché tra i più ricchi.
Insomma, l’amara realtà è che il portafoglio è un passaporto anche in quest’ambito, e la salute orale non fa eccezione. Nel 2005 circa il 40% delle famiglie italiane si rivolgeva al dentista o all’ortodontista, proporzione scesa di almeno due punti nell’arco di dieci anni. Per gli addetti ai lavori, si tratterebbe del resto solo di una sottostima del calo avvenuto. E qui, più che mai, il nodo è nei costi. Come documenta anche un’indagine di un’agenzia privata (l’Osservatorio di “UniSalute”), ben il 36% dichiara di aver rinunciato alle cure perché non può permettersele, e il 17% denuncia aumenti di prezzo anche negli ultimi tempi.
Temi che chiamano in causa i decisori, e in effetti, anche in ambito regionale, si è aperta la discussione sull’ipotesi di assicurare le cure odontoiatriche ai meno abbienti, coprendone i costi. Alla buona prospettiva se ne aggiunge un’altra, ossia che sta emergendo qualche segnale di un’inversione di tendenza. I dati Istat si basano sul 2015, ma da un sondaggio dell'Accademia Italiana di Odontoiatria Conservativa e Restaurativa, rivolto ai genitori di ragazzi under 14, emerge che il 90% li hanno portati dal dentista nell’ultimo anno almeno una volta.
Ci sarebbe dunque un recupero, ma i problemi non sono solo economici. La stessa indagine ad esempio rivela che oltre la metà della popolazione non sa che l’eccesso di zuccheri o una scarsa igiene orale siano tra le cause principali della carie, né che vanno curati anche i denti di latte, quando cariati. Alla nostra salute servirebbe dunque un po’ più di sicurezza materiale, ma anche di informazione.
A marzo la Settimana di prevenzione oncologica, ad aprile la Giornata della salute della donna, che ha collocato il tema in prima linea, adesso la “Race of the Cure”, dedicata specificamente ai tumori al seno, che ha allegramente occupato nei giorni scorsi le strade di Roma, proseguendo poi la sua corsa in altre città. Sta accadendo qualcosa in Italia, sulla scia di un lavoro avviato da anni, e si tratta di una diffusa presa di coscienza su quanto si debba e si possa fare per tutelare la salute, anzitutto femminile, in ambito oncologico.
L’evento più “vistoso” si è consumato domenica, con i cinque chilometri di corsa e i due di passeggiata allestiti intorno al Circo Massimo, e numeri da record. Gli organizzatori riferiscono di oltre 65mila iscritti, rendendola quella “con più partecipanti al mondo”, nelle parole di Riccardo Masetti, presidente di Komen Italia, la sezione nazionale della rete Susan G. Komen, attivata da medici e pazienti nel 1982 a Dallas, e poi sviluppatasi con ben 125 affiliati.
La sezione italiana è diventato dunque l’esponente di punta, grazie alla generosità delle persone, tanto da aver raccolto e distribuito in meno di diciott’anni 2,7 milioni di euro, destinati a centinaia di progetti, propri e di altre associazioni impegnate nel settore, incluse attività di aggiornamento degli operatori sanitari. Fatti concreti, così come il supporto fornito dagli itineranti “Villaggi della Salute”, con la partecipazione di specialisti e strutture sanitarie, pronte a fornire ecografie, esami alla tiroide, nonché attività di benessere, tra sedute di yoga e lezioni di teatro.
Poi ci sono gli aspetti di comunicazione e simbolici, come la scelta di declinare l’iniziativa in più giornate, partendo dalle periferie e arrivando solo dopo al centro, a Roma, come a Bari, Bologna, Brescia e altrove. Poi una campagna condotta assieme a Sky di promozione della salute femminile, articolata in una ventina di appuntamenti, tra interventi di esperti e “madrine” d’eccezione dal mondo dello spettacolo.
Tra una corsa e l’altra c’è la sostanza, ricordata in questi giorni dalla stessa Beatrice Lorenzin, citando i dati del suo Ministero: “Prevenire significa evitare la malattia, e farlo in tempo significa anche poterla curare”. A questo servono le campagne, e soprattutto gli screening. Sull’importanza di farli i livelli di consapevolezza sono in effetti aumentati tra le donne. Che tuttavia spesso poi finiscono a dire: “Lo farò domani”, a causa dei loro mille impegni. Le donne vanno quindi aiutate, magari anche levando alcuni di quegli impegni. E questo ancora non sempre avviene, anzi: l’Istat ha documentato in questi giorni che, a causa delle difficoltà economiche, tra le meno abbienti i controlli di prevenzione tumorale, anziché aumentare, diminuiscono.
Lo richiedono ancora alcuni documenti ufficiali e se ne tiene traccia perfino in qualche luogo di lavoro. Conoscere il proprio gruppo sanguigno è una variabile essenziale, specialmente in situazioni di emergenza che richiedono una trasfusione di “sangue compatibile”. Ma adesso, da una ricerca olandese, emerge che tale variabile può servire anche a molto altro, inclusa una valutazione su una maggiore, o minore, esposizione a problemi cardiovascolari.
Lo studio - realizzato dall’Università di Groningen e presentato nei giorni scorsi al Congresso della Società Europea di Cardiologia, a Parigi - ha rielaborato i dati raccolti in nove ricerche pregresse su oltre 1,3 milioni di persone. Ne è emerso un aumento del 9% dell’esposizione sia a eventi coronarici che cardiovascolari tra chi non appartiene al gruppo 0. Insomma, gli appartenenti ai gruppi A, AB e B sarebbe un po’ più a rischio.
Si tratterebbe della più estesa evidenza fin qui raccolta in proposito, anche se gli studiosi ammettono che “servono altri studi per accertare i rapporti di causa ed effetto”. Le ipotesi sono peraltro già sul tavolo. I gruppi sanguigni emersi più a rischio comporterebbero livelli più elevati di una proteina coagulante, associata ad esempio al rischio di trombosi, nonché della proteina “Gal-3”, associata a eventi infiammatori e a complicanze in caso di attacchi cardiaci o elevati livelli di colesterolo (e questo vale soprattutto per il gruppo A).
