La scienza medica avanza, ma avanza anche il rischio di ammalarsi. Secondo le proiezioni della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori (Lilt), solo l’anno scorso sono morti di tale patologia 1,3 milioni di europei, ed entro il 2025 i pazienti oncologici in Europa saranno oltre 20 milioni. Eppure, nell’obiettivo fissato dalla stessa Lilt, nell’ambito dell’appena celebrata Settimana Nazionale per la Prevenzione Oncologica, si punta a “ridurre l’incidenza dei tumori del 15% entro quella data, ovvero - nota il presidente Francesco Schittulli - nell’arco di soli otto anni”.
Come si fa? Arrivandoci prima. L’arma principale nella lotta al cancro rimane, infatti, quella della prevenzione. E in tal senso si spiega anche la scelta dei due testimonial d’eccezione, che hanno prestato la loro immagine all’ultimo evento: il signore del calcio, il 40enne Francesco Totti, e il re degli chef, Massimo Bottura, fresco del riconoscimento ottenuto dal suo ristorante modenese a New York, classificato come il migliore al mondo.
Totti e Bottura non sono solo “personaggi famosi” e per giunta con un bel curriculum di iniziative benefiche pregresse. Sono anzitutto “fuoriclasse della prevenzione”, incarnandone i due capisaldi: l’attività fisica e la qualità alimentare. Il loro mancato rispetto sta conducendo al dilagare dell’obesità. Nel 2030 in Italia, secondo le stime presentate dalla Lilt, sarà obeso un quinto della popolazione maschile e il 15% di quella femminile. E non va meglio per i bambini, già affetti da obesità per il 14%, percentuali che tendono ad alzarsi ulteriormente nelle Regioni del centro-sud.
E “purtroppo un bambino obeso sarà un adulto malato”, avverte Schittulli: basti pensare che oltre un terzo dei tumori è causato da una scorretta alimentazione. E’ qui, oltre che nella lotta alla sedentarietà, il cuore della sfida della prevenzione, naturalmente in aggiunta alla guerra al consumo eccessivo di alcol e al fumo, prima causa di morte per tumore.
Oltre che dai volti di Totti e Bottura, la Settimana è stata peraltro animata da circa 20mila volontari, nonché dai professionisti prestatisi per fornire informazioni e visite gratuite nei 400 centri di prevenzione allestiti in tutta Italia e nelle sedi provinciali della Lilt. L’associazione ha così tra l’altro festeggiato i suoi 95 anni di onorata carriera, tra attività di sensibilizzazione, messa in rete delle strutture oncologiche e informazioni scientifiche indirizzate ai pazienti.
“L’economia italiana in difficoltà ha la popolazione più sana al mondo”: l’agenzia statunitense Bloomberg, specializzata sui temi economici, ha titolato così l’esito di una sua classifica globale sulla salute dalla quale emerge che a trionfare è proprio il nostro Paese, ancora alla faticosa ricerca dell’uscita dalla più grave crisi del dopoguerra.
La stessa Bloomberg aveva del resto già promosso il nostro Servizio sanitario ai primi posti nella classifica dell’”efficienza”, incrociando i dati sull’aspettativa di vita con quelli relativi ai livelli di spesa, sottolineando l’ampiezza della copertura sanitaria ma anche la scarsità dei fondi dedicati al settore rispetto ad altri Paesi avanzati.
In questo caso, oltre a collocarci al vertice assoluto, l’indagine si restringe al dato secco su come realmente stiamo, valutando la longevità e l’incidenza di varie patologie. Dietro di noi, Islanda, Svizzera, Singapore, molto più indietro americani e inglesi. Paesi e popolazioni, cioè, con una situazione economica più favorevole ma con più alti livelli di colesterolo e pressione sanguigna, e anche molto più colpiti da disturbi psichiatrici.
Il segreto? “Anzitutto la dieta mediterranea”, afferma Bloomberg, citando la ricchezza di prodotti freschi, verdura, frutta, pesce, “grassi sani” come l’olio extravergine di oliva. Poi l’ampia presenza di medici: perfino “troppi”, argomenta l’analisi. E a rallegrarsi è anche Beatrice Lorenzin. “I segreti della longevità italiana sono la dieta, gli stili di vita, all’aria aperta, un Servizio Sanitario pubblico e universalistico”, rivendica il ministro della Salute, parlando di “obiettivi da consolidare e non dare per scontati”.
Oltre a non essere scontati, alcuni dissentono che siano stati davvero raggiunti. Sulle “classifiche della Felicità” - celebrata il 20 marzo in sede Onu - che tengono conto di variabili sanitario-depressive, l’Italia resta indietro, anche in ambito europeo. Lo stesso emerge dall’“Euro Health Consumer Index”, che valuta i livelli di soddisfazione dei cittadini sull'assistenza sanitaria, in Italia piuttosto basso. Dati che, incrociati, confermano un Paese in difficoltà e non certo pago delle tutele esistenti ma che nel complesso resiste e mantiene un buono stato di salute.
L'allarme c'è, ed è multiplo, con dati e moniti che arrivano dal governo italiano, dall'Unicef e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il morbillo, mai del tutto debellato, sta rialzando la testa. E' una tendenza già rilevata negli ultimi anni nel nostro paese, ma che ora sta palesando un'accelerazione, con particolare riferimento a Lazio, Toscana, Lombardia e Piemonte.
Solo dall'inizio di quest'anno sono stati rilevati dal Ministero della Salute oltre 700 nuovi casi, mentre in tutto il 2016 erano stati 844, il che si traduce in un incremento tendenziale di oltre il 230%. Al contempo non ci sono misteri sulla “diagnosi” del fenomeno, che gli addetti ai lavori attribuiscono al calo di vaccinazioni, a sua volta dovuto alle scelte di alcune famiglie, vittime di qualche disinformazione sulle loro presunte controindicazioni. Controindicazioni che – spiegano i medici – non sussistono, e, anche laddove si levassero elementi di dubbio, sarebbero infinitamente meno gravi rispetto all'insorgere della patologia stessa.
“Nel 2015 la copertura vaccinale contro il morbillo nei bambini a 24 mesi è stata dell’85,3%, lontana dal 95% che è il valore-soglia ritenuto necessario ad arrestare la circolazione del virus nella popolazione”, lamenta lo stesso ministro Beatrice Lorenzin, esortando gli operatori sanitari, a iniziare dai medici di base e dai pediatri, al lavoro di sensibilizzazione.
