Molto si discute anche in questi giorni sul tema dei costi sanitari, coinvolgendo tra l’altro tensioni e dichiarazioni governative sul nodo delle intenzioni di spesa nel settore. Il tema è però ben più esteso di quello delle “somme”, in quanto può esser decisivo “come” vengono spese, e “quanto” si potrebbe risparmiare allargando le possibilità di cura anziché comprimerle. Il nodo degli sprechi è al cuore della politica sanitaria, e per giunta chiama tutti alla responsabilità, inclusi medici e pazienti - come ben sanno le loro associazioni, a iniziare da Cittadinanzattiva - perché alle questioni di efficienza organizzativa si aggiungono quelle dell’appropriatezza prescrittiva, dell’aderenza terapeutica e naturalmente dei costi dei farmaci.
L’ultimo aggiornamento in proposito arriva da uno studio della sezione giovanile del sindacato dei medici, l’Anaao Assomed, pubblicato dal Sole 24 Ore. Non mancano gli atti d’accusa verso i decisori, tra “l’ eccessiva eterogeneità regionale e locale che si ripercuote in diseguaglianze all'accesso dei servizi, scarsa valorizzazione del capitale umano, mancanza di programmazione, assenza di coordinazione tra ospedale e territorio, turn-over eccessivo dei direttori generali, riorganizzazioni aziendali spesso decise su basi politiche”.
E poi c’è lo scarso peso della prevenzione, pari a solo il 4,2% della spesa sanitaria pubblica, il che costituisce di per sé uno spreco in quanto “è causa di crescita di costi futuri legata al peggioramento delle condizioni di salute della popolazione”, con particolare riferimento alle “ Regioni coinvolte dai piani di rientro”.
Tutt’altro che secondario il nodo dei farmaci. Da un’indagine pubblicata sul British Medical Journal emerge che addirittura il 10% del volume dei medicinali erogati in Italia finisce nel cestino, pari a un valore annuo di 1,6 miliardi di euro. Problemi di appropriatezza, e soprattutto di aderenza, considerando ad esempio che nell’ultimo anno un paziente su tre non ha seguito correttamente le terapie antibiotiche.
Qui s’incrocia, pesantemente, il nodo dei costi, che spinge tanti, troppi italiani, a rinunciare o ad abbandonare le cure. E qui c’è anche un elemento di speranza, considerando che i brevetti farmaceutici in scadenza sono stimati da qui al 2020 a un valore complessivo di oltre 2,1 miliardi di euro. In altre parole, stando a stime realistiche, il ricorso a farmaci generici genererà in tale lasso un risparmio di almeno 1,1 miliardi, solo per i medicinali di classe A.
Si tratta di una variabile di primaria importanza, come sottolineato in questi mesi anche dalla campagna “IoEquivalgo” di Cittadinanza che sta attraversando le città italiane di ogni latitudine, ricordando l’assoluta equivalenza nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica dei generici, in aggiunta a quel rilevante risparmio che può far la differenza sulla possibilità o meno di curarsi. Anche non saperlo è uno spreco. E non è un caso che la prima tappa del tour avviato dalla principale rete associativa italiana in favore degli equivalenti, lo scorso maggio a Fiuggi, sia stata proprio nell’ambito della sua festa annuale contro gli sprechi.
E' una delle patologie più temute dagli uomini, con buone ragioni. Il tumore alla prostata costituisce il 15% dei tumori diagnosticati al genere maschile, con 35mila nuovi casi accertati ogni anno nel nostro paese, sicché, a conti fatti, se ne ammala nella propria vita un italiano su otto, a partire perlopiù dai 50 e soprattutto 60 anni. Spesso si guarisce, ma non mancano gli effetti collaterali che incidono seriamente sulla qualità della vita. Ed è proprio su questi che si annunciano novità assai promettenti.
Le percentuali di sopravvivenza – oltre il 90% a cinque anni dalla diagnosi – sono infatti tra le più elevate tra i tumori. Troppo spesso però la guarigione è seguita da una serie di gravi e poco curabili disturbi, dall'incontinenza urinaria alla disfunzione erettile, per effetto delle tecniche tradizionali di intervento, dalla chirurgia alla radioterapia. E' per questo che sono state recentemente elaborate tecniche assai meno invasive, con effetti ben più limitati.
E' il caso in particolare dell'“ablazione”. L'Università di Chicago, con una pubblicazione sulla rivista European Urology, ha riesaminato i dati emersi da 37 studi internazionali che hanno coinvolto globalmente oltre 3200 pazienti. Si tratta della “terapia focale”, che si alimenta di diverse fonti energetiche (ultrasuoni, crioterapia, terapia fotodinamica, termoterapia interstiziale laser, brachiterapia, elettroporazione irreversibile, radiofrequenza) per determinare appunto l'”ablazione” del tessuto prostatico.
L'esito è piuttosto convincente. Dopo la terapia, i tassi di continenza (senza perdite né necessità di tamponi) sono stati calcolati tra l'83,3% e il 100%, e la potenza (erettiva) veniva preservata tra l'81,5% e il 100% dei casi.
Gli scienziati americani peraltro ostentano prudenza. “ I pazienti devono sapere che comunque non esiste una cura certa contro il cancro che offra la garanzia di non produrre effetti collaterali”, avvertono. Ma alle valutazioni incoraggianti sulla sicurezza dell'intervento si aggiungono anche i dati recenti sull'efficacia dello stesso. Dei mesi scorsi l'annuncio della sperimentazione di una nuova tecnica da parte di un istituto californiano, l'ablazione “laser-focale”. Si tratta solo di un test preliminare, ma i suoi buoni esiti entrano nel solco globale di una ricerca virtuosa e in rapida evoluzione, nonché ad alto impatto sulla qualità della vita successiva all'intervento.
Va detto a bassa voce, anche perché potrebbe suonare come un insalubre messaggio di conforto per chi fa uso, e soprattutto abuso, di alcol. Il concetto da recepire è tutt'altro, riguarda invece la fondamentale importanza dell'attività fisica che, se condotta con costanza e al contempo ragionevolezza, è il migliore amico della prevenzione, nell’ambito perfino di altri comportamenti personali dannosi.
Sono gli stessi scienziati dell'Università di Sidney, autori della ricerca pubblicata sul “British Journal of Sports Medicine”, a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco sulla nocività dell'alcol: “ E' il ‘farmaco psicotropo’ più usato e, al contrario di molti altri, è socialmente e culturalmente accettato ”, denuncia il professor Emmanuel Stamatakis, ricordandone gli effetti deleteri, a iniziare dagli accresciuti rischi di tumore, cardiopatie, malattie del fegato e disturbi mentali.