Per ora si tratta di in un piccolo e supplementare campanello di allarme, che richiederebbe una certa attenzione. L’orizzonte è quello dell’inclusione della categoria sanguigna nelle valutazioni personalizzate di rischio, in aggiunta alle variabili esistenti quali l’età, il colesterolo e la pressione. Aspetti di prevenzione, ma anche di appropriatezza terapeutica. “I portatori di gruppo A potrebbero aver bisogno di livelli di trattamento inferiori per la dislipidemia o l’ipertensione”, dicono tra l’altro i ricercatori olandesi. Dati e ipotesi da annotare, per i medici e per noi tutti.
Negli Stati Uniti rappresenta un vero proprio boom. E in parte è rimbalzata nella Vecchia Europa, Italia inclusa, tanto da diventare oggetto d’attenzione anche da parte de Le Iene. La “dieta” più “semplice” per definizione, ossia quella che banalmente suggerisce di rinunciare al cibo, sarebbe anche la più salubre e foriera di salute e longevità. E tuttavia, in base a nuovi riscontri scientifici, la realtà risulta ben più complessa, e soprattutto sembra almeno in parte smentire i decantati benefici.
L’esame è stato condotto dall’Università dell’Illinois, e poi pubblicato sulla rivista Jama Internal Medicine, coinvolgendo tra il 2011 e il 2015 un centinaio di persone obese, divise in due gruppi (oltre a un terzo, osservato a solo fini “di controllo”, di persone che non seguivano alcuna restrizione): il primo era sottoposto a una “dieta convenzionale”, con un consumo quotidiano pari al 75% dei bisogni calorici, il secondo seguiva un percorso alternato appunto di “digiuno”, nella fattispecie assumendo il 25% delle calorie necessarie nei giorni di sacrificio, il 125% negli altri.
L’esito è che i due gruppi dopo un anno hanno riscontrato livelli quasi identici di perdita di peso, ossia rispettivamente il 5,3% e il 6%, quindi senza benefici comparati di rilievo. Ancor più increscioso il confronto sull’“aderenza” alla dieta, uno degli aspetti più delicati e significativi in sede di valutazione sull’efficacia della stessa. Ebbene, il tasso di abbandono tra chi seguiva una dieta tradizionale si è fermato al 29%, mentre tra i “digiunanti” si è impennato al 39%. Esistono del resto diverse varianti alla cosiddetta “dieta del digiuno”. Tra le più popolari, c’è la cosiddetta “5.2”, che consiste in due giorni settimanali di rinuncia drastica, confinata tra le 500 e le 600 calorie (a seconda del sesso della persona), e gli altri cinque di consumo illimitato, facendo comunque attenzione a evitare gli eccessi di grassi saturi e di attenersi a una soglia tendenziale tra le 2000 e 2600 calorie.
L’effetto riscontrato da una buona dieta non si limita alla perdita di peso in eccesso, ma coinvolge anche un miglioramento generale della salute, incluso un calo della pressione del sangue, dei livelli di colesterolo e di glucosio, nonché un potenziamento delle difese immunitarie. Solo che tali risultati, all’evidenza raccolta dagli scienziati americani, non sembrano perseguibili con maggior efficacia in chi sceglie l’impervia strada del digiuno. La dieta è una cosa seria, talmente seria da essere tra l’altro sconsigliata ad alcune categorie, incluse le donne in gravidanza. Il messaggio è chiaro: evitare le facili suggestioni e il “fai-da-te”. Meglio - anzi, a volte, assolutamente necessario - farsi consigliare da uno specialista.
Tra discussioni, allarmismi e qualche provocazione giornalistica, c’è una verità di fondo che si fa strada sul papilloma virus: quella che gli italiani in realtà ne sanno relativamente poco, e questo riguarda soprattutto gli uomini, nonché i rischi della malattia per gli stessi. A fotografare il problema è una nuova ricerca in proposito del Censis, centrata in prevalenza sui genitori.
Il dato assoluto non sembra peraltro pessimo. Circa l’85% delle mamme dichiara di avere informazioni sul virus, si tratta di un dato in aumento rispetto a un’analoga indagine di 6 anni fa. Sono i papà a essere sempre i meno informati (intorno al 75%), sebbene siano oggi più attivi e coinvolti nelle vicende domestiche e nonostante la copertura vaccinale sia carente soprattutto tra i maschi. Il 56,6% delle famiglie dichiara infatti di aver immunizzato le figlie, mentre per i figli la proporzione crolla al 7,3%. Dati che sembrano essere una diretta conseguenza del nodo “di genere” sulla consapevolezza delle conseguenze del virus: quasi tutte le madri (oltre il 91%) lo associa correttamente all’esposizione al tumore al collo dell’utero, ma meno della metà sa che può innescare tumori anche nell’uomo, e il 36,6% pensa addirittura che il papilloma colpisca solo le donne.
Difetti di conoscenza, e soprattutto parecchia confusione, ammessa dagli stessi genitori. La metà lamenta carenze di pubblica informazione, un terzo dice che l’informazione c’è ma risulta contraddittoria. E tutto questo richiama alla responsabilità gli stessi operatori del settore, anche considerando che il 44% delle famiglie dicono di essersi informate in proposito sui media tradizionali, un altro 30,7% sul web.
A ostacolare un’esauriente informazione c’è anche una resistenza sul nodo dei costi: “Nel portare a casa il piano vaccinale abbiamo incontrato tante resistenze da parte delle Regioni, che considerano i vaccini una spesa in più e tendono ad intervenire solo in stato di emergenza come accaduto per la meningite”, lamenta Ranieri Guerra, Direttore Generale della Prevenzione sanitaria del Ministero della Salute, chiamando alla responsabilità i medici e anche le scuole, in ragione tra l’altro degli ottimi esiti di alcune iniziative locali di informazione tra i giovani.
E i giovani stessi? Ne sanno ancora meno, come ha illustrato un’altra recente indagine dello stesso Censis, da cui è emerso che tre quarti degli adolescenti dichiarano di sapere dell’esistenza del virus, e circa la metà sa della possibilità di vaccinarsi. Anche in questo caso i comportamenti dichiarato sono lo specchio di un tasso di “confusione” preoccupante, anche sul piano della prevenzione contraccettiva. Il 92,7% dei giovani interpellati ha dichiarato di utilizzare gli anticoncezionali, ma a far paura è la gravidanza, molto più della malattia. E il 17,6% è addirittura convinto che per proteggersi dal virus e dalle altre malattie sessualmente trasmissibili vada bene anche la pillola.
