Era solo un ricercatore trapiantato negli Stati Uniti, al californiano “City of Hope Comprehensive Cancer Center” e non aveva ancora neppure la cattedra il biologo tedesco Gerd Preifer. Ed è a lui che si riconosce il merito di una delle più epocali scoperte mediche dell'ultimo secolo. Esattamente vent'anni fa dimostrò inconfutabilmente, sulla rivista Science, i danni provocati dalle sigarette alle cellule polmonari, che ne fanno impennare i rischi tumorali.
La ricerca ha avuto l'indubbio effetto di modificare radicalmente le nostre percezioni sul fumo. Chi è cresciuto nelle generazioni precedenti sapeva poco o nulla della natura “suicida” del gesto, immortalato con ostentata eleganza nella storia cinematografica quanto nei comportamenti privati in luoghi e locali pubblici. Oggi tra norme e campagne non è più così, e perfino le case produttrici hanno dovuto aggiustare il tiro.
Insistono, anche nel loro ultimo consesso continentale a Bruxelles, a dire “ no all'eccesso di restrizioni, meglio lavorare per la riduzione del danno”, scaricando gli oneri sui servizi sanitari, ma quel danno non viene più negato. Ci hanno provato per anni, con tanto di ricerche “scientifiche” effettuate dietro compenso, orientate a smentire o almeno minimizzare l'impatto sulla salute. Alcuni produttori, specie in Europa, avevano per la verità rinunciato da tempo, preferendo un messaggio “comunicativo” opposto, del resto da molti giudicato ancor più efficace: “Sì, certo,fa davvero male, e ve lo diciamo, per darvi una consapevole libertà di scelta”. Oggi, comunque, lo ammettono quasi tutti.
Da quella presa di coscienza sono poi scaturite le tante “strette” normative che hanno indubbiamente alimentato un calo nei consumi. E tuttavia il quadro rimane allarmante, con particolare riferimento ai giovani e all'Italia. Uno studio del Centro Europeo per il Monitoraggio della Dipendenza dalle Droghe (Espad) sui 15-16nni nelle scuole di 35 paesi ha collocato il nostro al vertice, con la stima di ben il 37% di fumatori in tale fascia, contro il 21% della media continentale.
Il dato è doppiamente grave, per la giovane età e per il fatto che il modo senz'altro più efficace di tenere alla larga la sigaretta è quello di non iniziare. E quando invece si inizia oggi sappiamo, grazie a Preifer e altri, quanto faccia male. In Italia secondo il ministero della Salute il fumo è la principale causa di morte, provocando circa 80mila decessi l'anno. “In altri paesi come gli Stati Uniti, dove le campagne sono state più aggressiv e - nota Carmine Pinto, presidente dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica - il numero di fumatori si è ridotto molto di più”. Questione, ancora una volta, di buona informazione.
Ci sono i convegni, le cifre, i documenti e le ricerche che certificano l’assoluta equivalenza dei farmaci generici (acquistati in farmacia) rispetto alla “marca”, e il loro contributo alle tasche dei cittadini e alle casse pubbliche, consentendo di ampliare la platea dei pazienti ovvero la qualità delle cure. Ma quando tutto questo esce dai dialoghi tra addetti ai lavori e si spalanca all’incontro diretto ed esteso con i cittadini il significato e l’effetto sono ben più rilevanti
Chieti, l'8 ottobre, presso il Centro Commerciale Megalò, e poi piazza della Vittoria a Taranto il 14 ottobre, sono state le ultime tappe di “Io Equivalgo”, il tour italiano di Cittadinanzattiva a sostegno dei generici, che dallo scorso maggio ha toccato una dozzina di città di ogni latitudine. Un “villaggio” itinerante, tra incontri, prospetti informativi, volontari e operatori sanitari pronti a documentare la piena identità nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica, oltre agli aspetti di risparmio.
