“Problemi al cuore in famiglia, genitori, zii, nonni?” Lo chiedono sempre i medici, per fotografare il passato del paziente e i suoi connessi rischi sanitari, a iniziare dal rischio numero uno, quello relativo ai problemi cardiovascolari. Il quesito è fondato, perché è accertata l’influenza della genetica sull’esposizione ad alcune patologie. Tuttavia, circa il quesito se conti “più la genetica o gli stili di vita”, arriva da una ricerca americana una risposta che fa “vincere” i secondi. E con un secco 4 a 0.
Lo si legge sul New England Journal of Medicine, grazie a un maxi-studio presentato dagli scienziati del Massachusetts General Hospital al Congresso dell’American Heart Association, tenutosi nei giorni scorsi a New Orleans. Hanno riesaminato i dati, insieme genetici e clinici, di oltre 55mila partecipanti, al fine di verificare appunto se una “vita sana” possa ridurre l’esposizione ad attacchi al cuore anche in persone geneticamente predisposte (considerando una cinquantina di varianti ereditarie ritenute associate all’alto rischio).
Sono stati quindi valutati gli effetti di quattro fattori indicativi di stili di vita corretti: non fumare, non essere obesi, esercizio fisico almeno una volta alla settimana, e una dieta sana. La loro qualità è stata ritenuta globalmente “favorevole” se almeno tre di tali variabili venivano rispettate dal singolo. Ebbene, è emerso che, per chi le seguiva, il rischio di attacchi cardiaci risultava addirittura dimezzato, perfino tra le persone a più alto rischio genetico. Insomma, nelle parole di Sekar Kathieresan, genetista e direttore del centro di ricerca del Massachussets, “il Dna non è un destino”.
E quindi non è una condanna. Il concetto, con tutto quel che rivela circa l’importanza della prevenzione, è stato ribadito la scorsa settimana anche in Italia, e nell’ambito di un Festival. Si chiama “Life Break”, e si è tenuto per la seconda volta a Bari, con una catena di conferenze, documentari, dibattiti scientifici pubblici, cene, documentari e presentazioni di prodotti e diete sane. Dedicato stavolta alla chef Isa Cipriani, organizzatrice del Festival, venuta a mancare poche settimane fa.
Tra un evento e l’altro, su alimentazione, tecniche di meditazione, percorsi integrati di prevenzione, approfondimenti sul ruolo e le modalità delle attività motorie, emerge chiaramente un “filo rosso”: la ricerca della qualità nei nostri stili di vita non è un “fenomeno di tendenza”, ma una vitale necessità. Ce lo chiede anzitutto il cuore.
Il primo problema delle “malattie rare” è che dovremmo smetterla di chiamarle in tal modo. Le patologie così chiamate sono migliaia, e le persone affette solo in Italia sono centinaia di migliaia, se non milioni. Il fatto è che tra diagnosi non ancora accertate e limiti di copertura del Servizio Sanitario Nazionale, la “rarità” si concreta talora nel difetto di assistenza. Qualcosa però si sta muovendo, e il 2016 potrebbe essere l’anno di una benefica svolta.
Secondo la rete Orphanet Italia, sarebbero addirittura due milioni le persone affette nel nostro paese, e il 70% in età pediatrica. E la maggioranza non sono adeguatamente seguite. L’ultimo elenco stilato dall’Istituto Superiore della Sanità include 583 patologie esenti-ticket, ma sarebbero meno di un decimo di quelle esistenti, stimate per giunta in considerevole aumento negli ultimi anni.
Un passo è stato raccontato proprio su queste pagine sei mesi fa, nell’abbraccio tra Assogenerici e la Fondazione Hopen, che riunisce medici, docenti universitari, imprenditori e altri cittadini accomunati da esperienze a contatto con “ l’incubo dell’isolamento, dell’abbandono, del non sapere che cosa c’è che non va”, e quindi in prima linea nel sostegno alle famiglie alla sensibilizzazione e alla formazione degli operatori pubblici. Di qui il gesto dell’associazione dei farmaci generici di ospitare la Fondazione, nell’ottica del “circolo virtuoso che va dalla ricerca fino alla genericazione”, nelle parole del presidente Häusermann.
L’auspicato passo ulteriore ora si è concretato, con la costruzione di una rete inter-ospedaliera, chiamata “Simi-Imagine”, promossa dalla Società Italiana di Medicina Interna, a Congresso nei giorni scorsi a Roma. Per potenziare le possibilità di diagnosi e cura, migliorando lo scambio di informazioni coi pazienti e tra addetti ai lavoro, anche perché tali patologie richiedono un approccio unitario e, al contempo, multidisciplinare. Alla “ Doctor House”, nella sintesi fornita dai media.
“Evitare il ritardo diagnostico di mesi o anni”, l’obiettivo primario fissato dal network, che perciò mira a stabilire finalmente una collaborazione istituzionale tra gli addetti ai lavori, anche per potenziare la gestione delle patologie. “ Sono spesso croniche e fortemente invalidanti, richiedono specifiche esigenze assistenziali”, ricorda il presidente del Simi Franco Particone. Una formale presa d’atto che suona come un cambio di rotta per le milioni di anime che lo attendono.
I più feroci nemici degli alimenti di qualsiasi origine animale dissentiranno. E qui non ci “schieriamo” affatto, ma dopo aver segnalato più volte i potenziali proteici e gli effetti di prevenzione di una dieta vegetariana, non omettiamo di segnalare l’esito di un’estesa ricerca scientifica che rilancia i benefici di un nutrimento semplice, poco costoso e altamente nutritivo: l’uovo. Consumato con moderazione, esso emerge come un prezioso alleato, dinanzi perfino ad alcune malattie cardiovascolari.
La fonte è uno studio americano, pubblicato sul Journal of the American College of Nutrition, fondato su una revisione sistematica della letteratura scientifica prodotta in materia dal 1982 al 2015, coinvolgendo nell’insieme centinaia di migliaia di pazienti.
Il risultato è che un uovo al giorno, anziché recare danni, porterebbe alla riduzione dell’incidenza dell’ictus addirittura dell’12%, senza al contempo gravare sulla salute delle coronarie, che rappresenta solitamente la prima delle controindicazioni suggerite. Oltre a tale frequenza di consumo i conti non tornano, ma entro tale limite i dati sono quelli.
Si tratta di una rivalutazione destinata a far rumore, e sembra muoversi in linea con le ultime “Linee guida dietetiche” del governo americano, che a sorpresa tra l’altro omettono una variabile ritenuta di rilievo, il colesterolo, su cui sono in effetti emersi recentemente segnali ambivalenti dalla ricerca. Beninteso, gli americani non sono certo il faro della civiltà in materia di alimentazione, ma le “Guidelines” sono scritte da scienziati, che infatti non omettono comunque di porre paletti ben precisi sul consumo di grassi.