“Risultati entusiasmanti, è un passo avanti cruciale”. Ha espresso così la propria soddisfazione Paul Eggleton, dell’Università britannica di Exeter, che, in collaborazione con l’Università canadese di Alberta, avrebbe identificato una proteina apparentemente responsabile dell’insorgere della sclerosi multipla, patologia devastante che colpisce circa due milioni di persone nel mondo (specie tra ventenni e trentenni), finora curata perlopiù con terapie sintomatologiche, proprio per la scarsa chiarezza sulle sue origini.
La proteina si chiama Rab32 ed è una parte della cellula che immagazzina il calcio. E’ emersa in grande quantità solo nel cervello dei pazienti ammalati, e avrebbe il potenziale deleterio di alterare i mitocondri, il cui malfunzionamento è già sospettato di essere al cuore del danno neuronale. Sarebbe cioè proprio la prossimità tra la Rab32 e i mitocondri a innescare l’effetto tossico sulle cellule cerebrali. La scoperta, pubblicata sul Journal of Neuroinflammation, è rimbalzata ampiamente in questi giorni sulla stampa, soprattutto anglosassone, che parla di “svolta”, o quantomeno di importante punto di partenza per la ricerca farmacologica, all’indomani della celebrazione della “Settimana” appena trascorsa “della Consapevolezza sulla Sclerosi Multipla”.
Minor eco mediatico, colpevolmente, ha ottenuto l’annuncio proprio in questi giorni di un’altra novità scientifica che arriva dal nostro Paese, sulla base di uno studio internazionale, partito dalla Sardegna ed estesosi in vari paesi europei, nonché pubblicato sul New England Journal of Medicine, il tutto grazie al finanziamento dall’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, un’organizzazione sostenuta da mezzo secolo da oramai circa settemila volontari.
Dopo sei anni di indagine, gli scienziati sono riusciti a documentare il nesso diretto tra la variante un gene, denominata BAFF-var, e il rischio di sviluppare la sclerosi o anche il lupus. Si tratta di “linfociti B”, che, nelle parole del coordinatore dello studio Francesco Cucca, “producono anticorpi che normalmente ci difendono da certi tipi di microbi ma che, in qualche caso, possono diventare auto-anticorpi e partecipare così alla risposta infiammatoria”. Un altro tassello di rilievo, a quanto pare. E si tratta di novità complementari, oltre che preziose. “Sono 'malattie multifattoriali', in cui il processo autoimmune è determinato dall’azione congiunta di diversi fattori genetici e ambientali”, aggiunge Cucca. Più li si conosce, più sarà possibile intervenire con la sperimentazione di nuovi medicinali e, in parte, anche con quelli esistenti.
Un’estesa ricerca britannica ha consolidato i sospetti circa il nesso tra una pubertà precoce e l’esposizione futura ad alcune patologie, anche tumorali. La correlazione emerge dalla più dettagliata mappatura mai realizzata con riferimento all’età di quel delicato passaggio adolescenziale. Lo studio - coordinato dall’Università di Cambridge e pubblicato su Nature Genetics - ha preso in esame le varianti del genoma di quasi 370mila persone di vari Paesi, arrivando a identificare ben 389 segnali genetici che sarebbero associati alla tempistica dell’avvento della pubertà.
Insomma l’“orologio” sarebbe scritto nel Dna, e con esso anche la possibilità di ammalarsi in futuro. Nel dettaglio, tra le donne l’esposizione al tumore al seno è stimata elevarsi del 6% per ogni anno di “anticipo” nell’arrivo della pubertà, calcolato mediamente sugli 11 anni; percentuale che sale all’8% per il tumore all’ovaio. Tra gli uomini, che normalmente arrivano alla pubertà un anno più tardi, l’aumento di rischio di un cancro alla prostata è calcolato al 9%. Sono dati tendenziali, da prendere senza “automatismi” o allarmismi, ma che reclamano un’attenzione supplementare al tema della pubertà precoce, e all’arma principale della lotta ai tumori, che rimane quella della prevenzione e di una diagnosi tempestiva. Inoltre gli stessi autori ribadiscono che su tale “orologio”, nonché sui rischi tumorali, possono comunque intervenire un’infinità di altri fattori.
Molto, comunque, sarebbe rintracciabile nella genetica. In particolare, rivendicano di aver “isolato”, e quindi neutralizzato, il “fattore di disturbo” rappresentato dal sovrappeso, già sospettato di essere una variabile di rilievo sull’incombere della pubertà precoce. “Altri studi avevano documentato un’associazione tendenziale tra l’età della pubertà e i problemi futuri di salute, ma finora non era chiaro se questi derivassero piuttosto da fattori secondari quali il peso corporeo”, spiega il coordinatore dello studio John Perry. La ricerca di Cambridge ci sarebbe riuscita, identificando il nesso “a prescindere” della presenza di tali variabili.
“L’associazione tra pubertà precoce e rischi tumorali futuri potrebbe forse spiegarsi nella maggior presenza di ormoni sessuali nell’arco della vita”, aggiunge Perry, precisando che si tratta peraltro solo di un’ipotesi. Per ora c’è la mappatura, con per giunta qualche curiosità “intrigante”: è il caso delle varianti di due dei geni che sarebbero responsabili dell’anticipo della pubertà; la cosa sorprendente è che l’effetto si produce solo se sono ereditati dal padre, e non dalla madre.
Certo, a margine di qualche ragionevole quesito su casi e patologie specifiche, ci sono le polemiche, le “fake news”, le storie che confondono le acque senza portare nessun vantaggio alla cultura sanitaria dei Paesi avanzati, che a volte sembrano voler buttare a mare i traguardi raggiunti.
