Le intolleranze alimentari sono una cosa seria, talmente seria che tendiamo ad attribuire loro perfino gli effetti collaterali che non hanno. E’ il caso del sovrappeso. Per la verità i motivi che possono farci pensare a una possibile relazione tra l’intolleranza e l’aumento di peso sono tanti. Il tema generale è più o meno lo stesso, quello che mangiamo e come lo digeriamo. Soprattutto, siamo bombardati dal fenomeno delle “popular diets", definibili come ‘diete alla moda’, che godono di un successo mediatico e di pubblico, in virtù di benefici poco credibili rafforzati dalla testimonianza di personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport”.
A scriverlo, con una vis polemica senza precedenti, non è un opinionista qualsiasi. Si tratta di un corposo e documentato “position statement” di 41 pagine redatto e pubblicato dalle principali sigle scientifiche italiane del settore: la Società Italiana di Diabetologia (Sid), l’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica, l’Associazione Medici Diabetologi, l’Associazione Nazionale Dietisti, la Società Italiana di Nutrizione Umana, la Società Italiana di Nutrizione Pediatrica, la Società Italiana dell’Obesità.
Insomma, un attacco formale e frontale alla “diet industry” per gli aspetti di insidiosa disinformazione alimentare. Tra le cosiddette “bufale del web”, velati messaggi promozionali ed espliciti spot pubblicitari, “il mercato dei prodotti dietetici che promettono consistenti perdite di peso si è popolato di prodotti di dubbia efficacia e di diete prive di solide basi scientifiche”.
E il più subdolo e fuorviante dei messaggi sta proprio nell’idea che il consumo di alimenti a cui si è intolleranti ci faccia ingrassare. “Non esiste alcun legame tra eventuali allergie alimentari e sovrappeso e non esistono prove scientifiche in grado di validare gli strumenti di diagnosi spesso utilizzati per sostenere il nesso tra intolleranze e obesità”, spiega la dottoressa Rosalba Giacco, del Cnr, coordinatrice della “writing committee” che ha prodotto il documento.
Il messaggio importante da recepire è che l’intolleranza e l’obesità sono aspetti indipendenti, e come tali vanno trattati. Nelle parole del presidente della Sid Giorgio Sesti, “Per contrastare il sovrappeso non ci sono scorciatoie, c’è un solo modo: incrementare l’attività fisica e ridurre la quantità di calorie assunte con la dieta”. Quale dieta? Checché ne dicano, ce l’abbiamo in casa. “I risultati migliori si ottengono utilizzando modelli alimentari che hanno radici culturali/tradizionali nella dieta mediterranea, ovviamente tenendo conto delle necessità individuali”. Semplice, e migliore di qualsiasi “prodotto dietetico”, anche se c’è chi tenta insanamente di portarci altrove.
E’ una fantasia diffusa, antica, motivata da ottime ragioni affettive, a iniziare dalla magia della genesi e dell’incontro più importante - quello con una nuova vita- con quel che può conseguire (dall’ambito psicologico di un abbraccio fuori dal contesto dei protocolli e dei ricoveri) anche per la salute, sia della madre che del nascituro. Tuttavia è una fantasia pericolosa, perché il parto è certamente il momento supremo, ma lo è anche sul piano dei rischi, per affrontare i quali rimane necessaria una struttura ospedaliera.
Il parto in casa, con la sola assistenza di un’ostetrica, sta in effetti conoscendo un mini-boom. In Italia sono 500 i bimbi venuti al mondo così nel 2015, ossia lo 0,1% delle nascite, ed è comunque un dato inferiore alla realtà, considerando un numero crescente di parti “clandestini”, in particolare tra alcuni gruppi di immigrati che si trovano in quella condizione. E di certo è inferiore a quel che accade in altri paesi, dal Nordeuropa al mondo anglosassone, per consolidata tradizione.
Tuttavia i rischi permangono, e possono affacciarsi anche al culmine di una gravidanza senza problemi. Quando avviene l’imprevisto un’ostetrica può non bastare, e men che meno il calore domestico. Servono medici e strutture attrezzate, tanto che perfino le costose cliniche vengono sconsigliate da alcuni specialisti, in quanto non sempre dotate della medesima ampiezza strumentale di un vero e proprio ospedale. Ci sarebbe, certo la “corsa al ricovero”, ma i tempi di trasferimento possono a loro volta non essere adeguati. Rischi che si traducono ai fatti in una maggior esposizione del bambino a patologie neonatali dopo un parto domestico, rispetto a quello in ospedale.
La soluzione migliore sembra essere un'altra, quella di “portare la casa in ospedale”, rendendo quest’ultimo un ambiente più accogliente e familiare (che includa il papà), e soprattutto attuando la pratica del rooming in, lasciando cioè madre e figlio nella stessa stanza subito dopo il parto, fatto fondamentale per la salute psicofisica di entrambi.
Passi in avanti sono stati fatti in tal senso, e a maggior ragione la Società Italiana di Neonatologia “sconsiglia vivamente” di esporsi al rischio di un parto domestico, pur “condividendo le motivazioni”, e facendole proprie. Ma se proprio la gestante si ostina in tale scelta, la Società stessa ha pubblicato alcune raccomandazioni imprescindibili, in linea con gli standard internazionali: una corretta informazione della donna sui rischi che corre in casa, l’esistenza di un centro ospedaliero vicino, preallertato e facilmente raggiungibile, con l’ausilio di personale addestrato alle manovre di rianimazione, la presenza di un’ostetrica esperta e la garanzia di controlli di routine per la madre e neonato nelle ore successive al parto. La creazione è l’atto vitale per eccellenza, e come tale va accarezzata e seriamente protetta.
C’è la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia. Ma alla nota triade la lotta ai tumori può ora aggiungere una nuova freccia al proprio arco. Si tratta dell’immunoterapia, e rappresenta un nuovo, meno invasivo e sempre più efficace orizzonte terapeutico, che si alimenta a ritmo incalzante di novità e riscontri promettenti dal mondo della ricerca, anche in Italia.
Il tema è drammaticamente aperto, a iniziare dal tumore ai polmoni, su cui si conteggiano ogni giorno oltre 110 nuove diagnosi solo nel nostro paese, e nell’80% dei casi la ragione è riconducibile al fumo. Come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, anche pochissime sigarette possono farne impennare i rischi, ed è una cattiva abitudine che purtroppo, anziché diminuire, coinvolge ancora tantissimi giovani, con una menzione particolare per il gentil sesso. Quasi un quarto delle donne italiane è tabagista, con la conseguenza che tra il 1999 e il 2011 l’incidenza del carcinoma al polmone è aumentata per loro del 34%, mentre è diminuita di un quinto tra gli uomini.
La scienza comunque si muove, su questo terreno sembra farlo rapidamente, anche in relazione all’uso combinato di più anticorpi, com’è emerso tra l’altro all’ultimo Congresso, tenutosi a Copenhagen, della Società Europea di Oncologia Medica. Lì è stato presentato ad esempio l’esito di un esperimento sulla combinazione di “nivolumab” e “ipilimumab”, con tassi di risposta obiettiva calcolati al 43%, il doppio di quanto riscontrato con l’impiego di un solo componente. “Si sta concretizzando la possibilità di evitare la chemioterapia e avere accesso a farmaci caratterizzati da una tollerabilità migliore”, commenta il professor Federico Cappuzzo, direttore del reparto Oncologia all’Ospedale di Ravenna.