Il tema è globale, ma l'Italia, tra i Paesi avanzati, sembra particolarmente a rischio, dati alla mano, tanto da ricevere qualche bacchettata perfino dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. In base alle statistiche europee (sul 2013), siamo addirittura al secondo posto nel Vecchio Continente per numero di contagi, superati solo dalla Romania. E che il nodo sia anzitutto sulle vaccinazioni è documentato perfino dai dati positivi: secondo l'Unicef la mortalità da morbillo nel mondo è diminuita del 78% tra il 2000 al 2012, proprio per l'estensione dei vaccini anche nei Paesi meno abbienti.
Eppure, nel pianeta si continua a morire di questa patologia, con oltre 130mila decessi l'anno. “Il morbillo non è un banale raffreddore – ricorda Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia - e nei bambini più piccoli e con difese immunitarie più fragili può avere complicanze letali”. E a questo si incrocia il fatto, ricordato dal Cnr, che esso ha “un tasso di contagiosità quattro volte più elevato di quello dell’influenza”. Insomma il problema c'è, e c'è anche la soluzione: quella di andare avanti, anziché tornare indietro.
Anche nel contesto dell’ultimo otto marzo ricordammo come la “medicina di genere” non sia più un’istanza ideologica ma un’esigenza accertata dalla scienza e oramai riconosciuta dagli stessi decisori, richiedendo un’attenzione specifica alle peculiari esigenze biologiche femminili, mentre la terapia, sin dalla ricerca sperimentale, è ancora largamente effettuata al maschile. A tutto questo si aggiunge un dato ulteriore, ossia che ci sono diverse malattie che tendono selettivamente a colpire in modo grave perlopiù le donne stesse.
Ebbene, l’elenco di tali patologie ora si allunga, includendo il diabete di tipo 2. Lo ha ricordato la stessa Società Italiana di Diabetologia (Sid), a recente Congresso a Riccione, invocando un salto nell’attenzione terapeutica per l’universo femminile, del resto in linea con l’International Diabetes Federation che ha deciso di dedicare la sua prossima “Giornata” (a novembre) proprio alle diabetiche.
La differenza non sta nell’incidenza della patologia, sostanzialmente alla pari tra i sessi, ma sulle sue conseguenze. “Quasi tutti i rischi legati alla malattia nelle donne sono più alti del 30 per cento o anche raddoppiati”, fa sapere Giorgio Sesti, presidente della Sid, in riferimento, tra l’altro, alle malattie cardiovascolari. Per l’ictus, ad esempio, è stato documentato che il rischio sale del 27% tra le diabetiche rispetto ai pazienti maschi. E per gli infarti si arriva al triplo.
Ad aggravare il quadro c’è il fatto che si tratta di una differenza “non percepita dai medici né tanto meno dalle pazienti”. “Poche mammografie e pap-test, sebbene la malattia esponga ad un rischio doppio di tumori”, nota ad esempio il presidente della Fondazione Diabete Ricerca Enzo Bonora. “Le donne spesso non riconoscono i sintomi dell'infarto, che in loro sono diversi – spiega Giovannella Baggio, docente di Medicina di genere all'Università di Padova - hanno meno dolore e invece provano magari forte ansia e mancanza di respiro”, esponendosi così a maggiori rischi di morte.
Questo tuttavia non significa che si curino di meno degli uomini. I dati e le tendenze discusse al Congresso, tra consumi farmacologici e aderenza terapeutica, non sembrano affatto dimostrare tale discrepanza. Il problema, evidentemente, è anzitutto altrove. Gli stessi medicinali non raggiungono per le donne gli stessi obiettivi, nella fattispecie su emoglobina glicata e glicemia. “Sono fatte diversamente”, sul piano ormonale e molto altro. Ed è tempo di tenerne davvero conto.
“Un’epidemia silenziosa”, la definisce l’editorialista di Repubblica Concita De Gregorio, ammettendo peraltro la colpa dei media stessi di aver (di nuovo) trascurato la ricorrenza, lo scorso 15 marzo, dedicata a una delle piaghe più drammatiche e dilaganti del disagio psicologico e sanitario giovanile (e non solo), quello dei disturbi alimentari. Colpiscono, si stima, tre milioni di italiani, quasi tutti giovani, e in larghissima parte, per oltre il 95%, donne.
Per questo è stata lanciata una campagna fa leva su un sito informativo curato da una rete associativa, con patrocini governativi, ma ancora in attesa di riconoscimento ufficiale della “Giornata” dedicata nei giorni scorsi al tema. Insomma manca un’attenzione diffusa al fenomeno, alla sua portata quanto alla necessità di attenzione. Esiste comunque un “numero verde”, l’800180969, attivato nell’ambito della stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri.
“La patologia non riguarda più solo gli adolescenti, ma va a colpire anche bambini in età prepubere, con conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente”, spiega la Direttrice del servizio Laura Dalla Regione, specificando che i disturbi possano oramai iniziare sin dalla tenerissima età di otto anni. Questo per i disturbi più diffusi come l’anoressia o la bulimia, ma ce ne sono altri che possono incombere addirittura prima. E’ il caso del cosiddetto “Arfid”, ossia disturbo dell’alimentazione restrittivo, che colpisce già dai due anni, e consiste nell’eccessiva selettività alimentare del piccolo, il quale accetta solo cibi di una certa consistenza o colore. Si tratta di una forma “lieve”, che però, proprio per la tenera età su cui incombe, se non trattata adeguatamente può incidere sulla crescita, sulla salute e sulla socialità.
Sul più pericoloso dei disturbi, l’anoressia nervosa, i numeri sono tutt’altro che esigui, con almeno 8 nuovi casi l’anno su 100mila persone tra le ragazze, mentre per i maschi si scende intorno all’1, e per la bulimia la proporzione femminile sale sui 12 per 100mila. Globalmente, si stima che le forme più gravi di tali disturbi colpiscano oltre l’1% delle donne. Una piaga estesissima, dunque, che fa impennare fino a dieci volte il rischio di morte.
Si tratta per giunta di un settore che necessiterebbe più che mai di un approccio “integrato”, capace di incrociare le competenze di medici, psicologi e dietisti. Le strutture dedicate in Italia sono ancora relativamente poche, anche se qualcosa si è mosso negli ultimi anni. Dal 2008 il Ministero della Salute ha lanciato una mappatura, aggiornata sulla medesima pagina consacrata alla citata “Giornata del Fiocchetto Lilla”. E, come spesso accade, l’indagine stessa è foriera di un salto in avanti nella consapevolezza dei cittadini e addetti ai lavori. Sul concetto che quelle ragazze non possono essere lasciate sole.
