La donna va seguita con molta cura durante il fatidico quanto delicato periodo della gravidanza, ma è un’attenzione che non dovrebbe poi cessare al seguito dei nove mesi. Il messaggio viene rilanciato da una ricerca accademica cinese pubblicata sulla rivista internazionale “Hypertension”, che ha rilevato come gli stessi esami del sangue compiuti in tale fase andrebbero annotati anche quali indicatori di possibili rischi per la salute della gestante dopo il parto.
Gli studiosi del Guangdong Women and Children Hospital di Guangzhou hanno seguito 506 donne senza pregressi di ipertensione o sintomi di diabete, valutandone in particolare la pressione sanguigna, ma anche il peso e gli esiti di altri esami a cui vengono normalmente sottoposte durante la gravidanza, proseguendo poi il loro monitoraggio nei diciotto mesi successivi.
Gli esiti più eclatanti riguardano proprio gli effetti della pressione arteriosa. “Le gestanti sono solitamente sottoposte ad almeno 10 check-up – nota il professor Jian-Min Niu, coordinatore della ricerca – e tuttavia non vengono poi allertate sui rischi per la loro salute a meno che la pressione sia pari superiore a 140/90 mmHg”, ossia al livello ritenuto “alto”.
Invece, secondo i ricercatori cinesi, l’allarme andrebbe lanciato anche ai livelli “medio-alti”, ossia tra tali valori e quelli, ritenuti ottimali, di 120/80 mmHg. E’ emerso infatti che le donne che rientrano in quella fascia negli ultimi mesi di gravidanza riscontrino un rischio aumentato di ben sei volte di sviluppare successivamente la sindrome metabolica, detta anche “sindrome a insulino-resistenza” (legata a una serie di sintomi quali l’eccesso di glucosio e grassi), ritenuta un insidioso viatico alle patologie cardiovascolari e diabete.
La gravidanza non è quindi un evento in sé, andrebbe trattata anche come “stress test” per la salute successiva delle gestanti. Quella fascia “medio-alta”, finora negletta, è stata riscontrata in ben il 13% casi. Sono numeri ed evidenze importanti, a detta anche di commentatori scientifici estranei allo studio. Il messaggio dunque si rinnova, le donne andrebbero protette ben al di là dei loro nove mesi più grandi.
Sulle prospettive dell’occupazione in Italia non c’è da stare troppo allegri, a leggere le ultime stime nazionali e internazionali. La creazione di posti di lavoro è destinata a procedere più lenta che in altri paesi avanzati per la convergenza di diversi fattori. Tuttavia, da uno studio di Unioncamere, emergono anche spiragli interessanti per quel che riguarda le qualificazioni professionali e alcuni settori, a iniziare dalla salute.
Partiamo dalle cattive notizie. Sono quelle delle previsioni di crescita occupazionale da qui al 2020, fissate a un complessivo 2,1%, solo lo 0,4% annuo. Meglio di niente, ma peggio che in quasi tutti i paesi europei. La ragione è anzitutto che la crescita del Pil resterà limitata – stando alle stime macroeconomiche della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale – sicché gli ingressi lavorativi saranno perlopiù innescati dal naturale turnover, che però, problema ulteriore, sarà frenato dall’allungamento dell’età lavorativa previsto dalle norme sulle pensioni.
Il bicchiere può comunque legittimamente vedersi “mezzo pieno”, e non solo perché quelle pur piccole percentuali si tradurrebbero in un esercito di oltre due milioni e mezzo di nuovi occupati, ma anche perché, secondo l’approfondimento di Unioncamere, si tratterà soprattutto di professioni qualificate. Gli “High-Skill Jobs” aumenteranno del 2,2%, quasi quanto in Germania, e ben più che in Francia (0,8%).
A fare la parte del leone sarà proprio l’ambito sanitario. In cima alle professioni tecniche, ad esempio, si prevede l’assunzione di 136mila addetti alle scienze della salute e della vita, secondi solo al composito ambito amministrativo-commerciale-finanziario. Lo studio non dice invece molto a proposito dei medici, sui quali anzi si rinnova in questi giorni qualche polemica circa la programmazione dei posti per il relativo corso di laurea, fissato per l’anno prossimo a 9224 mentre quelli disponibili nel Servizio Sanitario Nazionale sarebbero circa duemila in meno.
In ogni caso il settore, nel suo insieme, si conferma trainante per l’economia italiana. Ancor più espliciti i dati reali sulla produzione industriale, calata del 7% nel 2015, e al contempo cresciuta del 5% in ambito farmaceutico, collocandolo al secondo posto in Europa. C’è un’Italia che lavora, e bene, e c’è un’Italia in cui cresce, anche per ragioni anagrafiche, la domanda di salute. Che merita risposta, pubblica e privata.
Si rinuncia alle cure per ragioni di paura o pigrizia, per ritardi e carenze organizzative dei servizi sanitari. Ma soprattutto perché costano troppo, ed è un “troppo” insostenibile in momenti di crisi. Ai tanti allarmi lanciati dalle associazioni dei pazienti si aggiunge il sigillo ora di un approfondimento di Eurostat. Che affronta il tema su scala europea, sulla base di dati relativi al 2014, ma rileva segnali particolarmente preoccupanti per il nostro paese.
Il dato generale è che il 6,7% della popolazione dei 28 denuncia un bisogno insoddisfatto di cure. Per il 2,4% degli europei la prima motivazione è dovuta ai costi; la seconda è quella delle liste d'attesa troppo lunghe, per l'1,1%. Le percentuali di insoddisfazione ribadiscano poi un quadro di pesanti disparità nel continente. A lamentare la situazione più grave è l'Estonia, col 13% dei suoi cittadini costretti a rinunciare alla cure, mentre il quadro migliore, forse a sorpresa, emerge a Malta, dove la proporzione scende al 2%.
L'Italia, col suo 7,8%, sta messa purtroppo sotto la media europea, seppur non di molto, ma è comunque un dato che stride malamente con la più volte decantata pretesa di rappresentare la “migliore sanità al mondo”. Peggio ancora, è un dato che suona sottostimato rispetto all’ampiezza del dramma, che il Censis ha conteggiato recentemente nella cifra di 11 milioni di persone costrette a rinunciare o a rinviare le cure.
Sul perché di tutto questo interviene ancora, non a caso da noi più che altrove, il nodo dei costi. Per gli italiani, ancor più che per gli altri, è il primo dei problemi. Il 6,2%, quasi il triplo della media europea, rinuncia alle terapie (ospedaliere o farmacologiche) perché non se le può permettere e non per le liste d’attesa, “assolte”, ovvero confinate allo 0,8%.