Ancora, a Milano, da una collaborazione tra l’Università Statale e l’Istituto nazionale di genetica molecolare Romeo ed Enrica Invernizzi, si è scoperto che alcune cellule del sistema immunitario, le cosiddette “T-regolatorie”, crescono in presenza del tumore anche al di fuori delle cellule tumorali stesse, ed è una risposta che inibisce la stessa risposta immunitaria e può innescare effetti collaterali, il che spalanca la ricerca sul nodo-chiave della loro neutralizzazione. Altri, a Siena, stanno studiando tra l’altro un’associazione con la terapia “epigenetica”, che agisce modificando il Dna stesso delle cellule malate.
La strada è dunque tracciata, con esiti promettenti. E’ quella della costruzione di nuovi anticorpi immunoterapeutici (e magari, appunto, della combinazione di diversi) che, come spiega dice Michele Maio, direttore dell’Immunoterapia Oncologica del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena “non hanno nessuna necessità di raggiungere il tumore perché il loro bersaglio è sulle cellule del sistema immunitario”. Anche qui, comunque, la differenza viene fatta dalla tempistica della diagnosi. Le possibilità di guarigione mutano radicalmente se si interviene all’inizio o alla fine della terapia e, questo, si ricordi sin d’ora, riguarda anche i nuovi incoraggianti trattamenti.
Le festività di fine anno sono finalmente alle porte, e con esse i bilanci da tirare, e le lezioni da trarre. C’è una Sanità italiana che, pur tra buchi, problemi, fatiche e sperequazioni regionali ha ricevuto in questi giorni valutazioni di pur cauta “promozione” in sede internazionale, peraltro accompagnate dall’ennesimo appello: “Più ricorso ai farmaci generici”, si invoca nell’ultimo rapporto Ocse-Unione Europea. Ed è un appello al quale si associano oramai con crescente convinzione anche i principali media “mainstream”.
Dalla relazione “Health at a Glance: Europe 2016” (ampiamente ripresa, tra gli altri, dal Sole 24 Ore) emerge anzitutto che l’Italia investe relativamente poco nella salute, il 9,1% del Pil, sotto la media europea e nettamente meno (anche in proporzione al reddito) rispetto ai paesi più virtuosi, quali Germania e Svezia. Eppure, nonostante le risorse inferiori, siamo ancora ai vertici europei per la speranza di vita (secondo solo alla Spagna), e questo grazie anche a una “buona qualità di assistenza sanitaria”, documentata anche dai tassi di mortalità dopo un ricovero, tra i livelli più bassi nel Continente. Il che dimostra l’impegno, in molti casi il sacrificio, di tanti operatori sanitari del nostro paese, pur in condizioni difficili.
Si deve comunque “fare di più per ridurre le diseguaglianze in termini di accesso all'assistenza sanitaria e destinare risorse verso settori che hanno il maggior impatto sui risultati in campo sanitario, inclusa la prevenzione”. Più risorse, dunque, e non meno risorse, date anche le esigenze crescenti legate all’invecchiamento della popolazione. E la ricetta, spiega Bruxelles, è a portata di mano, ed è appunto quella di un maggior utilizzo dei farmaci equivalenti, che costano meno pur avendo gli stessi principi attivi, ovvero l’identica efficacia e sicurezza terapeutica.
“Coprono appena il 19% del nostro mercato delle confezioni di medicinali, contro il 52% registrato, in media, nei Paesi Ocse”, incalza anche “Io Donna” (settimanale del gruppo del Corriere della Sera), citando un recente rapporto della Fondazione Gimbe, che conteggia uno spreco per i cittadini di quasi 440 milioni di euro nei soli primi cinque mesi di quest’anno. L’informazione, in effetti, si sta muovendo. “Panorama” ha concluso il suo tour tra le “eccellenze del made in Italy” proprio con un convegno sui medicinali equivalenti a Trapani, organizzato con l’azienda Teva, riunendo decisori, medici, associazioni dei pazienti, scienziat
“Il pregiudizio che limita l’uso del generico è assolutamente privo di giustificazioni, nasce molto spesso da carenze informative”, il messaggio lanciato tra gli altri dall’assessore regionale alla Salute Baldo Gucciardi, e sono parole importanti, anche perché vengono da una delle regioni più in ritardo. “Non ci si possiamo più permettere sprechi”, chiosa Francesca Moccia, vicesegretaria generale di Cittadinanzattiva, la corposa rete associativa in prima linea nella battaglia per i farmaci equivalenti, tanto da aver condotto quest’anno un’altra campagna nelle piazze italiane, tramite il lungo itinerario di “IoEquivalgo”.
E poi è proseguito nel 2016 “Fabbriche Aperte”, il viaggio di Assogenerici (ultime tappe, la Mipharm di Milano e Lachifarma a Zollino, nel Salento) che spalanca all’incontro con le strutture e gli operatori del settore. Che sono tanti, e sempre di più: quasi diecimila addetti a soli vent’anni dalla nascita del generico in Italia. Numeri belli, importanti, di persone al servizio della nostra salute e del nostro risparmio. Cifre da far conoscere, e anche la stampa italiana ha iniziato seriamente a farlo.
Sì, lo diciamo ancora. Lo “scorbutico” è quel signore scostante, oppositivo, che interviene perlopiù a brontolare, prendendosela coi più giovani come con i più vecchi. E la radice è proprio quella, lo “scorbuto”, malattia antica quanto l’essere umano, che si manifesta in sintomi fastidiosi, tra emorragie, edemi e piaghe cutanee (che, se non curati, possono portare perfino alla morte) con pesanti e comprensibili effetti collaterali sull’umore.
Ebbene, c’è una notizia. Quella patologia che si pensava sostanzialmente debellata riappare qua e là, perfino nel mondo occidentale che se n’era liberato superando in larga parte il problema-chiave dell’indigenza. Alla cattiva notizia se ne accompagna peraltro una buona, che comunque chiama in causa i nostri comportamenti alimentari scorretti. Basta davvero poco per prevenirla, e si tratta del semplice consumo di vitamina C, necessaria alla produzione e allo stoccaggio corporeo dell’acido ascorbico, un vitale antiossidante con virtù anti-immunitarie e di cicatrizzazione
Alcuni scienziati australiani ne hanno recentemente annunciato la diagnosi su addirittura undici pazienti diabetici, la cui dieta era molto povera di frutta e verdura. In Francia, nel centro universitario di Limoges, su 63 pazienti con carenza di vitamina C è emerso che ben 10 erano affetti da scorbuto.
E non ne è immune neppure il nostro paese. Di pochi anni fa il caso, raccontato anche dal Corriere della Sera, della giovane dottoressa lombarda Simona Ghiozzi che, dopo un’odissea iniziata a tre anni di età tra diagnosi e cure sbagliate di ogni tipo, a poco più di trent’anni ha capito lei stessa che il problema era ben più semplice e antico. Lo scorbuto, appunto, poi risolto con una semplice terapia a base di vitamina C.