Quell’omissione “sdogana” però l’uovo. Senza esagerare, naturalmente. Ma uno al giorno (non di più, e senza aggiunte di pancetta e altri fritti) sembra far bene, e parecchio, per il suo contributo proteico, così come il pollame, i legumi, le noci e i derivati della soia. “ Le uova sono un alimento ricco di sostanze nutritive e a basso costo”, dicono i ricercatori, elencando, a fianco delle proteine, i suoi attributi di vitamine, minerali e antiossidanti. E allora buon appetito. Con una nota a margine: i vegetariani rifiutano la carne, e per motivi molto sensati, ma (a differenza dei più radicali vegani) qualche frittata non la disdegnano affatto.
"Andate avanti, perché il mondo ha bisogno di scienza e ragione". Il portale della Fondazione Umberto Veronesi lo ricorda così, guardando appunto avanti, e insieme rievocando quell’iniezione di forza che c’è dietro. Perché dietro a quella frase così semplice non ci sono solo le conquiste scientifiche e le migliaia di persone salvate da un gigante della medicina contemporanea. C’è un universo ideale, un moto etico, una specie di giuramento di Ippocrate aggiornato ai nostri tempi di conflitti e di difficoltà economiche.
“Un visionario che ha saputo intuire nuovi orizzonti per la medicina, additando sempre l’uomo, la persona umana, come paradigma e misura di ogni progresso scientifico ”, ricorda il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann, tanto che l’oncologo milanese fu “tra i primi fautori del lungo cammino di affermazione del farmaco generico in Italia”. Nelle parole dello stesso Veronesi, sul libro che cinque anni fa raccontava il primo decennio di farmaci equivalenti in Italia, “ la sanità della nostra epoca, con la continua e tumultuosa introduzione di alte tecnologie e di farmaci dalla ricerca costosissima, rischia di essere sempre in deficit. Per questo ogni possibilità di risparmio è strategica per continuare a corrispondere a tutti le cure essenziali ”.
Umberto Veronesi avrebbe compiuto 91 anni nei prossimi giorni. Al culmine, ma già al cuore della sua ineguagliabile carriera, ha associato il suo impegno medico con mobilitazioni civiche, alimentando negli anni ’60 la costruzione dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, poi la Scuola Europea di Oncologia, e ancora l’Istituto Europeo di Oncologia – di cui è stato direttore scientifico – nonché la sua stessa Fondazione. A margine, è stato anche ministro e senatore. In tutto questo non ha mai evitato di esporsi nel dibattito pubblico anche sui temi più controversi (dal nucleare agli inceneritori, dal “non-diritto” allo sciopero dei medici all’eutanasia), aprendo dibattiti e ricevendo legittime obiezioni. Come tutti quelli che appunto si espongono, a sostegno dei proprio ideali.
Quegli ideali sono in fondo l’architrave della sua attività medica. Già negli anni ’60 concepì la “quadrantectomia”, tra lo scetticismo dei colleghi, limitando l’invasività dell’intervento di rimozione del tumore al seno rispetto alla mastectomia, ossia all’asportazione totale. Poi arrivò anche al “nipple sparing”, ossia a una tecnica di radioterapia intra-operatoria capace, già durante l’intervento, di sollevare la paziente dal successivo calvario di problemi fisici e psicologici. Dietro a tutto questo e altro c’è competenza, razionalità, ricerca, ma anche filosofia. Nella sua formula, la “ricerca del minimo intervento efficace”, rispetto al “massimo trattamento tollerabile dal paziente''.
Una rivoluzione “chirurgica” che scaturisce da una rivoluzione culturale. Quella di chi crede anzitutto nella logica “pacifista” di interventi “non-violenti”, e sa che “ la scienza ha smentito l'antico e insensato pregiudizio che vuole l'uomo aggressivo per natura. Genetisti, antropologi, biologi, psicologi, etologi e neuroscienziati hanno negato le presunte radici biologiche della violenza organizzata nell'uomo ”. In altre parole, “la violenza è quasi sempre reazione ad altra violenza e dunque è quasi sempre evitabile”. La violenza come la malattia, dunque, e la pace (con interventi tutt’al più “chirurgici”, non invasivi) come unica cura razionalmente plausibile, e se proprio succede che non lo è si va al male minore, si agisce contro il dolore. Veronesi era un medico, e quindi un uomo di pace. “Un visionario”, nel ricordo di Häusermann Lo testimoniano ogni giorno i suoi tanti colleghi in prima linea tra guerre e profughi. Il mestiere è quello. Sapere che molto si può fare, con concretezza e razionalità. E farlo.
Gli eccessi non vanno bene in gravidanza, ma questo riguarda anche i consigli. Alcuni ginecologi, specie tra i più giovani, coltivano una legittima preoccupazione quando vedono il peso delle loro pazienti crescere troppo. Il sovrappeso di certo non va bene, per la loro salute come per quella dei nascituri. C’è però un margine, legato alle esigenze fisiologiche della gestante – specie se piuttosto magra in partenza – e c’è poi qualcos’altro: vale anche e soprattutto il contrario. Le donne incinta hanno bisogno di nutrirsi, e se non lo fanno abbastanza rischiano di recare danno al bebè in arrivo.
Lo documenta uno studio multidisciplinare americano, condotto dalle Università del Texas e del Wyoming e pubblicato sul Journal of Physiology, incentrato soprattutto sulle possibili conseguenze cardiovascolari delle carenze nutritive.
E’ stato esaminato, tramite risonanza magnetica, il cuore dei babbuini, quel che imita più da vicino l’assetto umano, esaminando in particolare quelli le cui madri avevano mangiato il 30% in meno rispetto alla media. Ebbene, costoro mostravano con evidenza segni di quella ridotta funzione cardiaca che solitamente si riscontra in età avanzata. All’età di cinque anni, che corrispondono ai vent’anni degli umani, la struttura e funzione cardiaca risultavano già compromesse, con valori che oltretutto sono solitamente forieri di altre patologie come il diabete e l’ipertensione.
Di questi giorni anche la pubblicazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità circa le nuove “raccomandazioni” da seguire per le gestanti. Addirittura 49 punti, aggiornati rispetto ai consigli precedenti in risposta al numero eccessivo di tragedie nel mondo. Oltre 300mila i decessi delle donne l’anno a causa della gravidanza, oltre 5 milioni i bimbi nati morti o deceduti nel primo mese di vita.
Dall’Oms si auspica l’incremento delle visite mediche, raddoppiando il minimo ad almeno otto. E poi ci sono mille altri consigli, anche sull’alimentazione. L’indicazione di fondo è però, a ben vedere, abbastanza generica, incentrata su una dieta sana e variegata e sull’imperativo del ferro e dell’acido folico. Il resto, anche per i vertici sanitari mondiali, si riduce in una semplice frase: le donne, e le vite che portano in grembo, hanno bisogno di nutrirsi, e per bene, senza troppi paletti.