Il dato è significativamente parallelo a un altro, e cioè a quello che ci colloca agli ultimi posti europei nel ricorso ai farmaci equivalenti. Si discute molto di costi sanitari che “sfondano” i tetti. A ben vedere, stando anche agli ultimi dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco, mentre la spesa farmaco-ospedaliera “vola”, quella territoriale, affrontata dai cittadini nelle farmacie, non sfonda proprio nulla. Al contrario crolla, con cali accertati a oltre il 6% nei primi mesi dell’anno. Segno che i pazienti non ce la fanno più. E che l’uso dei meno costosi medicinali equivalenti – identici per efficacia e sicurezza terapeutica – non è più un’opzione residuale, ma un dovere sociale. Per noi stessi e per tutti.
Che faccia bene passeggiare, e farlo possibilmente nel verde, è una verità antica, bagaglio non solo di ogni medico ma anche del sentire comune. Da una ricerca australiana arriva qualche documentato dettaglio in più, accompagnato da un appello degli scienziati ai decisori perché ne facciano un vero e proprio obbligo prescrittivo da sottoporre all’intera popolazione – come si trattasse di farmaci, o addirittura “vaccini” - con massima priorità ovviamente fissata per chi vive in ambiti densamente urbanizzati.
L’Università del Queensland ha dunque realizzato una complessa elaborazione – ora pubblicata sulla rivista internazionale Scientific Reports – di questionari sullo stato di salute di oltre 1500 residenti nella città di Brisbane. Ne è emersa una stima sulle “dosi” minime necessarie perché la camminata nella natura porti i suoi acclarati benefici per la salute.
In particolare, viene fissato il paletto di almeno trenta minuti settimanali di erranza nel verde. Questi conseguirebbero un decremento del 7% nel rischio di patologie depressive e addirittura del 9% per quelle cardiovascolari. “Considerando che i costi sanitari della sola depressione in Australia sono stimati a quasi dieci miliardi all’anno – notano i ricercatori – i risparmi complessivi per i conti sanitari pubblici sarebbero immensi”.
Tutto questo potrebbe suonare una banalità, eppure non lo è, anche in ragione del fatto che il 40% degli intervistati ammette di non aver mai visitato un parco cittadino. Ad accreditare la serietà dello studio e delle cifre fornite interviene inoltre un ridimensionamento degli aspetti “sociologici” facilmente desumibili sul tema.
Ad esempio, chi si dichiara “amante della natura” riferisce ai ricercatori anche di stringere più intense relazioni interpersonali, ritenute un volano importante contro le tendenze repressive. Tuttavia dall’indagine non emergono controprove reali circa un nesso tra le dichiarazioni di amore per il verde e la propensione alla “coesione sociale”. Questa si appalesa nella realtà non tra chi “dichiara” belle parole sulla natura, ma solo tra chi ci va davvero.
Coloro che si dichiarano “amanti della natura” sono anche quelli che riferiscono di livelli superiori di “coesione sociale”, con tutto ciò che consegue per il benessere psico-fisico. Invece, tale aspetto non trova riscontro nella realtà. Lo trova solamente quando nella natura ci si va davvero.
Si chiama inositolo, il suo battesimo quale “molecola della fertilità” è uscito da un recente congresso che ha riunito a Firenze ginecologi e pediatri di tutto il mondo. E' in tale sede che sono stati documentati i suoi benefici contro la sindrome dell'ovaio policistico (Pcos), una complessa patologia che colpisce fino al 10% delle donne in età riproduttiva, rappresentando la causa principale della loro impossibilità di concepire tramite l'innesco di diverse alterazioni endocrinologiche e metaboliche, incluso l'aumento degli ormoni maschili.
Le novità sono annunciate in particolare dall'Unversità di Chiasso (Svizzera) e dalla Virginia Commonwealth University (Stati Uniti). Emerge tra l'altro che la metà delle pazienti che assume l’inositolo torna ad ovulare dopo circa un mese e l’88 % ripristina il ciclo mestruale dopo 3 mesi. Inoltre 7 donne su 10 tornano ad avere un ciclo mestruale regolare e il 55% riesce ad avere una gravidanza spontanea.
“L’inositolo è una molecola che si trova in diverse forme, ma solo due, il Myo-inositolo (MI) e il D-chiro-inositolo (DCI) – specifica lo scienziato elvetico Vittorio Unfer - hanno dimostrato dagli studi clinici di essere mediatrici dell’insulina”, allentandone la “resistenza” che è alla base di molti disturbi, e determinando così effetti apparentemente salvici per, in particolare, le donne in sovrappeso.
Tutto questo è uno sviluppo di una serie di studi che avevano già accertato una pluralità di benefici della molecola, incluse funzioni antidepressive e a protezione della tiroide. Chiamata in passato “Vitamina B7”, tale definizione è oggi perlopiù contestata in quanto le vitamine sono ritenute tali quando assunte solo con la dieta, mentre l'inositolo può essere prodotto autonomamente dal corpo umano, sembra a partire dal glucosio. Un “auto-anticorpo”, dunque.
Nondimeno, è presente in diversi cibi sicché, se le ultime ricerche suonano promettenti sul piano farmacologico, l'indicazione alimentare è immediata. Bene i cereali, i legumi e la frutta. In particolare, risultano in tal senso preziosi, tra gli altri, la leticina di soia, il riso integrale, l'orzo, il grano saraceno, le arance, le fragole, i piselli e il cavolfiore. Sin d'ora, dunque, buon appetito.
Quando gli allarmi lanciati dagli enti pubblici vanno nella stessa direzione degli sforzi di sensibilizzazione faticosamente promossi dalle associazioni di pazienti, vuol dire che sta accadendo qualcosa di importante. Al quale bisognerebbe dare urgente esito. Tra una settimana la campagna nazionale di Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato a sostegno dell’uso dei farmaci generici farà tappa a Salerno. E sarà una tappa importante, perché segue l’ultimo aggiornamento semestrale dell’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (Osmed).
Quel rapporto dice molte cose, mettendo il dito nella piaga di quel che è l’incubo di molte amministrazioni regionali e di tantissimi cittadini, ovvero il problema dei costi crescenti della tutela della salute. Ma tra quelle cose ce n’è una che salta agli occhi più delle altre. Si spende troppo soprattutto perché si spende troppo poco sugli equivalenti, che, come ricorda la campagna di Cittadinanzattiva, “sono uguali in tutto (principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica), l’unica differenza è il prezzo”.