L’annuncio ha il sapore di una svolta epocale, e arriva dall’Italia. Si apre la possibilità di restituire la vista a tante persone che l’hanno perduta a causa della degenerazione dei fotorecettori della retina, una delle principali cause di cecità tra gli adulti, finora largamente senza rimedio. La soluzione prospettata rileva dalla creazione in vitro di una retina completamente organica.
La scoperta è descritta sulla prestigiosa “Nature Materials”, ed è firmata dal Centro di Neuroscienze Sinaptiche (Nsyn) dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (Iit), in collaborazione con altri centri di ricerca del nostro paese. La composita équipe connazionale ha concepito un dispositivo biocompatibile capace di rimettere in moto le funzioni visive convertendo gli stimoli luminosi in segnali elettrici per il cervello.
Il nodo era dunque duplice, quello della compatibilità con i tessuti biologici, e quello della capacità di captare la luce connettendola al cervello. A quanto pare, gli studiosi italiani ci sono riusciti, sopperendo all’assenza di fotorecettori funzionanti nell’occhio. Dalla sperimentazione su animali ciechi è emerso il ripristino dell’attività visiva con una persistenza che raggiungeva i dieci mesi dall’impianto. Inoltre, la “retina organica” si è rivelata capace di potenziare l’attività complessiva dell’occhio, incrementando l’attività metabolica della corteccia, e tutto questo senza palesare alcun effetto avverso.
Il dispositivo elaborato è tecnicamente un “semiconduttore fotovoltaico organico”, denominato “rr-P3HT”. “Rispetto ai modelli di retina artificiale ora disponibili basati sulla tecnica del silicio, il nostro prototipo presenta vantaggi quali la spiccata tollerabilità, la lunga durata e totale autonomia di funzionamento, senza avere la necessità di una sorgente esterna di energia”, spiega il coordinatore del Centro Nsyn-Iit Fabio Benfanti.
Una durata definita “lunga”, ma non per ora definitiva, dunque. E tuttavia si tratta di un esito importantissimo, apparentemente foriero di ulteriori, specie per la natura biocompatibile del dispositivo. Tale passo scientifico, seppur parziale, potrebbe inoltre trovare applicazione concreta nel breve periodo. Ci sono già le date, negli auspici degli scienziati: la sperimentazione umana da compiersi nella seconda metà di quest’anno, i suoi esiti già all’inizio del prossimo.
I tumori globalmente sono ancora dati in aumento, ma ancor di più aumentano le possibilità di vincerli. Grazie ai progressi scientifici, ma grazie anche a una crescente sensibilizzazione sull’imperativo di una diagnosi precoce, essenziale per l’efficacia delle cure. E se dunque i progressi intervengono a facilitare la diagnosi stessa, assumono un’importanza decisiva. Un passo in tal senso viene annunciato dagli Stati Uniti, seppure ancora non ancora di immediata applicazione clinica.
Lo si legge sulla rivista Nature Genetics. Gli scienziati dell’Università della California-San Diego riferiscono di aver messo a punto delle nuove “biopsie liquide”, capaci di rilevare non solo la presenza di tracce di cellule tumorali, ma anche - e qui starebbe la principale novità - di “localizzarle”, con buona precisione, indicando la parte del corpo colpita.
“La scoperta è arrivata per caso – spiegano – mentre cercavamo segnali tumorali con l’approccio convenzionale, ma così facendo abbiamo captato anche quelli di altre cellule”. La chiave di volta sta infatti nella loro interazione. Lo sviluppo di una neoplasia induce a un conflitto tra le cellule malate e quelle sane, e queste ultime, morendo, rilasciano il loro DNA nel sangue. Morale, “se integriamo entrambe le serie di segnali possiamo determinare la presenza di un tumore e il posto in cui sta crescendo”.
Tecnicamente, gli scienziati hanno dunque incrociato i dati di “modificazione epigenetica” del DNA di diversi tessuti sani (fegato, intestino, colon, polmone, cervello, rene, pancreas, milza, stomaco e sangue) con i campioni di sangue di pazienti oncologici, alfine di costruire altrettanti marcatori capaci di evidenziare i vari tipi di tumore.
E così, si spalanca la possibilità di sostituire le tecniche diagnostiche tradizionali, incluse quelle più invasive, quali l’asportazione di tessuti, con una semplice analisi del sangue. Si tratta comunque di uno scenario futuro, in quanto la metodica richiede approfondimenti e perfezionamenti prima del suo uso clinico. La strada, a detta degli scienziati, è comunque tracciata. Per il momento, dicono, “abbiamo dimostrato il concetto”.
Se ne può discutere, fuori da ogni retorica, e se n’è discusso parecchio, tanto che non mancano le donne che dissentivano. Ma che l’8 marzo scorso sia stata una giornata “di lotta” più che “di festa”, sulla scia del movimento globale “Ni una menos” e degli scioperi messi in atto anche in Italia (e anche nella Sanità), è un fatto reale e consegnato alla storia, che per giunta ha collocato i temi della salute in prima linea. Le donne “sono fatte diversamente”, hanno esigenze specifiche di cura, mentre la ricerca, sin dalle sperimentazioni, è ancora largamente centrata sulla biologia maschile. Non va bene, tanto che l’istanza di una “medicina di genere” – qui più volte trattata – non ha più nulla di “ideologico”, bensì è oramai una conclamata priorità perfino in sede istituzionale.
“Quando andai in Europa la prima volta per parlare di medicina di genere, mi dissero che costava troppo. Invece bisogna riconoscere che questo non è un fattore politico ma scientifico. Un tema italiano che abbiamo portato al semestre europeo e ora porteremo al prossimo G7 dei ministri della Salute in programma a Milano a novembre”, ha detto Beatrice Lorenzin, rivendicando inoltre “l’inserimento dell’endometriosi nei Livelli Essenziali di Assistenza, che in Italia colpisce 300mila donne”. Ministra che, a margine, ha celebrato la giornata rendendo omaggio, tra le altre, ai familiari di una compianta predecessora, Tina Anselmi, “madre” di una delle più importanti riforme della storia repubblicana italiana, quella che appunto istituì nel ’78 il Servizio Sanitario Nazionale.
E c’è un altro aspetto ricordato dalla stessa Ministra della Salute: le donne vivono di più – con uno scarto peraltro ridotto in tempi recenti, fatto di per sé eloquente - ma questo significa anche che soffrono di più, hanno bisogno di essere curate di più, e non di meno. Il che ha ricadute anche sui farmaci. “Ne usano il 10% in più rispetto agli uomini”, documenta la presidente del Comitato Prezzi e Rimborsi dell’Agenzia Italiana del Farmaco Paola Testori Coggi.