Crediti immagine: Giornata Mondiale contro il diabete
Una giornata come le altre, ma diversa per tantissimi motivi. Oggi ricorre la “Giornata Mondiale contro il diabete”, e segue una settimana densissima di iniziative ed eventi in tutta Italia, a segnalare qualcosa di bello e importante, con tanto di patrocinio di Ministeri, Coni, Croce Rossa e altri enti di rilievo. Non è il consolatorio “mal comune mezzo gaudio”, è piuttosto quel salto in avanti, oramai compiuto, nella consapevolezza collettiva sull’estensione del problema e sulle possibilità di affrontarlo. Ed è una presa di coscienza destinata a far concretamente bene a molti.
Le cifre per la verità sono impressionanti. Gli italiani affetti da diabete di tipo 2 (che si manifesta in età adulta, perlopiù dopo i 40 anni, specie – ma non solo – in persone in sovrappeso) sono stimati a tre milioni. Un altro milione ne soffrirebbe senza una diagnosi. E altri due milioni e mezzo hanno la glicemia fuori norma, il che fa impennare i rischi di ammalarsi. Morale, un italiano su dieci ha la glicemia “sballata”, tant’è che si stima che i malati saliranno a cinque milioni entro il 2030, anche per la progressiva sedentarizzazione, i difetti di alimentazione e l’avanzare dell’età media. Cause che definiscono anche l’aggettivo e l’obiettivo: una malattia “largamente evitabile”.
Diverso il caso de diabete 1, che colpisce essenzialmente i bambini, che non hanno per definizione colpe, tanto più che la contraggono a volte già alla nascita, per una reazione autoimmunitaria che distrugge le betacellule del pancreas, sede produttiva dell’insulina. Ce ne sono ufficialmente circa 250mila, ma è solo una sottostima.
Per tutti, la settimana uscente ha consacrato oltre mille eventi (conferenze, incontri, attività culturali e sportive) in mezzo migliaio di città italiane, in collaborazione con associazioni e operatori sanitari, e anche ambulatori e medici di famiglia, disponibili a consulti gratuiti e senza ricetta, nonché, grazie all’associazione Diabete Italia Onlus, l’attivazione di un test sul web per calcolare i propri livelli di rischio.
La ricorrenza annuale ha stavolta coinvolto inoltre cani e gatti, con iniziative di sensibilizzazione e incontri formativi su come comprenderne i sintomi, in collaborazione con le associazioni di categoria dei veterinari. Il problema riguarda anche loro, tanto che ne risulterebbero affetti almeno uno su cento. Per loro, così come per gli umani, il messaggio prioritario, oltre all'importanza della prevenzione (anche nei comportamenti alimentari), riguarda le possibilità crescenti di cura, ovvero di tener sotto controllo la patologia e poter condurre una vita del tutto normale. E questo riguarda anche il lavoro. Significativa ad esempio la recente apertura della Società Italiana di Diabetologia per rimuovere lo stop imposto ai piloti affetti dal diabete. Con un adeguato trattamento e monitoraggio il rischio non sussiste - documenta uno studio britannico - né per loro né per i passeggeri.
Alcuni parlano di “moda”, e a volte hanno ragione. Solo che hanno spesso ragione all’incontrario. Il tema dell’“intolleranza al glutine” è spesso affrontato dalle persone come fosse una banale “iper-sensibilità”, ma “non celiaca”, mentre invece di tratta in molti casi di celiaci veri, e come tali andrebbero seguiti da uno specialista.
L’allerta è lanciata proprio dalla Società Italiana di Gastroenterologia (Sige), ed è motivata non solo dalle difficoltà e dai confini labili di una “auto-diagnosi”, ma anche dal fatto che sembra allargarsi l’elenco delle proteine riconosciute colpevoli di quella sindrome all’intestino, foriera di gonfiori, dolori addominali e gravi problemi intestinali, specie tra le donne, con effetti che si allargano a cefalee, dolori articolari ed eczemi.
Il problema non si limita infatti al glutine, sono anche altre le sostanze indiziate. Vi sono ad esempio, gli “ati”, ossia gli inibitori dell'amilasi-tripsina, che rappresentano il 4% delle proteine del frumento e innescherebbero risposte immunologiche, e sarebbero quindi in grado di accendere l'infiammazione a livello dell'intestino, innescando così danni ai reni, alla milza e perfino al cervello. “ Ci si sta orientando a parlare non più o non solo di 'intolleranza al glutine', ma di intolleranza al grano”, spiega la professoressa Carolina Ciacci, gastroenterologa della Sige.
Insomma, l’indicazione è duplice. E’ anzitutto fondamentale dar retta ai segnali dell’organismo, effettuare le diagnosi del caso e darne seguito nelle scelte alimentari. E guai a non farlo. La celiachia, secondo le stime, colpisce almeno l'1% degli italiani (proporzione analoga su scala globale), ma sono almeno il 30% quelli “a rischio”, in quanto predisposti geneticamente, il che è una variabile decisiva della patologia.
La seconda indicazione coinvolge invece coloro che risultano negativi ai test sulle intolleranze. Anche i non celiaci possono incorrere in alcuni problemi, con vaghi disturbi all'apparato digerente o anche alla testa. Per loro, come per tutti, l'indicazione è quella di un'alimentazione equilibrata. Senza però dover ricorrere al “gluten-free”, che a quel punto, sì, diventa solo un’inutile e poco nutritiva “moda”, pur seguita addirittura da un americano su quattro.
Sembra una sciocchezza, ma è uno dei problemi più urgenti della Sanità italiana e di quelle di tutto il mondo. Si chiama “aderenza terapeutica”, ed è quella variabile che, se viene a mancare, vanifica tutto, consulti, prescrizioni, acquisti – magari costosi – e soprattutto guarigioni. Per l’efficacia, e perfino per la sicurezza terapeutica, il farmaco va usato per bene, pena azzerarne i benefici e per giunta alimentarne gli effetti collaterali e quindi perfino i costi per i pazienti. Questo riguarda tutti, ma coinvolge in particolare gli anziani, per i quali l’autorità sanitaria americana ha appena aggiornato le proprie linee guida in materia.
“Per utilizzare i farmaci in sicurezza occorre prestare attenzione in ogni età della vita e in maniera particolare dal sesto decennio in poi”, il messaggio della “Food and Drug Administration”, l’ente regolatorio degli Stati Uniti, che aggiunge: “ Con l'invecchiamento aumentano le probabilità di un ricorso, ad esempio, alle medicine complementari che possono aumentare il rischio di interazioni con i farmaci e di insorgenza di effetti avversi. Analogamente, anche i cambiamenti fisici possono influenzare il modo in cui i farmaci vengono metabolizzati dall'organismo ”.