Questi sono stati quantificati all'ultima assemblea di Assogenerici nella cifra di 4 miliardi di euro negli ultimi quindici anni. “Se nel nostro Paese si è riusciti nel tempo a sostenere la spesa farmaceutica e a permettere l’adozione progressiva dell’innovazione lo si deve a questo ”, ha notato il presidente Enrique Häusermann. E tuttavia il risparmio potenziale per i cittadini potrebbe essere ben maggiore, a leggere le stime mensili del “Salvadanaio della Salute”, mentre tra resistenze e nodi amministrativi il settore, pur in crescita, rimane ancora al di sotto delle medie europee. Nei farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario, in particolare, la loro quota è rimasta ferma al 29% negli ultimi tre anni.
E' un ritardo da colmare, perché tanti italiani sono costretti a rinunciare alla terapia per il nodo dei prezzi. Il problema dell'aderenza terapeutica, ricorda il Segretario Generale di Cittadinanzattiva, “è anzitutto dovuto all'interruzione delle cure per difficoltà economiche”, fatto eticamente inaccettabile.
E' un lieto fine quello della campagna, che però reclama un concreto seguito nei fatti. E sono in fondo quasi tutti a invocarlo, a leggere i nomi delle entità che si sono schierate a sostegno del tour dell'associazione: Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), le principali sigle sindacali, gli ordini professionali di medici, infermieri, farmacisti. “Promuovere anche negli ospedali l'utilizzo dei medicinali generici”, aveva già auspicato a inizio anno il presidente dell'Aifa Mario Melazzini, ora nominato anche Direttore Generale, con i complimenti di tutti quelli che hanno a cuore la salute.
Nella “società dell'immagine” il nodo dell'obesità, e più in generale del sovrappeso, è un fenomeno ampiamente notato e temuto nell'alveo dell'“estetica”. Il che fa erroneamente passare in secondo piano un aspetto ben più rilevante. I chili di troppo sono anzitutto un problema di salute, come ben sa ogni medico e fisioterapista, ed è un problema che coinvolge in misura allarmante una proporzione crescente della popolazione nazionale e mondiale.
Lo si è ricordato all'“Obesity Day” dello scorso 11 ottobre, che avrà del resto il seguito di una serie di approfondimenti e iniziative nell'ambito della “Settimana” prevista all'inizio del mese prossimo. E' stata l'occasione per fare il punto sulla situazione, ed è un punto assai critico.
Gli obesi sono circa 600 milioni, e quasi due miliardi le persone in sovrappeso, ossia oltre il 40% della popolazione mondiale, secondo le stime diffuse dalla Fao. Il problema coinvolge soprattutto i minorenni, e in particolare quelli che vivono nei paesi in via di sviluppo, dove alla crescita urbana e industriale si accompagnano livelli incrementati di sedentarietà. E non va meglio in Italia, dove oltre il 46% degli adulti è in sovrappeso, e più del 10% addirittura obeso, con ritmi di crescita impressionanti, al 3% annuo dal 2001. Notevoli, anche qui, le discrepanze a livello territoriale, con numeri chiaramente superiori nelle regioni meridionali.
Concomitanza significativa, nelle stesse regioni si rilevano le quote più basse di persone che praticano sport in modo continuativo. “ L’attività fisica è il principale fattore in grado di influenzare positivamente la nostra salute”, sottolinea Giuseppe Fatati, presidente dell'Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (Adi). E di “salute” si tratta, perché il sovrappeso viene considerato da molti nell'alveo della “malattia cronica”, con pesanti conseguenze, tra rischi aumentati di difficoltà respiratorie, fratture, ipertensione, resistenza all'insulina, malattie cardiovascolari, oltre naturalmente a disagi psicologici.
Tra un allarme e l'altro, da prendere assai sul serio, spunta peraltro qualche buona notizia nel nostro paese. Coldiretti documenta infatti un'inversione di tendenza dal 2015 nei consumi di frutta e ferdura degli italiani. Un “ritorno alla dieta mediterranea”, che coinvolge anche aumenti per quanto riguarda il pesce e l'olio d'oliva, con quel che tutto ciò consegue per la longevità, ovvero per una migliore prevenzione dai malanni.
In Canada hanno fatto uno studio sui topolini, in apparenza non di rilevanza scientifica mondiale, che invece farà scatenare sociologi, psicologi ed etologi (gli studiosi del comportamento animale), oltre che la ricerca medica. E’ un approfondimento sulla “solitudine” e i suoi effetti psico-fisici. L’esito riscontrato è quello di una differenza sostanziale di genere. Dato forse ulteriormente sorprendente, sarebbero le donne, e non gli uomini, ad aver un bisogno superiore di “socialità” a tutela del proprio benessere.