Ulteriore e sinistra concomitanza, guadagnano mediamente meno dei maschi. “Spesso non si curano perché non possono permetterselo”, ricorda allora Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), tema che rilancia l’urgenza del ricorso ai farmaci generici, meno costosi a parità di efficacia e sicurezza terapeutica. Lo stesso Onda ha lanciato il progetto dei “bollini rosa”, per premiare le strutture che praticano realmente la sanità di genere, ottenendo già il patrocinio di 20 società scientifiche e la costruzione di una rete di 248 ospedali nazionali.
E poi ci sono le campagne “social”, i convegni, gli appelli. Ma tra le tante parole di una celebrazione conclusa, c’è da ricordarsi che l’importanza sta naturalmente nei fatti. E che, passato l’8 marzo, è in arrivo un’altra ricorrenza di rilievo, il 22 aprile, consacrata dal Ministero della Salute proprio alla Salute della Donna, non a caso fissata nella data di nascita di una grande scienziata, Rita Levi Montalcini. “Il divario da colmare è ancora profondo”, ammise nella Giornata dell’anno scorso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
C’è una letteratura, fatta di libri, racconti, vissuti personali, che esalta un fenomeno apparentemente nuovo, almeno nella storia contemporanea. Si tratta della tendenza ad una maggiore presenza dei papà dopo (oltreché durante) la gravidanza: sempre più giovani genitori sono pronti ad alleviare alleviare le fatiche della madre e a contribuire all’accudimento del neonato. Tutto vero, bello, tenero ed encomiabile. Ma sulla strada della parità nel post-nascita ci sono ancora tanti ostacoli… Il primo tra tutti: a perdere il sonno è ancora sempre e solo la madre.
Lo rivela uno studio di larga scala, effettuato dalla Georgia Southern University (e presentato al 69mo congresso dell'American Academy della Neurology) su oltre 5.800 adulti fino ai 45 anni, per i quali è stato considerato come durata ottimale del sonno un periodo compreso tra le sette e le nove ore, definendo “strutturalmente” insufficiente un sonno inferiore alle sei ore.
Numerose le variabili utilizzate: reddito, occupazione etnia, ampiezza del nucleo famigliare, problemi respiratori e altro. Ma a risultare davvero rilevanti sul piano statistico sono stati la presenza di un nascituro e il sesso del genitore. Tra le donne con un figlio piccolo è emersa un’esposizione al sonno insufficiente superiore del 50% rispetto al resto della popolazione femminile compresa nel campione. E per gli uomini? Tutta un’altra musica: le differenze registrate in conseguenza della presenza o meno di figli sono rimaste vicine allo zero.
E il fatto che l’emergenza “sonno-neonato” è normalmente destinata a risolversi nei primi anni di vita, consentendo anche alle mamme di provare a “recuperare”, non deve far perdere di vista l’obiettivo di una buona dormita come indispensabile contributo al mantenimento dello stato di benessere.
Il sonno, ovviamente, non ha regole fisse, e varia in base alle esigenze fisiologiche di ciascuno e in rapporto all’età. Secondo le tabelle delle autorità americane, ad esempio, le esigenze di riposo progressivamente diminuiscono col passare degli anni. Si va dalle oltre 15 ore nei primi tre mesi alle 13 fino ai due anni, per poi diminuire gradualmente alle 10 ore fino alla prima adolescenza, a 9 ore fino ai diciott’anni, a 8 ore tra gli adulti e 7 tra gli anziani.
Cifre indicative da declinare secondo le esigenze psico-fisiche di ciascuno. Qualunque sia il parametro personale, comunque, è importante averne rispetto. La carenza di sonno conduce a rischi di diabete, obesità, patologie cardiovascolari e depressione. Rischi dai quali i neo-papà si tengono, inconsapevolmente, ben al riparo.
C’è una buona notizia, anche se un po’ meno buona di quanto viene per lo più titolato e tradotto, anche dalle agenzie italiane. La news è che esiste un trattamento immunoterapico contro le varie forme di rinite allergica, inclusa la cosiddetta “febbre da fieno”, e che, all’evidenza, fornisce esiti davvero incoraggianti. Il problema è che per ottenere questi risultati bisogna prolungare la terapia più di quanto si presumeva finora.
E’ quanto emerge da una ricerca realizzata dagli studiosi dall’Imperial College di Londra e pubblicata sulla rivista internazionale Jama. Lo studio ha coinvolto un centinaio di volontari, affetti da rinite, seguiti per diversi anni nel centro specialistico dell’ospedale Royal Brompton: una parte di essi è stata trattata con il prodotto in sperimentazione e una parte soltanto con un placebo.
L'esito è stato inizialmente deludente: la somministrazione, prolungata fino a due anni, conduceva sì a un effettivo sollievo, ma solo per un breve periodo. Ad un anno di distanza dalla sospensione della terapia gli effetti sembravano svanire del tutto. Si è visto però anche che prolungando il trattamento fino alla soglia di tre anni – del resto già suggerita da alcune agenzie internazionali – si ottengono risultati duraturi, che si protraggono per molti anni. L’esito dell'indagine – riferita specificatamente alla rinite allergica – sembra indirettamente ribadire il concetto generale dell'importanza dell'aderenza terapeutica. Abbandonare le cure prima del tempo prescritto perché ci si sente nel presente un po' meglio è una scelta deleteria, che ne inficia l'efficacia nel medio e lungo periodo.
“La nostra Costituzione stabilisce all'articolo 32 la tutela della salute come fondamentale diritto di ogni persona e come interesse dell'intera collettività […], un diritto pieno, non comprimibile, che attiene alla dignità e alla libertà di ciascuno, tanto che quello stesso articolo prevede la garanzia delle cure per coloro che si trovano in condizione di indigenza […] La sfida delle patologie meno conosciute, e delle risorse pubbliche limitate, non può esimerci dal ricercare, sempre, il pieno adempimento del dettato costituzionale”.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non poteva oggettivamente trovare parole migliori di quelle utilizzate della nostra Carta Costituzionale per sottolineare gli altissimi impegni in essa sanciti in tema di tutela della salute. E lo ha fatto parlando al Quirinale in occasione della giornata mondiale delle malattie rare, celebrata il 28 febbraio, quando rilanciato la sfida di tutte le sfide per tutti i sistemi sanitari mondiali, compreso il nostro Ssn: "Nessun malato, ovunque ma particolarmente nella nostra Repubblica, deve sentirsi invisibile o dimenticato".