Tradotto dal linguaggio burocratico-scientifico, le quattro indicazioni fondamentali sono queste: primo assumere il farmaco se e solo se dietro ricetta medica, e poi proseguire senza interruzioni terapeutiche anticipate se non dopo aver consultato il medico stesso, guai a fidarsi del “fai-da-te” sulla scia di un miglioramento provvisorio; secondo, tenere una specie di “registro” dei medicinali assunti, incluse le eventuali modifiche all’uso, per comprendere le eventuali interazioni avverse sulla base dell’assunzione di altri medicinali, cibi o bevande.
Terzo: essere consapevoli e vigili su possibili interazioni farmacologiche avverse quando il farmaco è assunto in concomitanza di un altro, o di altre sostanze assunte, e questo lo si fa anche solo leggendo le indicazioni e controindicazioni del medicinale stesso. Quarto, è importante “revisionare” la terapia periodicamente col medico curante. “Almeno una volta all’anno”, scrivono i decisori americani, ed è un consiglio “minimo”, dinanzi a eventuali sviluppi, cattivi utilizzi, erronei dosaggi ed effetti collaterali.
Possono sembrare consigli scontati, ma i dati ufficiali documentano quanto il problema dell’aderenza e dell’appropriatezza terapeutica rappresenti una vera e propria emergenza per molte patologie. A volte si pensa che il problema della “pillola” sia solo quello dell’acquisto. Invece, spesso e a volte drammaticamente, il nodo è anzitutto nel suo cattivo utilizzo.
Crediti immagine: Tribuna di Treviso
Si è scritto tanto sulla compianta Tina Anselmi, eppure forse non abbastanza. La “cadetta partigiana” di Castelfranco Veneto, che seppe farsi largo tra i maschi del sindacato e del suo partito (la fu Democrazia Cristiana) tanto da diventare la prima donna ministro della Repubblica Italiana, fece una cosa, tra le altre, su cui i posteri la ricorderanno ancor più di quel che si fa adesso. Correva il 1976, e Giulio Andreotti le affidò l’incarico del Lavoro, ma l’esperienza le valse soprattutto due anni dopo, quando prese l’incarico della Sanità, su cui vent’anni prima non esisteva neppure un Ministero.
Erano tempi difficili, il cuore degli “anni di piombo”, culminati nel rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma proprio in quell’anno la stessa ministra (che allora non si coniugava ancora al femminile) firmò una delle “riforme” più importanti della storia repubblicana, anzi forse la più importante di tutte, la legge 833 del 23 dicembre 1978 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.
Oggi lo diamo quasi per scontato, pur tra uno scricchiolio e l’altro, e se lo ricordano oramai solo gli anziani, ma prima di soli 38 anni fa quel Servizio non esisteva. Chiamavamo “la mutua” quel po’ di assistenza precedente, e così abbiamo continuato a chiamarla per un bel po’ anche dopo il ’78. Era infatti un sistema “mutualistico”, nel quale diversi enti assicurativi coprivano le esigenze dei rispettivi settori lavorativi. Mancava dunque l’equità, e mancava soprattutto la copertura di coloro che non rientravano in tali settori, a iniziare dai disoccupati.
Se si pensa al nostro strampalato e giovane paese traboccante di storia e di storie eterogenee, si pensa all’epica di Garibaldi, alle scuole, alla radio e alla televisione che ci hanno coinvolto in una sola lingua ma, se è vero che “la salute è la prima cosa”, siamo diventati una comunità (se lo siamo diventati) solo in quell’anno. Prima eravamo una somma di corporazioni, lì abbiamo costruito un “sistema”. Non una panacea di tutti i mali, crisi e diseguaglianze, ma un approdo sanitario a disposizione di tutti è stato comunque creato.
Quell’approdo non è roba da poco, è stato un passo epocale anche in termini di qualità. A collocare il Servizio Sanitario italiano ai vertici mondiali non è qualche politico di turno ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questione di copertura della popolazione, e perfino di efficienza della spesa, come ha documentato anche di recente l’agenzia Bloomberg. Poi ci sono i problemi, le denunce e le sacrosante lamentele dei pazienti, i ticket, le discrepanze regionali, le nuove crisi, ma quell’“efficienza” rimane accertata, ed è un indicatore anche del sacrificio di molti che operano in ambito medico e farmaceutico. Molto si può e deve fare, incluso un maggior ricorso ai farmaci equivalenti, per quel che possono contribuire a estendere efficacemente la platea dei pazienti, ma la base c’è. Quella base ha un padre, anzi una madre, e si chiamava Tina Anselmi.
Un quesito che a volte si pongono i bimbi, e a volte non solo loro: “Ma perché se i medici sanno curare si ammalano anch'essi”? La domanda per la verità non è del tutto sciocca. Si tratta di esseri umani, e come tali non sempre “razzolano” all'altezza di quel “predicano”, magari seguendo abitudini private (quali fumo, alcol) non in linea con le norme di prevenzione sanitaria. Di più, il quesito si fa serissimo quando la causa del loro male è nel loro stesso lavoro.
Un approfondimento su questo arriva da un centro di ricerca dell’Università del Texas, pubblicato sul Journal of the American College of Surgeons, tramite un articolato questionario che ha coinvolto 220 chirurgi. Il dato più eclatante è che il 90% di loro avverte sintomi di problemi muscolo-scheletrici.
Meno di un terzo li attribuisce per la verità alla loro occupazione, ma l’ampiezza del dato rappresenta un segnale che gli stessi operatori sanitari dovrebbero prendere più sul serio, anche in sede di diagnosi. Sulla cura, comunque, “fanno i medici, cioè sono in molti poi a curarsi, oltre il 65%, e un terzo di questi ricorre addirittura a un intervento chirurgico.
Eppure, potrebbero fare di più anche in sede di prevenzione. Esistono ad esempio dei “tappetini anti-stanchezza”, raccomandati dalle stesse autorità sanitarie americane, e due medici su tre ha ammesso di averne beneficiato, con riferimento soprattutto agli stimoli agli arti inferiori sollecitati dagli interventi.
“Prevenzione” vuol dire però anche e soprattutto un’altra cosa, e cioè che gli operatori sanitari sono spesso costretti a turni massacranti. E questo non va bene, non solo per la loro salute, ma perfino per quella dei loro assistiti. Lo documentammo già su questa pagina, sulla base di un’estesa britannica sul lavoro degli infermieri. Riducendone il carico, ossia abbassando da 10 a 6 il numero medio dei pazienti per ogni operatore, portava a una riduzione del 20% della mortalità dei pazienti stessi. Lavorare troppo fa male, a tutti.