Troppo spesso, però, ci si dimentica che l’altra faccia del problema sono quei quasi venti milioni di bambini non vaccinati del pianeta: una carenza che tiene sotto scacco intere aree povere, impedendo il superamento di diverse patologie, già ampiamente debellate altrove. Il dato è risuonato nei giorni scorsi, in occasione, come oramai da tradizione a fine aprile, della Settimana dell'Immunizzazione, promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), sullo sfondo di qualche novità di rilievo dalla ricerca. E così, sono partite nuove campagne di sensibilizzazione da parte di diverse sigle di specialisti, nonché una linea telefonica diretta, allestita per l’occasione la scorsa settimana dalla Società Italiana di Pediatria (Sip), per rispondere alle domande e ai dubbi circa le diverse vaccinazioni, obbligatorie o meno.
Tutto questo anche perché il problema in realtà non riguarda solo qualche area africana o asiatica, bensì lo stesso Vecchio Continente. “Dei 10,7 milioni di bambini nati ogni anno in Europa, quasi 650mila non completano il ciclo vaccinale delle tre dosi di difterite, tetano e pertosse nel primo anno di vita”, lamenta il Presidente della Sip, Alberto Villani. E un'amara menzione speciale è dedicata proprio al nostro Paese. Gli ultimi dati consolidano quanto qui già segnalato in precedenza con riferimento in particolare al morbillo. Degli oltre seimila casi rilevati in tutta l'Unione Europea nell'ultimo anno, quasi un quarto si sono verificati in Italia, superata in negativo solo dalla Romania, tendenza che sembra accelerarsi nei primi mesi del 2017.
Tra un allarme e l'altro non mancano comunque le buone notizie. Secondo le stime dell'Oms i vaccini salvano ogni anno la vita a circa tre milioni di persone,. Numeri che potrebbero presto ingrossarsi con l'annuncio, da parte della stessa Organizzazione, del via al test su larga scala di un nuovo “vaccino anti-malaria” nell'Africa sub-sahariana (teatro di oltre il 90% dei circa 430mila decessi l'anno per l'infezione), e in particolare in Kenya, Ghana e Malawi. La profilassi, in base alle sperimentazioni, si è rivelata capace di prevenire 4 casi di malaria su 10. Obiettivo, da qui al 2020, immunizzare almeno 360mila bambini
Il tema della “salute” appassiona eccome, più di quanto si pensi. Basta prestare orecchio alle chiacchiere da bar: il tema è secondo solo allo sport e forse alla politica, tra disquisizioni a volta strampalate e perfino spudorate, con tanti che non esitano a esternare pubblicamente le proprie magagne, incluse prostate, problemi cardiaci o altro, nonché le proprie conoscenze scientifiche. E’ un argomento “popolare” per eccellenza, con l’attenzione che reclama per gli addetti ai lavori.
Da qui l’eccellente idea di un vero e proprio “Festival della Scienza Medica”, giunto nei giorni scorsi a Bologna alla terza edizione. Un evento che non si è confinato in qualche sala conferenze, ma ha coinvolto i palazzi e i portici dell’intera città in un’opera di confronto pubblico, intorno al filone della “tradizione e innovazione”. Visite museali, aperture ospedaliere, mostre, concerti, incontri con gli studenti, in un approccio spintamente “multidisciplinare”, tra ricerca e tecnologia, il tema medico e insieme sociologico della “medicina di genere”, i nodi economici, incluso quello dei costi dei farmaci e quindi dell’importanza del ricorso ai farmaci generici, i “nuovi” orizzonti terapeutici quali la “pet therapy”, e perfino l’apporto della scienza medica alla criminologia.
Tra esposizioni, curiosità e dibattiti, non sono mancati i contributi “alti”, sul piano scientifico e istituzionale: tra gli altri, il Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco Mario Melazzini, che è intervenuto proprio sul tema dei costi farmacologici. Presenti in massa gli studiosi tedeschi (la Germania era il “Paese Ospite” di quest’anno), e ben quattro Premi Nobel per la Medicina, Jules Hoffmann, Louis Ignarro, Thomas Lindahl ed Edvard Moser. Per giunta, con un epilogo postumo, il 22 maggio interverrà anche – a proposito dell’“interdisciplinarità” del tema-salute – un celebre Nobel per l’Economia, l’indiano Amartya Sen, che parlerà dell’“importanza dei sistemi sanitari universalistici per l'economia” stessa. Ovvero: perché l’obiettivo di curare tutti (e bene) non è un “costo”, bensì anzitutto un’opportunità, anche sul piano materiale.
Dietro a tutto questo un sottotitolo, reclamato dall’attualità, quello sul dilagare delle “bufale”, con i rischi che comporta per la salute di ognuno e di tutti. Da una recente ricerca internazionale dell’Università slovena di Maribor (“The Spreading of Misinformation Online”), emerge che circa l’80% dei pazienti si informa sul web. E in tale ambito “si tende ad accordare più fiducia all'aneddotica personale che ai dati scientifici”, commenta l’Ordinario bolognese Luigi Bolondi, con la conseguenza che “la comunicazione deve diventare sempre di più una priorità”. Un appello alla responsabilità, rivolto ai comunicatori, ma prima ancora ai medici stessi. “Il paziente ha bisogno di essere ascoltato e confortato dal medico”. Il rischio-bufale aumenta quando questo supporto viene a mancare.
Ci sono diversi tipi di colesterolo, tanto da ingenerare qualche confusione e dubbio, perfino tra gli addetti ai lavori, sulle possibilità, e talora anche sull’opportunità, di trattarlo. Un salto in avanti, di chiarezza e di possibilità terapeutica, è segnalato da una ricerca americana illustrata in questi giorni a un convegno a Washington, nonché sulla rivista New England Journal of Medicine.
Ricerca che convince anche gli scienziati italiani: “A questo punto non abbiamo più dubbi: il cattivo è lui, il colesterolo Ldl. E per i pazienti il beneficio clinico è proporzionale alla sua riduzione”, commenta all’AdnKronos Alberto Zambon, lipidologo all’Università di Padova. La novità – dal punto di vista terapeutico - è rappresentata da un anticorpo monoclonale che si sarebbe rivelato capace di aumentare la capacità endogena del fegato di diminuire i livelli di colesterolo dal sangue.
