Un quesito che a volte si pongono i bimbi, e a volte non solo loro: “Ma perché se i medici sanno curare si ammalano anch'essi”? La domanda per la verità non è del tutto sciocca. Si tratta di esseri umani, e come tali non sempre “razzolano” all'altezza di quel “predicano”, magari seguendo abitudini private (quali fumo, alcol) non in linea con le norme di prevenzione sanitaria. Di più, il quesito si fa serissimo quando la causa del loro male è nel loro stesso lavoro.
Un approfondimento su questo arriva da un centro di ricerca dell’Università del Texas, pubblicato sul Journal of the American College of Surgeons, tramite un articolato questionario che ha coinvolto 220 chirurgi. Il dato più eclatante è che il 90% di loro avverte sintomi di problemi muscolo-scheletrici.
Meno di un terzo li attribuisce per la verità alla loro occupazione, ma l’ampiezza del dato rappresenta un segnale che gli stessi operatori sanitari dovrebbero prendere più sul serio, anche in sede di diagnosi. Sulla cura, comunque, “fanno i medici, cioè sono in molti poi a curarsi, oltre il 65%, e un terzo di questi ricorre addirittura a un intervento chirurgico.
Eppure, potrebbero fare di più anche in sede di prevenzione. Esistono ad esempio dei “tappetini anti-stanchezza”, raccomandati dalle stesse autorità sanitarie americane, e due medici su tre ha ammesso di averne beneficiato, con riferimento soprattutto agli stimoli agli arti inferiori sollecitati dagli interventi.
“Prevenzione” vuol dire però anche e soprattutto un’altra cosa, e cioè che gli operatori sanitari sono spesso costretti a turni massacranti. E questo non va bene, non solo per la loro salute, ma perfino per quella dei loro assistiti. Lo documentammo già su questa pagina, sulla base di un’estesa britannica sul lavoro degli infermieri. Riducendone il carico, ossia abbassando da 10 a 6 il numero medio dei pazienti per ogni operatore, portava a una riduzione del 20% della mortalità dei pazienti stessi. Lavorare troppo fa male, a tutti.
“La luce del mondo si accende dentro di voi quando digiunate e purificate voi stessi”, diceva il compianto Mahatma Gandhi. Insomma lo ammetteva esplicitamente, tanto da farne un tassello della propria filosofia: le sue reiterate, e prolungate, rinunce al cibo non erano solo un gesto politico di “disobbedienza civile”, ma anche un modo di purificarsi, a beneficio della propria anima quanto del proprio corpo. Al di là degli aspetti “filosofici”, c'è un sempre più solido riscontro scientifico che tale “purificazione” (entro certi limiti) faccia effettivamente bene, tanto da ispirare biologi e nutrizionisti a “brevettare” nuove “diete” che in qualche modo la simulano.
Uno dei nomi più noti è quello di uno studioso genovese di neppure 50 anni. Il professor Valter Longo studia e insegna alla Divisione di Biogerontologia dell'Università della Southern California. Si direbbe l'ennesimo caso di “cervello in fuga”, anche se il realtà la sua “fuga” negli Stati Uniti ebbe inizio prima ancora di iniziare l'università. Citatissimo nelle riviste scientifiche, intervistato spesso dai media d'oltreoceano, è entrato in qualche notorietà italiana grazie a un servizio televisivo de “Le Iene”, suscitato appunto dalla sua teorizzazione di una “dieta mima-digiuno”.
Non si tratta di un assoluto “digiuno”, ma dell'identificazione di un percorso alimentare rapido e capace di imitarne le virtù. Consiste nell'introduzione periodica (una volta a trimestre, più spesso per gli obesi, meno per chi fa attività sportiva continuativa) di un regime rigoroso per circa 5 giorni, che si limiti l’alimentazione a verdure, grassi “buoni” come l'olio d'oliva, cibi con Omega 3 (quali il pesce e i crostacei), lasciando invece da parte zuccheri, carboidrati e proteine animali (incluso il latte e derivati).
In base a sperimentazioni su animali, e all'esito parziale di test sugli uomini, tale “simulazione” si avvererebbe davvero, e cioè, ad esempio, quattro giorni di “dieta mima-digiuno” produrrebbero gli stessi effetti benefici di due giorni di digiuno totale.
L’elenco di tali benefici, alla luce anche delle ricerche più recenti, è piuttosto lungo, e la perdita di peso è forse quello meno rilevante. Gli altri sono la prevenzione del diabete, di malattie neurodegenerative come l'Alzheimer, perfino del cancro ai polmoni e alla pelle. Il digiuno periodico aiuterebbe infatti ad “attivare il sistema immunitario e a esporre le cellule tumorali a esso”, spiega Longo. Ancora, stimolerebbe la produzione di cellule staminali, antidoto all'invecchiamento. Niente male. Al di là dei dettagli della dieta e delle attese verifiche emerge comunque un messaggio importante: esistono meccanismi naturali per stimolare le nostre difese, e stanno anche nei cibi, nonché nella almeno periodica rinuncia ad alcuni di essi.
Non lo diciamo noi, “simpatizzanti” del generico. Lo dicono le più autorevoli agenzie indipendenti, con rapporti presentati anche in Parlamento, e con rilevanti prese di posizione in questi giorni: i medicinali equivalenti stanno salvando la Sanità italiana e la salute dei cittadini, in ragione della loro completa equivalenza sotto il profilo dei principi attivi nonché dell’efficacia e sicurezza terapeutica, il tutto accompagnato con costi ben più bassi; eppure esiste ancora nel nostro paese, ben più che negli altri Stati avanzati, un pesante freno dettato, per dirla in una parola, dalla “sottovalutazione”.
Lo ha documentato, tra gli altri, la Fondazione GIMBE col suo ultimo approfondimento che ha per specifico oggetto “Il sotto-utilizzo dei farmaci equivalenti in Italia”. Emergono vincoli normativi e operativi, ma soprattutto una variabile “culturale” che non ha più ragion d’essere, specie considerando che i migliori sistemi sanitari al mondo ne hanno fatto in questi anni ben più ampio ricorso.
Si nota infatti che i generici vengono utilizzati in Italia assai meno che altrove: per l’esattezza (dati 2013) rappresentano il 19% del mercato farmaceutico totale (mentre la media dei paesi Ocse è al 48%) e l’11% della spesa (la media Ocse è al 24%). Ancor più paradossale il dato rapportato ai farmaci a brevetto scaduto, ossia l’ambito d’elezione degli equivalenti: ebbene, anche qui costituiscono solo il 28% della spesa pubblica, proporzione che poi, altro paradosso apparente, si comprime ulteriormente non nelle regioni ricche, ma quelle del centro-sud, più bisognose di un sollievo finanziario.