Curiosità a margine. La patologia è ritenuta parte dell’intera storia umana, tanto c’è chi interpreta nel Vecchio Testamento il “male di Giobbe” (oggetto di un apposito dialogo col Signore) come scorbuto. Se ne trovano tracce anche in testi indiani ed ebraici, oltre che in Ippocrate, ma la sua denominazione risale solo alla fine del sedicesimo secolo. Si tratta di un latinismo, “scorbutus”, escogitato però da un medico danese, che lo latinizzò da etimi vichinghi, con parentele anglosassoni. La cosa è interessante perché lo scorbuto, oltre a colpire prevalentemente i poveri e i marinai, bersagliava soprattutto le popolazioni geograficamente prive di una solida dieta vitaminica, come i nord-europei. E questo ci ricorda come noi mediterranei non abbiamo scuse, a dimenticarci dell’imperativo sanitario di mangiar bene, che da noi trova risposte a portata di mano.
E’ nella tradizione popolare che “la donna ha un beneficio fisico dall’atto di fare bambini, perché il suo corpo è orientato a quello”. In realtà non è sempre così, le cose sono più complesse. Ci sono molte donne che se la passano benissimo senza far figli. E poi ci sono moltissime altre che, tra vicende personali e tendenze professionali collettive, sono pronte a farli, ma molto più in là rispetto all’inizio dell’età fertile. A queste ultime arriva però un messaggio incoraggiante da una ricerca israeliana. E riguarda proprio il beneficio della gravidanza in relazione al fatto che essa si realizzi in età avanzata.
La ricerca è stata condotta dall’Hadassah Medical Center di Gerusalemme, e si legge sulla rivista Fertility and Sterility. Vi hanno partecipato ben mille donne, con risultati che suonano davvero significativi. In particolare, la mortalità è stata poi rilevata al 4,9% sulle donne che non hanno avuto figli, e al 3,4% a quelle che hanno partorito entro i 35 anni. La sorpresa arriva sul salire dell’età, perché tale tasso scende al 2,6% per le donne divenute madri dopo i 40, e addirittura all’1,6% per quelle sopra i 45. Fare figli farebbe dunque bene, e lo farebbe anche e soprattutto se ciò avviene in età tardiva.
Perché questo avviene? Siamo ancora al campo delle ipotesi, ma alcune vengono avanzate dagli stessi scienziati, che avrebbero identificato l’azione di ben sette geni che presentano differenze tra le mamme di trent’anni e quelle che superano i quaranta, e in ambedue i casi in favore delle seconde. Quattro di questi geni rallenterebbero la morte cellulare programmata (la cosiddetta “apoptosi”), agevolando lo spostamento delle lancette dell’“orologio biologico”, mentre gli altri tre alimenterebbero direttamente la longevità della donna.
Tutto questo sembra davvero una buona notizia, che si iscrive nell’ambito di un filone di ricerca ancora agli albori, chiamato “parabiosi eterocentrica”, centrato sui presunti benefici per il sistema circolatorio del collegamento con quello di un corpo più giovane. “E’ è un primo passo verso una terapia per il ringiovanimento cellulare del corpo umano tramite terapie medico-genetiche”, dicono gli scienziati. Tutto questo comunque non inficia alcuni nodi di fondo, quale i maggiori rischi patologici della gravidanza in età avanzata. Inoltre, la fertilità “tardiva” – conferma anche questo studio – è essa stessa favorita dal pregresso di una gravidanza giovane.
Che il fumo faccia malissimo è per fortuna entrato oramai solidamente nella coscienza collettiva, oltre che naturalmente al vertice delle preoccupazioni degli operatori sanitari. Permane però qualche esitazione sulla “misura”. Si tende a pensare (e per la verità lo sostiene anche qualche medico) che “fumare poco”, un numero limitatissimo di sigarette quotidiane, sia in fondo ben “digeribile” dal nostro organismo. Il problema starebbe perlopiù nel fatto che quella “modica quantità” sia poco sostenibile per quasi tutti, in quanto si tratta di una sorta di droga leggera ma ad alta dipendenza, inducendo facilmente a un consumo cospicuo. Invece no, adesso arriva la smentita perfino su questo. Anche fumare molto poco può esser molto rischioso.
Lo si legge sulla rivista “Jama Internal Medicine”, circa uno studio condotto dagli scienziati statunitensi del National Cancer Institute. E la conclusione è chiara: “Anche chi fuma poche sigarette al giorno o alla settimana porta con sé un rischio di morire più alto rispetto a quello che accompagna la popolazione non fumatrice”.
La ricerca è stata condotta su ben 290mila adulti, tra i 59 e gli 92 anni, interrogati sul loro comportamento relativo al fumo nell’arco della loro vita. E da questo sono emerse correlazioni impressionanti, perfino tra chi ha consumato sigarette con relativa moderazione, tra l’una e le dieci al giorno, palesando un rischio di morte prematura innalzato dell’87% rispetto ai non fumatori. E c’è un incremento di rischio perfino tra chi fuma davvero pochissimo, in media meno di una sigaretta al giorno, con un balzo conteggiato al 64%.
Il dato è avvilente per i cosiddetti “fumatori virtuosi”, quelli cioè che sanno contenersi su numeri bassissimi, ritenendo ciò sufficiente a “salvarsi”. Le conseguenze ci sono anche per loro, anzitutto in materia oncologica. “Soltanto nel nostro Paese il fumo provoca centomila nuovi tumori l’anno - ricorda Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica, rilanciando il concetto che - la prevenzione deve cominciare dai giovanissimi”.
Non si tratta del consueto appello obbligato, esso scaturisce da dati preoccupanti che ricollocano i giovani italiani all’amaro vertice delle classifiche continentali. Una recente indagine del Centro Europeo per il Monitoraggio della Dipendenza dalle Droghe ha svelato che il 12% degli studenti europei tra i 15 e i 16 anni è fumatore, ma la percentuale si impenna in Italia, al 21%, senza pari in Europa. In altri paesi la tendenza è in discesa, da noi il calo è solo sulla popolazione generale, ma non sui giovani. Forse persuasi che “fumare un pochino” non sia poi così grave. E invece ora si sa che anche quel poco lo è.
Il gelato fa bene alla salute, dicono i produttori, e in fondo dicono bene, a condizione naturalmente di non esagerare. Ci sono anche nella storia recente perfino involontari testimonial istituzionali, quali Matteo Renzi o il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson (immortalati a leccarsi gioiosamente l’ambita merenda), ma è soprattutto chi ha figli a sapere per bene quanto il porre limiti al suo consumo possa rappresentare una delle battaglie più difficili. Sta di fatto che adesso, tra celebrazioni e precauzioni, arriva l’annuncio del curioso esito di una ricerca scientifica, che ne rilancerebbe i benefici di salute addirittura a colazione. E a raccontarlo non è qualche industria dolciaria italiana, bensì un gruppo di scienziati giapponesi.
Lo studio è stato coordinato dal professor Yoshihiko Koga, “psico-fisiologo” all’Ospedale Universitario Kyorin di Tokyo, che, tramite una serie di test cognitivi, ha misurato l’effetto di tre cucchiai di gelato somministrati alla prima colazione sulle funzioni mentali dei partecipanti, confrontandole con le capacità dimostrate da un secondo gruppo viceversa deprivato della piacevole pietanza.
L’esito è stato quello di una vistosa differenza nei risultati dei test, in favore dei mangiatori di gelato. Di più, durante la prova, è stato riscontrato in questi ultimi un aumento delle cosiddette “onde cerebrali alfa”, che sono associate alla concentrazione, alla coordinazione e al rilassamento mentale.