Ebbene, il dato di base è che la spesa pro capite per ogni compartecipazione a carico del cittadino è risultata nel 2015 in crescita del 2,5% rispetto all’anno precedente, e due terzi di questo “carico” è dovuto alla scelta del prodotto “di marca” rispetto al generico. Come nota il Quotidiano della Sanità, l’incremento “ è stato essenzialmente determinato dalla crescita della quota eccedente il prezzo di riferimento dei medicinali a brevetto scaduto (+5,4%), mentre risulta in riduzione la spesa relativa al ticket per ricetta/confezione (−5,5%) ”. I dati, scomposti a livello regionale, confermano: tendenzialmente, le regioni meno “sane”, anche dal punto di vista finanziario, sono quelle che ricorrono meno ai medicinali equivalenti.
Dov'è “la colpa” – colpa grave, visto che a causa dei costi un italiano su dieci è costretto ad abbandonare le cure? Ora, i farmaci a brevetto scaduto rappresentano il 75% dei consumi in regime di assistenza convenzionata - di cui solo il 21,8% è rappresentato dai farmaci equivalenti - e il 27% dei farmaci acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche - solo il 10% rappresentato dai generici.
Per colmare tale perturante ritardo che ci relega ancora agli ultimi posti europei nel ricorso agli equivalenti, prosegue la fatica delle associazioni, non solo nella virtualità del web ma anche nelle piazze. Prossimo appuntamento dunque a Salerno, per l’esattezza il 13 luglio al Lungomare Trieste, altezza piazza Cavour. Si parlerà di tutto ciò, e si racconterà anche di un’“app” – lanciata nell’ambito della citata campagna “IoEquivalgo” di Cittadinanzattiva documentata ora anche da “Repubblica” - che consente di monitorare le caratteristiche terapeutiche e di prezzo dei generici. Una campagna che suona oramai come un’urgenza. Le cifre sono quelle del “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici, aggiornate anche in questi giorni. Mostrano la differenza per le tasche pubbliche e private, ed è una differenza mensilmente miliardaria.
Il nodo dei certificati medici per le attività sportive era sottoposto a un articolato quadro normativo, riformato di recente, che lasciava aperti alcuni dubbi specie in relazione allo sport non agonistico. Dopo qualche rinvio, è arrivata finalmente la circolare del Coni, che fa chiarezza sulla base di criteri sanitari di buon senso e sgombra il campo da possibili equivoci, anche con risvolti legali.
Se per l'ambito agonistico la normativa resta ancora quella varata nel 1982 - che tra l'altro assegna ai soli medici specializzati nella medicina dello sport la titolarità a erogare i certificati, prevede un preciso protocollo nazionale in relazione alle modalità delle visite annuali e stabilisce la gratuità per minori e disabili – per lo sport non agonistico si è cercato una disciplina semplificata col decreto del 2013 (legge Balduzzi).
Un anno dopo sono poi giunte le “linee guida” ministeriali, che ribadivano alcuni paletti. In particolare, si è stabilito, anche per i non tesserati, un obbligo di certificazione (rilasciabile anche dal medico generico) per l’ambito scolastico, inclusi i Giochi studenteschi. All’obbligo sono state incluse le attività organizzate dal Coni e da società sportive associate e riconosciute. Era quest’ultimo il tassello richiesto e mancante, rimandando a una direttiva del Comitato Olimpico che chiarisse dove fosse necessario o meno, ed essa è ora arrivata.
Sostanzialmente (nello spirito della legge), si distinguono tra tesserati in attività fisiche svolte regolarmente (dal Coni ed enti associati) - per i quali l’obbligo permane, benché derubricato a certificato non agonistico, rilasciabile da qualsiasi medico di famiglia – e tesserati in attività, pur riconosciute da qualche parte come “sportive”, che non comportano impegno fisico, e quindi non richiedono più certificazioni: tra queste, sport di tiro, biliardo, bocce (a eccezione della specialità volo di tiro veloce), bowling, bridge, golf, dama, pesca sportiva di superficie (salvo la pesca d’altura), scacchi, curling.
Tutto questo sembra una banalità, ma finora non c’era, nel balletto, anche giuridico, tra sport, attività ludiche e sportive con esigenze di certificazione o meno. Al di là degli aspetti normativi, il messaggio è quello del buon senso. Laddove lo “sport” è davvero roba rilassata, va bene tutto, senza neanche preoccupazioni di certificazioni. Laddove implica uno sforzo, anche e soprattutto in ambito amatoriale e magari attempato, il “fare attenzione” non solo è un imperativo giuridico, è la nostra salute a chiedercelo.
Quando facciamo le analisi del sangue ci sono un po’ di valori che guardiamo con apprensione, senza però sapere che “quelli che contano” sono spesso altri. Ci concentriamo ad esempio sul colesterolo o la transaminasi, quando magari la verità importante sta altrove, benché negletta sovente dai medici stessi. Una ricerca della Fondazione Santa Lucia documenta come i livelli di un amminoacido solforato, l’omocisteina, incidano in modo rilevante tanto sul successo della riabilitazione quanto sulla prevenzione di gravi patologie, da quelle cardiovascolari al decadimento mentale, fino alle malformazioni fetali.
L’indagine, pubblicata sull’influente rivista “Medicine”, è stata focalizzata su 135 pazienti in riabilitazione a seguito di un’amputazione, in larga parte di un arto inferiore a causa di patologia vascolare, gli altri in ragione di traumi o tumori. E’ emerso anzitutto che i pazienti nella prima categoria avevano valori di omocisteina superiori.
Inoltre, è stato constatato che soggetti in riabilitazione con valori di omocisteina normali hanno alla fine raggiunto livelli superiori di recupero funzionale, dimostrando così la correlazione con le potenzialità riabilitative. Sono esiti rilevanti e lampanti, che colmano una lacuna rilevata già oltre vent’anni fa dal British Medical Journal, tra gli altri, circa il ruolo decisivo dei livelli di omocisteina.
Curiosità a margine: la stessa celebrata rivista britannica ha pubblicato proprio in questi giorni uno studio che rovescia completamente le convinzioni pregresse sul colesterolo alto, che non sarebbe un fattore di rischio di malattie cardiovascolari per le persone sopra i 60 anni, sicché le terapie a base di statine sarebbero inutili. Addirittura, emergerebbe che chi ha il colesterolo alto vivrebbe altrettanto se non più degli altri. Molti contestano, ma il sasso è lanciato.