“La luce del mondo si accende dentro di voi quando digiunate e purificate voi stessi”, diceva il compianto Mahatma Gandhi. Insomma lo ammetteva esplicitamente, tanto da farne un tassello della propria filosofia: le sue reiterate, e prolungate, rinunce al cibo non erano solo un gesto politico di “disobbedienza civile”, ma anche un modo di purificarsi, a beneficio della propria anima quanto del proprio corpo. Al di là degli aspetti “filosofici”, c'è un sempre più solido riscontro scientifico che tale “purificazione” (entro certi limiti) faccia effettivamente bene, tanto da ispirare biologi e nutrizionisti a “brevettare” nuove “diete” che in qualche modo la simulano.
Uno dei nomi più noti è quello di uno studioso genovese di neppure 50 anni. Il professor Valter Longo studia e insegna alla Divisione di Biogerontologia dell'Università della Southern California. Si direbbe l'ennesimo caso di “cervello in fuga”, anche se il realtà la sua “fuga” negli Stati Uniti ebbe inizio prima ancora di iniziare l'università. Citatissimo nelle riviste scientifiche, intervistato spesso dai media d'oltreoceano, è entrato in qualche notorietà italiana grazie a un servizio televisivo de “Le Iene”, suscitato appunto dalla sua teorizzazione di una “dieta mima-digiuno”.
Non si tratta di un assoluto “digiuno”, ma dell'identificazione di un percorso alimentare rapido e capace di imitarne le virtù. Consiste nell'introduzione periodica (una volta a trimestre, più spesso per gli obesi, meno per chi fa attività sportiva continuativa) di un regime rigoroso per circa 5 giorni, che si limiti l’alimentazione a verdure, grassi “buoni” come l'olio d'oliva, cibi con Omega 3 (quali il pesce e i crostacei), lasciando invece da parte zuccheri, carboidrati e proteine animali (incluso il latte e derivati).
In base a sperimentazioni su animali, e all'esito parziale di test sugli uomini, tale “simulazione” si avvererebbe davvero, e cioè, ad esempio, quattro giorni di “dieta mima-digiuno” produrrebbero gli stessi effetti benefici di due giorni di digiuno totale.
L’elenco di tali benefici, alla luce anche delle ricerche più recenti, è piuttosto lungo, e la perdita di peso è forse quello meno rilevante. Gli altri sono la prevenzione del diabete, di malattie neurodegenerative come l'Alzheimer, perfino del cancro ai polmoni e alla pelle. Il digiuno periodico aiuterebbe infatti ad “attivare il sistema immunitario e a esporre le cellule tumorali a esso”, spiega Longo. Ancora, stimolerebbe la produzione di cellule staminali, antidoto all'invecchiamento. Niente male. Al di là dei dettagli della dieta e delle attese verifiche emerge comunque un messaggio importante: esistono meccanismi naturali per stimolare le nostre difese, e stanno anche nei cibi, nonché nella almeno periodica rinuncia ad alcuni di essi.
Non lo diciamo noi, “simpatizzanti” del generico. Lo dicono le più autorevoli agenzie indipendenti, con rapporti presentati anche in Parlamento, e con rilevanti prese di posizione in questi giorni: i medicinali equivalenti stanno salvando la Sanità italiana e la salute dei cittadini, in ragione della loro completa equivalenza sotto il profilo dei principi attivi nonché dell’efficacia e sicurezza terapeutica, il tutto accompagnato con costi ben più bassi; eppure esiste ancora nel nostro paese, ben più che negli altri Stati avanzati, un pesante freno dettato, per dirla in una parola, dalla “sottovalutazione”.
Lo ha documentato, tra gli altri, la Fondazione GIMBE col suo ultimo approfondimento che ha per specifico oggetto “Il sotto-utilizzo dei farmaci equivalenti in Italia”. Emergono vincoli normativi e operativi, ma soprattutto una variabile “culturale” che non ha più ragion d’essere, specie considerando che i migliori sistemi sanitari al mondo ne hanno fatto in questi anni ben più ampio ricorso.
Si nota infatti che i generici vengono utilizzati in Italia assai meno che altrove: per l’esattezza (dati 2013) rappresentano il 19% del mercato farmaceutico totale (mentre la media dei paesi Ocse è al 48%) e l’11% della spesa (la media Ocse è al 24%). Ancor più paradossale il dato rapportato ai farmaci a brevetto scaduto, ossia l’ambito d’elezione degli equivalenti: ebbene, anche qui costituiscono solo il 28% della spesa pubblica, proporzione che poi, altro paradosso apparente, si comprime ulteriormente non nelle regioni ricche, ma quelle del centro-sud, più bisognose di un sollievo finanziario.
E chi paga la differenza aggiuntiva rappresentata dall’inutile ricorso al medicinale “di marca”? I cittadini, naturalmente, con un esborso “out-of-the-pocket” di oltre un miliardo di euro nel solo 2015. E tra tante cifre e grafici emerge un ulteriore fatto paradossale sul danno del sotto-utilizzo per i pazienti e la collettività. Da un lato, in ragione della situazione di difficoltà economiche, si assiste a una “riduzione dei consumi di farmaci di classe C”, quelli non rimborsabili. Dall’altro, su quelli rimborsabili di classe A, “permane una resistenza ad abbandonare la marca, con ulteriore aumento dei costi”. Morale, coi generici si potrebbero risolvere ambedue i problemi, economico e terapeutico, e migliorare le terapie agevolando l’accesso ai medicinali innovativi.
L’effetto del sotto-utilizzo è anche quello di “aumentare le spese e ridurre l’aderenza terapeutica”, nota ancora il presidente della Fondazione Nino Cartabellotta. “E’ quanto sosteniamo da tempo - commenta lo stesso presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann - il sottoutilizzo dei farmaci equivalenti, determinato dalla diffidenza, nuoce alla collettività ovvero alla salute pubblica nel suo complesso”. Tempo di voltare pagina, dunque, da parte di operatori, medici prescrittori, farmacisti, e anche pazienti. C’è l’orizzonte di potersi curare spendendo meno, a identica efficacia terapeutica, e il fatto di non saperlo e di non attuarlo è un danno vero, per noi e per tutti.
È una “scoperta” che entra nel solco di molte altre. La dieta mediterranea detiene parecchie proprietà curative. E da uno studio italiano emerge ora in particolare che le nostre spezie, in primis il basilico e il prezzemolo, costituiscono veri e propri “anti-batterici naturali”. Lo si legge sulla rivista scientifica “Microbial Pathogenesis”, e scaturisce da una collaborazione tra l’Università di Pisa e due istituti tunisini, l’Università di Monastir e il Water Research and Technologies Center.