L’indagine è dell’Università di Calgary, la pubblicazione è sulla popolare rivista scientifica eLife. Gli animali sono stati analizzati sia in gruppi dello stesso sesso, sia in coppie, sia isolati del tutto per un periodo di 16-18 ore. Quindi sono stati esaminate le dinamiche delle cellule cerebrali che controllano il rilascio dei cosiddetti ormoni dello stress.
Il risultato è che appunto le femmine sono risultate più “stressate” dei maschi nella situazione solitaria. "Isolare i topi femmine per meno di un giorno ha portato al rilascio di una sostanza chimica chiamata corticosterone, prodotta in risposta a situazioni di stress ”, spiegano, con quel che consegue per la vulterabilità ad altre patologie. Concomitanza interessante, non sono state riscontrate invece differenze tra i sessi per quel che riguarda la risposta allo “stress fisico”: dopo una nuotata di venti minuti la loro reazione è risultata identica.
“Molte specie utilizzano l'interazione sociale per ridurre gli effetti dello stress, e questo riguarda anche il genere maschile”, si precisa. Ma la differenza è rilevante, e “ potrebbe significare che le reti sociali sono più importanti per le donne, e che le giovani in particolar modo sono più sensibili all'isolamento sociale rispetto agli uomini ”.
La “tradizione” dell'uscita “tra maschi” al pub o per una partita di calcetto nasconde dunque un'altra verità, ossia il fatto che le donne hanno la medesima esigenza, anzi ne abbisognano in modo ancor più netto, e non solo per il proprio “stato d'animo”, ma anche per la propria salute. Nel 1986, la “Carta di Ottawa”, redatta nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, sanciva che “ la salute è creata e vissuta dalle persone all'interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama ”. Questione sociale, dunque, non solo di batteri e virus.
Ci sono diabetici e diabetici. Alcuni sono curati bene, altri nient’affatto. E se la differenza si produce nello stesso Paese, a seconda della latitudine, il fatto assume una valenza “inaccettabile”, nelle parole di Albino Bottazzo, presidente della Fand, estesa associazione italiana dedicata ai diabetici, promotrice di un incontro nazionale in questi giorni a Roma il cui titolo è già un atto d’accusa: “Diabete: no a discriminazioni fra malati”.
Si tratta della patologia cronica più diffusa in Italia, con oltre tre milioni di persone affette. Solo che la loro assistenza è un’entità variabile in base al luogo in cui risiedono, in base non solo alla qualità sanitaria complessiva delle strutture regionali, ma perfino della loro normativa di riferimento.
C’è una legge nazionale, la 115 dell’87, che garantisce il diritto, e quindi la gratuità dei dispositivi per l’autocontrollo glicemico (i cosiddetti “stick”), fondamentali alla prevenzione nonché a un minor ricorso agli ospedali. Ne è seguita però una babele di delibere regionali, allargata poi nel 2001 dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, e rilevata anche da un'indagine conoscitiva del Senato nel 2012, oltre che dall'Istat.
L’esito paradossale è che variano le leggi, a dispetto di quella che dovrebbe essere la “variabilità utile”, ossia la possibilità di utilizzare il dispositivo più adatto alla situazione specifica paziente. Alcune regioni garantiscono la possibilità di sceglierlo, con l’ausilio del medico, solo per i pazienti di tipo 1, e non per quelli di tipo 2, che rappresentano circa il 90% dei casi accertati. In tali aree, il tutto è demandato a gare d’acquisto centralizzate e non al parere degli specialisti in relazione all’appropriatezza dei singoli casi. “ Dovrebbe spettare a loro scegliere e prescrivere il presidio più adeguato sulla base delle caratteristiche cliniche, psico-attitudinali e sociali ”, protesta Bottazzo.