Sono problemi già documentati, ma gli studiosi australiani hanno avuto l'idea di riesaminarli nel contesto, per una volta, di comportamenti viceversa virtuosi per la salute, a iniziare dall'attività motoria. Hanno quindi preso in rassegna i dati pregressi raccolti su oltre 36mila ultraquarantenni nell'ambito delle indagini annuali compiute in Gran Bretagna negli scorsi vent'anni.
Ebbene, è emerso che le persone che fanno un esercizio fisico scarso o nullo e bevono in modo moderato hanno un rischio di mortalità aumentato in tale lasso (rispetto agli astemi) del 20%, che si eleva al 47% per i decessi di tumore. Tra i “pigri” che bevono invece molto - oltre le “linee guida” stabilite dalle autorità britanniche - tali rischi si impennano, rispettivamente a +58% e al +87%.
La sorpresa riguarda però le persone che viceversa esercitano attività fisiche con una certa continuità. Ebbene, tra queste, i bevitori “pesanti” vedono gli accresciuti rischi di mortalità (sempre rispetto agli astemi) contenersi al 18%, e addirittura del 9% per i decessi tumorali. Inoltre, tra i bevitori moderati che fanno sport la differenza si azzera del tutto, il corpo sembra capace di “assorbire” e ricalibrarsi al livello degli astemi. L'alcol fa male, dunque, e sempre. Ma qui c'è dell'altro: la sedentarietà ne alimenta notevolmente il danno, anche quando consumato a piccole dosi, mentre all’opposto l'attività motoria è in grado di limitarlo sensibilmente.
I reni sono spesso l’ultima delle preoccupazioni dei diabetici. A torto. C’è una patologia, chiamata “nefropatia”, e colpisce quasi il 40% dei pazienti, con conseguenze che arrivano all’insufficienza renale, a dialisi e perfino necessità di trapianto, che per giunta sono segnalate in rapido aumento, complice anche la crescente sedentarizzazione di molti. Dinanzi a tali danni è stata annunciata nei giorni una novità che suona promettente.
Se n’è parlato a Monaco di Baviera al 52mo Congresso dell’Associazione Europea per lo Studio sul Diabete (Easd). L’Università tedesca di Erlangen-Nuremberg ha rilevato anzitutto che i maschi con diabete di tipo 2 corrono un rischio sei volte più grande (rispetto ai non diabetici) di incorrere in tale malattia, che rappresenta per giunta un fattore di rischio per le patologie cardiovascolari. Di qui la sperimentazione su alcuni farmaci, definiti erroneamente “nuovi” da qualche organo di stampa, mentre sono già in uso da qualche anno.
Sono stati quindi esaminati oltre 9300 pazienti di trentadue paesi diversi, seguendoli per cinque anni. E’ stato valutato in particolare l’effetto (comparato col placebo) della “liraglutide”, un analogo (somministrato con penne pre-caricate) di un ormone endogeno che potenzia, in risposta al consumo di zuccheri, la secrezione insulinica del pancreas, utilizzato anche in terapie contro l’obesità, in quanto innesca un ritardo nello svuotamento gastrico con riduzione dell’appetito e della massa corporea.
E’ stata così accertata una significativa riduzione del rischio di comparsa o di peggioramento di danni renali del 26%, nonché di morte per cause cardiovascolari del 22%. “Sono dati di grande rilevanza clinica”, spiegano i ricercatori, anche perché è stata inoltre accertata la sostanziale insussistenza di effetti collaterali indesiderati, con per giunta un’incidenza lievemente diminuita di pancreatiti.
Il tema è importante, anche perché, scrive ad esempio il professor Sergio Marigo, fondatore del Centro antidiabetico di La Spezia, “ la nefropatia fa più danno che paura”, rispetto ad altre patologie, anche legate al diabete. Invece è un aspetto che merita un’accresciuta attenzione. “La funzione dei reni è indispensabile per la vita – aggiunge - e lo prova il fatto che tutti gli esseri viventi, superiori e inferiori, possiedono i reni o qualche cosa che gli assomiglia”. Un tassello cruciale per la salute e per la vita, dunque, che ora sappiamo un po’ meglio come proteggere.
Tra concerti, convegni, incontri di piazza l’Italia si è mossa in questi giorni sull’Alzheimer, al ricorrere della 23esima giornata mondiale. Un’occasione per ricordare che la gravità del problema è tale da meritare un’attenzione ben più estesa di quelle ventiquattr’ore, e che molto di più si può fare per aiutare le persone, nell’assistenza quanto nella cura.
Ogni anno si registrano quasi dieci milioni di nuovi casi nel mondo, cioè uno ogni tre secondi, e in Italia, secondo un’indagine del Censis con l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (Aima), ne soffrono 600mila ultrasessantenni, stando solo ai casi accertati (senza contare i milioni di anziani con altre forme di deficit cognitivo), ossia quasi il 20% in più rispetto solo a dieci anni fa, il che segnala una tendenza anche per l’avvenire. Dimenticarcene è un male, per tutti, oltre che per i pazienti, considerando che i costi diretti dell’assistenza nel nostro paese superano gli 11 miliardi di euro, pari a oltre 70mila euro a paziente. E considerando anche un’altra cosa: che solo un quarto di quei costi è sostenuto dal Servizio Sanitario Nazionale, il resto è tutto a carico delle famiglie.
Così non va, perché molte non ce la fanno, e perfino quando ce la fanno non è facile, anche perché a invecchiare sono gli stessi “caregiver”, ossia i figli e i badanti che li aiutano. Mediamente hanno quasi 60 anni, nel 2006 ne avevano 5 in meno, così come i malati hanno oggi quasi 79 anni, due in più rispetto a dieci anni fa. Invecchiano tutti, aumentano i rischi, mentre ancora è troppo lento il progresso nell’assistenza. Oggi ci vogliono in media quasi due anni per una corretta diagnosi, vent’anni fa la durata era solo di qualche mese in più.