E chi paga la differenza aggiuntiva rappresentata dall’inutile ricorso al medicinale “di marca”? I cittadini, naturalmente, con un esborso “out-of-the-pocket” di oltre un miliardo di euro nel solo 2015. E tra tante cifre e grafici emerge un ulteriore fatto paradossale sul danno del sotto-utilizzo per i pazienti e la collettività. Da un lato, in ragione della situazione di difficoltà economiche, si assiste a una “riduzione dei consumi di farmaci di classe C”, quelli non rimborsabili. Dall’altro, su quelli rimborsabili di classe A, “permane una resistenza ad abbandonare la marca, con ulteriore aumento dei costi”. Morale, coi generici si potrebbero risolvere ambedue i problemi, economico e terapeutico, e migliorare le terapie agevolando l’accesso ai medicinali innovativi.
L’effetto del sotto-utilizzo è anche quello di “aumentare le spese e ridurre l’aderenza terapeutica”, nota ancora il presidente della Fondazione Nino Cartabellotta. “E’ quanto sosteniamo da tempo - commenta lo stesso presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann - il sottoutilizzo dei farmaci equivalenti, determinato dalla diffidenza, nuoce alla collettività ovvero alla salute pubblica nel suo complesso”. Tempo di voltare pagina, dunque, da parte di operatori, medici prescrittori, farmacisti, e anche pazienti. C’è l’orizzonte di potersi curare spendendo meno, a identica efficacia terapeutica, e il fatto di non saperlo e di non attuarlo è un danno vero, per noi e per tutti.
È una “scoperta” che entra nel solco di molte altre. La dieta mediterranea detiene parecchie proprietà curative. E da uno studio italiano emerge ora in particolare che le nostre spezie, in primis il basilico e il prezzemolo, costituiscono veri e propri “anti-batterici naturali”. Lo si legge sulla rivista scientifica “Microbial Pathogenesis”, e scaturisce da una collaborazione tra l’Università di Pisa e due istituti tunisini, l’Università di Monastir e il Water Research and Technologies Center.
Sono state confrontate le proprietà antimicrobiche presenti negli oli essenziali delle due piante aromatiche, l’ocimum basilicum e il petroselinum crispum, rispetto a 41 agenti patogeni del genere “vibrio” isolati dall’acqua di mare o frutti di mare (crudi). Ebbene, entrambi (e il basilico con un pochino di efficacia in più) si sono rivelati capaci di inibire la crescita dei micro-organismi coltivati in vitro, e su 18 ceppi riuscivano inoltre a disgregarli.
Da precisare che l’esperimento è stato condotto tramite una specifica procedura per la produzione degli oli, sicché per riprodurne i medesimi effetti si tratterebbe si ripetere tale “protocollo colturale”. Detto questo, l’indicazione è piuttosto chiara e lampante, e va ad aggiungersi ad altri benefici accertati sulle due piante.
Il basilico è ricco di sostanze “utili”, quali fibre, proteine, zuccheri, minerali (quali calcio, ferro, fosforo, magnesio, manganese rame, potassio, sodio e zinco), e vitamine. Ed è un insieme che assicura proprietà digestive, antispasmodiche, carminative e antisettiche. Il prezzemolo risulta indicato come antidoto ai segni dell’invecchiamento e anche ad alcune forme tumorali, grazie in particolare alla forte presenza di flavonoidi. E’ inoltre ricco di carboidrati, proteine, fibre, zuccheri, vitamine e aminoacidi.
Si tratta di qualità e novità alle quali si aggiungono ulteriori segnali che premiano la dieta mediterranea. L’ultimo arriva da una ricerca portoghese discussa al 120mo congresso dell’American Academy of Ophthalmology. Riferisce delle virtù terapeutiche della dieta mediterranea per prevenire la degenerazione maculare, una patologia diffusa con l’avanzare dell’età, che porta a conseguenze fino alla cecità. Ebbene, dallo studio compiuto su quasi novecento partecipanti emerge che seguire quella dieta, e in particolare mangiare molta frutta, riduce di un terzo il rischio di ammalarvisi. L’ennesima conferma di quanto faccia bene il nostro cibo. E di quanto sia grave l'ultimo allarme lanciato dal Censis sul peggioramento dell'alimentazione degli italiani in ragione delle difficoltà economiche.
Ci sono ricerche “biologico-antropologiche” suggestive su popoli “indigeni”, e dotate di criterio scientifico, che però restano un po’ ai margini dell’attenzione. Perché sono basate su terre remote, il che un po’ ci piace ma un po’ ci sembra “lontano”, come se parlassimo di altre “specie umane”. Invece no, quel tipo di ricerche è interessante proprio perché si concentra su popoli ai margini delle molteplici variabili poste dalle civiltà complesse, sicché è più semplice isolare i singoli fattori. E’ il caso di una ricerca americana compiuta sui Maya, che ha trovato un nesso tra le modalità del parto e i successivi problemi di sovrappeso.
L’indagine, compiuta dagli scienziati dell’Università dell’Utah e pubblicata sulla rivista American Journal of Human Biology, è arrivata all’esito di riuscire a prevedere il peso del nascituro a 5 anni, in base non solo alla “stazza” della madre, ma anche alle modalità del parto.
Sono state esaminate 57 mamme in un villaggio, e i loro 108 bambini tra il 2007 e il 2014, e per la verità nessuno di essi ha raggiunto i livelli di “obesità” definiti dai parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Eppure, sostanziali differenze, di una media di almeno un chilo e mezzo (scarto rilevante quando si tratta di quell’età e di una quindicina di chili, nell’ordine quindi del 10% del peso totale) sono state riscontrate proprio in relazione al fatto che i bambini fossero nati da parto naturale o meno.
La ragione starebbe nel microbioma, un “batterio buono” dello stomaco, che sarebbe a sua volta esposto ai batteri del sistema immunitario della madre, la cui trasmissione sarebbe decisiva durante il parto, con un impatto per l’efficacia della flora intestinale e quindi dell’insieme del sistema metabolico. In assenza, si accrescerebbe l’esposizione al sovrappeso e alle patologie collegate (dal respiro ai problemi cardiovascolari).
Roba non da poco, che poi trova conferme in altre ricerche americane. Un altro studio, stavolta dell’Università di Harvard e compiuto negli Stati Uniti su oltre 15mila donne e figli seguiti per 16 anni, ha recentemente quantificato nel 15% la cifra del rischio aggiuntivo di obesità al seguito di un parto cesareo. Insomma, questo può essere un’autentica salvezza per molte donne e i loro bebè, ma la facilità con cui viene praticato in alcuni ospedali occidentali (perlopiù in quelli privati) non è priva di conseguenze deleterie per la salute. Il cui elenco ora si allunga, anzi si ingrassa, come ci insegnano i Maya.