Questione di equità nel trattamento sanitario, esigenza etica e perfino costituzionale. Ma il nodo è anche nei costi. “Centralizzare” lo strumento terapeutico non fa risparmiare, fa spendere di più. La ragione è semplice, il 4% dei costi sostenuti dai Servizi sanitari regionali per il diabete va nei dispositivi (dal controllo glicemico ai microinfusori e siringhe), mentre il 50% è dovuto ai ricoveri per complicanze spesso evitabili. In altre parole, prevenire poco e curare male non fa risparmiare nessuno, né i singoli né la collettività, anzi moltiplica gli oneri. Questo vale per il diabete, e in fondo per tutto il resto.
Si chiamano “rare”, ma l’aggettivo è fuorviante, perché sono tantissime e colpiscono tantissimi. Il nome giusto sarebbe “senza diagnosi”, o quantomeno di difficile accertamento. Si sta male, e non si sa di che si tratta. Eppure molto si può fare lo stesso, perché con la giusta attenzione del medico la possibilità di cura può trovarsi, ed è una strada da percorrere con urgenza, specie quando si tratta di bambini. Da qui l’idea di un ambulatorio pediatrico apposito, il primo in Italia, all’ospedale Bambino Gesù di Roma, nella speranza di rapide emulazioni.
Il tema è serio e vasto, considerando che più di un milione di minori in età pediatrica (sotto i 16 anni) risulta affetto da una “malattia rara”. Il 60% è poi costretto ad attendere due anni per una corretta diagnosi, e il 40% ne rimane privo. Cifre inaccettabili, alla luce dei progressi della medicina e della tecnologia.
E per le famiglie il risultato è spesso quello di un’odissea. “ Tendono a spostarsi tra i diversi Centri alla ricerca di risposte diagnostiche e assistenziali Nonostante la disponibilità di cartelle cliniche spesso corpose contenenti numerose indagini strumentali e di laboratorio non risolutive, la presa in carico di questi pazienti è penalizzata e ritardata dalla mancanza di conoscenze sulle basi biologiche della malattia, sulla sua storia naturale, sui bisogni assistenziali e sugli specialisti da coinvolgere nell’assistenza ”, spiega il dottor Andrea Bartuli, responsabile dell’ambulatorio.
Da tali esigenze scaturisce l'iniziativa di rendere l’ambulatorio consultabile anche a distanza, all’indirizzo
La seconda è quella che investe la genetica. L’origine di queste malattie è in molti casi di tale natura, e il 30% dei malati orfani di diagnosi può essere inquadrato tramite le analisi “esomiche”, capaci di incrociare i dati genetici di almeno un paio di generazioni. L’approccio è dunque quello multidisciplinare, capace di incrociare diverse competenze e metodi per arrivare al dunque. Soprattutto, di arrivarci mettendo in comunicazione i medici, anziché costringere le famiglie a itinerari infiniti, quanto, spesso, privi di esito.
Ogni tanto facciamo bene a dircelo noi stessi, anche il morale fa bene alla salute. E fa ancor meglio quando a dirlo sono gli altri, osservatori, accademici, giornalisti, esponenti governativi, associazioni di pazienti, rappresentanti di chi sta in prima linea in una missione semplice quanto complicatissima, quella di difendere il diritto alla salute. Anche questo è stata l’assemblea dei giorni scorsi di Assogenerici a Roma, nel ventennale dell’associazione, un plauso accorato e unanime al settore e a quel che rappresenta, per ciascuno di noi e per tutti. Senza omertà sulle difficoltà e le resistenze che permangono, e le strade per superarle.
“Siamo una risorsa che genera risorse e genera salute”, ha rivendicato il presidente Enrique Häusermann, forte di alcuni dati riconosciuti da tutti, quei quattro miliardi di risparmi solo in Italia e solo dal 2000 – quasi altrettanti risparmiabili entro il 2020 (un bel "Benvenuto nel futuro"!), nonché quel 60% di quota conquistata nel mercato europeo, con conseguente “raddoppio delle possibilità di cura”, nota anche Pierluigi Antonelli, vicepresidente della rete continentale di Medicines for Europe. Col generico si risparmia circa un quarto rispetto al farmaco di marca, risorse che consentono di ampliare la platea dei pazienti e di acquistare anche i più importanti farmaci innovativi. “Se non ci fosse il generico il sistema sarebbe già collassato”, riconosce tra gli altri Nomisma.