Ora, sulle ragioni di tale effetto (di apparente interesse specie per lo studio delle malattie cognitive) permane il mistero, come riconoscono gli stessi studiosi nipponici, e non manca un sano scetticismo e ironia nel resto del mondo scientifico. “Forse la differenza è provocata dall’atto di fare o meno colazione”, il caustico commento di una scienziata britannica consultata dal quotidiano Telegraph. Ironie (legittime) a parte, si potrebbe ipotizzare un’azione di “risveglio” cerebrale innescata semplicemente dal freddo. Invece no, perché tale ipotesi è stata già neutralizzata ripetendo il test e sostituendo il gelato con il consumo di acqua molto fredda, il che non ha portato affatto agli stessi risultati.
Sul mistero possono dunque scatenarsi i nutrizionisti e gli altri studiosi, alla ricerca di un ingrediente o l’altro o di qualche strana alchimia attivata dalla peculiare ricetta. O forse c’è più banalmente dell’altro, una sorta di “effetto placebo” innescato dal gelato, ossia dal piacere di consumarlo, con quel che può portare per il nostro benessere psico-fisico una semplice soddisfazione culinaria. Fosse anche solo questo, ci dice qualcosa. Ci ricorda che la tavola, tra consigli e spauracchi, tra imperativi sugli eccessi e sui difetti di consumo, è e deve rimanere una fonte di piacere. Lo dicono non solo gli scienziati giapponesi, ma il sano istinto biologico di ognuno di noi.
“L’Aids è ancora tra noi, non si deve abbassare la guardia”. Le parole della ministra della Salute Beatrice Lorenzin, pronunciate lo scorso I dicembre al ricorrere dell’apposita Giornata Mondiale, possono suonare come un amaro ritornello. La realtà è che dicono purtroppo ancora il vero, come dimostrano le 3.444 diagnosi registrate solo in Italia e solo l’anno scorso. Ma dicono anche che è in arrivo un lavoro di prezioso rilancio della sensibilizzazione e della prevenzione, che per giunta fa leva su novità importanti, anche sul fronte della diagnostica.
Nel nuovo “Piano Nazionale anti-Aids” si persegue l’obiettivo anzitutto di aumentare le diagnosi “fino al raggiungimento del 90% delle persone con Hiv-Aids residenti in Italia, e ridurre del 50% i casi di diagnosi tardiva di infezione”, in linea con i parametri definiti in sede Onu. Eh sì, perché molto del problema sta nel fatto che molti ne sono affetti senza saperlo, il che riguarderebbe addirittura il 40% dei malati secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Poi c’è qui – come in tante altre patologie - l’annoso nodo dell’aderenza terapeutica, a cui concorre qualche “pigrizia” del Servizio Sanitario e del paziente stesso. L’auspicio governativo è allora quello di ridurre a meno del 5% l’anno la perdita di contatto da parte dei centri specializzati con i pazienti. Infine sono identificate alcune fasi vitali delicate di prioritario interesse, quali la gravidanza. “Incentivare le donne incinte a sottoporsi al test per poter eventualmente intervenire tempestivamente sul bambino”, esorta la ministra.
L’Italia non è ai livelli dell’Africa, dove meno del 30% dei pazienti ha accesso alle cure, ma si può e si deve comunque fare di più. Anche perché “le gambe” a sostegno dell’azione sono sempre più solide. Nei mesi scorsi, dopo la Conferenza mondiale degli specialisti della patologia in Sudafrica, documentammo l’avanzare della ricerca perfino di un possibile vaccino, su cui lavora anche un Consorzio mondiale presso l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Ancora, a fronte del problema della “diagnosi tardiva”, che può inficiare gravemente la terapia oltre che lo stop alla trasmissione della patologia, è arrivato anche nelle farmacie italiane un test che consente di “auto-diagnosticarla” facilmente. Basta diluirvi una goccia di sangue preso da un polpastrello e verificarne l’esito in una quindicina di minuti. Infine, non ultimo, ci sono i progressi nell’ambito terapeutico, anche sul nodo non secondario dei costi. La ricerca scientifica lo ha documentato oramai da molti anni: lo “switch” dal farmaco di marca al generico è, anche sull’Aids, di assoluta efficacia e sicurezza terapeutica. Come sul resto dei medicinali equivalenti, il messaggio è sempre quello: identici principi attivi, ma a minor costo, ed è una differenza che può far la differenza sulla possibilità di curarsi, e di aderire alla cura stessa.
Lo abbiamo già raccontato e documentato, quanto la salute sia purtroppo ancora un tema che si declini a seconda dello status sociale della persona, perfino in un paese avanzato come l’Italia. Lo si è detto a sottolineatura di alcune conquiste storiche (come il Servizio Sanitario Nazionale siglato dalla compianta ministra Anselmi, che fino a soli 40 anni fa neppure esisteva, pur con i suoi difetti), così come sull’urgenza di far leva su alcuni fattori di risparmio, come i farmaci equivalenti, che consentono a molte più persone di curarsi, con identica efficacia e sicurezza terapeutica.
Dagli Stati Uniti arriva una novità che allarga il perimetro della vicenda. Il “basso status” fa male alla salute non solo perché rende più difficile l’accesso alla terapia per limiti materiali (e anche in quanto, sostengono alcuni, favorirebbe comportamenti poco salubri come il ricorso al fumo o all’alcol), ma anche per alcune variabili psicologiche “debilitanti”. C’è il problema di “sentirsi ultimi”, è un problema che può concretamente innescare conseguenze per la salute.
Lo si legge sulla prestigiosa rivista Science, da uno studio della Duke University, avvalorato da verifiche successive di ricercatori europei. Emerge anzitutto una differenza nella speranza di vita tra ricchi e poveri di oltre 10 anni (addirittura 15 tra gli uomini). Ed emerge inoltre il contributo di alcuni fattori di natura strettamente psicologico-sociale.
Gli scienziati hanno dunque analizzato 45 macachi, dividendoli in cinque gruppi, e i più deboli, quelli “in fondo alla gerarchia sociale”, meno dotati di potere e più esposti a molestie, diventavano “cronicamente stressati”, con accertate conseguenze sanitarie. In particolare, questi hanno manifestato differenze in ben 1600 attività genetiche, e in particolare livelli superiori di “citochine infiammatorie”, foriere di diverse patologie, a iniziare da quelle cardiache.
La “somatizzazione” del disagio psichico è un tema serio quanto acclarato, e adesso si apprende inoltre quanto incidano non solamente gli aspetti “materiali” delle diseguaglianze. Conta anche, e forse anzitutto, l’ambito sociologico, quello definito dall’autostima, dal sentirsi esposti alle vessazioni e alle ingiustizie. Non è più solo un tema politico-economico. E’ una questione di salute. Lo ha raccontato, e preso atto, perfino il New York Times.
C’è chi dorme bene e chi no. Si tratta di un “dono” spesso congenito, o all’opposto di un nodo apparentemente di difficile soluzione, tanto che si stima che almeno un quinto degli adulti abbia cercato prima o poi ristoro in un farmaco. Detto questo, c’è però dell’altro. Ci sono cioè una serie di accorgimenti semplici, quanto spesso dimenticati o sottovalutati, che possono dare a molti una mano decisiva. Li ha ricordati in questi giorni la Fondazione per la Ricerca e la Cura dei Disturbi del Sonno, tramite un vero e proprio “decalogo”.