Tornando all’omocisteina e alle nuove certezze in proposito, c’è un’ulteriore esito della ricerca della Fondazione Santa Lucia che desta sensazione. Si tratta del fatto che pochissimi la includono negli esami del sangue. Tra i pazienti che avevano subito amputazioni per motivi vascolari (l’ambito qui più rilevante) solo il 7% era stato sottoposto a controllo sull’omocisteina prima del ricovero nella Fondazione, nota il medico fisiatra Stefano Brunelli. Eppure, nota, “è un esame poco costoso e che consentirebbe d’impostare per tempo una terapia farmacologica”.
Possiamo anche chiudere gli occhi e dirci che in fondo così è sempre stato. Invece no, non è mai stato così, che addirittura 60 milioni di persone siano in fuga da guerre e persecuzioni. Il dramma è talmente diffuso che la “Giornata del Rifugiato”, celebrata lo scorso 20 giugno, è passata perlopiù in sordina. E con esso il richiamo della più grave delle emergenze, quella sulla salute. Su questa, si noti, l’allarme non riguarda remoti campi improvvisati e sprovvisti di ogni cura. Riguarda anche l’Italia.
“ Diventare un rifugiato a causa di guerre e persecuzioni cambia radicalmente la vita di una persona, non deve cambiare il diritto alla salute e l’accesso alle cure mediche ”, ricorda Flavia Bustreo Vicedirettrice Generale, dipartimento Salute della Famiglia, Donne e Bambini dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottolineando la priorità sanitaria per tali categorie, che rappresentano almeno la metà dei profughi. “ Ci sono donne che, arrivate in Grecia o in Macedonia, riprendono il loro estenuante viaggio dopo appena 24 ore dal parto. E -aggiunge Bustreo - degli 806 migranti che si stima siano scomparsi nel Mar Egeo nella rotta verso la Grecia nel 2015, 1 su 3 era un bambino e nella maggior parte dei casi di età inferiore ai 10 anni ”.
Molto si potrebbe e si dovrebbe fare, in aggiunta all’epica dei volontari che si prestano a fare quel che possono nelle zone più impervie. L’anno scorso, sempre in sede Onu, il mondo si è impegnato a dare concreto esito agli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” (Sdg), sulla base della “Strategia Globale per la Salute” redatta nel 2010 nell’obiettivo non solo di “salvare vite”, ma di assicurare il necessario per la crescita di donne e bambini, inclusi servizi per la salute sessuale e riproduttiva nei contesti di emergenza umanitaria.
Servirebbe allora quantomeno la disponibilità di un “Minimum Initial Service Package”, quel kit di base per l’assistenza clinica. Eppure, gli obiettivi sanitari stabiliti in sede internazionale con la detta “Strategia” non sono stati ancora raggiunti nell’80% dei paesi.
Sembrano temi lontani, eppure non lo sono, neppure nelle responsabilità. Nelle scorse settimane la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, a Congresso a Torino, ha denunciato che alcune regioni non riconoscono i diritti essenziali degli immigrati, sanciti dalla legge, tra tutela dei minori, esenzioni dai ticket e, più in generale, un’attenzione concentrata essenzialmente sui “presunti rischi di importazione di malattie infettive e non sui necessari interventi di tutela e prevenzione della salute fisica e psichica”. Così non va bene, neppure in Italia.
Forse è il più importante e delicato rito di passaggio dei nostri giorni, secondo solo, dicono alcuni, al matrimonio. E al rito se ne accompagna puntualmente un altro. Quello della catena di consigli agli studenti, richiesti o più spesso non richiesti. Ci piace, siamo un popolo di consulenti (oltre che di selezionatori virtuali della Nazionale di calcio), ma quando si tratta di salute la buona avvertenza va in effetti presa sul serio. Arrivare in forma può essere decisivo, in questo come in ogni altro esame.
L’obiettivo numero uno è naturalmente la salute del cervello che, sebbene costituisca solo il 2% del peso corporeo, divora almeno un quinto della nostra energia, proporzione che naturalmente tende a impennarsi dinanzi a un impegno così gravoso. Qual è allora il suo nutrimento più efficace? La parola d’ordine è anzitutto la varietà. “Nessun singolo alimento è in grado di fornire tutti i nutrienti essenziali all’organismo o al nostro cervello”, spiega ad esempio Elisabetta Bernardi, nutrizionista consultata dal sito studenti.it.
Alcuni cibi sono comunque più virtuosi di altri in proposito. Naturalmente tanta frutta e verdura, ricche di vitamine e minerali, bene anche i cereali, specie se integrali, e ovviamente molta acqua, almeno una decina di bicchieri al giorno, o anche di più nell’incombenza dell’afa. E poi serve un rilevante apporto proteico. Il tema della carne è delicato e avversato da molti, anche tra i medici. La nutrizionista suggerisce comunque di privilegiare quella bianca, come il pollo, perché “contiene pochi grassi, una discreta quantità di proteine e molti dei singoli nutrienti essenziali (quali l’acido folico, la vitamina B12, e il ferro) per il corretto sviluppo del cervello e l’ottimizzazione dell’attività cognitiva”.
Il problema è che spesso, nello stress, si fa tutt’altro. Sono molte le ricerche che documentano quanto i ragazzi, tra la maturità e l’Università, mangino male, tra tensioni, orari irregolari, sedentarizzazione e a volte isolamento. Si moltiplica il consumo di caffè, i fumatori aumentano le dosi e si finisce col dormire poco e male. Di qui la fondamentale delle avvertenze, quella di non perdere di vista la cura del proprio corpo, cervello incluso, ben più importante di qualche ora di studio in più, specie in vista dell’esame.
Anche nelle avvertenze, comunque, non si dovrebbe forse esagerare. Ogni rito di passaggio è un evento drammatico, in ogni civiltà del mondo. E ogni civiltà, come ogni persona, ne ha bisogno. Anche per imparare ad affrontarlo correttamente.
“E' importante definire percorsi diagnostici e terapeutici per l'approccio standardizzato al paziente”, spiegava all'inizio di questo mese il professor Corrado Giua Marassi, eletto all'unanimità alla presidenza della Società Italiana di Farmacia Clinica, in assemblea a Cagliari, con un proposito prioritario: “La stesura e la validazione delle prime linee guida per il farmacista di comunità”, allo scopo di definire “ in modo preventivo le situazioni in cui il farmacista è tenuto a inviare dal medico e quelle di sua pertinenza”. A tale scopo, è stata ultimata un'indagine che ha approfondito proprio il nodo decisivo delle prescrizioni dei farmaci equivalenti.