Le qualità del prodotto sono state testate su un campione estesissimo, più di 27mila pazienti di 49 Paesi, monitorati per oltre due anni, tra il 2013 e il 2015: nei pazienti che lo hanno utilizzato è stata registrata una riduzione media del colesterolo del 59%, rispetto ai partecipanti del “gruppo di controllo”, ai quali era stato somministrato solo placebo. A fronte della somministrazione è stata registrata anche una diminuzione dei rischi cardiovascolari, con una diminuzione del 27% per gli infarti e del 21% per gli ictus.
Dati definiti “rivoluzionari” da molti, anche nel contesto italiano, dove l’ipercolesterolemia risulta crescere a ritmi vertiginosi, raddoppiando l’incidenza nell’arco di un decennio in base alle rilevazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, e superando oramai la quota di un terzo della popolazione. Con l’aggravante, nota lo stesso professor Zambon, che “è trattata in modo appropriato in meno del 50% dei pazienti ad alto rischio”.
Fa bene allo sviluppo del cervello, alla salute del cuore, alla prevenzione tumorale. I benefici del latte materno sono oramai riconosciuti e acclarati, sebbene permangano ancora quesiti e misteri sul dettaglio dei rapporti di causa ed effetto, nonché sulla specifica “chimica” così foriera di salute. Ed è proprio per gli esiti solo parziali dei “tentativi di imitazione” (oltre che per contrastare le pratiche commerciali assai controverse, messe in atto da alcuni produttori di latte in polvere, specie nei paesi poveri), che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità da tempo consiglia di utilizzare integralmente il latte materno almeno fino ai sei mesi.
Su tutto questo un salto di consapevolezza c’è comunque stato. L’Istat ha recentemente rivelato che tra i quasi tre milioni di donne italiane che hanno avuto figli negli ultimi cinque anni, la percentuale che ha allattato al seno è salita all’85,5%, rispetto all’81,1% del periodo precedente, così come si è prolungato il periodo medio di allattamento, da 6,2 mesi a 8,3. E la presa d’atto è stata anche “politica”, come documenta la direttiva del 3 febbraio scorso della Presidenza del Consiglio, che ha intimato le pubbliche amministrazioni a non ostacolare l’atto materno, sia per le lavoratrici che per le utenti dei servizi aperti al pubblico, sebbene la cronaca certifichi ancora il permanere di qualche tabù.
A promuovere tale salto sono state naturalmente soprattutto le donne, come quelle che da quasi 60 anni animano “La Leche League”, aiutando e informando le neomamme sui benefici e le buone pratiche di allattamento. La rete è distribuita su ben 72 Paesi, in Italia è presente dal 1979, con circa 120 consulenti con esperienza pregressa di maternità e allattamento stesso e formate grazie ad un tirocinio. L’attività di sensibilizzazione, indirizzata anche agli addetti ai lavori, è culminata nei giorni scorsi con tre giorni di convegno nell’area bolognese proprio in occasione proprio della “Giornata Mondiale dell’Allattamento”, celebrata il 21 aprile: l’evento – a conferma della presa di coscienza odierna – ha registrato il “tutto esaurito” con tre mesi di anticipo.
In un altro recente simposio scientifico internazionale, tenutosi a Firenze, nove tra i massimi esperti mondiali hanno fatto il punto sui benefici del latte materno accendendo i riflettori su Hamlet, detto anche“Golden Milk”, il complesso anti-cancro scoperto nel latte materno al centro dell’attenzione degli scienziati per essersi rivelato capace di uccidere in vitro oltre 40 tipologie di cancro nei ratti.
Anche in questa occasione è stato tra l’altro ribadito l’obiettivo di proteggere l’allattamento: “Per le prime due settimane dopo il parto le madri dovrebbero solo mangiare, dormire e allattare, lasciando letteralmente ogni altra incombenza ai padri”, dicono gli scienziati. E in caso di problemi, ci sono le “banche del latte”: in Italia sono 35 ed è un felice primato europeo. A gestirle sono donatrici e donatarie, sotto rigoroso controllo medico, tanto che la maggior parte sono istituite nell’ambito di strutture ospedaliere. Segno di civiltà. E di salute.
Sigle mediche e associazioni di pazienti non sono sempre dalla stessa parte. Stavolta, però è davvero così. E a cementare l’alleanza è stato il tema “caldo” delle vaccinazioni, in preoccupante calo anche sulla scia del fenomeno delle cosiddette “fake news”, che minimizzano l'importanza delle conquiste avvenute per la salute pubblica, tanto da contestarle e mettere a repentaglio i traguardi consolidati.
Per questo la Società Italiana di Medicina Generale (Simg) e la rete associativa di Cittadinanzattiva hanno siglato assieme un sintetico ma esauriente opuscolo informativo, disponibile on-line, e in arrivo in formato cartaceo negli ambulatori, nelle farmacie e nelle stesse sedi dell'associazione. Obiettivo: fugare “diffidenze e dietrologie”, ma anche rispondere ad alcuni dubbi, quali ad esempio l’utilizzo dei vaccini durante la gravidanza o in caso di malattia.
In altre parole, si tratta, puntando all'informazione, di invertire la rotta sulle vaccinazioni, che “hanno avuto un impatto dirompente senza pari a beneficio della salute”, nelle parole dello stesso ministro Beatrice Lorenzin. “Le percentuali, in età pediatrica, per molte gravi malattie infettive sono scese sotto la soglia limite di sicurezza del 95%, per la poliomielite, difterite e tetano è immunizzato solo il 93% dei bambini, su parotite, rosolia e morbillo siamo a meno dell’85%”, nota preoccupato il Presidente Simg, Claudio Circelli.
La conseguenza, già segnalata in questi sito, è ad esempio nel rinnovato allarme sul morbillo, ritornato in Italia a uno stato definito “endemico”, avendo già sfondato quota mille casi solo dall'inizio di quest'anno. Sui vaccini il pensiero va subito alle esigenze attuali e future dei bambini, ma il tema coinvolge tutte le fasce d'età, e in particolare gli anziani. A causa dell'influenza, ad esempio, “l'inverno appena terminato ha registrato un boom di decessi tra gli anziani, il 15% in più rispetto alle previsioni”, documenta ancora la Simg.