Ci siamo ricordati della tubercolosi per qualche notizia di cronaca, anche un po’ travisata, tra il caso di una pediatra a Trieste e qualche polemica politica locale che ha preso di mira gli immigrati, senza alcun motivo. La realtà è che la patologia non ha mai del tutto abbandonato il nostro paese, con 350 decessi accertati solo nell'ultimo anno. Nel resto del mondo i numeri sono ancor più impressionanti, ma a far da contraltare agli allarmi stanno intervenendo novità importanti dalla ricerca medica.
La patologia è costituita da un'infezione prevalentemente polmonare causata da un batterio, chiamato Koch. Fa paura sia perché è trasmissibile piuttosto facilmente per via aerea – può bastare teoricamente uno starnuto – sia perché è assai letale. I tassi di guarigione sono ancora bassi a livello globale, solo il 52% supera la guarigione, percentuale che scende precipitosamente in compresenza di altre malattie, quali il virus dell'Hiv.
Il quadro dunque rimane piuttosto critico, tanto che a livello globale i decessi nel 2015 sono stati ben 1,8 milioni, sebbene la tendenza risulti in calo, con una discesa del 22% negli ultimi quindici anni, grazie al miglioramento complessivo delle strutture e dei trattamenti sanitari. In sede Onu, è stato poi fissato l'obiettivo di una riduzione dell'80% dei contagi e del 90% delle morti entro il 2030. A tal fine “servirebbero test diagnostici rapidi, farmaci e cure ai malati, ma gli sforzi fatti finora non sono sufficienti”, nota Mario Raviglione, direttore del programma apposito dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che come altri lamenta “risorse sufficienti” per vincere la battaglia.
Tuttavia è proprio dal settore farmacologico che si annunciano orizzonti promettenti. In particolare, sulla rivista americana Infection Diseases, è spuntato in due numeri diversi il resoconto di una ricerca internazionale che sembra foriera di soluzioni. Si tratta della scoperta di molecole che sembrano dotate di una potente azione anti-tubercolare che agisce alla fonte, ossia capaci di inibire un enzima, chiamato “Guab2”, coinvolto nella sintesi delle fondamenta nel Dna, causando la morte del batterio stesso.
La ricerca ha avuto come basi coordinative un centro di ricerca statunitense e un altro sudafricano, ma vi hanno partecipato anche accademie britanniche, svizzere, francesi, ungheresi, nonché l’Università del Piemonte Orientale. Oltre all’esito scientifico, di “sforzo multidisciplinare e culturale eccezionale” parla il coordinatore italiano, il biochimico Menico Rizzi. In effetti, si tratta di studi che hanno trovato il finanziamento congiunto delle autorità sanitarie americane ed europee. Il messaggio è che tra uno spauracchio e l’altro, anche della cronaca, insieme si può fare tantissimo se ci sono la volontà e le risorse, perfino debellare le patologie più letali.
Era solo un ricercatore trapiantato negli Stati Uniti, al californiano “City of Hope Comprehensive Cancer Center” e non aveva ancora neppure la cattedra il biologo tedesco Gerd Preifer. Ed è a lui che si riconosce il merito di una delle più epocali scoperte mediche dell'ultimo secolo. Esattamente vent'anni fa dimostrò inconfutabilmente, sulla rivista Science, i danni provocati dalle sigarette alle cellule polmonari, che ne fanno impennare i rischi tumorali.
La ricerca ha avuto l'indubbio effetto di modificare radicalmente le nostre percezioni sul fumo. Chi è cresciuto nelle generazioni precedenti sapeva poco o nulla della natura “suicida” del gesto, immortalato con ostentata eleganza nella storia cinematografica quanto nei comportamenti privati in luoghi e locali pubblici. Oggi tra norme e campagne non è più così, e perfino le case produttrici hanno dovuto aggiustare il tiro.
Insistono, anche nel loro ultimo consesso continentale a Bruxelles, a dire “ no all'eccesso di restrizioni, meglio lavorare per la riduzione del danno”, scaricando gli oneri sui servizi sanitari, ma quel danno non viene più negato. Ci hanno provato per anni, con tanto di ricerche “scientifiche” effettuate dietro compenso, orientate a smentire o almeno minimizzare l'impatto sulla salute. Alcuni produttori, specie in Europa, avevano per la verità rinunciato da tempo, preferendo un messaggio “comunicativo” opposto, del resto da molti giudicato ancor più efficace: “Sì, certo,fa davvero male, e ve lo diciamo, per darvi una consapevole libertà di scelta”. Oggi, comunque, lo ammettono quasi tutti.
Da quella presa di coscienza sono poi scaturite le tante “strette” normative che hanno indubbiamente alimentato un calo nei consumi. E tuttavia il quadro rimane allarmante, con particolare riferimento ai giovani e all'Italia. Uno studio del Centro Europeo per il Monitoraggio della Dipendenza dalle Droghe (Espad) sui 15-16nni nelle scuole di 35 paesi ha collocato il nostro al vertice, con la stima di ben il 37% di fumatori in tale fascia, contro il 21% della media continentale.
Il dato è doppiamente grave, per la giovane età e per il fatto che il modo senz'altro più efficace di tenere alla larga la sigaretta è quello di non iniziare. E quando invece si inizia oggi sappiamo, grazie a Preifer e altri, quanto faccia male. In Italia secondo il ministero della Salute il fumo è la principale causa di morte, provocando circa 80mila decessi l'anno. “In altri paesi come gli Stati Uniti, dove le campagne sono state più aggressiv e - nota Carmine Pinto, presidente dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica - il numero di fumatori si è ridotto molto di più”. Questione, ancora una volta, di buona informazione.
Ci sono i convegni, le cifre, i documenti e le ricerche che certificano l’assoluta equivalenza dei farmaci generici (acquistati in farmacia) rispetto alla “marca”, e il loro contributo alle tasche dei cittadini e alle casse pubbliche, consentendo di ampliare la platea dei pazienti ovvero la qualità delle cure. Ma quando tutto questo esce dai dialoghi tra addetti ai lavori e si spalanca all’incontro diretto ed esteso con i cittadini il significato e l’effetto sono ben più rilevanti
Chieti, l'8 ottobre, presso il Centro Commerciale Megalò, e poi piazza della Vittoria a Taranto il 14 ottobre, sono state le ultime tappe di “Io Equivalgo”, il tour italiano di Cittadinanzattiva a sostegno dei generici, che dallo scorso maggio ha toccato una dozzina di città di ogni latitudine. Un “villaggio” itinerante, tra incontri, prospetti informativi, volontari e operatori sanitari pronti a documentare la piena identità nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica, oltre agli aspetti di risparmio.