Malati “rari”, non “invisibili”, insomma. Anche perché quell’aggettivo - “rare” - rischia di essere fuorviante. Per convenzione è definita tale una patologia che colpisce fino a cinque individui ogni diecimila. Ma, considerando che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tali patologie sono almeno seimila (senza contare quelle ancora non identificate dalla scienza), il dato aggregato sulle persone colpite è invece altissimo: se ne stimano 670mila solo in Italia.
Non mancano per la verità le buone notizie. Di recente l’Onu ha incluso a pieno titolo le malattie rare tra i diciassette principali “Obiettivi di sviluppo sostenibile” e il recentissimo decreto di aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza riconosciuti dal Servizio Sanitario Nazionale ha aggiunto ala lista 110 nuove patologie rare che prima non vi comparivano, come rivendicato in questi giorni dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
Un passo importante, anche se non risolutivo, alla luce anche dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss): le patologie finora catalogate con il codice di esenzione coprono meno di un terzo dei pazienti “rari”.
“Le malattie rare rappresentano una sfida paradigmatica – spiega il presidente dell’Iss Walter Ricciardi – che pone tra l’altro il problema dell’equità nell’accesso ai farmaci”. E proprio sulla questione dell’accessibilità salda l’alleanza tra i pazienti e il mondo dei farmaci equivalenti da cui è scaturita, lo scorso anno, l’intesa tra Assogenerici e la Fondazione Hopen, ospitata nella propria sede per promuove un network europeo delle associazioni che sostengono le famiglie colpite. “L’obiettivo – spiega Simona Bellagambi, referente di “Uniamo” (Federazione Italiana Malattie Rare Onlus per l'Italia, presente nella rete continentale di Eurordis) – è quello di dare vita a qualcosa di tangibile, di reale, di forte, che unisca tutti gli interessati verso un obiettivo comune. Quello di continuare a far considerare le malattie rare una priorità di sanità pubblica fino a quando i bisogni e i problemi legati a esse non saranno risolti”. Perché nessuno resti “invisibile”, appunto.
Mangiare bene è cruciale: lo sappiamo bene, anche se non sempre ci comportiamo di conseguenza. E che la dieta mediterranea fornisca probabilmente i “menù” più salubri al mondo è un fatto ampiamente riconosciuto dalla ricerca medica, a iniziare dall’ambito cardiocircolatorio, e perfino, come qui documentato un anno fa, a titolo di preziosa “profilassi” per la prevenzione influenzale. All’elenco di lodi per il nostro cibo se ne aggiunge un’altra legata all’accertamento scientifico di rilevanti virtù anti-depressive.
Titolare dell’approfondimento, tramite sperimentazione clinica, è una Università australiana, che ha pubblicato gli esiti dell’analisi sulla rivista BMC Medicine. I ricercatori hanno coinvolto 67 persone che soffrivano di depressione suddividendole in due gruppi e seguendole per dodici settimane: il primo ha mantenuto le proprie abitudini alimentari, l’altro ha invece virato verso i crismi della dieta mediterranea, dominata da cereali (specie integrali), frutta e verdura fresche, legumi, olio di oliva, uova, latticini non zuccherati.
Il primo gruppo, naturalmente, non ha riscontrato mutamenti umorali di rilievo al termine del trimestre. Il cambio di rotta è emerso nel secondo: un terzo dei partecipanti ha dichiarato un significativo miglioramento dei propri sintomi e del proprio umore. “Il sistema immunitario, la plasticità del cervello e un buon microbioma (l’insieme del nostro patrimonio genetico) sono cruciali non solo per il benessere fisico, ma anche per quello mentale”, commentano gli autori dello studio.
Non è per la verità una novità assoluta, tanto che la medesima rivista aveva pubblicato due anni fa un’altra ricerca in proposito, ancor più estesa nel tempo e nel campione coinvolto, svolta da un’Accademia spagnola delle Canarie che ha utilizzato i dati di migliaia di partecipanti, seguiti per oltre otto anni, ottenendo un esito analogo, ovvero la riduzione del 30% del rischio di depressione.
Quella “vecchia” ricerca poteva risentire di qualche variabile “di disturbo”, ad esempio il fatto che la “dieta mediterranea” – anche nella definizione datale dall’Unesco nel riconoscerla “Patrimonio dell’umanità” – non consista solo in un elenco di ingredienti specifici, ma anche di alcune abitudini “sociali”, in particolare dell’enfasi alla condivisione dei pasti attorno a uno stesso tavolo, fattore di per sé “anti-depressivo”. Nella ricerca australiana, invece, il test è stato puramente alimentare. E ci dice che la nostra tradizione culinaria fa davvero bene, anche all’umore, e non è roba da poco. Perché la salute non è solo assenza di malattia: se l’obiettivo è il benessere è assai di più.
Si tratta di una procedura ritenuta non priva di rischi, che al contempo molti collocano all’orizzonte della moderna medicina. È il cosiddetto “autotrapianto” di cellule staminali del sangue, che ora si sarebbe rivelato capace di fermare a lungo anche la progressione della sclerosi multipla, nell’ambito di uno studio che trova ancora una volta in prima linea gli scienziati italiani.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati nella rivista scientifica Jama Neurology, sulla base del lavoro condotto dai ricercatori dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze assieme a colleghi - anche connazionali- dell’Imperial College di Londra, che hanno esaminato i dati relativi a 281 pazienti – perlopiù selezionati tra quelli malati a uno stadio avanzato e poco rispondenti ad altre terapie pregresse - sottoposti ad autotrapianto nel periodo tra il 1995 e il 2006 in tredici Paesi e seguiti dopo la procedura per una media di circa sette anni.
La procedura ha previsto il prelievo di cellule staminali tramite chemioterapia e somministrazione di farmaci che ne determinano la fuoriuscita dal midollo osseo nel flusso sanguigno: la prima distrugge il sistema immunitario difettoso; la seconda permette la rigenerazione del sistema immunitario stesso tramite cellule “bambine”.
Nel 46% dei pazienti più gravi – hanno riferito i ricercatori - “si è assistito ad un arresto della progressione della disabilità a 5 anni dal trapianto”, e per alcuni addirittura a un miglioramento dei sintomi, percentuale che sale addirittura al 73% sul campione complessivo. E’ un risultato notevole, che fa del resto leva su una prassi “largamente utilizzata da circa 30 anni per il trattamento di alcuni tumori del sangue e del sistema linfatico”.