Sono state confrontate le proprietà antimicrobiche presenti negli oli essenziali delle due piante aromatiche, l’ocimum basilicum e il petroselinum crispum, rispetto a 41 agenti patogeni del genere “vibrio” isolati dall’acqua di mare o frutti di mare (crudi). Ebbene, entrambi (e il basilico con un pochino di efficacia in più) si sono rivelati capaci di inibire la crescita dei micro-organismi coltivati in vitro, e su 18 ceppi riuscivano inoltre a disgregarli.
Da precisare che l’esperimento è stato condotto tramite una specifica procedura per la produzione degli oli, sicché per riprodurne i medesimi effetti si tratterebbe si ripetere tale “protocollo colturale”. Detto questo, l’indicazione è piuttosto chiara e lampante, e va ad aggiungersi ad altri benefici accertati sulle due piante.
Il basilico è ricco di sostanze “utili”, quali fibre, proteine, zuccheri, minerali (quali calcio, ferro, fosforo, magnesio, manganese rame, potassio, sodio e zinco), e vitamine. Ed è un insieme che assicura proprietà digestive, antispasmodiche, carminative e antisettiche. Il prezzemolo risulta indicato come antidoto ai segni dell’invecchiamento e anche ad alcune forme tumorali, grazie in particolare alla forte presenza di flavonoidi. E’ inoltre ricco di carboidrati, proteine, fibre, zuccheri, vitamine e aminoacidi.
Si tratta di qualità e novità alle quali si aggiungono ulteriori segnali che premiano la dieta mediterranea. L’ultimo arriva da una ricerca portoghese discussa al 120mo congresso dell’American Academy of Ophthalmology. Riferisce delle virtù terapeutiche della dieta mediterranea per prevenire la degenerazione maculare, una patologia diffusa con l’avanzare dell’età, che porta a conseguenze fino alla cecità. Ebbene, dallo studio compiuto su quasi novecento partecipanti emerge che seguire quella dieta, e in particolare mangiare molta frutta, riduce di un terzo il rischio di ammalarvisi. L’ennesima conferma di quanto faccia bene il nostro cibo. E di quanto sia grave l'ultimo allarme lanciato dal Censis sul peggioramento dell'alimentazione degli italiani in ragione delle difficoltà economiche.
Ci sono ricerche “biologico-antropologiche” suggestive su popoli “indigeni”, e dotate di criterio scientifico, che però restano un po’ ai margini dell’attenzione. Perché sono basate su terre remote, il che un po’ ci piace ma un po’ ci sembra “lontano”, come se parlassimo di altre “specie umane”. Invece no, quel tipo di ricerche è interessante proprio perché si concentra su popoli ai margini delle molteplici variabili poste dalle civiltà complesse, sicché è più semplice isolare i singoli fattori. E’ il caso di una ricerca americana compiuta sui Maya, che ha trovato un nesso tra le modalità del parto e i successivi problemi di sovrappeso.
L’indagine, compiuta dagli scienziati dell’Università dell’Utah e pubblicata sulla rivista American Journal of Human Biology, è arrivata all’esito di riuscire a prevedere il peso del nascituro a 5 anni, in base non solo alla “stazza” della madre, ma anche alle modalità del parto.
Sono state esaminate 57 mamme in un villaggio, e i loro 108 bambini tra il 2007 e il 2014, e per la verità nessuno di essi ha raggiunto i livelli di “obesità” definiti dai parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Eppure, sostanziali differenze, di una media di almeno un chilo e mezzo (scarto rilevante quando si tratta di quell’età e di una quindicina di chili, nell’ordine quindi del 10% del peso totale) sono state riscontrate proprio in relazione al fatto che i bambini fossero nati da parto naturale o meno.
La ragione starebbe nel microbioma, un “batterio buono” dello stomaco, che sarebbe a sua volta esposto ai batteri del sistema immunitario della madre, la cui trasmissione sarebbe decisiva durante il parto, con un impatto per l’efficacia della flora intestinale e quindi dell’insieme del sistema metabolico. In assenza, si accrescerebbe l’esposizione al sovrappeso e alle patologie collegate (dal respiro ai problemi cardiovascolari).
Roba non da poco, che poi trova conferme in altre ricerche americane. Un altro studio, stavolta dell’Università di Harvard e compiuto negli Stati Uniti su oltre 15mila donne e figli seguiti per 16 anni, ha recentemente quantificato nel 15% la cifra del rischio aggiuntivo di obesità al seguito di un parto cesareo. Insomma, questo può essere un’autentica salvezza per molte donne e i loro bebè, ma la facilità con cui viene praticato in alcuni ospedali occidentali (perlopiù in quelli privati) non è priva di conseguenze deleterie per la salute. Il cui elenco ora si allunga, anzi si ingrassa, come ci insegnano i Maya.
Ci siamo ricordati della tubercolosi per qualche notizia di cronaca, anche un po’ travisata, tra il caso di una pediatra a Trieste e qualche polemica politica locale che ha preso di mira gli immigrati, senza alcun motivo. La realtà è che la patologia non ha mai del tutto abbandonato il nostro paese, con 350 decessi accertati solo nell'ultimo anno. Nel resto del mondo i numeri sono ancor più impressionanti, ma a far da contraltare agli allarmi stanno intervenendo novità importanti dalla ricerca medica.
La patologia è costituita da un'infezione prevalentemente polmonare causata da un batterio, chiamato Koch. Fa paura sia perché è trasmissibile piuttosto facilmente per via aerea – può bastare teoricamente uno starnuto – sia perché è assai letale. I tassi di guarigione sono ancora bassi a livello globale, solo il 52% supera la guarigione, percentuale che scende precipitosamente in compresenza di altre malattie, quali il virus dell'Hiv.
Il quadro dunque rimane piuttosto critico, tanto che a livello globale i decessi nel 2015 sono stati ben 1,8 milioni, sebbene la tendenza risulti in calo, con una discesa del 22% negli ultimi quindici anni, grazie al miglioramento complessivo delle strutture e dei trattamenti sanitari. In sede Onu, è stato poi fissato l'obiettivo di una riduzione dell'80% dei contagi e del 90% delle morti entro il 2030. A tal fine “servirebbero test diagnostici rapidi, farmaci e cure ai malati, ma gli sforzi fatti finora non sono sufficienti”, nota Mario Raviglione, direttore del programma apposito dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che come altri lamenta “risorse sufficienti” per vincere la battaglia.
Tuttavia è proprio dal settore farmacologico che si annunciano orizzonti promettenti. In particolare, sulla rivista americana Infection Diseases, è spuntato in due numeri diversi il resoconto di una ricerca internazionale che sembra foriera di soluzioni. Si tratta della scoperta di molecole che sembrano dotate di una potente azione anti-tubercolare che agisce alla fonte, ossia capaci di inibire un enzima, chiamato “Guab2”, coinvolto nella sintesi delle fondamenta nel Dna, causando la morte del batterio stesso.