Questi sono stati quantificati all'ultima assemblea di Assogenerici nella cifra di 4 miliardi di euro negli ultimi quindici anni. “Se nel nostro Paese si è riusciti nel tempo a sostenere la spesa farmaceutica e a permettere l’adozione progressiva dell’innovazione lo si deve a questo ”, ha notato il presidente Enrique Häusermann. E tuttavia il risparmio potenziale per i cittadini potrebbe essere ben maggiore, a leggere le stime mensili del “Salvadanaio della Salute”, mentre tra resistenze e nodi amministrativi il settore, pur in crescita, rimane ancora al di sotto delle medie europee. Nei farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario, in particolare, la loro quota è rimasta ferma al 29% negli ultimi tre anni.
E' un ritardo da colmare, perché tanti italiani sono costretti a rinunciare alla terapia per il nodo dei prezzi. Il problema dell'aderenza terapeutica, ricorda il Segretario Generale di Cittadinanzattiva, “è anzitutto dovuto all'interruzione delle cure per difficoltà economiche”, fatto eticamente inaccettabile.
E' un lieto fine quello della campagna, che però reclama un concreto seguito nei fatti. E sono in fondo quasi tutti a invocarlo, a leggere i nomi delle entità che si sono schierate a sostegno del tour dell'associazione: Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), le principali sigle sindacali, gli ordini professionali di medici, infermieri, farmacisti. “Promuovere anche negli ospedali l'utilizzo dei medicinali generici”, aveva già auspicato a inizio anno il presidente dell'Aifa Mario Melazzini, ora nominato anche Direttore Generale, con i complimenti di tutti quelli che hanno a cuore la salute.
Nella “società dell'immagine” il nodo dell'obesità, e più in generale del sovrappeso, è un fenomeno ampiamente notato e temuto nell'alveo dell'“estetica”. Il che fa erroneamente passare in secondo piano un aspetto ben più rilevante. I chili di troppo sono anzitutto un problema di salute, come ben sa ogni medico e fisioterapista, ed è un problema che coinvolge in misura allarmante una proporzione crescente della popolazione nazionale e mondiale.
Lo si è ricordato all'“Obesity Day” dello scorso 11 ottobre, che avrà del resto il seguito di una serie di approfondimenti e iniziative nell'ambito della “Settimana” prevista all'inizio del mese prossimo. E' stata l'occasione per fare il punto sulla situazione, ed è un punto assai critico.
Gli obesi sono circa 600 milioni, e quasi due miliardi le persone in sovrappeso, ossia oltre il 40% della popolazione mondiale, secondo le stime diffuse dalla Fao. Il problema coinvolge soprattutto i minorenni, e in particolare quelli che vivono nei paesi in via di sviluppo, dove alla crescita urbana e industriale si accompagnano livelli incrementati di sedentarietà. E non va meglio in Italia, dove oltre il 46% degli adulti è in sovrappeso, e più del 10% addirittura obeso, con ritmi di crescita impressionanti, al 3% annuo dal 2001. Notevoli, anche qui, le discrepanze a livello territoriale, con numeri chiaramente superiori nelle regioni meridionali.
Concomitanza significativa, nelle stesse regioni si rilevano le quote più basse di persone che praticano sport in modo continuativo. “ L’attività fisica è il principale fattore in grado di influenzare positivamente la nostra salute”, sottolinea Giuseppe Fatati, presidente dell'Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (Adi). E di “salute” si tratta, perché il sovrappeso viene considerato da molti nell'alveo della “malattia cronica”, con pesanti conseguenze, tra rischi aumentati di difficoltà respiratorie, fratture, ipertensione, resistenza all'insulina, malattie cardiovascolari, oltre naturalmente a disagi psicologici.
Tra un allarme e l'altro, da prendere assai sul serio, spunta peraltro qualche buona notizia nel nostro paese. Coldiretti documenta infatti un'inversione di tendenza dal 2015 nei consumi di frutta e ferdura degli italiani. Un “ritorno alla dieta mediterranea”, che coinvolge anche aumenti per quanto riguarda il pesce e l'olio d'oliva, con quel che tutto ciò consegue per la longevità, ovvero per una migliore prevenzione dai malanni.
In Canada hanno fatto uno studio sui topolini, in apparenza non di rilevanza scientifica mondiale, che invece farà scatenare sociologi, psicologi ed etologi (gli studiosi del comportamento animale), oltre che la ricerca medica. E’ un approfondimento sulla “solitudine” e i suoi effetti psico-fisici. L’esito riscontrato è quello di una differenza sostanziale di genere. Dato forse ulteriormente sorprendente, sarebbero le donne, e non gli uomini, ad aver un bisogno superiore di “socialità” a tutela del proprio benessere.
L’indagine è dell’Università di Calgary, la pubblicazione è sulla popolare rivista scientifica eLife. Gli animali sono stati analizzati sia in gruppi dello stesso sesso, sia in coppie, sia isolati del tutto per un periodo di 16-18 ore. Quindi sono stati esaminate le dinamiche delle cellule cerebrali che controllano il rilascio dei cosiddetti ormoni dello stress.
Il risultato è che appunto le femmine sono risultate più “stressate” dei maschi nella situazione solitaria. "Isolare i topi femmine per meno di un giorno ha portato al rilascio di una sostanza chimica chiamata corticosterone, prodotta in risposta a situazioni di stress ”, spiegano, con quel che consegue per la vulterabilità ad altre patologie. Concomitanza interessante, non sono state riscontrate invece differenze tra i sessi per quel che riguarda la risposta allo “stress fisico”: dopo una nuotata di venti minuti la loro reazione è risultata identica.
“Molte specie utilizzano l'interazione sociale per ridurre gli effetti dello stress, e questo riguarda anche il genere maschile”, si precisa. Ma la differenza è rilevante, e “ potrebbe significare che le reti sociali sono più importanti per le donne, e che le giovani in particolar modo sono più sensibili all'isolamento sociale rispetto agli uomini ”.
La “tradizione” dell'uscita “tra maschi” al pub o per una partita di calcetto nasconde dunque un'altra verità, ossia il fatto che le donne hanno la medesima esigenza, anzi ne abbisognano in modo ancor più netto, e non solo per il proprio “stato d'animo”, ma anche per la propria salute. Nel 1986, la “Carta di Ottawa”, redatta nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, sanciva che “ la salute è creata e vissuta dalle persone all'interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama ”. Questione sociale, dunque, non solo di batteri e virus.
Ci sono diabetici e diabetici. Alcuni sono curati bene, altri nient’affatto. E se la differenza si produce nello stesso Paese, a seconda della latitudine, il fatto assume una valenza “inaccettabile”, nelle parole di Albino Bottazzo, presidente della Fand, estesa associazione italiana dedicata ai diabetici, promotrice di un incontro nazionale in questi giorni a Roma il cui titolo è già un atto d’accusa: “Diabete: no a discriminazioni fra malati”.