Fondamentale, dunque, immunizzarsi, levando di torno ogni dubbio in materia di sicurezza dei vaccini, del tutto immotivato data la natura strettissima dei controlli sull'intero settore farmacologico, in Italia e in Europa. “Basta diffidenze sui vaccini”, incalza anche Tonino Aceti, Coordinatore del Tribunale dei Diritti del Malato di Cittadinanzattiva. L'urgenza della sensibilizzazione in materia è dunque riconosciuta e condivisa, e per giunta va paradossalmente estesa agli stessi operatori sanitari italiani, anch'essi ai fatti piuttosto pigri. Da un'indagine divulgata in questi giorni emerge tra l'altro che oltre il 40% non si è sottoposto al richiamo per il tetano negli ultimi dieci anni, e meno di un terzo si è vaccinato quest'anno contro l'influenza.
“E’ il male del secolo”. Lo si dice per la depressione, e per la verità anche per altre patologie, ma a leggere i dati rilanciati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che in questi giorni ha celebrato la propria “Giornata”, dedicandola proprio a essa, è un epiteto amaramente meritato. “E’ la causa principale di malattia e disabilità al mondo”, scrive l’Oms, segnalando come la depressione sia tuttora un problema pericolosamente sottovalutato, a fronte di un rapido aumento della sua incidenza. Il 50% dei pazienti non accede ad alcuna cura, e perfino nei Paesi ricchi i sistemi sanitari non dedicano alla depressione più del 5% delle proprie risorse.
Tale contesto sottolinea l’importanza delle novità scientifiche orientate a facilitare la diagnosi e l’appropriatezza terapeutica. Un annuncio interessante proveniente da un’Università texana è stato pubblicato sulla rivista “Psychoneuroendocrinology”, che ha approfondito l’analisi di una particolare proteina infiammatoria, la cosiddetta “proteina C reattiva”, captabile con una banale analisi del sangue.
Il suo nesso con gli stati depressivi era già stato identificato in recenti ricerche. La novità è ora che su tale presupposto è stata riscontrata la possibilità di predire in anticipo la combinazione di farmaci e il dosaggio più adatti al singolo paziente, tema tra i più complessi e delicati nel percorso terapeutico. I test per ora sono stati realizzati solo su alcune molecole e serviranno altri riscontri tuttavia le prospettive sono importanti proprio in relazione alla facilità dei rilevamenti dai test del sangue a fronte dell’estensione del fenomeno e della numerosità delle patologie di cui la depressione è “causa principale”, come sottolinea l’Oms.
Agli studi fin qui realizzati si è aggiunta recentissimamente una novità proveniente dalla ricerca italiana e riferita all’Alzheimer. Da uno studio condotto da istituti romani, apparso sulla prestigiosa “Science”, è emerso che la malattia, caratterizzata da irreversibili perdite di memoria, non avrebbe origine nella stessa area “mnemonica” del cervello, bensì piuttosto in quella “emotiva”, l’“area tegmentale ventrale”, che rilascia la “dopamina”, il cosiddetto “neurotrasmettitore dell’amore”. Ripristinandone i livelli, gli scienziati italiani hanno scoperto che le cavie recuperavano, al contempo, il ricordo e la motivazione.
Del peso specifico della depressione si nel frattempo accorto il business dell’Information Technology: al XXV Congresso dell’Associazione Europea di Psichiatria (Epa), svoltosi nei giorni scorsi a Firenze, ha tenuto banco ad esempio il dato riferito alle migliaia di “app” realizzate proprio per rispondere ai bisogni legati alla salute mentale, che rappresentano addirittura il 6% dei prodotti che appaiono negli appositi negozi informatici. Insomma il problema della depressione è serio, globale, collettivo e foriero di altri problemi di salute, e quindi non va gestito in silenzio. I modi per affrontarlo, prima e bene, ci sono, e sempre più sofisticati.
Diabete=”malattia del benessere”. Qualcuno accredita questa equivalenza, sulla scia del fatto che è una patologia dilagante non solo nei Paesi avanzati e ma anche in quelli emergenti, in relazione all’aumento (e spesso peggioramento) dei consumi alimentari e alla loro “industrializzazione”. C’è qualcosa di vero e documentato in questo, ma la realtà è che vale anche e soprattutto il contrario, specie se si guarda all’interno del contesto dei singoli Paesi. Il diabete tende a colpire perlopiù i ceti deboli, per cause da accertare nel dettaglio, ma per certi versi facilmente intuibili.
Nei giorni scorsi, alla Camera dei Deputati la Fondazione Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo) ha presentato il suo rapporto annuale, realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), fornendo nell’insieme dati piuttosto allarmanti sul nostro Paese, del resto in linea con le tendenze globali documentate recentemente dall’International Diabetes Federation: nel mondo ci sono 415 milioni di diabetici, e si prevede che nel 2040 saranno addirittura 642 milioni.
In Italia sono 3,27 milioni (dati 2015), ai quali va aggiunta la stima di un altro milione di persone che sarebbero affette da diabete senza saperlo. Solo quindici anni prima erano un milione in meno. Pesa, di certo l’invecchiamento della popolazione, ma questo non spiega tutto, anche perché l’aumento non è solo in valori assoluti, ma anche in rapporto alla popolazione. I malati erano il 3,8% nel 2000, oggi siamo al 5,4%, e le proiezioni dicono che andrà ancora peggio. “Tra 10 anni, in ogni famiglia italiana vi sarà una persona con diabete o un soggetto prediabetico”, avverte il professor Domenico Cucinotta, coordinatore del rapporto.
Il dato può suonare sorprendente, visto che i dati riferiti all’ultimo quindicennio evidenziano anche una pur lieve diminuzione della mortalità associata alla malattia, in ragione del miglioramento delle cure farmacologiche. La spiegazione dell'aumento patologico è piuttosto nel titolo stesso del dossier, “Italian Diabetes & Obesity Barometer Report”, che mette la lente al contempo sulla malattia e sul problema del sovrappeso, col secondo che aumenta i rischi del primo. “Diabete e obesità sono oramai una pandemia”, nota Renato Lauro, presidente della Fondazione. E da questo punto di vista l’Italia sta messa comparativamente maluccio: ad esempio, la prevalenza dei bambini obesi, quasi al 10%, è ai vertici europei, trainata soprattutto dalle Regioni del Centro-Sud. Dati che, a detta della Fondazione stessa, indicano anche la strada della soluzione, quella della prevenzione alimentare, coinvolgendo le stesse scuole nell’educazione al cibo.