La ricerca ha avuto come basi coordinative un centro di ricerca statunitense e un altro sudafricano, ma vi hanno partecipato anche accademie britanniche, svizzere, francesi, ungheresi, nonché l’Università del Piemonte Orientale. Oltre all’esito scientifico, di “sforzo multidisciplinare e culturale eccezionale” parla il coordinatore italiano, il biochimico Menico Rizzi. In effetti, si tratta di studi che hanno trovato il finanziamento congiunto delle autorità sanitarie americane ed europee. Il messaggio è che tra uno spauracchio e l’altro, anche della cronaca, insieme si può fare tantissimo se ci sono la volontà e le risorse, perfino debellare le patologie più letali.
Era solo un ricercatore trapiantato negli Stati Uniti, al californiano “City of Hope Comprehensive Cancer Center” e non aveva ancora neppure la cattedra il biologo tedesco Gerd Preifer. Ed è a lui che si riconosce il merito di una delle più epocali scoperte mediche dell'ultimo secolo. Esattamente vent'anni fa dimostrò inconfutabilmente, sulla rivista Science, i danni provocati dalle sigarette alle cellule polmonari, che ne fanno impennare i rischi tumorali.
La ricerca ha avuto l'indubbio effetto di modificare radicalmente le nostre percezioni sul fumo. Chi è cresciuto nelle generazioni precedenti sapeva poco o nulla della natura “suicida” del gesto, immortalato con ostentata eleganza nella storia cinematografica quanto nei comportamenti privati in luoghi e locali pubblici. Oggi tra norme e campagne non è più così, e perfino le case produttrici hanno dovuto aggiustare il tiro.
Insistono, anche nel loro ultimo consesso continentale a Bruxelles, a dire “ no all'eccesso di restrizioni, meglio lavorare per la riduzione del danno”, scaricando gli oneri sui servizi sanitari, ma quel danno non viene più negato. Ci hanno provato per anni, con tanto di ricerche “scientifiche” effettuate dietro compenso, orientate a smentire o almeno minimizzare l'impatto sulla salute. Alcuni produttori, specie in Europa, avevano per la verità rinunciato da tempo, preferendo un messaggio “comunicativo” opposto, del resto da molti giudicato ancor più efficace: “Sì, certo,fa davvero male, e ve lo diciamo, per darvi una consapevole libertà di scelta”. Oggi, comunque, lo ammettono quasi tutti.
Da quella presa di coscienza sono poi scaturite le tante “strette” normative che hanno indubbiamente alimentato un calo nei consumi. E tuttavia il quadro rimane allarmante, con particolare riferimento ai giovani e all'Italia. Uno studio del Centro Europeo per il Monitoraggio della Dipendenza dalle Droghe (Espad) sui 15-16nni nelle scuole di 35 paesi ha collocato il nostro al vertice, con la stima di ben il 37% di fumatori in tale fascia, contro il 21% della media continentale.
Il dato è doppiamente grave, per la giovane età e per il fatto che il modo senz'altro più efficace di tenere alla larga la sigaretta è quello di non iniziare. E quando invece si inizia oggi sappiamo, grazie a Preifer e altri, quanto faccia male. In Italia secondo il ministero della Salute il fumo è la principale causa di morte, provocando circa 80mila decessi l'anno. “In altri paesi come gli Stati Uniti, dove le campagne sono state più aggressiv e - nota Carmine Pinto, presidente dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica - il numero di fumatori si è ridotto molto di più”. Questione, ancora una volta, di buona informazione.
Ci sono i convegni, le cifre, i documenti e le ricerche che certificano l’assoluta equivalenza dei farmaci generici (acquistati in farmacia) rispetto alla “marca”, e il loro contributo alle tasche dei cittadini e alle casse pubbliche, consentendo di ampliare la platea dei pazienti ovvero la qualità delle cure. Ma quando tutto questo esce dai dialoghi tra addetti ai lavori e si spalanca all’incontro diretto ed esteso con i cittadini il significato e l’effetto sono ben più rilevanti
Chieti, l'8 ottobre, presso il Centro Commerciale Megalò, e poi piazza della Vittoria a Taranto il 14 ottobre, sono state le ultime tappe di “Io Equivalgo”, il tour italiano di Cittadinanzattiva a sostegno dei generici, che dallo scorso maggio ha toccato una dozzina di città di ogni latitudine. Un “villaggio” itinerante, tra incontri, prospetti informativi, volontari e operatori sanitari pronti a documentare la piena identità nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica, oltre agli aspetti di risparmio.
Questi sono stati quantificati all'ultima assemblea di Assogenerici nella cifra di 4 miliardi di euro negli ultimi quindici anni. “Se nel nostro Paese si è riusciti nel tempo a sostenere la spesa farmaceutica e a permettere l’adozione progressiva dell’innovazione lo si deve a questo ”, ha notato il presidente Enrique Häusermann. E tuttavia il risparmio potenziale per i cittadini potrebbe essere ben maggiore, a leggere le stime mensili del “Salvadanaio della Salute”, mentre tra resistenze e nodi amministrativi il settore, pur in crescita, rimane ancora al di sotto delle medie europee. Nei farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario, in particolare, la loro quota è rimasta ferma al 29% negli ultimi tre anni.
E' un ritardo da colmare, perché tanti italiani sono costretti a rinunciare alla terapia per il nodo dei prezzi. Il problema dell'aderenza terapeutica, ricorda il Segretario Generale di Cittadinanzattiva, “è anzitutto dovuto all'interruzione delle cure per difficoltà economiche”, fatto eticamente inaccettabile.
E' un lieto fine quello della campagna, che però reclama un concreto seguito nei fatti. E sono in fondo quasi tutti a invocarlo, a leggere i nomi delle entità che si sono schierate a sostegno del tour dell'associazione: Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), le principali sigle sindacali, gli ordini professionali di medici, infermieri, farmacisti. “Promuovere anche negli ospedali l'utilizzo dei medicinali generici”, aveva già auspicato a inizio anno il presidente dell'Aifa Mario Melazzini, ora nominato anche Direttore Generale, con i complimenti di tutti quelli che hanno a cuore la salute.
Nella “società dell'immagine” il nodo dell'obesità, e più in generale del sovrappeso, è un fenomeno ampiamente notato e temuto nell'alveo dell'“estetica”. Il che fa erroneamente passare in secondo piano un aspetto ben più rilevante. I chili di troppo sono anzitutto un problema di salute, come ben sa ogni medico e fisioterapista, ed è un problema che coinvolge in misura allarmante una proporzione crescente della popolazione nazionale e mondiale.
Lo si è ricordato all'“Obesity Day” dello scorso 11 ottobre, che avrà del resto il seguito di una serie di approfondimenti e iniziative nell'ambito della “Settimana” prevista all'inizio del mese prossimo. E' stata l'occasione per fare il punto sulla situazione, ed è un punto assai critico.