In particolare, si è cercato di sondare le ragioni del permanere di qualche diffidenza in parte degli addetti ai lavori in Italia. Ebbene, l'85% dei medici “scettici” spiega le proprie perplessità sostenendo che l'efficacia dei bio-equivalenti sia assicurata solo per alcune classi di farmaci, e il 36% dei farmacisti ritiene che la qualità sia differente a seconda delle ditte produttrici. La conseguenza ulteriore è che se il paziente esprime perplessità sui generici, l'operatore è pronto ad accondiscendere, anziché rassicurarlo o indagarne le motivazioni, sicché il 54% dei medici e l’82% dei farmacisti finisce col ritornare alla “marca”.
Insomma, nonostante le numerose campagne dell'Agenzia Italiana del Farmaco (garante della completa bio-equivalenza dei generici, a iniziare dai principi attivi), le mobilitazioni delle associazioni dei pazienti visto il loro minor costo (è ancora in corso tra l'altro il tour nazionale dell'iniziativa “IoEquivalgo” di Cittadinanzattiva) e gli appelli di tanti esperti schierati in prima linea per la loro tutela, l'Italia resta ancora lontana dagli altri paesi avanzati sull'uso dei medicinali equivalenti. “ Dopo più di un decennio di utilizzo stupisce che ci siano ancora perplessità da parte dei professionisti sanitari”, lamenta Paola Minghetti, Direttrice del Master in Clinical Pharmacy a Milano.
Di qui l'importanza delle “linee guida”, che saranno perfezionate entro l'anno. Possono rappresentare “un valido strumento di informazione per vincere le distorte concezioni in atto dei medici e farmacisti” , plaude anche Michele Uda, direttore generale di Assogenerici.
Unanime peraltro l'appello a un seguito concreto da parte dei decisori. “ Queste ricerche aiutano a capire il fenomeno, ma ora è auspicabile un intervento da parte di ordini, associazioni e istituzioni ”, incalza la stessa professoressa Minghetti. E sono ora proprio farmacisti a invocare una svolta, a beneficio dei pazienti e all’attacco dei costi a cui sono chiamati.
Le insinuazioni circolavano da tempo, anche a mezzo stampa. E lo scorso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha annunciato un’indagine in proposito. Ebbene, la “messa in stato d’accusa” ha ora un esito che pare definitivo, ed è negativo. Il caffè non provoca tumori. Eliminati gli spauracchi, fatti salvi i suoi effetti benefici accertati da altre ricerche scientifiche, la bevanda più amata dagli italiani esce a testa altissima, fatte salve alcune precauzioni.
Era stata la stessa Oms un quarto di secolo fa ad accreditare l’ipotesi di possibili effetti cancerogeni, senza peraltro inserirlo nella sua “lista nera”. L’approfondimento è stato ora compiuto dalla sua International Agency for Research on Cancer (Iarc), tramite la rielaborazione degli esiti di circa 500 pubblicazioni scientifiche in materia, da parte di 23 esperti internazionali.
L’esito è netto, e la bevanda, prima classificata nella categoria “2b”, ossia come “possibilmente cancerogena” (con particolare riferimento al tumore alla vescica), ora sale al livello “3”, ossia nella casistica del tutto priva di prove di possibili rischi.
Di più, “l’assoluzione” suona come una promozione, avvalorando altre indicazioni pregresse circa i benefici del caffè per la salute. Alcuni studi, nel Regno Unito e in Italia ne avrebbero dimostrato le virtù proprio verso alcune patologie tumorali, rispettivamente all’utero e al fegato. Altri hanno scoperto benefici per la memoria e contro le malattie neurodegenerative, il diabete, perfino la disfunzione erettile.
Tutto bene, dunque? Sembra dunque di sì, eccetto due avvertenze. La prima è naturalmente quella di non esagerare nel consumo di caffè, con un limite solitamente stabilito dagli esperti sull’ordine delle 3-4 tazzine quotidiane. La seconda rileva dalle indicazioni della stessa Oms. L’assoluzione del caffè, come di altre bevande calde quali il “mate”, è “chimicamente” completa, ma bisogna fare attenzione alle alte temperature. Oltre i 65 gradi, si innescherebbero rischi cancerogeni, a iniziare dall’esofago. Questione non di ingredienti, dunque, ma solo di calore, che il corpo fatica a metabolizzare.
“Tutto questo vale anche per noi”, precisa subito il presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri Giampiero Chiamenti. Non è che ci si debba incollare sempre a quel che “dicono gli americani”, ma sul tema del sonno le ultime “linee guida” dell’American Academy of Sleep Medicine paiono sacrosante. “Sono, in crescita i lavori che documentano l’importanza del sonno rispetto anche allo sviluppo mentale dei bambini”, ricorda Chiamenti, accogliendone le “indicazioni precise”, anche “per le nostre famiglie”.
Ebbene, tra un bimbo e l’altro le esigenze psico-fisiche di riposo divergono (rispetto al passato si riconosce dagli esperti un po’ più di “flessibilità” in relazione alle esigenze psico-fisiche del singolo), ma alcuni paletti vanno rispettati. Sono questi: fino al primo anno di vita bisogna dormire tra le 12 e le 16 ore al giorno, inclusi i sonnellini; al secondo da 11 e 14; da 3 a 5 anni il sonno può ridursi dalle 10 alle 13 ore; dai 6 anni, quando il riposino pomeridiano viene ritenuto non più necessario, si va dalle 9 alle 12 ore, fino all’adolescenza dei 12 anni; poi, fino alla maggior età, si scende dalle 8 alle 10.
Quando non si rispettano tali paletti il danno può essere multiplo. Naturalmente c’è il disagio psicologico e comportamentale, con connesse difficoltà di memoria e apprendimento. “L’apnea del sonno è associata a uno scarso rendimento scolastico, iperattività e sbalzi di umore”, spiega il professor Stuart F. Chan, curatore delle nuove direttive. Ma i danni possono andare oltre, coinvolgendo problemi fisiologici. “ Nei casi più gravi anche a disturbi cardiaci”, spiega Chan.
Non è un guaio da poco, né di pochi. Negli Stati Uniti soffre di insonnia un adolescente su quattro e un bambino su tre. “ Le cause sono molteplici, ma ruotano intorno a dinamiche familiari, questioni sociali e, nel caso dei ragazzi, agli orari di inizio della scuola”, aggiunge l’esperto di Boston.