Una strategia per la quale esiste già una controprova, consistente nella diversa esposizione alla malattia in funzione dei livelli educativi. Secondo il rapporto, un laureato ha un rischio di ammalarsi tre volte inferiore a chi ha solo la licenza elementare, e la stessa sperequazione si nota sulla propensione al sovrappeso. Questione non di “titoli”, ovviamente, ma di tendenza a informarsi, e naturalmente anche di possibilità di accedere a cibo di qualità. Allora, altro che “benessere”. Si tratta in buona misura di una “patologia sociale”, che tende a colpire selettivamente (anche se non necessariamente) i più deboli. Il che rappresenta un richiamo agli stessi decisori, e non solo in ambito sanitario.
Ma perché i sardi vivono di più? Il quesito c’è, è sollevato da semplici dati demografici, ed è oggetto di crescente interesse da parte di scienziati di tutto il mondo. Senza andare lontano, una novità scientifica arriva proprio dalla Sardegna, ed è centrata – senza strane alchimie sul maestrale e altre leggende – sull’alimentazione, per certi versi spiazzando un po’ le aspettative, specie perché segnalerebbe che gli avi avrebbero mangiato più sano dei contemporanei.
L’indagine ha fatto leva su tecniche innovative di estrazione del Dna dalla placca dentale dei sardi vissuti 200 anni fa. L’esito, in sintesi, è che allora mangiavano più verdura e meno carne, a beneficio della prevenzione di diverse patologie croniche a carattere auto-immune o cardiovascolare. A partire dagli anni ’50 del secolo scorso c’è stato un cambio di indirizzo in favore della carne, sicché la percentuale di alcuni micro-organismi, i cosiddetti “batteri anaerobi” si è addirittura centuplicata.
“Il loro eccesso fa sì che possano attraversare le barriere tessutali ed entrino in circolo sanguigno esponendoci a malattie come l'artrite reumatoide, o patologie come l'aterosclerosi”, spiega il professor Germano Orrù, dell’Azienda universitaria di Cagliari. Al dato fa riscontro anche un recente studio dell’Università di Sassari, che sottolineerebbe il ruolo benefico di produrre “in casa” le verdure, la frutta, i formaggi, perfino il vino, senza troppi additivi chimici.
E poi ci sono gli studi internazionali, addirittura una società biotecnologica inglese ha acquistato una banca dati per analizzare le informazioni genetiche di decine di migliaia di sardi, dove i centenari sono percentualmente il doppio, ad esempio, di quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti. Insomma l’affascinante isola è entrata a pieno titolo nell’alveo delle zone “sotto osservazione” per l’eccellente longevità, al pari della giapponese Okinawa o della greca Ikaria. Il cui tratto comune, al di là dei miti, sembra essere proprio quello di un consumo relativamente limitato di proteine animali.
Lo studio cagliaritano sembra peraltro lasciare aperto un quesito. I benefici accertati si riferiscono a un paio di secoli fa, ma negli ultimi decenni, pur con abitudini apparentemente “peggiorate” per l’aumentato uso della carne, la longevità risulta aumentata, come altrove. La risposta sta un po’ nel miglioramento generale delle condizioni di vita dal dopoguerra. Ma sta anche in un altro dato di fatto: i centenari in Sardegna non sono un fenomeno odierno. A spulciare tra gli archivi delle parrocchie spunta tra l’altro il caso di un uomo, nato nel 1718 e morto nel 1842, e risposatosi a 110 anni. A leggere gli ultimi studi, il suo segreto non stava affatto nel maialino, ma in quel che semplicemente cresceva nel suo orto.
Uno “tsunami”, la definisce Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica. L’immunoterapia aggredisce le cellule tumorali stimolando le difese “autonome” del sistema immunitario del paziente stesso. Rappresenta una svolta di metodo, che trova riscontri scientifici e clinici sempre più convincenti. A essa è stato consacrato un apposito convegno la scorsa settimana a Roma, sulla scia dell’ultimo Congresso, tenutosi in autunno a Copenaghen, della Società Europea di Oncologia Medica (Esmo), che raggruppa 13mila specialisti del Continente.
La strada è stata aperta pochi anni fa dalla cura del melanoma, ma che alle ultime evidenze sembra poter aggredire efficacemente anche il tumore al polmone e alla vescica (oggetto del convegno romano). I risultati di alcuni principi attivi sono promettenti, in qualche caso superiori alla tradizionale chemioterapia, e per giunta possono costituire un’alternativa necessaria per i pazienti più anziani e fragili, per i quali il trattamento chemioterapico stesso è limitato dalla pericolosità degli effetti collaterali e dalla compresenza di altre patologie.
Per la vescica, in particolare, il trattamento immunoterapeutico è ritenuto il “primo passo avanti nella cura dopo trent’anni”, su una patologia che solo nel 2016 ha registrato quasi 27mila nuovi casi solo in Italia. “L’atezolizumab ha ridotto la massa tumorale in circa un quarto dei pazienti – documenta Paolo Marchetti, direttore dell’Oncologia medica all’ospedale Sant’Andrea di Roma - e la sopravvivenza mediana è stata di 15,9 mesi, quando generalmente in questi pazienti è pari a 9-10 mesi con la chemioterapia”. Medie che segnalano quasi un raddoppio nell’efficacia delle cure, e quindi delle possibilità di guarigione, per giunta con un miglioramento dei sintomi, ossia della qualità della vita.
Miglioramenti che del resto si ineriscono in un quadro piuttosto lusinghiero per la medicina italiana, che presenta percentuali di guarigione (78% per il tumore al polmone, 14,3% per quello al polmone) migliori rispetto alle medie continentali, come riconosciuto dalla stessa Esmo. Quel che purtroppo invece non cambia è l’esposizione alla malattia, alta come nel resto d’Europa.