Sull’entità del problema, i dati anche italiani sono preoccupanti, tra stime di insonnia “cronica” che superano il 10% della popolazione nazionale, mentre quella “occasionale” sfiora la proporzione di un terzo. Di più, è emerso che quasi la metà della popolazione che si rivolge al medico di base soffre di disturbi al sonno. E le conseguenze sono serie, dall'esposizione al diabete al sovrappeso, dai rischi cardiovascolari a quelli psichiatrici, senza contare l’impatto generale sulla qualità della vita e perfino sulla produttività lavorativa, oltre che all’esposizione alla totalità delle malattie per l’abbassamento delle difese immunitarie.
Da tutto questo emerge l’importanza del decalogo siglato dal presidente della Fondazione Francesco Peverini. Evitare le temperature ambientali troppo calde (non oltre i 18-20 gradi), i materassi datati (oltre la soglia di circa otto anni), lenzuola, coperte, piumoni e pigiami di scarsa qualità (con rischi allergici), le luci accese, perfino quelle piccole che tengono in carica i telefonini.
E’ bene naturalmente anche evitare i rumori, che disturbano anche quando non ce ne ricordiamo al risveglio, e fare attenzione addirittura agli odori, alcuni dei quali sono comunque benefici, com’è il caso esemplare della lavanda, che agevola il rilassamento diminuendo la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Poi l’igiene, meglio una stanza pulita e ordinata, per quel che consegue sulla qualità del respiro e della psiche. Su quest’ultima, bene “chiudere tutto” in anticipo, ben prima di coricarsi, evitando che i pensieri sul da farsi al risveglio debilitino il riposo. E questo riguarda anche l’alimentazione: male i pasti in eccesso, male anche pasteggiare subito prima del sonno, rinunciando a un paio d’ore di avvio digestivo.
L’orizzonte è quello della qualità della salute notturna, foriera di energie all’indomani, o di gravi impedimenti in sua assenza. Poi c’è il nodo della “quantità necessaria.” Ed è anch’esso un tema individuale, su cui non mancano le differenze. Qualche “dritta” di fondo comunque c’è, ed è quella di circa otto ore di sonno per gli adulti. Essa può variare tra i singoli, ma non di molto. Dormire poco fa assai male, ma – ha recentemente documentato l’American Heart Association – anche dormire troppo non va bene. Quando si tratta di riposo (come di altro), l’imperativo è quello di tenersi alla larga dagli eccessi, ovunque essi siano.
Copenhagen chiama Roma. La capitale italiana è stata scelta a sede per il 2017 del programma Cities Changing Diabetes, mobilitato da anni dal danese Steno Diabetes Center in collaborazione con l’University College di Londra. Un bell’appuntamento, che muove dalla presa d’atto di quanto il vissuto nelle metropoli alimenti tuttora il rischio di contrarre la malattia. Ed è un tema che chiama tutti, dai decisori sanitari e politici ai singoli individui, a qualche seria quanto salvifica correzione di rotta.
Il problema è che le città innescano per loro natura situazioni insalubri, dall’inquinamento ai fattori di stress alle cattive abitudini alimentari, tutte foriere di un aumento di rischio di ammalarsi di diabete (oltre a tumori, patologie cardiovascolari e disturbi broncopolmonari) per documentate ragioni scientifiche. Solo che, nota l’ambasciatore danese Erik Vilstrup Lorenzen, “nel 1960 un terzo della popolazione mondiale viveva nelle città; oggi si tratta di più della metà e nel 2050 sarà il 70 per cento”.
Considerando poi che due diabetici su tre vivono nelle città (per la cronaca, il primato è di Tokyo con 37 milioni di abitanti, anche se le statistiche divergono a seconda delle fonti e dell’inclusione o meno dei loro circondari), questo dà il passo dell’estensione del problema e delle preoccupazioni per il futuro. Insomma, una vera e propria emergenza, tanto da mettere a rischio perfino “la sostenibilità dei sistemi sanitari”, come è emerso nei giorni scorsi in un convegno a Roma.
C’è però un grande “ma”, che rovescia in positivo l’intero quadro. Le città non sono solo la sede dei vizi e dell’aria poco respirabile, ma anche il luogo dove si “fa rete” per eccellenza. E’ per questo che in tanti la scelgono, non solo per ragioni economiche ma anche sociali. Il diabete è la tipica malattia che chiama a un approccio multidisciplinare, a un’attenzione complessiva, che va dalla prevenzione alla cura, dagli aspetti alimentari a quelli comportamentali e sociali.
In questo stanno le difficoltà, quanto dunque le speranze. “Un diabetico su due si sente abbandonato dal Servizio Sanitario Nazionale, e un paziente su tre si sente depresso”, nota Gianni Lamenza, presidente dell’Associazione Diabete Italia. Nella depressione o nell’incuranza, poi, molti non aderiscono alle cure. “L’accesso alla terapia è un diritto ma anche un dovere, se non lo si fa si reca un danno incommensurabile a se stessi e alla propria famiglia”, nota ancora il Diabete Forum. Terapia che oggi è a portata di mano molto più di ieri. “Le nuove terapie hanno migliorato la qualità della vita dei pazienti, e i pazienti collaborano di più”, sottolinea l’ordinario Paolo Pozzilli, dell’Università Campus Biomedico di Roma. E insomma molto si muove e molto si è già mosso. Le città, teatro principale della malattia, possono essere ben altro, dal punto di vista non solo medico, ma anche ecologico e aggregativo. Per volontà di noi tutti insieme, e di ognuno di noi.
“I grassi fanno male”, dicono, e molti media la raccontano proprio così. Sembra, insomma, la “scoperta dell’acqua calda” e, se a documentarla sono gli americani, può a maggior ragione suscitare ilarità, viste le devianze alimentari di molti di loro, con i relativi effetti. Nondimeno, la ricerca è seria ed estesa, tanto che arriva dalla prestigiosa Università di Harvard, fornendo qualche dettaglio non scontato sulle correzioni di rotta da prendere per una salutare prassi a tavola e oltre.
Come si legge sul British Medical Journal, l’indagine ha preso in esame ben 115mila persone, per due terzi donne, tutti operatori sanitari, seguendoli mediamente per oltre 25 anni, al fine di valutare l’effetto degli acidi grassi saturi sui rischi cardiovascolari, quali l’infarto miocardico e l’ischemia coronarica. Tutti erano privi di problemi rilevanti e cronici di salute e l’analisi è stata condotta “isolando” statisticamente i fattori comportamentali (quali il consumo o l’alcol), che potevano influirne gli esiti.
E questi sono eclatanti, mai come prima. Si stima che una riduzione solo dell’1% del consumo di grassi saturi faccia crollare l’esposizione alle malattie coronariche addirittura dell’8%. I “grassi saturi” sono presenti nella quasi totalità dei tessuti animali, in alcuni vegetali (come l’olio di cocco e di palma) oltre che, estesamente (e deleteriamente, per il loro isolamento dal prodotto naturale di base), in burro, margarina, merendine e altri prodotti industriali. I più innocui “insaturi” si ritrovano invece, e anzitutto, negli altri oli vegetali, cereali e legumi.