Si tratta della patologia cronica più diffusa in Italia, con oltre tre milioni di persone affette. Solo che la loro assistenza è un’entità variabile in base al luogo in cui risiedono, in base non solo alla qualità sanitaria complessiva delle strutture regionali, ma perfino della loro normativa di riferimento.
C’è una legge nazionale, la 115 dell’87, che garantisce il diritto, e quindi la gratuità dei dispositivi per l’autocontrollo glicemico (i cosiddetti “stick”), fondamentali alla prevenzione nonché a un minor ricorso agli ospedali. Ne è seguita però una babele di delibere regionali, allargata poi nel 2001 dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, e rilevata anche da un'indagine conoscitiva del Senato nel 2012, oltre che dall'Istat.
L’esito paradossale è che variano le leggi, a dispetto di quella che dovrebbe essere la “variabilità utile”, ossia la possibilità di utilizzare il dispositivo più adatto alla situazione specifica paziente. Alcune regioni garantiscono la possibilità di sceglierlo, con l’ausilio del medico, solo per i pazienti di tipo 1, e non per quelli di tipo 2, che rappresentano circa il 90% dei casi accertati. In tali aree, il tutto è demandato a gare d’acquisto centralizzate e non al parere degli specialisti in relazione all’appropriatezza dei singoli casi. “ Dovrebbe spettare a loro scegliere e prescrivere il presidio più adeguato sulla base delle caratteristiche cliniche, psico-attitudinali e sociali ”, protesta Bottazzo.
Questione di equità nel trattamento sanitario, esigenza etica e perfino costituzionale. Ma il nodo è anche nei costi. “Centralizzare” lo strumento terapeutico non fa risparmiare, fa spendere di più. La ragione è semplice, il 4% dei costi sostenuti dai Servizi sanitari regionali per il diabete va nei dispositivi (dal controllo glicemico ai microinfusori e siringhe), mentre il 50% è dovuto ai ricoveri per complicanze spesso evitabili. In altre parole, prevenire poco e curare male non fa risparmiare nessuno, né i singoli né la collettività, anzi moltiplica gli oneri. Questo vale per il diabete, e in fondo per tutto il resto.
Si chiamano “rare”, ma l’aggettivo è fuorviante, perché sono tantissime e colpiscono tantissimi. Il nome giusto sarebbe “senza diagnosi”, o quantomeno di difficile accertamento. Si sta male, e non si sa di che si tratta. Eppure molto si può fare lo stesso, perché con la giusta attenzione del medico la possibilità di cura può trovarsi, ed è una strada da percorrere con urgenza, specie quando si tratta di bambini. Da qui l’idea di un ambulatorio pediatrico apposito, il primo in Italia, all’ospedale Bambino Gesù di Roma, nella speranza di rapide emulazioni.
Il tema è serio e vasto, considerando che più di un milione di minori in età pediatrica (sotto i 16 anni) risulta affetto da una “malattia rara”. Il 60% è poi costretto ad attendere due anni per una corretta diagnosi, e il 40% ne rimane privo. Cifre inaccettabili, alla luce dei progressi della medicina e della tecnologia.
E per le famiglie il risultato è spesso quello di un’odissea. “ Tendono a spostarsi tra i diversi Centri alla ricerca di risposte diagnostiche e assistenziali Nonostante la disponibilità di cartelle cliniche spesso corpose contenenti numerose indagini strumentali e di laboratorio non risolutive, la presa in carico di questi pazienti è penalizzata e ritardata dalla mancanza di conoscenze sulle basi biologiche della malattia, sulla sua storia naturale, sui bisogni assistenziali e sugli specialisti da coinvolgere nell’assistenza ”, spiega il dottor Andrea Bartuli, responsabile dell’ambulatorio.
Da tali esigenze scaturisce l'iniziativa di rendere l’ambulatorio consultabile anche a distanza, all’indirizzo
La seconda è quella che investe la genetica. L’origine di queste malattie è in molti casi di tale natura, e il 30% dei malati orfani di diagnosi può essere inquadrato tramite le analisi “esomiche”, capaci di incrociare i dati genetici di almeno un paio di generazioni. L’approccio è dunque quello multidisciplinare, capace di incrociare diverse competenze e metodi per arrivare al dunque. Soprattutto, di arrivarci mettendo in comunicazione i medici, anziché costringere le famiglie a itinerari infiniti, quanto, spesso, privi di esito.
Ogni tanto facciamo bene a dircelo noi stessi, anche il morale fa bene alla salute. E fa ancor meglio quando a dirlo sono gli altri, osservatori, accademici, giornalisti, esponenti governativi, associazioni di pazienti, rappresentanti di chi sta in prima linea in una missione semplice quanto complicatissima, quella di difendere il diritto alla salute. Anche questo è stata l’assemblea dei giorni scorsi di Assogenerici a Roma, nel ventennale dell’associazione, un plauso accorato e unanime al settore e a quel che rappresenta, per ciascuno di noi e per tutti. Senza omertà sulle difficoltà e le resistenze che permangono, e le strade per superarle.
“Siamo una risorsa che genera risorse e genera salute”, ha rivendicato il presidente Enrique Häusermann, forte di alcuni dati riconosciuti da tutti, quei quattro miliardi di risparmi solo in Italia e solo dal 2000 – quasi altrettanti risparmiabili entro il 2020 (un bel "Benvenuto nel futuro"!), nonché quel 60% di quota conquistata nel mercato europeo, con conseguente “raddoppio delle possibilità di cura”, nota anche Pierluigi Antonelli, vicepresidente della rete continentale di Medicines for Europe. Col generico si risparmia circa un quarto rispetto al farmaco di marca, risorse che consentono di ampliare la platea dei pazienti e di acquistare anche i più importanti farmaci innovativi. “Se non ci fosse il generico il sistema sarebbe già collassato”, riconosce tra gli altri Nomisma.
Di qui anche le note dolenti, che complicano il lavoro dei 10mila lavoratori italiani del settore. Persistono ostacoli, che relegano ancora gli equivalenti ai margini in alcuni ambiti del nostro paese. I generici sono cresciuti in doppia cifra negli ultimi anni (su ricavi, lavoro, retribuzioni), ma nella spesa farmaceutica ospedaliera restano a meno di un quarto del valore totale dei medicinali a brevetto scaduto. L’incremento poi nell’insieme del mercato rimane lento, addirittura piatto ultimamente sui farmaci rimborsabili (di fascia A).
E i paradossi si moltiplicano. Sono proprio le regioni più povere, quelle coinvolte in piani di rientro, a ricorrere meno ai farmaci equivalenti, che sarebbero forieri di risparmio oltre che di investimento, nota un rapporto QuintilesIMS. Questo riguarda l’Italia, ma in fondo anche l’Europa: sono i paesi più “virtuosi”, con un sistema sanitario più solido e funzionante, a far maggior ricorso ai generici, non il contrario.