Eppure i progressi ci sono stati. Esistono molti specialisti pubblici, esistono diverse Unità di Valutazione Alzheimer, ed esistono le novità della ricerca, sulle possibilità terapeutiche e su quella variabile decisiva che è una tempestiva diagnostica. Di questi giorni, ad esempio, l’esito di uno studio tutto italiano, svolto dall’Istituto di Neuroscienze del Cnr (progetto “Italian Longitudinal Study on Aging”) su oltre duemila anziani, che avrebbe elaborato un modello capace di predire con otto anni di anticipo varie forme di demenza, a partire dall’osservazione di piccoli deficit comportamentali.
Di quei progressi molte famiglie rimangono però lontane, spesso per poca informazione, ancor più spesso per poche risorse. Nella Giornata è spuntata anche una lettera aperta della presidente dell’Aima Patrizia Spadin ai vertici dell’Inps. Lamenta le cifre irrisorie delle indennità di accompagnamento e perfino le difficoltà ad accedervi. Chiedendo “ un’iniziativa per trovare soluzioni che evitino di far ricadere tutto su pazienti e familiari, già così duramente colpiti”.
Lo si è già scritto e denunciato, anche da queste pagine. La recessione esplosa nel 2008 ha avuto un impatto sulla qualità della salute, specie dove si è accompagnata a tagli al welfare. “La crisi uccide”, è perfino il titolo di un libro uscito già tre anni fa. Adesso arriva una dettagliata conferma, da uno studio di scienziati americani e britannici, che rilancia e documenta un semplice concetto: non si esce dalla depressione se si deprimono le persone.
Gli scienziati della City University di Londra e della californiana Standford University, in una pubblicazione uscita sul British Medical Journal, hanno messo insieme e sistematizzato l’esito di 41 studi compiuti tra il gennaio 2008 e il dicembre scorso, con particolare riferimento ai due paesi europei più severamente colpiti dalla recessione, ossia la Grecia e la Spagna.
Si tratta naturalmente di una ricerca scientifica e non di un “pamphlet”, tanto che non mancano le attestazioni di prudenza sulle conclusioni circa diversi aspetti della correlazione ipotizzata tra economia e salute, i paesi coinvolti e le “sindromi” analizzate, evidenziando elementi di variabilità e invocando “altri approfondimenti empirici”. C’è ad esempio il caso dei tassi di mortalità, che sarebbero nell’insieme ulteriormente diminuiti nonostante gli anni difficili, sebbene non manchi qualche recente segnale di una possibile inversione di tendenza, anche in Italia. Ebbene, quel calo potrebbe attribuirsi, a detta dei ricercatori, a un miglioramento dei comportamenti personali, ad esempio nel consumo di fumo e alcol, innescato proprio dai problemi di spesa.
Nondimeno i punti fermi ci sono, e piuttosto evidenti. Anzitutto è emerso che la salute delle categorie sociali più deboli, a iniziare dagli immigrati, si è deteriorata molto più degli altri ceti nel periodo considerato. Ancora, le sindromi depressive (spesso accompagnate a patologie fisiologiche) sono nettamente aumentate, e in particolare tra le donne. E poi addirittura i suicidi, in chiaro incremento, specie tra gli uomini (come a dire, le donne sembrano soffrire di più ma infine “reggono” meglio).
Sono tasselli di un mosaico di effetti sanitari ben più vasto, che chiama evidentemente in causa le politiche sulla salute. Pur senza proclami né toni apocalittici, gli studiosi dicono questo: il tema non sono solo gli “effetti della crisi”, ma soprattutto quelli derivanti dalle “risposte dei decisori alla recessione”. Sicché l’appello è infine assai chiaro, ed è rivolto non solo alle autorità ma perfino agli stessi medici: “Che si battano anch’essi per difendere la tutela del welfare”, scrivono.
Ancora prevenzione, e ancora sul cibo, e sull’imprescindibile imperativo dell’igiene. Dagli Stati Uniti arriva un aggiornamento interessante, che interviene sui nostri comportamenti quotidiani. Il tema è quello della contaminazione batterica quando ci cade qualcosa per terra. A volte si esagera negli allarmismi (dopotutto siamo in un mondo strapieno di batteri, alcuni pure “buoni”, non siamo fatti per vivere nell’ambiente asettico di un ospedale), ma in questo caso, anziché abbassare il tiro, lo si alza.
La ricerca è della Rutgers University, nello Stato orientale del New Jersey, ed è pubblicata su Applied and Environmental Microbiology, la rivista dell’omonima società scientifica americana. Tra i suoi esiti, c’è quello di smentire “la regola dei cinque secondi ”, secondo la quale, al di sotto di tale lasso, i batteri non avrebbero il tempo per contaminare il cibo caduto.
“E’ un luogo comune, benché molto diffuso, basato su una semplificazione di ciò che accade nella realtà – spiega il professor Donald Schaffner, coordinatore dello studio - ma ora sappiamo che i batteri possono contaminare istantaneamente”. E in qualche caso, il trasferimento, per la verità, può anche essere più lento.
Tecnicamente, è stato esaminato un batterio foriero della salmonella, l’enterobacter aerogenes, con sperimentazioni condotte su diverse superfici – l’acciaio inossidabile, le piastrelle di ceramica, il legno e la moquette – altrettanti alimenti – il cocomero, il pane, il pane e burro e le caramelle gommose – e tempi di contatto – meno di un secondo, 5, 30 e 300 secondi – per un totale di 128 differenti scenari.
Dalle rilevazioni è emerso che il cibo in cui il trasferimento è più rapido è il cocomero, tra le superfici il primato è condiviso da piastrelle e acciaio. Nell’interpretazione degli studiosi, la chiave è quella dell’umidità. “I batteri non hanno gambe, si muovono con l’umidità: più ce n’è maggiore è il rischio di trasferimento, agevolato inoltre da superfici lisce ”, con punte di velocità istantanea, sotto il secondo. Non c’è quindi una “regola” fissa, se non quella del buon senso, nutrito ora di qualche conoscenza scientifica in più.
Col ritorno a scuola si rinnova il rito dei consigli “cibo-sanitari” a studenti e famiglie, richiesti o non richiesti. Questi sono per la verità soprattutto una tradizione dei paesi nordici, per la banale ragione che lassù emerge solitamente qualche problema alimentare in più rispetto alla celebrata dieta mediterranea. Nondimeno, alcuni suggerimenti sono importantissimi per il bene dei nostri figli, e le prime a riconoscerne l'importanza sono proprio le madri.