Tuttavia, a leggere l’indagine stessa, l’imperativo che segue non è semplicemente quello di “abolire” tali grassi. Il tema è più complesso, e suggerisce risposte più variegate e consapevoli. “Qui viene superata la vecchia idea di sostituire i grassi saturi con un unico nutriente, per esempio i carboidrati”, spiega al Corriere della Sera Stefano Erzegovesi, responsabile del Centro dei disturbi alimentari dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Meglio invece rimpiazzarli con diversi tipi di alimenti. Il problema non è tanto “trovare il principale colpevole”, quanto differenziare per bene, limitando il consumo dei cibi più insidiosi a non più di una volta o due la settimana.
Accertato il danno, la prevenzione è dunque una sfida di ragionevolezza, non necessariamente di sacrifici drastici. Ognuno di noi ha esigenze diverse, in base anche al clima (i grassi risultano necessari specie a chi vive in temperature molto fredde), all’età (i bimbi, per crescere, hanno bisogno di molto latte, seppur depositario di grassi saturi) e anche al tipo di alimento (il parmigiano li contiene, ma è anche ricco di calcio e fosforo). E questo riguarda perfino il delicato nodo della carne rossa. “Non tutte sono uguali – spiega Erzegovesi - la carne degli animali liberi al pascolo (a differenza di quelli cresciuti in allevamenti intensivi) contiene, oltre ai grassi saturi, anche acidi grassi insaturi, ennesima dimostrazione che la natura è più intelligente dei calcoli umani”. La “dieta” è un tema importante, ma non serve, quindi, ricorrere a tabù e rigori imprescindibili. Più importante, bene dar retta un po’ di più alla natura, alla nostra e anche a quella che mangiamo.
Ci sono fanatismi e mode, ma il tema è serio. La chiave di volta per il benessere psicofisico, dinanzi all’insieme dei disturbi e patologie riconducibili alla depressione, è anzitutto nella buona alimentazione. Tra gli appassionati e gli addetti ai lavori – si legga qualsiasi “decalogo” divulgativo in proposito – appare sempre, e quasi sempre in cima, quale alimento “virtuoso” per eccellenza. Si tratta, banalmente, delle noci, da alcuni già definite come “il cibo del cervello”, tanto da assomigliargli nella loro conformazione. Un’accademia americana ha ora ritenuto di effettuare alcune verifiche, traendone qualche netta conferma e, al contempo, alcuni interrogativi altrettanto eclatanti.
Come si legge sulla rivista internazionale Nutrients, i ricercatori dell’Università del New Mexico hanno preso in esame 64 giovani, tra i 18 e i 25 anni, sottoponendoli a una sperimentazione succulenta. Nel dettaglio, hanno loro somministrato tre fette al giorno di “plum-cake”, un dolce anglosassone a base di banana, per sedici settimane. E per otto settimane sono state aggiunte all’impasto delle noci, ben tritate al punto che non incidessero sul gusto e sull’aspetto.
Per consolidare la differenza, in tali ultime settimane gli studenti hanno aggiunto al loro menu quotidiano una dose di mezza tazza di noci. Infine è stato misurato il loro “umore”, sulla base di un test globalmente riconosciuto. Si chiama “Profiles of Mood States”, e fa leva su sei variabili: tensione, depressione, rabbia, stanchezza, energia e confusione.
L’esito del periodo di consumo delle noci è stato eclatante, col significativo miglioramento del 28% dello “stato d’animo” tra i giovani. Il segreto di tale alimento starebbe, secondo i ricercatori, nella presenza di vari nutrienti quali l'acido alfa-linolenico, la vitamina E, l'acido folico, i polofenoli e la melatonina. E’ poi c’è il selenio, la cui carenza è associata anche a stati d’ansia e stanchezza. A detta degli scienziati, è comunque probabile che la “ricetta” salvifica sia costituita proprio dalla combinazione di tali sostanze.
All’interrogativo se ne aggiunge un altro, ancor più “succoso”. La sperimentazione spalanca una differenza di genere. I miglioramenti riscontrati riguardano solo i maschi, mentre non emergono affatto nel gentil sesso. “Non sappiamo il perché”, ammettono schiettamente gli scienziati. Sappiamo però, e da questa indagine arriva l’ennesima conferma, che uomini e donne sono fatti diversamente, e richiedono diagnosi e terapie calibrate. La chiamano “medicina di genere”, e la sua importanza è segnalata perfino dalle noci.
Negli archivi video di tante famiglie le prime immagini del bebè sono oramai quelle che addirittura precedono la nascita. E sono immagini struggenti, commoventi, a volte buffe, che sembrano tra l’altro anticipare non solo i tratti somatici, ma (quantomeno “col senno di poi”) perfino alcuni segnali della sua impronta caratteriale.
Solo che quelle ecografie risultano talora problematiche. Mentre i genitori si emozionano e i medici spalancano gli occhi alla ricerca di ogni dettaglio, il nascituro a volte sembra ribellarsi a quella specie di “Grande Fratello” che vorrebbe violare la nuda privacy di quell’esistenza magica e placida nel grembo materno. Sicché si gira, si agita, si addormenta, e insomma si nasconde, e pur senza ancora conoscere il problema del “pudore”, magari cela anche le parti intime. Sono ancora tante le gestanti che escono deluse dal monitoraggio perché esso non è riuscito neppure ad accertare il sesso del nascituro, e ci sono ancora perfino casi in cui l’esito annunciato viene clamorosamente smentito dopo il parto.
Che il piccolo abbia o meno ragione a sottrarsi agli sguardi indiscreti è comunque un proposito che sembra avere i giorni contati. Le avveniristiche tecnologie dell’immagine a tre dimensioni entreranno nei monitor degli specialisti. La fotografia bidimensionale permette di nascondersi, la terza dimensione permetterà di vedere tutto, perfino, recita l’annuncio, “gli organi interni”.
E’ dal Brasile che arriva la novità, presentata dagli studiosi della Clinica di Diagnostica per Immagini di Rio de Janeiro al Congresso della Società di Radiologia del Nord America. Il progetto è avvalorato dal fatto che non è solo roba “tecnologica”, bensì segna un’utile collaborazione tra medici e specialisti dell’immagine. Ed è duplice anche la tecnologia, combinando le immagini rilevate tramite la risonanza magnetica con la realtà virtuale elaborata da un apposito visore, chiamato “Oculus Rift”.
“Può migliorare la nostra comprensione delle strutture anatomiche del feto”, spiegano gli scienziati, sottolineando l’accresciuta possibilità di riscontrare eventuali anomalie per aiutare a prendere decisioni su eventuali cure da affrontare prima o subito dopo la nascita. In ogni caso, promettono, è “un’esperienza meravigliosa”, che permette di vedere il corpo della vita che nasce, e non solo una goffa immagine schiacciata. E c’è da giurarci che anche il bebè, “col senno di poi”, ne sarà lusingato, anche per le possibilità di prevenzione e cura che si aprono con l’ausilio di quel che si può già vedere.