Nonostante il risultato positivo permangono le raccomandazioni alla massima cautela: nei primi 100 giorni di trattamento, tra i 281 pazienti del campione sono stati regitrati anche otto decessi come conseguenza della repentina messa in fuori gioco del sistema immunitario. L’orizzonte di ricerca sembra però tracciato, con prospettive promettenti, che coinvolgono ancora il nostro Paese. È di questi giorni, infatti, anche la notizia di un bando vinto da un consorzio internazionale coordinato dall’Ospedale San Raffaele di Milano, mirato proprio all’individuazione di farmaci contro la sclerosi multipla progressiva tramite le cellule staminali.
Allo stato attuale, si tratta di una scoperta “alla portata di mano” più o meno come quella dei pianeti forse “vitali” localizzati nei giorni scorsi a qualche decennio di anni luce. Nondimeno c’è chi ci lavora seriamente, e questo avviene anche e proprio in Italia. Si tratta della sperimentazione di possibili sviluppi di una sorta di ibernazione nella lotta al cancro, e lo “stato dell’arte” è stato illustrato nei giorni scorsi a Boston nel Congresso annuale dell’American Association for the Advancement of Sciences.
Il nodo di base è lo studio della cosiddetta “ipotermia indotta”, e i suoi potenziali effetti benefici, anzitutto per la salute. A una temperatura normale le cellule – malate e non – necessitano di un regolare apporto di ossigeno. Ora, quando il cuore smette di battere, l’apporto sanguigno di ossigeno cessa, sicché lo stesso cervello può resistere non più di cinque secondi circa prima di subire danni irreparabili, se non perire. E tuttavia, a temperature più basse, il bisogno cellulare di ossigeno cala perché l’insieme delle reazioni chimiche si rallenta, tanto che non mancano aneddoti di persone sopravvissute dopo decine di minuti di assenza di attività cardiaca, in quanto si sarebbero trovate per qualche incidente, ad esempio, in un lago ghiacciato.
La novità annunciata dal professor Marco Durante, direttore dell’Istituto di Trento per le Applicazioni della Fisica Fondamentale (Tifpa), in collaborazione con colleghi dell’Università di Bologna, è la scoperta di un “modo di indurre uno stato di quasi letargo in animali che normalmente non ci vanno, come i ratti”, identificando una zona cerebrale che regola la temperatura del corpo. “Inibendo specifici neuroni si abbassa la temperatura”, inducendo una sorta di “torpore sintetico”.
Da tutto questo scaturirebbe un’implicazione clinica cruciale, ossia la possibilità di effettuare pesanti radioterapie antitumorali, o addirittura di aumentarne le dosi, senza incorrere negli ora inevitabili effetti collaterali, in quanto le cellule sane, giacché “ibernate”, potrebbero sopportarli assai meglio.
Nell’obiettivo degli scienziati, dunque, “si potrebbero trattare tutte le metastasi senza uccidere il paziente: lo svegli ed è curato”. C’è chi già tenta la strada avveniristica di “ibernarsi”, magari per “vincere la morte”. Si tratta però solo di cronache amare, senza l’avallo della scienza, che considera ancora non possibile ibernare in modo sicuro un corpo umano. Nondimeno l’orizzonte c’è, e secondo gli studiosi italiani potrebbe concretarsi entro una decina d’anni. Alfine non di conseguire l’eternità, ma di poter combattere meglio le patologie più gravi.
In alto i cuori, e la speranza dei bambini, tutti, e soprattutto di quelli che stanno male. Questo il senso del lancio contemporaneo di migliaia di palloncini da ospedali, scuole e piazze di decine di città italiane avvenuto lo scorso 15 febbraio. L'iniziativa era peraltro internazionale, delle 183 associazioni (anche del nostro paese) che compongono la “Childhood Cancer International” (Cci) e hanno animato la quindicesima edizione della Giornata Mondiale contro il Cancro Infantile.
Si tratta di un ambito su cui cala perlopiù un colpevole silenzio, oltretutto a fronte di cifre preoccupanti. La stima globale è di 215mila nuovi casi l'anno nella fascia d'età tra 0 e 15 anni, e altri 85mila tra i 15 e i 19. L'Italia risulta tra i paesi più esposti, con 1380 ammalatisi l'anno scorso e 780 adolescenti. E se per i primi si rileva un lieve calo, dell'1% su base annua, per i secondi la tendenza continua a salire, del 2%
Serve dunque un salto in avanti nell'attenzione pubblica al fenomeno. Tra le priorità fissate dalla Cci si sottolinea il “diritto” a cure tempestive e efficaci, che ai fatti rappresenta un diritto negato per migliaia di bambini nel mondo. “Il cancro pediatrico è una patologia troppo spesso trascurata”, si denuncia, oltre a costituire “un induttore di povertà delle famiglie che ne sono colpite”, invocando perciò un'assistenza e un aiuto concreto.
Non a caso sono proprio i genitori a mobilitarsi in prima linea sul tema, per il tramite, in particolare, della Federazione Italiana Associazioni Genitori Oncoematologia Pediatrica (Fiagop), in collaborazione con l'Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatica (Aieop). Tantissime le iniziative, tra eventi festosi e convegni pubblici, attivate nell'arco della Giornata, e anche nei giorni precedenti e successivi, molti dei quali centrati sul nodo della prevenzione, a iniziare dalle buone abitudini alimentari.
L'obiettivo non è peraltro solo quello di alzare l'asticella della sensibilizzazione sul problema, ma anche un salto di qualità nell'assistenza farmacologica. “Riconvertire ad uso pediatrico i farmaci concepiti per gli adulti porta a un utilizzo non del tutto adeguato del medicinale stesso a cominciare dalla modalità, dal dosaggio e soprattutto non tiene conto dell’individuo a cui viene somministrato”, spiega il presidente Fiagop Angelo Ricci, nell'appellarsi alle istituzioni e al mondo scientifico: per una medicina capace di calibrarsi davvero sulle esigenze specifiche dei piccoli.
Sembra una banale “americanata” raccontare che una diminuzione del consumo di sale abbia un impatto sanitario e addirittura economico, ma il nesso c’è. E ha ora ricevuto perfino l’avallo di un’articolata ricerca scientifica, pubblicata sul British Medical Journal. Ma al racconto va fatta un’aggiunta: nel nostro Paese il dato è già assunto come scontato, al punto da essere oggetto di concrete iniziative regionali, che peraltro meriterebbero un seguito di più ampia scala.