Che una corretta colazione abbia un impatto positivo sul rendimento scolastico è infatti una convinzione condivisa da 9 mamme italiane su 10, secondo un'indagine dell'Osservatorio Doxa-Aidepi realizzata in occasione dell'avvio dell'anno scolastico. Quasi tutti i bambini (il 93%) fanno colazione a casa prima di andare a scuola, e l'85% dei genitori cerca di variarne il menù, quantomeno in base alla stagione. Plaude e rilancia il nutrizionista Luca Piretta, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, ricordando una “trilogia di principi fondamentali”: una quantità nutritiva adeguata, solo cibi di stagione e, non ultimo, il rispetto dei gusti del piccolo.
I riscontri scientifici arrivano soprattutto, per l'appunto, dalle università nordiche. Un recente studio dell'Università di Cardiff – su ben cinquemila ragazzi di oltre cento scuole, tra i 9 e gli 11 anni - ha associato la qualità della colazione con i voti a scuola, che premierebbero selettivamente il doppio rispetto ai bimbi che la saltano. Un'altra, precedente, ricerca inglese, a Oxford, ha identificato la priorità nel consumo di pesci come il salmone, rilevando notevoli benefici di alti livelli di omega-3 sia sulla capacità di memoria sia quale antidoto a problemi comportamentali.
Ancora, uno studio finlandese su 161 allievi tra i 6 e gli 8 anni di età, seguiti per diversi anni, ha accertato la pertinenza delle linee guida nazionali sull'alimentazione infantile, che assegnano priorità a frutta e verdura, pesce, cereali e grassi non saturi, limitando zuccheri e carne rossa.
Le ricette possono variare, anche in funzione delle diverse esigenze fisiologiche legate alla latitudine. Ci sono però un paio di aspetti che non variano affatto. Anzitutto, perfino in Finlandia i capisaldi del cibo ritenuto salubre, a ben vedere, rimandano a quelli della dieta mediterranea. In secondo luogo, la colazione è riconosciuta ovunque come l'aspetto primario, e non solo in ordine cronologico, per restituire quotidianamente energia, forza e salute al nostro stato psico-fisico. A iniziare naturalmente dall'infanzia.
E’ colpa di tanti e di tante cose, ma un po’ è anche colpa di ognuno e ognuna di noi. Sulla salute della donna, tra fertilità e menopausa, permane ancora una catena di falsi miti, e la prima vittima è ancora una volta la donna stessa. Sul piano psicologico, culturale, ma anche su quello fisiologico e medico, perché alla disinformazione seguono anche scelte terapeutiche e preventive che vanno talora nella direzione opposta a quella richiesta dal nostro corpo.
A rilanciare l’allarme sono state nei giorni scorsi la Società italiana di ginecologia (Sigo), la Società dei ginecologi universitari (Agui), quella dei ginecologi ospedalieri (Aogoi) e la Società di fertilità e sterilità e medicina della riproduzione (Sifes), riunitesi nei giorni scorsi al convegno “ Amore e ormoni nella vita delle donne”, nella bellissima cornice romana della Casa del Cinema di Villa Borghese.
“Molte giovani credono ancora negli effetti della coca-cola come anticoncezionale – racconta il presidente della Sigo Paolo Scollo –mentre l’informazione è fondamentale per vivere una sessualità consapevole”. Di qui una serie di campagne già avviate, da “ Menopausa, meno male”, a quella rivolta alle ragazze sulla contraccezione, “Love it”. Campagne importanti, anche perché nel contesto di un paese che è ancora fanalino di coda in ambito europeo, dove alcuni Stati avanzati (e, si noti, a più alti tassi di natalità più elevati) la proporzione di utilizzo di contraccezione ormonale supera il 40%, mentre qui siamo al 16,2%, con punte inferiori del 7,2% in Campania.
Il tema è anche è anzitutto medico, si diceva, e infatti sulla rivista internazionale Annals of Oncology è emersa un’indagine milanese che documenta (sul decennio 2002-2012) come la pillola non abbia aumentato i tumori all’ovaio (una delle false credenze che persistono), ma li abbia viceversa notevolmente ridotti, tant’è che il calo negli Stati Uniti è stato del 16%, mentre in Europa (dove mediamente l’utilizzo è inferiore), solo del 10%. “ In caso di carcinoma a carico dell’ovaio, come per quello endometriale, con l’uso di contraccettivi orali il rischio si riduce fino al 50% e l’effetto protettivo degli estroprogestinici persiste per più di 20 anni dopo la sospensione e nel corso della post menopausa ”, spiega la ginecologa Franca Fruzzetti, dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa.
Prevenzione e diagnosi precoce vanno poi a braccetto, così come l’informazione passa anzitutto attraverso un’adeguata formazione degli operatori. Nelle parole del presidente dell’Agui Nicola Colacursi, si tratta di “ promuovere un diverso concetto di formazione della classe medica che permetta di coniugare sapere accademico, pratica clinica e capacità relazionali ”. Con la donna al centro, per l’appunto dalla fertilità alla menopausa.
Facile dire “basta ciarlatani”. L’emergenza dei “cattivi maestri” si nutre di periodiche cronache di persone che seguono sotterfugi privi di cura, oltre che di sostanza scientifica tra chi li perora. Ma la realtà è che la ricerca di “altre strade” è comprensibile tra i pazienti quando le terapie sembrano non esserci. E’ importante anche per questo il significato della campagna mondiale in corso sui tumori al sangue. Perché i moniti a tenersi alla larga dagli “stregoni” resta solo sullo sfondo, mentre la sostanza del messaggio è un'altra: che da quei tumori si può guarire.
La campagna, che si protrarrà per tutto il mese, si chiama Make Blood Cancer Visible (“Rendi Visibile il Tumore al Sangue”), perché si tratta in effetti di una patologia di scarsa “visibilità”, sebbene coinvolga circa il 15% delle malattie tumorali, ossia ben 28mila nuovi casi accertati ogni anno solo in Italia. Nel nostro paese ha l’appoggio della Società Italiana di Ematologia (Sie) e della Federazione Italiana Malattie Rare Uniamo-Fimr, anche perché così viene talora trattata, come patologia “rara”, con quel che consegue sui difetti di tutela, a dispetto dei grandi numeri suddetti.
Al cuore del messaggio c’è un video, che rimanda alla boxe. Perché di questo si tratta, di una battaglia, che però può esser vinta, con l’attenzione dei pazienti e soprattutto degli operatori sanitari. Le speranze ci sono, alimentate dall’incedere quotidiano della ricerca.