Ritardi colmabili in tanti modi, dall’informazione sulla piena equivalenza dei generici ad alcuni aspetti amministrativi, a iniziare dal meccanismo del “payback”, il ripiano richiesto alle aziende farmaceutiche per lo sforamento dei tetti di spesa. Un sistema dagli aspetti perversi che talora falcidia chi produce salute e risparmi per i pazienti e per la Sanità, tanto che è stato il governo stesso ad annunciare, nel consesso a Roma, “ la volontà di superarlo”; con una promessa ulteriore, quella di non tagliare ma anzi aumentare i fondi 2017 per la Sanità.
Promesse importanti, che si incrociano con le parole di gratitudine per il settore, e l’auspicio di un seguito concreto. “ Che i risparmi generati dai generici restino nella Sanità, cosa che finora non è stato”, ha detto Tonino Aceti, coordinatore del Tribunale del Malato (Cittadinanzattiva). Plaudono tutti, incluso il senatore Andrea Mandelli, vicepresidente della Commissione Bilancio (e leader della Federazione Ordini Farmacisti Italiani), il Sottosegretario alla Salute De Filippo e il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, tanto da annunciare un “tavolo” per gli appalti farmaco-ospedalieri, a partire dalle proposte di Assogenerici. Le parole d’ordine sono trasparenza, equità, meccanismi per privilegiare le fasce deboli. “Valori etici, prima ancora che economici”, ricorda Häusermann. E il primo dei valori, si sa, è la salute, e la sua concreta accessibilità per tutti.
Con l’abbassarsi delle temperature torna a impennarsi il rischio di influenze. E questo cambio di stagione apre anche quella che dovrebbe indurre molti, e in particolare le categorie più a rischio, a vaccinarsi. Ma proprio in questi giorni arriva al contempo una novità ulteriore in tema di vaccini, ed è l’individuazione di un antidoto quasi “universale”, con l’ausilio rilevante dell’informatica.
La scoperta è annunciata dagli esiti di una ricerca ispano-britannica, pubblicata dalla rivista “Bioinformatics” dai ricercatori delle Università di Lancaster, Aston e Complutense. Sono stati messi a punti due vaccini, uno che coprirebbe il 95% dei ceppi virali presenti negli Stati Uniti, un altro “globale” capace di debellare l’88% dei ceppi nel mondo.
La logica di partenza utilizzata è piuttosto semplice e ricalca le prassi in uso: si prende un virus recente e lo si attacca sperando e sapendo che ci sono buone probabilità che funzioni anche per le epidemie successive. Non sempre però è così, tanto da aver innescato un parziale fallimento due anni fa (col vaccino H3N2), che ha poi scoraggiato molti a vaccinarsi l’anno scorso, nonostante le rassicurazioni degli operatori e delle autorità sanitarie.
Dagli algoritmi utilizzati al computer, sulla base dei virus e del sistema immunitario umano, sono stati però ora definiti, a detta degli scienziati, “i componenti di un vaccino che fornisce una protezione più duratura e vasta”, tanto da fare dichiarare che un “ antidoto universale contro l’influenza è a portata di mano”. Lo strumento principale sarebbe quello degli “epitopi”, brevi frammenti virali già noti per la nostra capacità immunitaria di riconoscerli. Il loro problema è che molti non hanno ancora ricevuto una validazione sperimentale, sicché i ricercatori, per dare un orizzonte di applicabilità prossimo, hanno utilizzato solo quelli già approvati. Coi promettenti esiti citati.
Fin qui la ricerca, che attende il suo seguito e il suo utilizzo farmacologico. Sul resto c’è l’attualità delle nuove influenze stagionali e delle relative campagne di vaccinazione, proprio “a partire dalla metà di ottobre”, fa sapere il Ministero della Salute. “ Contrastare i movimenti ‘no vax’”, incalza la ministra Lorenzin, lamentando che “ campagne anti scientifiche trovano oggi spazio sul web e sembrano avere lo stesso peso di quanto affermano le autorità scientifiche e sanitarie mondiali ”, e rivendicando un’offerta vaccinale in Italia “ tra le più avanzate al mondo , uniformata su tutto il territorio nazionale con l’introduzione di nuovi vaccini in regime di gratuità ”. Buona guarigione, dunque, e possibilmente prevenzione.
Attenzione, la “medicina” della completa guarigione ancora non c’è né, dicono gli scienziati, “è dietro l’angolo”. Ma l’esito di un protocollo sperimentato nel Regno Unito ha il sapore di una potenziale svolta storica. Per la prima volta l’Hiv, dopo una sperimentazione farmacologica, risulta del tutto “invisibile” all’analisi del sangue di un paziente, ed è un esito che suscita enormi speranze considerando che nel mondo ne sono affette circa 37 milioni di persone e ha causato finora quasi altrettante morti con lo sviluppo nell’Aids.
"Ho fatto gli ultimi esami due settimane fa e non c'era traccia del virus, ho partecipato all'esperimento per aiutare me stesso e gli altri, mi sembra incredibile ", le parole entusiaste del 44enne, consultato nell’anonimato dal Daily Telegraph. Lo stesso giornale, nel rispetto della cautela degli studiosi, è stato poi costretto all’indomani a rettificare il titolo. Non più virus “scomparso”, bensì “irrilevabile”, perché non si esclude il permanere di cellule malate “dormienti”.
Sono cinque le università coinvolte nel protocollo, sperimentato su cinquanta pazienti (di cui il 44enne è il primo), e sono di massimo livello: Oxford, Cambridge, Imperial College, University College London e King's College, sotto il coordinamento dell’autorità sanitaria nazionale.
Si tratta di un farmaco elaborato al fine di “ingannare” il virus, inducendolo a emergere dalle cellule in cui si nasconde, per poi attivarvi il sistema immunitario orientato a distruggerlo. “Kick and Kill”, dicono gli inglesi. Le sfida è dunque orientata proprio alle cellule nascoste: “La terapia è stata appositamente concepita per ripulire il corpo da tutti i virus dell'Hiv, compresi quelli dormienti – spiegano - Ha funzionato in test di laboratorio e ci sono prove che stia funzionando anche con gli esseri umani”.
Insomma, tra una cautela e l’altra sprigiona l’ottimismo. Ci vorrà tempo per le certezze ma la strada sembra tracciata. Nell’attesa, permangono le cure per “contenere” il virus e poterci convivere. Con potenziali terapeutici promettenti anche dal lato dei costi. “ I farmaci generici sono il futuro, amplieranno la cura dell’Hiv”, scrisse già nel 2012 la rivista Nature. E nei mesi scorsi raccontammo noi stessi gli ultimi esiti delle ricerche italiane (dal San Raffaele di Milano al Gemelli di Roma), che hanno comprovato la completa equivalenza nello “switch” agli equivalenti, a prezzo assai più basso. E’ bene ricordarlo, ed è fondamentale che lo sappiano i pazienti, perché quello scarto, per molti, può fare una differenza che vale la vita.