Per affrontarle bisogna valutare le situazioni specifiche e i contesti di ciascuno, ma qualche indicazione di base andrebbe osservata da tutti. Mai permettere l’accesso di televisioni, telefoni cellulari, tablet o altri dispositivi elettronici in camera da letto, anche per l’emissione di luce che ritarda l’addormentamento. Non sovraccaricare i bambini di eccessive attività sociali ed extrascolastiche. Mantenere orari tendenzialmente regolari del sonno, anche durante i fine settimana e le vacanze. Magari non basta ma aiuta. Non necessariamente i genitori, ma i bimbi sì.
Donare sangue è uno dei gesti più belli, per la sua portata simbolica e per il suo concreto contributo sanitario. La ricorrenza dello scorso 14 giugno, la dodicesima edizione della “Giornata mondiale del donatore”, è servita a fare il punto, tra dati incoraggianti e non poche ombre, alcune delle quali chiamano in causa anche i paesi avanzati.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) rileva che il numero delle donazioni è globalmente salito alla considerevole cifra di 108 milioni all'anno. Al contempo in molte aree la domanda supera l'offerta, e questo coinvolge soprattutto le aree povere. “Quasi il 50% delle donazioni sono effettuate nei paesi ad alto reddito dove vive solo il 20% della popolazione”, nota l'Organizzazione, calcolando un tasso di donazione pro capite superiore di nove volte rispetto ai paesi meno abbienti.
In questi ultimi, quantomeno per avvicinare il proprio fabbisogno, dilaga poi la prassi della remunerazione delle donazioni, duramente contestata dagli esperti, per considerazioni etiche e non solo. Il rischio è anche sanitario. Quando si innesca la variabile monetaria si va a incentivare, magari involontariamente, la logica affaristica, abbassando così la guardia sui controlli. Il che è ancor più grave nei contesti sprovvisti delle strutture – spiega l'Oms – “ in grado di schermare tutto il sangue donato per uno o più infezioni, spesso causate da fornitura irregolare dei kit di analisi, carenza di personale, kit per il test di scarsa qualità, o mancanza di qualità di base nei laboratori ”.
Nei paesi avanzati, d'altronde, si sconfina talora nell'errore opposto, con alcuni divieti alla donazione che suonano perfino discriminatori. Al seguito della recente strage in un locale gay in Florida, la comunità omosessuale americana ha rilanciato la denuncia sul fatto di non poter donare sangue per i feriti. Il divieto per gay e bisessuali fu introdotto nel 1983 dalla Food and Drug Administration al seguito dell'epidemia dell'Aids. E' stato “ammorbidito” solo nel dicembre scorso, consentendone la donazione ma a condizione che sia trascorso almeno un anno dall'ultimo rapporto sessuale. “ Abbiamo tutti lo stesso sangue”, ricorda invece l'Oms.
In Italia, secondo l'ultimo rapporto in materia presentato nei giorni scorsi dall'Istituto Superiore di Sanità, i donatori sono oltre 1.700.000, rendendo il nostro paese sostanzialmente autosufficiente. C'è però un problema anche da noi, e sta nel fatto che le donazioni risultano scarse tra i giovani. Solo il 31% dei donatori ha meno di 36 anni, ed è un dato che reclama un rilancio nella sensibilizzazione.
Le “cavie” sono state le infermiere, e non è certo la prima volta. Da un’ampia indagine sulle loro emicranie è emersa una correlazione con i rischi di malattie cardiovascolari, inclusi l’ictus e l’infarto. Sappiamo ancora relativamente poco dell’emicrania, e meno ancora dei possibili ulteriori risvolti patologici. Tuttavia una ricerca negli Stati Uniti aiuta quantomeno a identificare fattori e categorie a rischio, utili alla prevenzione e alla ricerca.
Pubblicata sul British Medical Journal, è stata condotta in collaborazione tra le università di Berlino e Harvard, rielaborando e approfondendo i dati di un precedente “censimento” sulla salute di oltre 114mila operatrici americane tra i 25 e i 42 anni, seguite tra il 1989 e il 2011. Tutte erano in buona salute all’inizio dell’osservazione, ovvero senza patologie cardiovascolari o sintomi anginosi. Al contempo molte infermiere, il 15,2% del campione, risultava affatto da emicrania.
In tale lasso di tempo si sono poi verificati 1329 eventi cardiovascolari maggiori (quali l’ictus e l’infarto del miocardio), mortali in 223 casi. Ed è emersa una chiara associazione statistica con l’emicrania, che aumenterebbe il rischio di patologie cardiovascolari del 50%. Scomponendo tra le varie patologie, la maggiorazione è inferiore sull’infarto (39%), ben superiore sull’ictus (62%) e ancor di più per l’angina/procedure di rivascolarizzazione coronarica (73%). Tendenze che si confermano anche sulla mortalità cardiovascolare, incrementata del 37% tre le infermiere soggette a emicrania.
A ulteriore conferma della solidità di tali tendenze, esse si confermano anche nelle scomposizioni tra vari sottogruppi, in base all’età, all’abitudine al fumo, alla presenza o meno di ipertensione, all’eventuale utilizzo di contraccettivi orali. La correlazione tra emicrania e patologia cardiovascolare si riproduce ovunque.
L’indagine del resto non distingue tra le diverse forme di emicrania, né chiarisce i rapporti di causa ed effetto. Altre ricerche avevano rilevato un nesso tra emicrania e ictus, ma sulle spiegazioni siamo ancora all’ambito delle ipotesi. Nondimeno il segnale qui emerge lampante: l’emicrania va curata e trattata anche per la sua natura di fattore di rischio cardiovascolare. Tenendo inoltre conto di un ulteriore fattore: essa colpisce le donne almeno tre volte in più rispetto agli uomini.
A leggerlo superficialmente, il dato emerso in questi giorni sull’impennata delle assicurazioni sanitarie potrebbe suonare come un indicatore di benessere, e magari anche di una pur parziale ripresa dei redditi familiari al seguito della più grave crisi economica del dopoguerra. La realtà è tuttavia ben più complessa, e fornisce viceversa segnali allarmanti sull’andamento dell’assistenza pubblica in Italia.
Nel 2015 le polizze private per malattia, rivela il Censis, hanno sfondato la quota di 2 miliardi di euro, il doppio rispetto a vent'anni fa. Il dato va ad alimentare quello delle spese private nella Sanità che, nonostante la recessione, ora superano i 33 miliardi di euro, cinque in più rispetto al 2004.