Di questi giorni ad esempio la scoperta, proprio italiana, di una metodica basata sulle cellule staminali. Pubblicata sulla rivista Journal of Clinical Oncology, è centrata sulle sindromi “mielodisplastiche”, un eterogeneo gruppo di patologie del sangue che interessano il midollo osseo, specie tra gli anziani. Basata sull’identificazione di tre geni (TP53, RUNX1 e ASXL1), rivela il potenziale di predire l’esito del trapianto nell’arco di 48 ore.
E’ solo un esempio del tanto che si muove nel campo di tumori, i quali, parola del presidente del Sie Fabrizio Pane, “sono oggi più curabili grazie anche alle nuove conoscenze sulle alterazioni molecolari che sono presenti a livello genomico e che consentono di definire specifiche sottocategorie di malati, e grazie alla farmacogenomica che ha aiutato a definire la cura più adatta alla natura del tumore – con la conseguenza – di aprire la strada verso trattamenti 'cuciti su misura' per ogni paziente”. La prima arma comunque resta ancora la stessa – ricorda Pane e l’insieme degli studiosi – ed è quella di una diagnosi tempestiva.
Non sempre accade, ma quando accade la differenza si fa sentire. I principali decisori e operatori della Sanità hanno sottoscritto un documento congiunto che dichiara guerra al fenomeno inaccettabile dell'indisponibilità dei farmaci, che costringe talora i pazienti a vane peregrinazioni tra un distributore e l'altro alla ricerca dell'agognato medicinale prescritto.
L’accordo è stato sottoscritto dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), Ministero della Salute, Farmindustria, Assogenerici, Federfarma Servizi, Associazione Distributori Automatici, nonché le Regioni Lazio e Lombardia, che da mesi hanno avviato iniziative “pilota”, con auspicabilmente il seguito di altri. “Un grande senso di responsabilità dimostrato da tutti”, sottolinea il presidente dell’Aifa Mario Melazzini. Da notare che il “tavolo” è supportato fin dall’anno scorso anche dai Carabinieri del NAS, che nel frattempo hanno già fermato e sanzionato alcuni operatori che hanno inaugurato illegalmente attività di esportazione propria, a danni del servizio e dei cittadini.
Al plauso, oltre che al tavolo e alla firma, partecipa anche Assogenerici, in prima linea in tale battaglia da tempo, tanto da aver lanciato l’allarme già a inizio anno, e anche da queste pagine. L’ultima statistica dell’Aifa riportava un campionario di circa 1200 “farmaci introvabili”, ovvero un elenco di un centinaio di pagine. Dati intollerabili, perché la fornitura di un farmaco è un “servizio pubblico”, non un’opzione che varia in funzione degli andamenti del mercato o di singoli interessi. Che si sappia, che lo sappia ogni cittadino che si trovi dinanzi ai dinieghi.
Che il testo “sia stato siglato da tutte le componenti del comparto nella sede dell’AIFA rappresenta la migliore garanzia offerta ai cittadini dal Servizio Sanitario Nazionale”, sottolinea il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, notando come le recenti misure già attuate, sul piano dell’attenzione degli operatori ma anche dei controlli, hanno finalmente condotto a un’inversione di tendenza, ossia “ all'evidente riduzione del fenomeno dei farmaci indisponibili testimoniato anche da Federfarma”. Una nuova tendenza alla quale contribuisce in modo rilevante l’ambito dei medicinali equivalenti, anche perché il tema della disponibilità non è scindibile da quello dell’accessibilità dei costi per i cittadini, al di là del “brand”.
L’intesa prevede inoltre, sulla scia dei progetti avviati in queste regioni, un monitoraggio sistematico delle indisponibilità, tale da rafforzare le attività di controllo. Una garanzia per i pazienti, così come per gli operatori (italiani in primis) che agiscono nella trasparenza. Sicurezza terapeutica, tutela del paziente, prezzo, lotta al pericoloso fenomeno della contraffazione, su cui – ricorda ancora Assogenerici - giace anche una direttiva europea. Perché in un quadro di etica, legalità e corretta informazione, l’assenza dei farmaci dagli scaffali non ha più ragion d’essere.
Che l’inquinamento faccia malissimo, a tutto, dai polmoni alla circolazione, dai rischi tumorali a, perfino, l’attività cerebrale, non è certo una novità, per la scienza quanto per le nostre stesse percezioni personali. Lo è peraltro un aspetto ulteriore, che aggrava i sacrosanti allarmi. Si tratta della scoperta che i danni al cervello non sono solo induzioni indirette, innescate dal respiro e dall’insieme dell’attività fisiologica danneggiata: si concretano perché le sostanze nocive vi arrivano concretamente.
La ricerca è stata condotta dagli scienziati di Lancaster, nel remoto nord-ovest dell’Inghilterra, gli esiti sono pubblicati sulla rivista statunitense “Pnas” (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America). Ed è internazionale anche il contenuto dello studio.
E’ stati infatti esaminato il tessuto cerebrale di 37 persone, 8 delle quali provenivano dalla città inglese (industriale) di Manchester, le altre da uno dei posti più affollati e inquinati al mondo, Città del Messico. Nel dettaglio, i primi avevano tra i 62 e i 93 anni, i secondi dai 3 e gli 85. E molti di loro erano deceduti a causa di malattie neurodegenerative. L’aspetto cruciale è che tutti contenevano grandi quantità di nano-particelle di ossidi di ferro nel cervello, e in misura inferiore sono emerse anche tracce di altri metalli, risalenti soprattutto alle marmitte catalitiche.
Sono dati impressionanti, e si tratterebbe della loro prima identificazione nel cervello. L’indagine fa seguito a un’altra, condotta localmente dagli stessi scienziati, che avevano scovato le particelle inquinanti nei capelli, nonché al seguito di ricerche compiute sulle patologie cerebrali rilevate in Messico, tra animali e persone giovanissime. “ Quando si fa un’estrazione magnetica si trovano milioni di particelle in un singolo grammo di tessuto – spiega la coordinatrice dello studio Barbara Mahler - e potrebbero favorire l’insorgenza di patologie come l'Alzheimer”. Entrano nei neuroni, e nel meccanismo di loro comunicazione, chiamato “sinapsi”.
Sono danni gravi, sui quali vi è dunque un crescente riscontro scientifico. “ Le polveri sottili provocano e accelerano i processi aterosclerotici ed arteriosclerotici”, segnala in questi giorni anche la Società Italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi. Con conseguenze perfino “sul cervello, che invecchia più velocemente”.