Gli obesi sono circa 600 milioni, e quasi due miliardi le persone in sovrappeso, ossia oltre il 40% della popolazione mondiale, secondo le stime diffuse dalla Fao. Il problema coinvolge soprattutto i minorenni, e in particolare quelli che vivono nei paesi in via di sviluppo, dove alla crescita urbana e industriale si accompagnano livelli incrementati di sedentarietà. E non va meglio in Italia, dove oltre il 46% degli adulti è in sovrappeso, e più del 10% addirittura obeso, con ritmi di crescita impressionanti, al 3% annuo dal 2001. Notevoli, anche qui, le discrepanze a livello territoriale, con numeri chiaramente superiori nelle regioni meridionali.
Concomitanza significativa, nelle stesse regioni si rilevano le quote più basse di persone che praticano sport in modo continuativo. “ L’attività fisica è il principale fattore in grado di influenzare positivamente la nostra salute”, sottolinea Giuseppe Fatati, presidente dell'Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (Adi). E di “salute” si tratta, perché il sovrappeso viene considerato da molti nell'alveo della “malattia cronica”, con pesanti conseguenze, tra rischi aumentati di difficoltà respiratorie, fratture, ipertensione, resistenza all'insulina, malattie cardiovascolari, oltre naturalmente a disagi psicologici.
Tra un allarme e l'altro, da prendere assai sul serio, spunta peraltro qualche buona notizia nel nostro paese. Coldiretti documenta infatti un'inversione di tendenza dal 2015 nei consumi di frutta e ferdura degli italiani. Un “ritorno alla dieta mediterranea”, che coinvolge anche aumenti per quanto riguarda il pesce e l'olio d'oliva, con quel che tutto ciò consegue per la longevità, ovvero per una migliore prevenzione dai malanni.
In Canada hanno fatto uno studio sui topolini, in apparenza non di rilevanza scientifica mondiale, che invece farà scatenare sociologi, psicologi ed etologi (gli studiosi del comportamento animale), oltre che la ricerca medica. E’ un approfondimento sulla “solitudine” e i suoi effetti psico-fisici. L’esito riscontrato è quello di una differenza sostanziale di genere. Dato forse ulteriormente sorprendente, sarebbero le donne, e non gli uomini, ad aver un bisogno superiore di “socialità” a tutela del proprio benessere.
L’indagine è dell’Università di Calgary, la pubblicazione è sulla popolare rivista scientifica eLife. Gli animali sono stati analizzati sia in gruppi dello stesso sesso, sia in coppie, sia isolati del tutto per un periodo di 16-18 ore. Quindi sono stati esaminate le dinamiche delle cellule cerebrali che controllano il rilascio dei cosiddetti ormoni dello stress.
Il risultato è che appunto le femmine sono risultate più “stressate” dei maschi nella situazione solitaria. "Isolare i topi femmine per meno di un giorno ha portato al rilascio di una sostanza chimica chiamata corticosterone, prodotta in risposta a situazioni di stress ”, spiegano, con quel che consegue per la vulterabilità ad altre patologie. Concomitanza interessante, non sono state riscontrate invece differenze tra i sessi per quel che riguarda la risposta allo “stress fisico”: dopo una nuotata di venti minuti la loro reazione è risultata identica.
“Molte specie utilizzano l'interazione sociale per ridurre gli effetti dello stress, e questo riguarda anche il genere maschile”, si precisa. Ma la differenza è rilevante, e “ potrebbe significare che le reti sociali sono più importanti per le donne, e che le giovani in particolar modo sono più sensibili all'isolamento sociale rispetto agli uomini ”.
La “tradizione” dell'uscita “tra maschi” al pub o per una partita di calcetto nasconde dunque un'altra verità, ossia il fatto che le donne hanno la medesima esigenza, anzi ne abbisognano in modo ancor più netto, e non solo per il proprio “stato d'animo”, ma anche per la propria salute. Nel 1986, la “Carta di Ottawa”, redatta nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, sanciva che “ la salute è creata e vissuta dalle persone all'interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama ”. Questione sociale, dunque, non solo di batteri e virus.
Ci sono diabetici e diabetici. Alcuni sono curati bene, altri nient’affatto. E se la differenza si produce nello stesso Paese, a seconda della latitudine, il fatto assume una valenza “inaccettabile”, nelle parole di Albino Bottazzo, presidente della Fand, estesa associazione italiana dedicata ai diabetici, promotrice di un incontro nazionale in questi giorni a Roma il cui titolo è già un atto d’accusa: “Diabete: no a discriminazioni fra malati”.
Si tratta della patologia cronica più diffusa in Italia, con oltre tre milioni di persone affette. Solo che la loro assistenza è un’entità variabile in base al luogo in cui risiedono, in base non solo alla qualità sanitaria complessiva delle strutture regionali, ma perfino della loro normativa di riferimento.
C’è una legge nazionale, la 115 dell’87, che garantisce il diritto, e quindi la gratuità dei dispositivi per l’autocontrollo glicemico (i cosiddetti “stick”), fondamentali alla prevenzione nonché a un minor ricorso agli ospedali. Ne è seguita però una babele di delibere regionali, allargata poi nel 2001 dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, e rilevata anche da un'indagine conoscitiva del Senato nel 2012, oltre che dall'Istat.
L’esito paradossale è che variano le leggi, a dispetto di quella che dovrebbe essere la “variabilità utile”, ossia la possibilità di utilizzare il dispositivo più adatto alla situazione specifica paziente. Alcune regioni garantiscono la possibilità di sceglierlo, con l’ausilio del medico, solo per i pazienti di tipo 1, e non per quelli di tipo 2, che rappresentano circa il 90% dei casi accertati. In tali aree, il tutto è demandato a gare d’acquisto centralizzate e non al parere degli specialisti in relazione all’appropriatezza dei singoli casi. “ Dovrebbe spettare a loro scegliere e prescrivere il presidio più adeguato sulla base delle caratteristiche cliniche, psico-attitudinali e sociali ”, protesta Bottazzo.
Questione di equità nel trattamento sanitario, esigenza etica e perfino costituzionale. Ma il nodo è anche nei costi. “Centralizzare” lo strumento terapeutico non fa risparmiare, fa spendere di più. La ragione è semplice, il 4% dei costi sostenuti dai Servizi sanitari regionali per il diabete va nei dispositivi (dal controllo glicemico ai microinfusori e siringhe), mentre il 50% è dovuto ai ricoveri per complicanze spesso evitabili. In altre parole, prevenire poco e curare male non fa risparmiare nessuno, né i singoli né la collettività, anzi moltiplica gli oneri. Questo vale per il diabete, e in fondo per tutto il resto.