Non siamo diventati più ricchi, anzi. Lo stesso istituto di ricerca ha documentato come siano addirittura undici milioni gli italiani che rinunciano alle cure perché non possono permettersele, mentre solo nel 2012 erano due milioni in meno. La spiegazione di quell'incremento di spesa sta piuttosto nel fatto che ci si sente sempre meno assistiti dal Sistema Sanitario Nazionale, i cui ticket sono del resto saliti fino a rendere alcune prestazioni pubbliche perfino più onerose di quelle private. Oltre il 57% degli italiani ritiene, pertanto, che una polizza sia la soluzione più adeguata, alla ricerca non tanto di “corsie preferenziali” quanto anzitutto dell'assistenza di base.
E quando non ce la possiamo permettere, ci indebitiamo: secondo un'altra indagine, i prestiti per coprire cure mediche sono saliti al 4% del totale nel 2015, due anni prima erano al 2,5%. Gli assicuratori si sfregano le mani e moltiplicano anche gli accordi con le Asl per potenziare i propri prodotti, ma lo scenario tratteggiato è quello di una crisi crescente del servizio pubblico, per ragioni anzitutto finanziarie.
“ In questo quadro non si può continuare a ricorrere a misure contabili di corto respiro. Esistono fattori destinati a durare nel tempo, a cominciare dall’innovazione farmacologica ”, avverte il Presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, ricordando i contributi pregressi e quelli potenziali del settore all'obbiettivo di contenimento dei costi: “ Se si pone l’accento sul valore di ciò che il Servizio Sanitario acquista, è arduo non considerare che equivalenti e biosimilari ottimizzano il valore dell’investimento pubblico in salute ”.
Nel diabete di tipo 2 i controlli e la terapia sono salvifici. Tuttavia è bene anche non esagerare, perché un eccesso di test e di dosaggi farmacologici può addirittura risultare controproducente. I medici europei ne sono generalmente abbastanza consapevoli, ma è stavolta dagli Stati Uniti – ossia proprio dalla culla della filosofia del “more is better”, anche in ambito sanitario – che arriva un documentato appello alla moderazione.
L’iniziativa è della “Mayo Clinic”, celebrata organizzazione di ricerca medica dell’Arizona. Il fatto di base, rilevato dall’endocrinologa Rozalina McCoy, coordinatrice dello studio, è un “numero esagerato di test per la glicata”, con la conseguenza di terapie “ con una quantità esagerata di farmaci, rispetto a quelli necessari visti i livelli accertati di glicata stessa”. Obiettivo della ricerca è stato allora valutare le eventuali controindicazioni di tali eccessi. Quanto poi emerso risulta in effetti preoccupante.
Sono stati analizzati i dati tra il 2001 e il 2013 di quasi 32mila pazienti americani con diabete 2, a livello “stabile” e “ben controllato”. Nessuno era in terapia con insulina o aveva avuto episodi pregressi si ipoglicemia – considerati entrambi fattori di rischio per l’insorgere di quest’ultima. Sono quindi stati esaminati distintamente i giovani e i soggetti clinicamente “complessi”, ossia gli anziani (almeno 75 anni) e i pazienti con rilevanti comorbilità (patologia renale, demenza, altre patologie croniche gravi).
Ora, è emerso anzitutto che il 18,7% dei “complessi” e il 26,5% dei “non complessi” ricevevano un trattamento ingiustificatamente “intensivo”. Poi, è stato rilevato che i primi hanno manifestato un tasso di ipoglicemie doppio rispetto agli altri, e che il trattamento aumentava il rischio di un ulteriore 77% nell’arco di due anni. In altre parole, è emerso che, soprattutto tra i “complessi”, “ il trattamento intensivo arriva quasi a raddoppiare il rischio di gravi episodi di ipoglicemia”.
In conclusione, secondo McCoy, ci si concentra “ troppo sui livelli di emoglobina glicata e si mira a obiettivi troppo bassi e ambiziosi da raggiungere per mezzo di un trattamento molto intensivo, che può creare problemi seri soprattutto ai pazienti più anziani e fragili ”. Le linee guida indicano tale livello intorno al 6,5%, ma molti scienziati consigliano di modularlo a seconda delle caratteristiche del paziente, che definiscono i rischi ipoglicemici. Bisogna curarsi, ma con moderazione. La corretta valutazione dei paletti sta ai medici, nonché ai pazienti, nonché al loro imprescindibile rapporto. E questo non vale solo per l’epatite 2.
“Il cancro è curabile”, e lo è sempre di più. Lo reclama da tempo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul cancro. A molti può suonare perlopiù come uno “slogan”, per incoraggiare i decisori e gli operatori della sanità a fare di più, segnalando appunto che tanto si può fare. La realtà è che a ritmo quasi quotidiano si annunciano progressi incoraggianti dalla ricerca medica. E a questa realtà fanno riscontro alcune novità che riguardano anche il nostro paese.
Una notizia, già rimbalzata sulla stampa, riguarda proprio i nostri ricercatori, anzi ricercatrici. Due connazionali hanno ricevuto il prestigioso “ Conquer Cancer Foundation Merit Award” della Società Americana di Oncologia Clinica (Asco), che ha riunito a Congresso nei giorni scorsi a Chicago migliaia di specialisti di tutto il mondo. Di recente era uscita una polemica tra una studiosa e il governo italiano, accusato di “vantare” alcuni risultati conseguiti in realtà all’estero, nell’ambito della “fuga di cervelli”.
In questo caso però non è così. Le due scienziate sono Emanuela Palmerini e Carlotta Antoniotti, la prima è oncologa all’Istituto Rizzoli di Bologna, l’altra all’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa. Per la dottoressa Palmerini è addirittura il sesto riconoscimento Asco, premiata stavolta per gli ottimi esiti di una ricerca chemioterapica sul Sarcoma di Ewing, condotte in collaborazione con un istituto londinese. “ Un grande risultato perché è un tumore raro che interessa soprattutto i bambini”, commenta. A ulteriore dimostrazione che molto si può e viene fatto in Italia, specie quando ci si apre alla collaborazione scientifica internazionale.
Alle novità sul fronte della ricerca italiana si sovrappongono quelle, ancor più imminenti, sulla salute degli italiani. Sono annunciate sempre da Chicago, dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom): nel 2015, per la prima volta, si registra una diminuzione dei tumori nel nostro paese, 363300, rispetto ai 365500 dell’anno precedente, e per giunta si rileva un +15% di guarigioni. Merito della ricerca, appunto, nonché dell’investimento farmacologico (100 miliardi spesi nel 2014, il 33% in più rispetto a quindici anni prima), sicché oggi oltre il 70% supera la malattia.