Di qui anche le note dolenti, che complicano il lavoro dei 10mila lavoratori italiani del settore. Persistono ostacoli, che relegano ancora gli equivalenti ai margini in alcuni ambiti del nostro paese. I generici sono cresciuti in doppia cifra negli ultimi anni (su ricavi, lavoro, retribuzioni), ma nella spesa farmaceutica ospedaliera restano a meno di un quarto del valore totale dei medicinali a brevetto scaduto. L’incremento poi nell’insieme del mercato rimane lento, addirittura piatto ultimamente sui farmaci rimborsabili (di fascia A).
E i paradossi si moltiplicano. Sono proprio le regioni più povere, quelle coinvolte in piani di rientro, a ricorrere meno ai farmaci equivalenti, che sarebbero forieri di risparmio oltre che di investimento, nota un rapporto QuintilesIMS. Questo riguarda l’Italia, ma in fondo anche l’Europa: sono i paesi più “virtuosi”, con un sistema sanitario più solido e funzionante, a far maggior ricorso ai generici, non il contrario.
Ritardi colmabili in tanti modi, dall’informazione sulla piena equivalenza dei generici ad alcuni aspetti amministrativi, a iniziare dal meccanismo del “payback”, il ripiano richiesto alle aziende farmaceutiche per lo sforamento dei tetti di spesa. Un sistema dagli aspetti perversi che talora falcidia chi produce salute e risparmi per i pazienti e per la Sanità, tanto che è stato il governo stesso ad annunciare, nel consesso a Roma, “ la volontà di superarlo”; con una promessa ulteriore, quella di non tagliare ma anzi aumentare i fondi 2017 per la Sanità.
Promesse importanti, che si incrociano con le parole di gratitudine per il settore, e l’auspicio di un seguito concreto. “ Che i risparmi generati dai generici restino nella Sanità, cosa che finora non è stato”, ha detto Tonino Aceti, coordinatore del Tribunale del Malato (Cittadinanzattiva). Plaudono tutti, incluso il senatore Andrea Mandelli, vicepresidente della Commissione Bilancio (e leader della Federazione Ordini Farmacisti Italiani), il Sottosegretario alla Salute De Filippo e il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, tanto da annunciare un “tavolo” per gli appalti farmaco-ospedalieri, a partire dalle proposte di Assogenerici. Le parole d’ordine sono trasparenza, equità, meccanismi per privilegiare le fasce deboli. “Valori etici, prima ancora che economici”, ricorda Häusermann. E il primo dei valori, si sa, è la salute, e la sua concreta accessibilità per tutti.
Con l’abbassarsi delle temperature torna a impennarsi il rischio di influenze. E questo cambio di stagione apre anche quella che dovrebbe indurre molti, e in particolare le categorie più a rischio, a vaccinarsi. Ma proprio in questi giorni arriva al contempo una novità ulteriore in tema di vaccini, ed è l’individuazione di un antidoto quasi “universale”, con l’ausilio rilevante dell’informatica.
La scoperta è annunciata dagli esiti di una ricerca ispano-britannica, pubblicata dalla rivista “Bioinformatics” dai ricercatori delle Università di Lancaster, Aston e Complutense. Sono stati messi a punti due vaccini, uno che coprirebbe il 95% dei ceppi virali presenti negli Stati Uniti, un altro “globale” capace di debellare l’88% dei ceppi nel mondo.
La logica di partenza utilizzata è piuttosto semplice e ricalca le prassi in uso: si prende un virus recente e lo si attacca sperando e sapendo che ci sono buone probabilità che funzioni anche per le epidemie successive. Non sempre però è così, tanto da aver innescato un parziale fallimento due anni fa (col vaccino H3N2), che ha poi scoraggiato molti a vaccinarsi l’anno scorso, nonostante le rassicurazioni degli operatori e delle autorità sanitarie.
Dagli algoritmi utilizzati al computer, sulla base dei virus e del sistema immunitario umano, sono stati però ora definiti, a detta degli scienziati, “i componenti di un vaccino che fornisce una protezione più duratura e vasta”, tanto da fare dichiarare che un “ antidoto universale contro l’influenza è a portata di mano”. Lo strumento principale sarebbe quello degli “epitopi”, brevi frammenti virali già noti per la nostra capacità immunitaria di riconoscerli. Il loro problema è che molti non hanno ancora ricevuto una validazione sperimentale, sicché i ricercatori, per dare un orizzonte di applicabilità prossimo, hanno utilizzato solo quelli già approvati. Coi promettenti esiti citati.