L’adolescenza è un limbo, e spesso poco piacevole. Scagli la prima pietra chi non ha attraversato qualche serio disagio, quantomeno psicologico, nell’ampia e critica forbice che separa l’infanzia dall’età adulta. Il problema è che quel “limbo” è anche sanitario. I ragazzi vanno poco dal medico, e l’assistenza per loro è di fatto scarna, proprio in una fase psico-fisica così delicata che richiederebbe viceversa un’altissima attenzione.
Ed è per questo che la Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza (Sima) ora scende in campo lanciando pubblicamente la proposta di veri e propri “Voucher della Salute” da consegnare ai giovani fino ai 22 anni e da utilizzare per visite specialistiche in strutture convenzionate del Servizio Sanitario Nazionale al termine dell’età pediatrica. Il momento del passaggio dal pediatra al medico di medicina generale è fissato a 14 anni, ma in casi speciali è consentito un prolungamento fino ai 16. Ed è un passaggio assai delicato, per giunta privo di “linee guida” ufficiali – come più volte segnalato dalla Società Italiana Cure Primarie – sicché la transizione (con tutto quel che richiede sul piano anche della consegna delle informazioni cliniche), è lasciata essenzialmente alla sensibilità del singolo operatore.
I numeri della “domanda di cure”, seppur perlopiù silente, sono impressionanti. I pazienti tra i 15 e i 17 anni che soffrono di qualche patologia cronica sarebbero oltre 300mila, secondo le cifre ufficiali dell’Istat, ossia circa un quinto dei giovani, e se si allarga la fascia di osservazione fino ai 22 anni si sfiora il milione. Si tratta in larghissima parte di patologie allergiche, ma nel 10% dei casi il nodo è quello di accertati disturbi nervosi.
Accertati, dunque, ma poco curati. “Ci siamo accorti con stupore che esiste una larga fascia di ragazzi per i quali il Sistema Sanitario Nazionale non prevede visite mediche - spiega il presidente della Sima Piernicola Garofalo – e ispirandoci ai recenti Voucher della Cultura, li abbiamo pensati per la salute e la prevenzione”. E’ ancora solo una proposta, indirizzata al Ministero della Salute e ai decisori regionali, con importi e tempistica da calibrare in funzione delle esigenze di bilancio e delle necessità individuali di cura.
L’idea di fondo è comunque quella di sensibilizzare gli addetti ai lavori sulle necessità sanitarie dell’adolescenza, ma anche di responsabilizzare ed educare i giovani alla prevenzione e una gestione autonoma della propria salute. Un caso limite è quello delle adolescenti dopo i primi cicli mestruali: da un’indagine italiana del 2013, emerge che solo una su quattro si è mai recata dal medico. E allora, che siano i prospettati “voucher” o altro, la sfida è quella di far uscire da quel limbo non solo i ragazzi, bensì anzitutto l’attenzione pubblica che meritano, anche quando non la chiedono.
Hanno ragione gli storici contemporanei, quando spiegano che per capire da dove viene e dove va il nostro mondo bisogna entrare in fabbrica: è lì dentro che tutto si costruisce, ben al di là dei singoli prodotti. Ci stanno le nostre conquiste, le fatiche, la genesi tecnologica e materiale, il cuore dei nostri rapporti socio-economici, e ci furono perfino - dicono i più critici riferendosi al passato ottocentesco – i sistemi organizzativi “militareschi” che avrebbero fatto addirittura da preludio ai conflitti mondiali del secolo scorso. Tutto, nel bene e nel male, nasce lì dentro.
“Entrare in fabbrica” è allora un’esperienza storica, una presa di coscienza di noi stessi e del mondo, e quando le sfide dei nostri giorni si giocano nel contesto di serie difficoltà economiche e produttive quel mondo salta agli occhi come un’epica lanciata da un’isola felice. E se l’oggetto della “produzione” è la nostra salute, con l’aggiunta non secondaria del nostro risparmio a dispetto di tante resistenze e interessi, la visita è tecnicamente salutare, oltre che profondamente istruttiva.
In questo c’è il cuore della bella iniziativa di Assogenerici di spalancare i propri stabilimenti, “Fabbriche Aperte”, a testimonianza di un mondo che suda al servizio di un orizzonte eticamente alto, dal suo impatto per il lavoro alla sua ricaduta per la salute. Un’allegra brigata di circa diecimila occupati (quasi tutti a tempo indeterminato) capace di una produzione – i farmaci equivalenti – che riproduce, a prezzo inferiore, gli identici principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica.
E così, dopo Sandrigo, nel vicentino (Zeta Farmaceutici), e Ivrea, nel torinese (Abc Farmaceutici), nei giorni scorsi l’operazione ha coinvolto la sede Mipharm di Milano e la Lachifarma di Zollino, in provincia di Lecce, con incontri a notevole impatto mediatico. “Apriamo le porte affinché il mondo istituzionale, i medici, i pazienti e i cittadini possano conoscere il livello di avanguardia tecnologica e gli standard qualitativi che ci sono dietro la produzione dei farmaci generici equivalenti”, ha spiegato Enrique Häusermann, presidente di Assogenerici.
Tutti dentro, dunque, a vedere con i propri occhi i sistemi produttivi e la straordinaria interazione tra ricerca, innovazione e qualità. Significativo è, infatti, il dato sul personale addetto alla “qualità”: il 33%, con punte che sfiorano la metà in alcune realtà medio-piccole. Qui sta l’importanza della “corretta informazione sulla qualità dei farmaci equivalenti nei confronti dei quali, a vent’anni dall’introduzione in Italia, c’è ancora diffidenza”, nota ancora Häusermann, descrivendo uno scenario in crescita ma ancora lontano dai livelli raggiunti dai principali paesi europei. Diffidenze senza ragion d’essere, come ripetutamente sottolineato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, e come inoltre documentato dal fatto stesso – nota Luciano Villanova - Qualified Person di Lachifarma – che “nel medesimo stabilimento si producono farmaci generici equivalenti e farmaci etici”.
La sfida etica è dunque quella di “una profonda opera di diffusione della conoscenza, necessaria perché c’è ancora molta gente che vede il farmaco generico equivalente come qualcosa di seconda scelta”, incalza Giuseppe G. Miglio, fondatore e presidente di Mipharm, invocando una migliore “intesa tra la classe medica e la classe produttiva”. E i pazienti concordano. “Serve una sinergia”, echeggia Anna Maria De Filippi, coordinatrice provinciale del Tribunale diritti del malato di Cittadinanza Attiva, ricordando anche la campagna “Io Equivalgo”, condotta da mesi dalla principale rete associativa italiana a sostegno dei generici equivalenti.
Addirittura una “crociata culturale”, nelle parole del senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri, membro della Commissione Sanità, che ha sottolineato come “gli equivalenti abbiano consentito di mettere in sicurezza il Servizio Sanitario consentendo risparmi sul bene-farmaco in condizioni di assoluta efficacia e sicurezza terapeutica”. Un risparmio che per tantissimi fa la differenza nella scelta di potersi curare o meno. E se ancora persistessero scetticismi, si sappia: le fabbriche del comparto dei farmaci generici equivalenti sono aperte!
L'ultima “rumorosa” novità nella ricerca sull'Alzheimer arriva dall'identificazione, in Australia, di una proteina che avrebbe il potenziale di ripristinare parte delle abilità cognitive smarrite. E poi ce ne sono altre, che sembrano spostare l’orizzonte della ricerca verso nuovi fronti sorprendenti. Il fatto comunque è che, tra un annuncio e l'altro, la conoscenza scientifica avanza, tanto che, stando alle ultime cifre, la patologia sembra finalmente segnare il passo.