Ma il merito è anche altrove. Si chiama prevenzione, un’accresciuta consapevolezza pubblica, con effetti visibili sul fumo, qualità dell’alimentazione, attenzione alla diagnosi precoce. E si può fare ancor meglio. “Eliminare gli sprechi”, incalza il presidente dell’Aiom Carmine Pinto, tracciando un bilancio, tra esami strumentali e terapie di non comprovata efficacia, da “circa 350 milioni di euro ogni anno”. E’ vero, dunque, molto si può fare. Tra comportamenti privati, ricerca e scelte mediche oculate, anche sul nodo dei costi.
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A trentacinque anni dalla scoperta della malattia, nel complesso e lungo notiziario sull’evoluzione dell’Aids, le ultime novità sono sostanzialmente due, come emerso anche dal vertice delle Nazioni Unite dei giorni scorsi sul tema. Una buona e una cattiva. La prima è che la ricerca e la cura stanno producendo risultati incoraggianti, sebbene permangano criticità, specie tra i Paesi più colpiti e meno abbienti. La seconda è che il percorso di sensibilizzazione sembra segnare il passo, con indicatori allarmanti anche dall’Italia.
Cominciamo dalle cattive notizie, e dal nostro Paese. “ C’è ancora un preoccupante scarso livello di conoscenza specie tra i giovani, ossia le fasce più a rischio”, nota Rosaria Iardino, presidente onorario dell’Onlus Nps Italia, che ha commissionato un’indagine all’Swg, presentata una settimana fa all’Italian Conference of Aids and Antiviral Research, tenutasi a Milano. Tra i dati più eclatanti: il 50% degli intervistati neppure sa cosa sia l’Hiv, proporzione che aumenta tra i giovani; e il 55% dei ventenni ha paura di un semplice contatto fisico con un sieropositivo. Insomma, permane la disinformazione e lo stigma sui malati, complice anche larga parte dei media, “impreparati e orientati tuttalpiù all’allarmismo”. E questo è gravissimo, perché va a colpire il più efficace degli antidoti, ossia una corretta prevenzione.
Dal Palazzo di Vetro di New York arrivano invece segnali positivi sul progresso delle cure, per qualità ed estensione dei pazienti raggiunti. Questi sono raddoppiati negli cinque ultimi anni, arrivando a circa 17 milioni, sulla scia di un accordo globale che ha fissato l’obiettivo (peraltro difficilmente perseguibile fino in fondo), di raggiungerne 30 entro il 2020. C’è però un grande “ma”, rimarcato tra gli altri dal Medici Senza Frontiere, e sta nel fatto che c’è un’estesa area del pianeta che è rimasta quasi del tutto tagliata fuori dagli interventi. Si tratta dell’Africa centrale e occidentale, dove vivono quasi cinque milioni di malati, cifra da vera e propria emergenza umanitaria.
Un altro paese africano ad altissimo rischio – seppur con un’assistenza generalmente più adeguata – è il Sudafrica, con sette milioni di sieropositivi. Ed è lì che la ricerca ha compiuto un passo rilevante, ed è un passo italiano (che segue un finanziamento di 22 milioni di euro dalla Farnesina). E’ stato testato con successo, in un esperimento che ha coinvolto 200 pazienti, il “vaccino Tat”, sviluppato nei laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Si tratta di una proteina che permette la replicazione del virus e, così, incrementa significativamente le cellule immunitarie “T CD4”, moltiplicando l’efficacia dei farmaci anti-Hiv.
“Un esempio di eccellenza”, si congratula il presidente dell’Iss Walter Ricciardi. Un segnale di quanto si possa fare, quando c’è la volontà dei governi a sostegno della ricerca. E quando l’informazione non abbassa la guardia.
Preoccupazioni eccessive, paure, tendenze all'isolamento. Sono alcune tra le forme più lievi di quel fenomeno dilagante rappresentato dai disturbi dell'ansia, fonti di malessere psichico ma anche di una maggiore esposizione ad altre patologie psicofisiche. Talmente esteso dall'aver indotto l'Institute of Public Health dell'Università di Cambridge, previa finanziamento pubblico, a compiere una “ricerca delle ricerche”, raggruppando le indicazioni emerse da tutto il mondo al fine di individuare le categorie più sensibili e potenziare in prospettiva le capacità di prevenzione e cura.
Dalle 1200 indagini riesaminate emerge anzitutto la portata del problema, che colpisce ogni anno ben 60 milioni di cittadini europei, oltre il 10% della popolazione continentale, e proporzioni analoghe negli Stati Uniti, dove il costo sanitario annuale calcolato a oltre 42 milioni di dollari. In ambedue i casi la variabile più vistosa emersa è quella di genere. L'ansia colpisce le donne il doppio degli uomini, con una prevalenza riscontrata soprattutto al di sotto dei 35 anni.
La ricerca non è intesa a fornire spiegazioni sulle ragioni di tali tendenze. Possono dunque ora scatenarsi psicologi, biologi e sociologi. Tuttavia c'è qualcosa che già salta agli occhi e sgombra il campo da possibili eccessi di “dietrologia” sulle differenze di sesso. Difficilmente l'ansia è immotivata, vi sono anzi associate problematiche assai concrete. Ad esempio, i disturbi ossessivo-compulsivi sono rilevati con particolare frequenza tra le donne incinta e nella fase immediatamente successiva alla nascita, ossia nel momento più rilevante e delicato dell'esistenza umana, quello della creazione.
Analogamente, l'ansia colpisce primariamente persone che soffrono di gravi patologie, ad esempio l'11% degli adulti con malattie cardiovascolari, e addirittura un terzo dei pazienti di sclerosi multipla. L'indicazione più rilevante di tale ricerca dimora proprio nel fatto che l'ansia non spunti “dal nulla” nella nostra psiche, bensì sia largamente il correlato di reali sofferenze e fondate preoccupazioni.
Alcuni dati sembrerebbero entrare in contraddizione. Sono quelli che rilevano minori livelli d'ansia nelle minoranze etniche o linguistiche nei paesi occidentali, nonché in continenti più poveri. Invece non c'è paradosso, anche qui agisce un semplice fatto di sostanza, riconosciuto dagli stessi ricercatori: quello che in tali contesti il livello e la capillarità dell'assistenza sanitaria sono inferiori, impattando anche sulla diagnosi.