Fin qui la ricerca, che attende il suo seguito e il suo utilizzo farmacologico. Sul resto c’è l’attualità delle nuove influenze stagionali e delle relative campagne di vaccinazione, proprio “a partire dalla metà di ottobre”, fa sapere il Ministero della Salute. “ Contrastare i movimenti ‘no vax’”, incalza la ministra Lorenzin, lamentando che “ campagne anti scientifiche trovano oggi spazio sul web e sembrano avere lo stesso peso di quanto affermano le autorità scientifiche e sanitarie mondiali ”, e rivendicando un’offerta vaccinale in Italia “ tra le più avanzate al mondo , uniformata su tutto il territorio nazionale con l’introduzione di nuovi vaccini in regime di gratuità ”. Buona guarigione, dunque, e possibilmente prevenzione.
Attenzione, la “medicina” della completa guarigione ancora non c’è né, dicono gli scienziati, “è dietro l’angolo”. Ma l’esito di un protocollo sperimentato nel Regno Unito ha il sapore di una potenziale svolta storica. Per la prima volta l’Hiv, dopo una sperimentazione farmacologica, risulta del tutto “invisibile” all’analisi del sangue di un paziente, ed è un esito che suscita enormi speranze considerando che nel mondo ne sono affette circa 37 milioni di persone e ha causato finora quasi altrettante morti con lo sviluppo nell’Aids.
"Ho fatto gli ultimi esami due settimane fa e non c'era traccia del virus, ho partecipato all'esperimento per aiutare me stesso e gli altri, mi sembra incredibile ", le parole entusiaste del 44enne, consultato nell’anonimato dal Daily Telegraph. Lo stesso giornale, nel rispetto della cautela degli studiosi, è stato poi costretto all’indomani a rettificare il titolo. Non più virus “scomparso”, bensì “irrilevabile”, perché non si esclude il permanere di cellule malate “dormienti”.
Sono cinque le università coinvolte nel protocollo, sperimentato su cinquanta pazienti (di cui il 44enne è il primo), e sono di massimo livello: Oxford, Cambridge, Imperial College, University College London e King's College, sotto il coordinamento dell’autorità sanitaria nazionale.
Si tratta di un farmaco elaborato al fine di “ingannare” il virus, inducendolo a emergere dalle cellule in cui si nasconde, per poi attivarvi il sistema immunitario orientato a distruggerlo. “Kick and Kill”, dicono gli inglesi. Le sfida è dunque orientata proprio alle cellule nascoste: “La terapia è stata appositamente concepita per ripulire il corpo da tutti i virus dell'Hiv, compresi quelli dormienti – spiegano - Ha funzionato in test di laboratorio e ci sono prove che stia funzionando anche con gli esseri umani”.
Insomma, tra una cautela e l’altra sprigiona l’ottimismo. Ci vorrà tempo per le certezze ma la strada sembra tracciata. Nell’attesa, permangono le cure per “contenere” il virus e poterci convivere. Con potenziali terapeutici promettenti anche dal lato dei costi. “ I farmaci generici sono il futuro, amplieranno la cura dell’Hiv”, scrisse già nel 2012 la rivista Nature. E nei mesi scorsi raccontammo noi stessi gli ultimi esiti delle ricerche italiane (dal San Raffaele di Milano al Gemelli di Roma), che hanno comprovato la completa equivalenza nello “switch” agli equivalenti, a prezzo assai più basso. E’ bene ricordarlo, ed è fondamentale che lo sappiano i pazienti, perché quello scarto, per molti, può fare una differenza che vale la vita.
Ci sono campagne e campagne. Alcune si risolvono in una “Giornata”, altre durano molto di più, e non solo perché, come in questo caso, coinvolgono una “Settimana”, ma soprattutto in quanto mobilitano quotidianamente all’azione migliaia di donne, con il placet delle principali autorità sanitarie mondiali e della stessa Unicef. L’allattamento naturale è la migliore medicina concepita per il nutrimento e la prevenzione sanitaria del neonato, e lo è anche per le madri.