Ma andiamo per ordine. che si è messo A fare i conti in testa sul consumo di “sodio” (che si trova tipicamente nel sale, ma anche nel pane, latte, uova, carne, nonché naturalmente in una varietà di cibi industriali, e rappresenta un riconosciuto fattore di rischio di alta pressione, e quindi di patologie cardiovascolari, che costituiscono la principale causa di morte nel mondo) è stato un centro di ricerca di Boston: la “Tufts Friedman School of Nutrition Science”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ammontare “sano” del consumo di sale si attesta a un paio di grammi al giorno, l’equivalente di un cucchiaino. Intorno a quel paletto si sono mossi i ricercatori, indagando sui dati raccolti in varie ricerche in ben 183 Paesi. Dall’analisi è emerso che se si riducesse mediamente l’assunzione di sale di almeno il 10% in dieci anni, si salverebbero annualmente, e globalmente, 5,8 milioni di “anni di vita persi” – il cosiddetto Disability-Adjusted Life Year, unità di misura che somma il sacrificio temporale della morte patologica prematura.
Si morirebbe di meno, dunque, e ci si ammalerebbe molto meno. Di qui anche il calcolo economico, in base al quale il costo di tale decesso prematuro è calcolato in oltre 200 dollari l’anno a persona, in relazione alla perdita della sua “produttività” in senso lato. Sono stime naturalmente virtuali, che peraltro i ricercatori americani considerano “prudenti”, perché non tengono conto dell’aggravio ulteriore, quello dei costi sanitari della cura di chi si ammala.
In altre parole si valutano “finanziariamente vantaggiose” le eventuali politiche (e i relativi costi) per promuovere una riduzione del consumo di sale, perfino senza considerare le spese sanitarie conseguenti a, viceversa, la sua assunzione in eccesso. E c’è chi già si è materialmente mosso su questo, appunto in Italia, con un’intesa siglata tra la Regione Piemonte e l’Associazione regionale dei Panificatori per diminuirne, appunto l’impiego. Piccoli passi, ma che dicono parecchio, ben al di là dell’oggetto specifico dell’iniziativa. Ricordano che “investire nella prevenzione sanitaria” non è un costo, ma una fonte di risparmio, oltre che di beneficio per la nostra vita. E su questo, in Italia, da anni, anziché aumentare, colpevolmente si taglia.
Il problema dei tumori è spesso quello di arrivare tardi, a volte di arrivarci con una diagnosi poco accurata, altre ancora di mettere in atto trattamenti farmacologici verso i quali il corpo sviluppa alcune resistenze. In altre parole, il nodo prioritario è quello della rapidità, semplicità e accuratezza della diagnosi. Dinanzi a tutto questo si annuncia un’innovazione promettente, centrata su una biopsia liquida, e l’annuncio arriva proprio dal nostro Paese.
Lo hanno divulgato sulla rivista Oncogene (nell’ambito del portale della celebre Nature) i laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità, ovvero un gruppo di ricerca coordinato dal professor Ruggero De Maria e la ricercatrice Désirée Bonci, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma (in collaborazione con altri Istituti capitolini e torinesi). Si tratta di un “nuovo approccio”, dicono, già sperimentato su pazienti affetti da tumore alla prostata, e in corso di approfondimento per altri colpiti da cancro al polmone e al colon.
Tecnicamente, lo studio – che ha ricevuto un finanziamento del ministero della Salute destinato ai giovani ricercatori – ha identificato una correlazione tra l’attivazione dell’“oncogene-c-Met”, che innesca la metastasi, e un piccolo gene, il “miR-130b”, nell’ambito dei processi di progressione tumorale e di resistenza alla terapia ormonale. E così, è stata sviluppata la suddetta biopsia liquida, di semplice utilizzo, che permette di captare le vescicole rilasciate dal sangue nei tumori, le quali veicolano le aberrazioni molecolari.
“Questo tipo di biopsia, adeguatamente sviluppata, ci potrà permettere di avere un metodo non-invasivo per monitorare il tumore fin dall’esordio, per individuare tempestivamente le recidive e l’insorgenza di resistenza alle terapie”, spiega il professor De Maria. In altre parole, tale metodica consentirebbe “per la prima volta di valutare segnali proteici attivati e indicativi di tumore e dello stato molecolare del cancro in pazienti affetti da neoplasie al polmone, colon e prostata”.
“Tecniche innovative, sofisticate e sensibili”, aggiunge. Risultati in apparenza importanti e promettenti, dunque, che agiscono sul nodo di fondo della “difficoltà di individuare una terapia unica ed efficace”, nelle parole della dottoressa Bonci, considerando anche “la frequente imprevedibilità della risposta del singolo paziente ai farmaci”. Il passo avanti rivendicato, dunque, non è solo “tecnico-scientifico”, ma anche sul piano dell’approccio alla terapia. Da centrare davvero sulla logica del “trattamento personalizzato”.
“Non si deve abbassare la guardia”. Lo ribadiva alla fine dell'anno scorso il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e ne facemmo l'incipit di un altro pezzo che documentava al contempo i progressi nella scienza e l'urgenza del lavoro di sensibilizzazione sull'Aids. Insomma, la medicina avanza ma l'informazione no, e a farne le spese sono anzitutto i giovani. A rilanciare il tema sono ora gli esiti - preoccupanti - di un'indagine del Censis sulla sessualità tra i cosiddetti “Millennials”.
Emerge che l'età media per i primi rapporti sessuali completi si è oramai abbassata a 17 anni, eppure metà degli adolescenti ammette di avere idee assai confuse sulla sessualità, inclusi gli aspetti sanitari. Così, sebbene il 93% degli intervistati è esplicitamente orientato ad evitare il rischio di gravidanze indesiderate, solo il 70% delle giovani coppie usa il profilattico, nella convinzione che per proteggersi dalle malattie trasmissibili sia sufficiente evitare rapporti promiscui.
Su tali patologie, peraltro, la conoscenza è piuttosto scarsa. Il 90% dichiara di conoscere l'Aids, ma meno di un quarto degli interpellati sa qualcosa di sifilide, gonorrea, epatite, herpes genitale e così via. In particolare, solo il 15% conosce il papilloma virus, un'infezione capace di generare sia nella donna che nell’uomo lesioni che possono degenerare in forme tumorali.
Poca informazione, dunque, e perlopiù tratta sommariamente da amici o dal web – terreno anche di tante “bufale”. “Il nostro Telefono Verde Aids e Infezioni sessualmente trasmesse riceve oltre mille chiamate al mese, e di queste solo il 10% proviene dai giovani”, sottolinea il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, che aggiunge: “spesso pensano che le infezioni siano un problema legato a determinate fasce di popolazione e non causate da comportamenti a rischio”.