Ci sono campagne e campagne. Alcune si risolvono in una “Giornata”, altre durano molto di più, e non solo perché, come in questo caso, coinvolgono una “Settimana”, ma soprattutto in quanto mobilitano quotidianamente all’azione migliaia di donne, con il placet delle principali autorità sanitarie mondiali e della stessa Unicef. L’allattamento naturale è la migliore medicina concepita per il nutrimento e la prevenzione sanitaria del neonato, e lo è anche per le madri.
La “Settimana Mondiale dell’Allattamento” appena conclusa, gestita a livello globale dalla World Alliance for Breastfeeding Action (e in Italia soprattutto dal Movimento Allattamento Materno Italiano), è stata incentrata quest’anno sul concetto di “sostenibilità”, anche in relazione agli “obiettivi di sviluppo”. Più che mai infatti il tema della salute – con i benefici conclamati del latte materno rispetto all’artificiale – qui si incrocia con quello dei costi, ai quali si costringono le madri - colpa grave soprattutto nei contesti di povertà – magari con campagne subdole dei produttori, che suscitano da tempo le proteste delle agenzie umanitarie.
La rivista Lancet ha calcolato nei mesi scorsi che tramite un incremento ragionevole del ricorso all’allattamento al seno si potrebbero prevenire oltre 800mila decessi l’anno, che corrispondono al 13% dei piccoli sotto i cinque anni. In particolare, si eliminerebbero la metà dei casi infantili di dissenteria e un terzo delle loro infezioni respiratorie. Si potenzia la crescita del bimbo, si alimentano gli anticorpi e le altre difese, con effetti accertati anche sul funzionamento cardiovascolare nel lungo termine.
Di più, i benefici sono inoltre psicologico-affettivi, e naturalmente coinvolgono anche la madre, dimezzandone non solo i rischi di depressione post-partum, ma riducendo perfino l’esposizione a patologie strettamente fisiologiche, dal tumore al seno all’osteoporosi, dall’ipertensione all’infarto.
Si potrebbe pensare che l’emergenza riguardi soltanto i paesi in via di sviluppo. Nient’affatto. A 26 anni dalla prima grande campagna Unicef in materia c’è solo un paese europeo in cui la maggior parte delle madri riesce a rispettare l’obiettivo dei sei mesi di allattamento, ed è la Finlandia. In Italia ci arriva solo il 10%, mentre già a quattro mesi il 70% dei piccoli è nutrito col biberon. A volte non ci si riesce per qualche serio impedimento fisiologico, al ché il latte artificiale risulta salvifico. Ma a volte no, pesano scelte e obblighi “organizzativi”. E’ una colpa grave, ed è una colpa collettiva. La maternità va aiutata e protetta, naturalmente non solo da familiari, medici e consultori, ma anche dal mondo del lavoro.
Inutile, anzi dannoso, cercare di negarlo. L’ipertensione è una piaga talmente estesa che sicuramente coinvolge almeno alcuni dei lettori (e magari anche di chi scrive). Si tratta di un “killer silenzioso”, che affligge quasi 17 milioni di italiani (in lieve maggioranza uomini), ossia quasi un terzo della popolazione nazionale, e causa ogni anno la morte di oltre 7 milioni di persone nel mondo, tanto da innescare periodiche campagne e appelli (specie all’ultima “Giornata Mondiale”, lo scorso 17 maggio) al controllo della pressione arteriosa.
Se ne parla proprio in questi giorni a Firenze, al 23esimo Congresso nazionale della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (Siia), sulla base di un paio di ulteriori dati di fatto. Anzitutto, l’ipertensione rappresenta nel nostro paese la principale causa di malattie cardiovascolari, roba da 240mila morti l’anno, e cioè il 40% delle cause di morte, senza esclusione per gli adolescenti e perfino i bambini, essendone coinvolti quattro su cento nell’età delle scuole elementari.
L’altro dato allarmante è che pochissimi ne sono consapevoli, e questo espone loro ai gravissimi rischi citati, il che rappresenta una colpa ancor più grave quando riguarda i più giovani. “Tutti sono a rischio, a qualunque età”, ricorda Gianfranco Parati, presidente della Siia, col risultato ultimo che “solo un paziente iperteso su quattro è adeguatamente curato”.
E la gravità in tale carenza di consapevolezza e controlli si accompagna a un altro dato, benché di segno opposto, che è quello di un miglioramento della qualità terapeutica degli ipertesi. Dagli ultimi dati, relativi al 2013, emerge che per oltre il 60% degli italiani di accertata ipertensione è stato poi ottenuto un controllo adeguato della pressione arteriosa, mentre solo otto anni prima erano solo il 39%. La medicina cresce, e con essa la capacità di raccogliere e dar seguito ai segnali della diagnostica.
Di qui il primo dei consigli ai pazienti, quello per un regolare controllo della propria pressione arteriosa. E poi tutto il resto. Nelle parole del professor Parati, “ combattere il sovrappeso, introdurre meno sale con gli alimenti, evitare i grassi favorendo una dieta ricca di frutta e verdura e fare attività aerobica regolarmente, almeno 30 minuti al giorno ”. Ancora una volta, la parola d’ordine è la prevenzione: “ Non è tanto l’aggressività con cui si riduce la pressione arteriosa che fa la differenza in termini di riduzione del rischio di complicanze cardiovascolari – nota lo scienziato - quanto la precocità degli interventi”.
A volte la sana attenzione per il proprio peso corporeo induce a dolorose rinunce, ma è bene tener presente che alcune di esse non solo sono inutili, ma possono risultare assai dannose. Questo riguarda perfino uno degli ingredienti più insidiosi, ossia il sale. Ebbene, non tutti i sali sono nocivi, se è “iodato” è anzi un nutrimento essenziale la cui assenza alimenta seri rischi per la salute.
L’ultima documentazione in proposito arriva per la verità dallo studio commissionato da un produttore agro-industriale, l’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano, ma le indicazioni di fondo ricalcano quelle condivise da agenzie indipendenti e dallo stesso Ministero della Salute. Rivela uno scarso consumo in Italia di alimenti ricchi di iodio, con conseguenze insidiose soprattutto per il feto e per la crescita dei bambini.
Nel dettaglio, sono state esaminate 1200 interviste realizzate nel 2015 in varie regioni. Ed è emerso che il consumo medio è di 60 microgrammi al giorno, ossia meno della metà della dose consigliata, mentre solo il 5% della popolazione raggiunge tale fabbisogno (il quale varia a seconda delle fasi della vita, impennandosi durante la gravidanza e l’allattamento). Dati preoccupanti, in linea, se non peggiori, rispetto alle stime a livello globale, che calcolano l’esposizione alla carenza di iodio sul 29% della popolazione.