E su ciò si rilancia il problema della sigaretta, responsabile fino al 90% dei cancri al polmone e di due terzi dei tumori alla vescica. Ma anche per questi la “rivoluzione” si annuncia efficace. “La risposta immunitaria risulta spontaneamente più forte contro mutazioni del DNA provocate da fattori esterni e che rendono le cellule tumorali 'aliene' al nostro organismo e quindi da rigettare”, spiega. Licia Rivoltini, direttrice all’Unità immunoterapeutica all'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Gli scienziati parlano di sfide ancora da affinare, ma con esiti potenziali già accertati, e quindi con la certezza sulla strada da percorrere.
Da precisare subito, dinanzi a qualche annuncio o esagerazione giornalistica: siamo ancora ancora alle parole, per gli atti concreti bisognerà attendere almeno un po’. La volontà politica, a livello statale e regionale, è stata comunque definita, così come il pieno consenso (e anzi il sollecito) dalla totalità degli addetti ai lavori – inclusi medici e associazioni - al “tavolo” aperto negli ultimi giorni presso l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa). Si punta a una semplificazione dell’accesso a ricette e cure per i circa dieci milioni di italiani affetti da qualche malattia cronica, e spesso costretti per giunta all’odissea di procedure costose e interminabili, oltre che almeno in parte non giustificate.
La realtà è che i pazienti cronici possono acquistare i farmaci necessari solo dopo la definizione di un “piano terapeutico” per il quale il medico di base non basta, necessitando il ricorso a uno specialista. Quindi sono costretti necessariamente a passare da un medico all’altro, per poter accedere a centinaia di prodotti di 32 diverse categorie terapeutiche.
Spese per i ticket per le visite, ore e giorni di attesa, che per giunta a volte non sono sufficienti per il protrarsi del ping-pong, come lamentano i medici stessi. “Spesso il paziente torna senza piano e con richieste di esami diagnostici da noi già effettuati che ovviamente lo specialista non conosce e siamo così costretti a rinviarlo allo stesso specialista dietro esborso di altri 50 euro”, racconta Silvestro Scotti, Segretario della Federazione Italiana Medici di Famiglia.
E non mancano le aggravanti: quel “piano terapeutico” va aggiornato periodicamente, a seconda dei casi e della patologia, e tale periodicità può ridursi addirittura all’arco di pochi mesi. Di più, alcune Regioni impongono che la prima dose di farmaci, e quindi il primo timbro sulla prescrizione, debbano passare per la farmacia ospedaliera, e solo dagli acquisti successivi sia possibile recarsi in quella sotto casa. Ancora, protestano i pazienti di qualche Regione, “i farmaci necessari per le cure mensili non vengono più prescritti in un’unica ricetta ma con più prescrizione settimanali”.
E così, si arriva talora a eccessi procedurali non-sense, ben al di là della sacrosanta necessità di tutelare l’appropriatezza e sicurezza terapeutica. Ai fatti, è una burocrazia che tende a caricare i pazienti di oneri, anche economici, e a scaricare quelli dell’ente pubblico, sia limitando la vendita dei farmaci (e quindi l’esborso per il Servizio Sanitario), sia incassando dai ticket.
Ora, la volontà di una rapida svolta c’è e, passa, secondo il tavolo all’Aifa, per una più stretta collaborazione tra specialisti e medici di famiglia, valorizzando il ruolo di questi ultimi anche nell’ambito della diagnostica. Questione di rapidità e di costi, tema al centro delle battaglie nel mondo dei Farmaci Generici. E a tal proposito, quando lo scorso settembre fu varato il primo “Piano Nazionale della Cronicità”, la rete di Cittadinanzattiva, tramite il Coordinatore del Tribunale del Malato Tonino Aceti, commentò, pur plaudendo, con un’annotazione: “La sfida sarà quella di attuarlo, anche perché non sono previste risorse aggiuntive”. Il nodo di fondo sarebbe anzitutto quello dei fondi, quindi, ma l’aggravare i pazienti di procedure e costi non è certo un risparmio.
Gli annunci dal mondo della scienza preludono solitamente a novità che, per arrivare alla concreta applicazione clinica, tra sperimentazioni e procedure d'approvazione, richiedono molti anni. Stavolta, invece, tutto fa pensare che i tempi saranno assai più brevi: secondo gli scienziati che lo hanno “battezzato” il “superscanner” capace di potenziare notevolmente le capacità di “vedere” all’interno del corpo umano, captandone anche i più piccoli malanni, dovrebbe essere operativo già entro il 2018.
Elaborato dall'Università della California, e presentato nelle scorse settimane con due articoli su altrettante riviste scientifiche e parecchi rimbalzi sulle principali testate divulgative globali, il prototipo - battezzato “Explorer” (Extreme Performance Long Research Cancer) – rappresenta una evoluzione della “PET Total-Body”, ovvero la Tomografia a emissione di positroni (Pet), capace di fornire immagini dettagliate sulla totalità degli organi corporei, utilizzando particelle radioattive che segnalano la presenza di patologie tumorali o neurodegenerative.
Attualmente la “scannerizzazione” è possibile solo per parti specifiche del corpo, e non per il suo insieme, il che costituisce un limite per la diagnosi e l'analisi di patologie multi-sistemiche, che hanno possibili ricadute e sintomi su varie parti del corpo, lontane tra loro. La nuova tecnologia consentirà di aggirare l’ostacolo e offrirà inoltre immagini di altissima risoluzione, che permetteranno di captare anche le più piccole tracce cancerogene, nonché altre tossine, inclusi i possibili effetti collaterali dei trattamenti farmacologici.
Explorer sembra dunque destinato ad avere un impatto enorme sia sulla capacità di diagnosi che sull’evoluzione della ricerca medica, anche alla luce delle rassicurazioni giunte dagli scienziati in tema di quantità di radiazioni utilizzate: “Con lo scanner total-body circondiamo il corpo di rilevatori, che fermano le radiazioni e le trasformano in segnale”, spiegano. Sottolineando anche che il sistema riduce le dosi radioattive necessarie, anziché alimentarle: “per un esame – concludono - saranno pari a quelle ricevute in un volo di andata-ritorno Los Angeles-Londra”.