Si chiama editing genetico, si fonda su scoperte degli ultimi decenni che evocano un notevole potenziale in ambito medico, che però attende ancora sostanziosi riscontri. Una novità arriva ora dalla Cina, e viene giudicata promettente anche dagli scienziati europei. Riguarda la possibilità di aggredire i tumori agendo sul Dna.
La tecnica si chiama “Crispr”, abbreviazione inglese traducibile in “Brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolari”, e sintetizzabile per i non addetti ai lavori in una procedura di “ taglia-incolla” genetico. Ora, i ricercatori dell'Università di Shenzhen riferiscono, con una pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature Methods, di aver sperimentato con tale metodica l’arresto della progressione dei tumori, facendoli per giunta rimpicciolire. Il test, portato su topolini, è stato duplice, modificando da un lato la struttura molecolare della Crispr in modo da attivare due geni oncosoppressori, nell'altro caso si è riprogrammata l'intera struttura cellulare per potenziarne l'insieme dei suoi meccanismi difensivi.
Da tali esiti incoraggianti gli stessi scienziati annunciano quindi che saranno i primi a testare la tecnica sulle persone malate di cancro. “ 'E' ancora presto per parlare di applicazioni sull'uomo”, commenta il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell'Università romana di Tor Vergata, notando peraltro che è “significativo che il nuovo traguardo sia stato tagliato da ricercatori cinesi”, avendo investito parecchio nel settore delle biotecnologie.
In ogni caso le speranze degli studiosi continentali sono molte. “ L'aspetto davvero interessante è l'aver utilizzato un sistema che risponde a segnali creati dalle stesse cellule tumorali nella loro crescita ”, spiega il biologo molecolare Andrew Sharrocks, dell'Università di Manchester. E lo stesso Novelli conviene: “ Questo metodo per la prima volta ci permette di controllare un complesso meccanismo metabolico a cascata, come quello del tumore, agendo su più livelli e su più geni contemporaneamente ”. In due parole, si tratta di “potenzialità straordinarie”.
Qualcuno in Italia l’ha già ribattezzata spiritosamente così. La “pigrizia” però stavolta non c’entra, mentre la “rivoluzione” sì. Stiamo andando fuori strada. Siamo in un contesto critico nel quale c’è il dramma della disoccupazione, al quale peraltro se ne affianca un altro: chi lavora, è costretto a farlo troppo.
Quando lo scrivemmo già nelle settimane scorse in un pezzo “ferragostano”, l’intento non era quello di un sereno incoraggiamento a godersi le vacanze. C’era della ricerca medica dietro, in particolare dalle Università di Bologna e Trento, che lanciavano l’allarme sulle conseguenze sanitarie dell’eccesso di carico lavorativo, il cosiddetto “workalcholism”. Adesso quell’allarme si amplifica in un’indagine dell’Università di Oxford, che fornisce indicazioni ancor più “restrittive” sui tempi e orari di lavoro. Nell’orizzonte della tutela della salute, ma anche di quella controversa variabile economica che è la “produttività”.
Nel mirino dei ricercatori britannici c’è infatti perfino il “normale orario d’ufficio”, quello dalle 9 alle 17, per molti in realtà comunque un miraggio, dovendosi dimenare su tempi ben più estesi, strampalati e irregolari. Ebbene, neppure i primi vanno bene. Sarebbe dannoso per il nostro “ orologio fisiologico” iniziare a lavorare prima delle 10. Le conseguenze sarebbero l’aumento di peso, il calo delle difese immunitarie, la perdita di attenzione e di memoria, nonché un peggioramento della qualità del sonno, definito dagli studiosi un’autentica “tortura”.
E tutto questo non riguarda solo il lavoro, ma anche la scuola. Se per i bambini dell’età delle elementari cominciare alle 8.30 può starci, il cambiamento cardiaco che si innesta con la crescita sposta alle 10 il limite inferiore tra gli adolescenti, e per le universitari addirittura alle 11. Non si tratta di dati gettati a caso, sono l’effetto di alcune sperimentazioni scolastiche, per giunta in collaborazione con l’American Academy of Pediatrics.
C’è qualche paese europeo che va in quella direzione, ossia verso una riduzione dell’orario di lavoro, ma il mondo, specie in un tempo di crisi, generalmente va altrove, e presenta quella direzione come un’ineluttabile “necessità del sistema”. A detta degli scienziati, stiamo sbagliando di grosso. Quel che noi chiamiamo “rivoluzione pigra”, gli inglesi lo definiscono “emergenza sociale”. Che chiama naturalmente in causa non solo le autorità sanitarie, ma l’insieme dei decisori.
I cardiologi sono generalmente bravi e tempestivi nel rispondere agli infarti dei pazienti, ma, come già segnalato in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ancora molto rimane da fare dopo, quando si viene sovente dimessi con un cuore ancora malato. L'appello è stato rilanciato nei giorni scorsi da un convegno scientifico organizzato dall'Università di Brescia, “Heart Failure - Drug development at the crossroad”.
Il consesso ha ribadito la posizione italiana di “capitale” continentale del settore, sulla scia del recente Congresso romano della Società Europea di Cardiologia, preludio a quello della sezione nazionale che si terrà a dicembre, sempre nella capitale (proprio in questi è in scadenza la presentazione degli “asbstacts” per la Conferenza). Un primato che si ribadisce nell'efficacia crescente di molti degli interventi di emergenza nel nostro paese, grazie a buoni livelli di tempestività, chirurgie di precisione e farmaci salvavita adeguati.
Ma c'è un dato che viceversa non migliora, ed è quello della mortalità nei primi sessanta giorni dopo le dimissioni dall'ospedale al seguito di un infarto. Era ed è, dieci anni fa come oggi, mediamente del 4%, proporzione che sale al 10% per i pazienti ritenuti ad alto rischio.
Il nodo critico è soprattutto nell'“insufficienza cardiaca”, in cui il cuore non riesce a pompare abbastanza sangue per le esigenze dell'organismo. Oltre i 65 anni è la prima causa di ricovero in Italia, dove ne soffrono 600mila persone all'anno, con una frequenza che raddoppia all'avanzare di ogni decade d'età, arrivando al 10% tra gli ultrasessantacinquenni. Ebbene, i rischi tendono ad aumentare al seguito di un infarto.