La gravità del danno è anch’essa nelle cifre. Si stima che in Italia si ammalano di gozzo (aumento del volume della tiroide causato proprio da tale carenza) circa 6 milioni di persone, oltre il 10% della popolazione, tanto da determinare 50 ricoveri ogni 100mila abitanti. Un “ problema sanitario e sociale grave”, incalzano i ricercatori.
Bene dunque usare il “sale iodato” al posto del comune sale da cucina. E poi la priorità sono i crostacei e i pesci di mare. A seguire uova, formaggi, e poi anche anacardi, noci e pistacchi, mentre la carne e i vegetali ne sono relativamente poveri. Indicazioni da prendere senza la tendenza opposta, e altrettanto nociva, all’esagerazione. Lo iodio comunque serve, e va ricordato. Per la tiroide, ma anche per lo sviluppo, la regolazione del metabolismo (anche calibrando i grassi in eccesso), la prontezza mentale (di cui l’importanza primaria per feti e bimbi), e la stessa salute della pelle, capelli e denti. La salute si difende prima che arrivino le magagne, anzitutto a tavola.
Lo abbiamo ricordato più volte, il tema della “medicina di genere” non è un’astrazione ideologica ma un’urgente necessità. Tra una ricerca medica ancora coniugata al “maschile”, un quadro generale di difficoltà socio-economiche che tende a colpire selettivamente le categorie meno protette, e una maggiore esposizione a diverse patologie, le donne reclamano più attenzione. Vivono mediamente di più, ma soffrono di più, con per giunta qualche segnale preoccupante da Eurostat sulla tendenza alla riduzione della distanza nella speranza di vita tra i sessi.
Un’ulteriore allarmante conferma arriva dai “Numeri del cancro in Italia 2016”, il rapporto diffuso nei giorni scorsi dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e dall'Associazione Italiana Registri Tumori (Airtum). Il dossier per la verità non è privo di dati incoraggianti, a iniziare dal fatto che di tumore si muore meno, tanto da far dire alla ministra della Salute Lorenzin che si tratta sempre più di una “ malattia cronica come altre, da cui poter guarire o comunque convivere, con una vita attiva e soddisfacente”. A condizione di un’adeguata assistenza, naturalmente.
“Le due neoplasie più frequenti, quella della prostata negli uomini e del seno nelle donne - documenta il presidente di Aiom Carmine Pinto - presentano sopravvivenze a 5 anni che si avvicinano al 90%”, al punto che “ l'Italia è in testa nella classifica europea per sopravvivenza per quasi tutti i tumori, e questo nonostante la spesa per la Sanità rispetto al Pil sia tra le più basse ” in Europa. Il calo della mortalità è vistoso, oggi i pazienti con storia di cancro in Italia sono oltre tre milioni (di cui oltre un quarto completamente guariti), quasi un milione in più rispetto solo a dieci anni fa.
Le buone notizie proseguono con quella del calo degli uomini che si ammalano. Nell’ultimo anno le diagnosi per loro sono state meno di 190mila, il 2,5% in meno rispetto all’anno precedente. Un miglioramento di rilievo, dunque, con peraltro un grande “ma”: esso si riferisce solo agli uomini, mentre per le donne la realtà è quella di un ulteriore aumento, perfino superiore al calo rilevato tra i maschi: le italiane ammalatesi quest’anno sono state oltre 176mila, nel precedente erano meno di 169mila.
Sulle cause di quest’opposta tendenza le spiegazioni sono diverse. Gli oncologi, ad esempio, notano la concomitanza dei dati sul fumo, in relativo aumento nel gentil sesso. Ma c’è anche molto altro, a iniziare dall’esigenza di un’attenzione medica specifica, che in tempi di difficoltà economiche va aumentata, e non più sacrificata.
Tra promesse e annunci scientifici la cosa più convincente per chi si interessa di salute e ricerca medica è quella di superare tali “filtri” di comunicazione incontrando gli scienziati stessi. E’ quel che è successo nei giorni scorsi a Roma, con un incontro-stampa con la scienziata Francine Kaufman, pluripremiata endocrinologa americana (alla presenza di studiosi italiani, quali Martino di Messina, Coordinatore del Gruppo di studio del diabete della Società Italiana di Diabetologia Pediatrica), che ha raccontato con parole sue le novità in materia di “rivoluzione tecnologica sul diabete ”.
Fu lei infatti la prima ad aver concepito l’ipotesi di un “pancreas artificiale”, che coinvolgerà un microinfusore di insulina, un sistema di monitoraggio continuo della glicemia e formule algoritmiche connsse all’interno del microinfusore stesso capaci di regolarne in modo completamente automatico il corretto dosaggio.
Si tratta di un risultato ancora da raggiungere, ma alcune “tappe intermedie” sono già in atto, con rilevanti benefici per i pazienti. Dal marzo 2015 è infatti disponibile in Italia (e non ancora negli Stati Uniti) un “sistema integrato” (chiamato Medtronic MiniMed 640G) che, a detta dei produttori e della stessa Kaufman, è capace di prevenire oltre l’80% degli eventi ipoglicemici.
Il nodo è proprio nella definizione del giusto dosaggio di insulina richiesto dal diabete di tipo 1, caratterizzato dall’incapacità del pancreas di produrla. Il livello “giusto” non è uguale per tutti e in tutti i giorni, a seconda dell’alimentazione, dell’attività fisica e di altri fattori fisiologici, e tale variabilità induce spesso all’errore, stimato addirittura al 74% dei trattamenti. Ed è un errore grave, perché una somministrazione sbagliata può far aumentare la glicemia, e i rischi connessi di complicanze cardiovascolari, neuropatia e altro. Tale apparecchiatura sembra prevenire tutto questo, trasmettendo e visualizzando sullo schermo del microinfusore i valori di glucosio, sospendendo automaticamente l’erogazione di insulina quando in eccesso.
Un ulteriore sviluppo tecnologico, tramite un sistema “ibrido”, è stato sperimentato e pubblicato in questi giorni sul Journal of the American Medical Association. L’importanza di queste novità è nell’ampiezza della platea dei pazienti affetti da diabete 1, stimata in Italia sulle 250mila persone, di cui quasi un decimo minorenni, con costi pubblici di ricovero per un’ipoglicemia calcolati sui 2900 euro al giorno. Ora, “ci vorranno ancora alcuni decenni” per il traguardo di una cura definitiva del diabete. Fino ad allora, la priorità è quella della prevenzione, a partire dall’appropriatezza dei dosaggi. Oggi verificabile con una precisione fin qui sconosciuta.