Ma andiamo per ordine: è stata anzitutto identificata la “proteina della memoria” - sostengono gli studiosi dell’Università del New South Wales. E lo dicono al seguito di un’estesa sperimentazione sui topi, seguita alla sua identificazione post-mortem su umani ultranovantenni di notevole lucidità, in due regioni del cervello, ossia l’ippocampo e la corteccia prefrontale, il primo coinvolto nella memoria, la seconda nella cognizione.
La proteina, chiamata p38y (a volte i nomi scientifici sono bizzarri, fino ad assomigliare a quelli delle armi), è un enzima capace di modulare l’attività proteica aggiungendo molecole di fosfato organico, proprio quelle che tendono a perdersi con la progressione della malattia. E il successivo test, con la sua reintroduzione nel cervello degli animali, ha avuto esito positivo, proteggendoli dal deficit di memoria. “Potremmo essere capaci di ritardare o addirittura arrestare l’avanzare dell’Alzheimer”, dicono gli scienziati.
Serviranno riscontri e approfondimenti, ma il passo avanti sembra esserci, anche nella metodica, che presenta analogie con quelle suggerite da un altro studio recente, negli Stati Uniti. Non si tratterebbe di concentrarsi solo sull’eliminazione delle “placche beta-amiloidi” e dei “grovigli neurofibrillari” solitamente associati alla patologia, ma identificare altri fattori “di protezione”. La conclusione della Northwestern University di Chicago segue una scoperta a sorpresa: quella rivelata dall’analisi post-mortem di un altro gruppo di anziani di eccellente memoria. Ebbene, la loro qualità è stata riscontrata nonostante una notevole presenza di tali placche e grovigli, pari a quella dei malati. La differenza sembra spiegarsi nel maggior numero di neuroni nei cervelli sani, come se qualcos’altro li avesse protetti dall’effetto nocivo degli altri materiali.
Segnali incoraggianti e convergenti, ancora largamente da finalizzare in ambito terapeutico. Sta di fatto, che tra un progresso e l’altro, emergono finalmente cifre positive sull’evoluzione della malattia. Da un’indagine dell’Università del Michigan su oltre ventimila ultra-65enni spunta la stima di una diminuzione delle persone affette dal morbo, tra il 2000 e il 2012, di addirittura il 24%. Molto si muove, dunque, e quel che si muove comincia ad avere serio riscontro nella realtà.
Ci sono le parole, a volte qualche legittimo quesito, e periodiche obiezioni fondate perlopiù sulla “fantascienza”. Tra una parola è l’altra permane comunque una realtà, ossia che i vaccini rappresentano una storia di splendide notizie per l’umanità, che hanno rivoluzionato la scienza moderna e soprattutto continuano a salvare milioni di vite. Lo ricorda in questi giorni un rapporto dell’Unicef insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità e ad altri enti internazionali indipendenti, focalizzato sul morbillo negli ultimi quindici anni.
La realtà secca è che le vaccinazioni per tale patologia infettiva hanno salvato dal 2000 circa 20 milioni di bambini, riducendo del 79% la mortalità. E tuttavia la battaglia non è vinta, tant’è che ogni giorno ben 400 bambini ancora muoiono di morbillo (stima sull’anno scorso).
“Eradicarlo definitivamente non è una missione impossibile, perché abbiamo gli strumenti ed è una malattia facile ed economica da prevenire – incalza Robin Nandy, responsabile immunizzazioni dell’Unicef – ma manca la volontà politica di raggiungere ogni bambino, indipendentemente da dove viva”. E sono addirittura 20 milioni i bimbi nel mondo che non hanno ricevuto le vaccinazioni nel 2015, specie in Asia e in Africa, proprio nell’anno in cui il continente americano è stato dichiarato “libero” dalla malattia.
E il problema non affranca l’Europa. Ampi focolai sono stati rilevati in Germania, perfino tra gli anziani. L’Italia non sta messa meglio, anzi le tendenze degli ultimi mesi segnalano un preoccupante aumento: 584 i casi segnalati solo nello scorso settembre e, da un approfondimento della Regione Veneto, emerge chiaramente il nesso col calo delle vaccinazioni. Alcuni genitori non le fanno fare ai figli.
Il tema coinvolge altre malattie, incluse quelle scomparse da tempo dal nostro paese. Nei giorni scorsi l’Istituto Superiore di Sanità ha rivelato un primo caso di difterite. “Bisogna anche attendersi, purtroppo, anche il ritorno della poliomelite”, avverte il presidente Walter Ricciardi. Puntando il dito, di nuovo sulla diminuzione delle immunizzazioni. Le conquiste della medicina non sono scontate. E sono a portata di mano, come dimostrano quei venti milioni di piccoli tratti in salvo.
Viene spesso chiamata “male oscuro”, ma è una locuzione che nasconde qualche insidia, a iniziare dalla sottovalutazione. La depressione non è un generico malessere, ma una patologia che tende alla cronicità, affligge milioni di italiani (circa 15% della popolazione prima o poi vi incorrerebbe) e si traduce nella sensazione di assoluta incapacità a trovare risorse per affrontare una vita relazionale e lavorativa normale.
Problema non solo psicologico, ma fisico, perché quella debolezza è reale, e può esporre il paziente a sbalzi di peso, dolore, nonché a rischi di contrarre altre malattie per l'abbassarsi delle difese immunitarie. Tema anche farmacologico, dunque, ma anzitutto di prevenzione, tanto che la Società Italiana di Psichiatria ha presentato nei giorni scorsi in un convegno a Milano un vero e proprio “decalogo”. Dedicato ai pazienti, ma anche, ed espressamente, a familiari e medici.
A questi ultimi viene primariamente raccomandato di accorciare i tempi della diagnosi, oggi mediamente stimata a due anni, che si aggiungono agli altrettanti che intercorrono prima che il paziente si fosse rivolto al medico. Serve un salto in avanti nella formazione, che coinvolga non solo gli specialisti ma anche, e soprattutto, gli altri operatori sanitari, inclusi i medici di medicina generale e i pediatri, per potenziarne le capacità di cura, e anche di informazione ai pazienti.
E a loro (e, con essi, amici e familiari) viene consigliato anzitutto di prestare attenzione ai “campanelli d’allarme”, dalla perdita di interesse o di piacere per le cose quotidiane (inclusa la vita di relazione) agli aspetti cognitivi, quali il calo di concentrazione o l’incapacità di prendere decisioni. Poi ci sono le raccomandazioni comportamentali, fondamentali in sede di prevenzione quanto di terapia, quali un’alimentazione sana, stretti limiti al consumo di alcol, fumo e altre droghe, la cura del sonno, stili di vita sani a partire da una buona dose di attività fisica. Non ultimo, seguire bene le cure, “aderendo” alle modalità suggerite dal medico, senza decisioni solitarie di interruzione.
E qui c’è la chiave forse più importante di tutte. Quella della solitudine. Guai a chiudersi, rinunciando a confrontarsi con i cari sui propri problemi, oltreché con gli specialisti. Il messaggio va recepito e interiorizzato per bene: nessuno esce dalla depressione da solo. Tutt’al più ci entra.