Per prevenirli, è anche la scienza a dover compiere dei passi dinanzi alla varietà e complessità dei disturbi cardiaci, spiega la cardiologa Savina Nodari, presidente del Congresso bresciano: “ Abbiamo farmaci capaci di correggere meccanismi come l’attivazione dei sistema simpatico e del sistema renina-angiotensina, ma – aggiunge - non abbiamo terapie mirate sui meccanismi alla base ”. Servono insomma sperimentazioni e terapie meno generalistiche e più “personalizzate ”. E serve forse anche un'attenzione supplementare di tutti alla cautela post-operatoria. In assenza, l'effetto è quello di “nuovi ricoveri, una condizione di salute in costante peggioramento e per molti di essi la morte per arresto cardiaco”. In ciò non c'è alcuna “efficienza” sanitaria, oltre che alcuna cura.
Le “cronache sulla salute”, si alimentano di periodici allarmi epidemici, o addirittura pandemici, tra il recente Zika, l’oramai “vecchio” (ma tuttora in agguato) Hiv, e altri, a ritmi quasi stagionali. Il problema sanitario però sta perlopiù altrove, specie in paesi avanzati. Sono le cosiddette “malattie non trasmissibili”, innescate spesso e volentieri da cattive abitudini, quali il fumo, l’alcol e la sedentarietà. Su di esse è perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) a lanciare l’allarme. E lo lancia proprio per l’Europa.
Oggi, 12 settembre, all’occasione dell’avvio della sua conferenza continentale a Copenaghen, l’Oms presenta un vero e proprio “Piano d’Azione”. Il dato di base è che alcuni buoni risultati mettono in ombra l’enormità del potenziale delle politiche (scarsamente attuate) di prevenzione apparentemente “minori”, che sarebbero di decisivo impatto per il nostro avvenire. “ Le persone che moriranno nella mezza età nel 2030 per cause prevenibili sono i giovani adulti di oggi”, ricorda la direttrice regionale per l'Europa, la dottoressa Zsuzsanna Jakab.
I casi dell’alcol e del tabacco sono emblematici. A livello complessivo la “tendenza va nella giusta direzione”, nota il “Piano”, ma diversi dati regionali risultano “insoddisfacenti”. L’alcol è ad esempio “ la prima causa patologica nell’Europa orientale, con segnali preoccupanti soprattutto tra i giovani”.
Ancor più serio, e forse significativo, il dato sulle sigarette. Si fuma di più non tra i ricchi (benché, si pensa, potrebbero più facilmente buttare denari invano), ma soprattutto nei paesi poveri, e in particolare tra coloro che soffrono di problemi mentali.
Altissimo è dunque il potenziale di alcuni accorgimenti politici di semplice implementazione. Campagne di prevenzione contro fumo e alcol “targetizzate” soprattutto sui ceti deboli. Poi programmi di “riabilitazione cardiaca” (il cui ambito è la principale causa di morte in Europa) per il recupero da attacchi di cuore e ictus: si salvano molte vite con gli interventi emergenziali e chirurgici, ma la terapia post-operatoria è sottoutilizzata. E ancora, politiche fiscali per promuovere un’alimentazione che riduca i grassi saturi. La Francia si è già mossa preparando una “tassa” che bersagli i cibi preconfezionali in base alle loro calorie. A detta dell’Oms, non è affatto una cattiva idea, considerando i danni portati dal cosiddetto “junk food”.
C’è un allarme che serpeggia qua e là. E’ quello sulle “scorte” di antibiotici che sarebbero in esaurimento, e questo riguarderebbe soprattutto alcune infezioni difficili da trattare. Lo ha lanciato periodicamente qualche scienziato, ma adesso arriva una rassicurazione, più importante delle altre, perché fa leva sulla scoperta di una fonte inesauribile: il nostro corpo.
E’ la popolare rivista Science a divulgare la scoperta scientifica. E la novità, spiegano, è che la salvezza “sta sotto il nostro naso, anzi, dentro”. E’ stato individuato cioè un batterio “buono” che dimora nelle narici. Lo hanno rinvenuto i ricercatori tedeschi dell’Università di Tubinga.
E’ stato battezzato Lugdunin, e rappresenta il primo esempio di una nuova classe di antibiotici peptidici. In un’epoca nella quale il principale “spauracchio” medico sembra oggi essere quello dei “super-batteri” capaci di resistere ai più potenti antibiotici, la scoperta sembra avere il significato di un cambio di rotta, medico e forse anche un po’ “filosofico”, quello secondo cui la resistenza può costruirsi a partire dalle nostre stesse difese.
Tecnicamente, dalla ricerca in Germania risulta che i nostri “batteri nasali” hanno una potente attività anti-microbiotica, anche verso il cosiddetto “stafilococco aureo” (S.aureus), un resistente batterio foriero di infezioni nella pelle, nell’apparato scheletrico, respiratorio, urinario, e perfino nel sistema nervoso centrale. Su 187 pazienti ricoverati ed esaminati tramite tampone nasale, è emerso che la colonizzazione di tale stafilococco era di quasi il 35% nei soggetti privi del “batterio buono”, mentre negli altri la proporzione crollava sotto il 6%.
Il dato è eclatante, specie nel contesto in cui si cercano assiduamente le fonti organiche degli antibiotici ovunque, dal sottosuolo ai fondali marini, e le si cercano con urgenza, dati gli ultimi allarmi circa l’accresciuta resistenza batterica all’antibiotico. Lo studio tedesco ci dice invece che dobbiamo smetterla di cercare chissà dove, il punto di partenza lo possiamo trovare semplicemente guardandoci allo specchio.
Non è roba da slogan o simili. Arriva, di nuovo, dal Congresso della Società Europea di Cardiologia svoltosi nei giorni scorsi a Roma. E' da qui che sono emerse verità sorprendenti sul cuore del centenari. Che, chissà forse anche per averne viste e superare tante, sta meglio di quello di persone più giovani.
Da un'ecocardiografia effettuata dall'ospedale San Giuseppe di Milano, comparando tra il 2010 e il 2015 un gruppo di 120 ultracentenari con un altro di pari numero tra i 75 e gli 85 anni, sono spuntati dati ben più salubri per i primi: inferiore prevalenza di diabete (19,1% contro il 41,7%), di fibrillazione atriale (19,1% contro il 37,5%) e di malattie coronariche (29,1% rispetto al 56,7%). Inoltre, “ i più anziani mostrano un minor diametro del ventricolo sinistro con un relativamente più alto spessore della parete muscolare e un minor volume dell'atrio sinistro ”, spiegano gli studiosi.