Sull'Aids il progresso mondiale nella prevenzione e nelle cure è stato in effetti vistoso. Nel 2005 fece due milioni di morti, e la cifra si è quasi dimezzata nell'arco di un decennio. Nello stesso anno le persone infettate furono due milioni e mezzo, nel 2015 eravamo ancora sopra i due milioni. Insomma il calo nelle infezioni è assai più lento di quello sui decessi, confermando che i passi avanti nella medicina sono stati ben più lunghi di quelli dell'informazione. Con esiti a volte quasi paradossali: un'altra indagine, effettuata negli Stati Uniti sugli omosessuali, rivela una netta tendenza alla diminuzione nell'uso dei profilattici, ed è un fenomeno spiegato proprio per la loro accresciuta fiducia nelle terapie. Invece bisogna arrivare prima, e dobbiamo ricominciare a dirlo, anzitutto ai giovanissimi.
Se “la salute è la prima cosa”, l’offerta di un medicinale è il più nobile dei doni, specie in tempi di difficoltà economiche. “Italia campione della solidarietà”, titolammo esattamente un anno fa, sulla scia degli ottimi esiti della Giornata di Raccolta del Farmaco. E se era vero allora, oggi lo è ancor di più. Alla diciassettesima edizione della ricorrenza annuale, celebratasi lo scorso 11 febbraio, la generosità ha fatto segnare nuovi e impressionanti record, pur nel silenzio di larga parte dei media – a fronte di un evento che aveva l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica e la collaborazione di istituzioni, aziende produttrici e rappresentanze professionali dei farmacisti.
In poche ore sono state raccolte oltre 370mila confezioni di medicinali, ossia il 4,6% in più rispetto alla Giornata del 2016, con identico incremento delle farmacie coinvolte su quasi tutto il territorio nazionale, 3850, con per giunta la donazione di quasi 600mila euro da parte dei farmacisti stessi.
Dietro al lavoro delle farmacie c’è però anzitutto quello di oltre 14mila volontari, nonché dei 1723 enti caritativi convenzionati con la Fondazione Banco Farmaceutico onlus, che dal 2000 promuove l’iniziativa, e negli anni successivi l’ha anche “esportata” in altri paesi europei, africani e asiatici. E l’impatto è enorme, considerando la stima di più di 580mila beneficiari italiani dell’aiuto, segnando anche qui un progressivo incremento rispetto agli anni precedenti.
La solidarietà cresce, dunque, ma anche la povertà sanitaria. "Nonostante siano tantissimi i farmaci raccolti durante la Giornata copriranno solo una parte di quel bisogno”, ricorda Paolo Gradnik, presidente di Banco Farmaceutico. Quel bisogno è conteggiato in oltre un milione di confezioni e, tra i problemi economici delle famiglie e i tagli alla spesa sanitaria, segna un’allarmante escalation. Solo l’anno scorso la richiesta di farmaci è salita del 16%, e le persone assistite addirittura del 37,4%. Non è solo un tema di “povertà assoluta” (che coinvolge oltre 4 milioni e mezzo di italiani), ma anche di quella relativa, tale da indurre oltre 12 milioni di persone – secondo un recente dossier dello stesso Banco Farmaceutico – a limitare le visite e i medicinali.
E’ dunque un tema drammaticamente esteso, che coinvolge l’intera politica sanitaria e le esigenze (riconosciute anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco, Aifa) di promuovere tra l’altro il ricorso ai medicinali che costano meno a parità di efficacia e sicurezza terapeutica, ossia i generici. Ed è un tema che non si risolve in una Giornata. Si può donare, sempre. Esiste anche un’app, chiamata “DoLine”, e soprattutto ci sono nelle farmacie aderenti degli appositi contenitori per la raccolta. “Donare un caffè” quando ci rechiamo al bar, anche lasciandolo al consumo di ignoti bisognosi, è una bellissima tradizione italiana. Si sappia per bene che possiamo fare lo stesso anche con i farmaci.
Signore e signori, oggi, 13 febbraio, ricorre la giornata mondiale dell’epilessia. Ebbene, pochissimi se ne accorgeranno, e pochi dedicheranno anche solo un marginale frammento di pensiero. Peggio (forse), qualcuno avrà anche un impercettibile moto di fastidio. La ragione è sempre quella: l’epilessia, o, come dice giustamente una fondazione italiana, “le epilessie”, sono ancora oggetto, anziché di attenzione, di un più o meno sottile “stigma”, per il banale motivo che quel che non conosciamo fa un po’ paura.
“Ancora una volta è utile ricordare quanto questa malattia sia accompagnata da pregiudizi, disinformazione e ignoranza“, commenta un’esperta italiana, Clementina Boniver, dell’Università di Padova. E del permanere dello stigma si parla purtroppo ogni anno. Quindi è bene ripetere. In senso stretto non è neppure una “malattia”, bensì una serie di condizioni neurologiche (“sono colpito da qualcosa”, dice genericamente l’etimo greco) di “eziologia” parzialmente ignota ma rintracciabile nell’elettrocardiogramma, che hanno in comune l’insorgere di crisi improvvise, perlopiù brevi, anche se accompagnate da manifestazioni motorie involontarie o addirittura perdita di conoscenza.
Una problematica solitamente non grave, e al contempo assai comune, perché coinvolge almeno 65 milioni di persone nel mondo, e circa 500mila solo in Italia. Ciononostante, la disinformazione permane, tant’è che, sebbene i primi attacchi si riscontrino spesso già dall’età scolare, la maggioranza degli insegnanti italiani, secondo recenti indagini, si rivela impreparata a gestirli.
E allora, come si affrontano gli attacchi epilettici? Senza pregiudizi e senza paura, ovviamente, e anche senza iperprotettività. Si tratta solo rassicurare la persona con gentilezza, evitare che cada o si faccia male, allentarle i vestiti stretti, non immobilizzarla o inserirle dita in bocca o anche darle subito farmaci, necessari solo se la crisi persiste per diversi minuti. Quasi sempre basta esserci, e un tocco o un abbraccio lieve (non soffocante) è la miglior terapia.
Niente paura, insomma, né per il paziente e i suoi familiari, né per chi si trova di fronte a qualcuno soggetto a una crisi. L’epilessia, nelle parole di Boniver, “è curabile e quindi compatibile con una vita normale nel 70% dei casi, andare a scuola, svolgere attività sportiva, lavorare ed avere dei figli”. Nulla di grave, dunque, lo sappiano tutti, epilettici e non epilettici: un attacco fa meno male del permanere dell'immotivato stigma.