Il problema, si dirà, è che non è mica facile arrivarci, ai cent'anni. Attenzione, però, perché i centenari sono invece in rapido aumento: oggi in Italia sono oltre 16mila, il doppio rispetto a solo dieci anni fa. Di più, “nuovi studi prevedono che chi nasce oggi vivrà sino a 100 anni”, nota il direttore di Cardiologia dell'Ospedale di Arezzo Leonardo Bolognese, citando in particolare una recente ricerca danese.
Il fenomeno è in aumento grazie al miglioramento delle cure e dell'alimentazione, specie nell'ambito della dieta mediterranea, benché l'allungamento della speranza di vita sia riscontrato anche su scala globale. Numeri peraltro da confermare e consolidare tramite un'adeguata assistenza sanitaria, considerando che i dati sulla mortalità nel 2015 hanno segnalato a sorpresa un aumento della mortalità, per la prima volta nel dopoguerra.
E un posto centrale nell'assistenza va occupato dalla prevenzione. Una ricerca britannica, pubblicata sul Journal of the American College of Cardiology, ha documentato “l'ereditarietà” dei rischi cardiovascolari. Le nostre probabilità di sopravvivenza aumentano del 17% per ogni decade che almeno uno dei nostri genitori vive oltre i 70 anni. Sapere di tali rischi significa poterli prevenire meglio.
E' presto per cantare vittoria, ma la novità annunciata dall'Università americana del Niagara sembra avere il potenziale di migliorare la qualità della vita per milioni di pazienti diabetici. Ogni giorno sono costretti all'appuntamento fisso con l'iniezione di insulina, ma se la novità troverà ulteriore conferma sperimentale, quel fastidioso gesto potrebbe relegarsi al passato.
La ricerca è stata illustrata nei giorni scorsi al 252esimo Congresso nazionale dell'American Chemical Society di Washington, che con i suoi 157mila associati è il più esteso raggruppamento chimico-scientifico al mondo, depositario inoltre di una quantità notevole di raccolte dati e riviste accademiche. Ed è qui che è stata presentata una specie di “pillola” che potrebbe sostituire la puntura.
Non è la prima volta che si prova a superare il principale dei problemi, che è lo stomaco, il cui ambiente ostile e acido fa generalmente degradare la pillola impedendole di raggiungere l'intestino e quindi la destinazione finale, ossia il sangue, al fine di gestire correttamente i livelli di zucchero. Un tentativo, di scarso esito, è stato allora fatto con l'insulina “inalabile”. Un altro, in corso di sperimentazione, prevede l'impacchettamento in un rivestimento polimerico.
La novità perorata dai ricercatori è invece quella di un involucro “naturale” e ancor più resistente. Si tratta di una particella neutra a base lipidica, battezzata “Cholestosome”. Essa sarebbe sufficiente a trasportare il farmaco senza altro rivestimento, una sorta di “mattoncino di grasso” a forma sferica e di piccolissima dimensione. In base a simulazioni al computer e ai primi test sui topolini, sarebbe dunque capace di superare la strenua resistenza dello stomaco, facendosi invece “riconoscere” dall'intestino, che quindi le assorbe nel flusso sanguigno rilasciando l'insulina.
Serviranno ulteriori sperimentazioni, animali e umane. Ma qualora dessero esito positivo, si spalancherebbe una metodica assai meno invasiva dell'iniezione, con rilevante sollievo per i pazienti. Per giunta uno strumento del tutto naturale, e ad alta biodisponibilità.
Che la sedentarietà sia un problema per la salute è un fatto abbastanza noto. Su “quanto” faccia male e “quanto” ne siamo coinvolti noi italiani, di ogni età, stanno convergendo una serie di ricerche scientifiche che alzano il livello d’allarme e ci chiamano alla responsabilità. Anzitutto verso noi stessi.
Il “centro di gravità” dove sono spuntate le ultime novità è stato il Congresso della Società Europea di Cardiologia tenutosi nei giorni scorsi alla Fiera di Roma. Con un evento d’eccezione, la visita di Papa Francesco, prima apparizione per un pontefice a un consesso medico. “ Quanta simbologia si nasconde in questa parola, cuore, e quante attese vengono riposte in quest’organo umano”, ha notato Bergoglio, assicurando l’appoggio, non solo morale, della Chiesa odierna alla scienza medica.
A margine dell’epocale visita, sono arrivati i preoccupanti numeri. Solo un italiano su tre, da un campione di adulti tra i 18 e i 69 anni, è “ realmente attivo”, svolgendo attività motorie in maniera costante. Un altro terzo risulta “completamente sedentario”. Troppo davvero, tanto più che il problema riguarda anche i bambini. Un quarto di loro non svolge alcuna attività motoria, e due bimbi su tre camminano non più di mezz’ora al giorno
Le conseguenze sono anch’esse evidenti quanto drammatiche. Da uno studio compiuto su quasi 40mila persone seguite per oltre 28 anni, è emerso un rischio di mortalità cardiovascolare ridotto, per gli “attivi”, addirittura del 23% rispetto agli “inattivi”. Cifre rilevanti, che hanno permesso di elaborare perfino un “algoritmo”, il Personal Activity Index (Pai), capace di quantificare i rischi connessi ai comportamenti motori personali. Non è un mero esercizio matematico. E’ un tentativo di risposta a quella che rappresenta una e vera e propria piaga: si stima che la “sindrome del divano killer ” uccida ogni anno cinque milioni di persone nei paesi occidentali, tanto da risultarne la quarta causa di mortalità e disabilità.
Fin qui i dati; poi c’è il nodo della cura e dei suoi costi, al centro delle preoccupazioni di chi si occupa di farmaci generici. E dello stesso Papa, che ha invocato “ uno sguardo di particolare intensità ai più poveri, ai più disagiati ed emarginati perché anche a loro giunga la vostra cura, come anche l’assistenza e l’attenzione delle strutture sanitarie pubbliche e private ”. D’accordo il presidente di Esc Fausto Pinto, che rilancia le cifre: “ In Europa 1,4 milioni di persone di età inferiore ai 75 muore prematuramente ogni anno a causa di infarti e ictus perché, in molti casi, non hanno ricevuto un aiuto sanitario tempestivo ed efficace ”. Una vera e propria “emergenza di salute pubblica”. In cui il problema dei costi dei medicinali è palesemente centrale.