La “Settimana Mondiale dell’Allattamento” appena conclusa, gestita a livello globale dalla World Alliance for Breastfeeding Action (e in Italia soprattutto dal Movimento Allattamento Materno Italiano), è stata incentrata quest’anno sul concetto di “sostenibilità”, anche in relazione agli “obiettivi di sviluppo”. Più che mai infatti il tema della salute – con i benefici conclamati del latte materno rispetto all’artificiale – qui si incrocia con quello dei costi, ai quali si costringono le madri - colpa grave soprattutto nei contesti di povertà – magari con campagne subdole dei produttori, che suscitano da tempo le proteste delle agenzie umanitarie.
La rivista Lancet ha calcolato nei mesi scorsi che tramite un incremento ragionevole del ricorso all’allattamento al seno si potrebbero prevenire oltre 800mila decessi l’anno, che corrispondono al 13% dei piccoli sotto i cinque anni. In particolare, si eliminerebbero la metà dei casi infantili di dissenteria e un terzo delle loro infezioni respiratorie. Si potenzia la crescita del bimbo, si alimentano gli anticorpi e le altre difese, con effetti accertati anche sul funzionamento cardiovascolare nel lungo termine.
Di più, i benefici sono inoltre psicologico-affettivi, e naturalmente coinvolgono anche la madre, dimezzandone non solo i rischi di depressione post-partum, ma riducendo perfino l’esposizione a patologie strettamente fisiologiche, dal tumore al seno all’osteoporosi, dall’ipertensione all’infarto.
Si potrebbe pensare che l’emergenza riguardi soltanto i paesi in via di sviluppo. Nient’affatto. A 26 anni dalla prima grande campagna Unicef in materia c’è solo un paese europeo in cui la maggior parte delle madri riesce a rispettare l’obiettivo dei sei mesi di allattamento, ed è la Finlandia. In Italia ci arriva solo il 10%, mentre già a quattro mesi il 70% dei piccoli è nutrito col biberon. A volte non ci si riesce per qualche serio impedimento fisiologico, al ché il latte artificiale risulta salvifico. Ma a volte no, pesano scelte e obblighi “organizzativi”. E’ una colpa grave, ed è una colpa collettiva. La maternità va aiutata e protetta, naturalmente non solo da familiari, medici e consultori, ma anche dal mondo del lavoro.
Inutile, anzi dannoso, cercare di negarlo. L’ipertensione è una piaga talmente estesa che sicuramente coinvolge almeno alcuni dei lettori (e magari anche di chi scrive). Si tratta di un “killer silenzioso”, che affligge quasi 17 milioni di italiani (in lieve maggioranza uomini), ossia quasi un terzo della popolazione nazionale, e causa ogni anno la morte di oltre 7 milioni di persone nel mondo, tanto da innescare periodiche campagne e appelli (specie all’ultima “Giornata Mondiale”, lo scorso 17 maggio) al controllo della pressione arteriosa.
Se ne parla proprio in questi giorni a Firenze, al 23esimo Congresso nazionale della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (Siia), sulla base di un paio di ulteriori dati di fatto. Anzitutto, l’ipertensione rappresenta nel nostro paese la principale causa di malattie cardiovascolari, roba da 240mila morti l’anno, e cioè il 40% delle cause di morte, senza esclusione per gli adolescenti e perfino i bambini, essendone coinvolti quattro su cento nell’età delle scuole elementari.
L’altro dato allarmante è che pochissimi ne sono consapevoli, e questo espone loro ai gravissimi rischi citati, il che rappresenta una colpa ancor più grave quando riguarda i più giovani. “Tutti sono a rischio, a qualunque età”, ricorda Gianfranco Parati, presidente della Siia, col risultato ultimo che “solo un paziente iperteso su quattro è adeguatamente curato”.
E la gravità in tale carenza di consapevolezza e controlli si accompagna a un altro dato, benché di segno opposto, che è quello di un miglioramento della qualità terapeutica degli ipertesi. Dagli ultimi dati, relativi al 2013, emerge che per oltre il 60% degli italiani di accertata ipertensione è stato poi ottenuto un controllo adeguato della pressione arteriosa, mentre solo otto anni prima erano solo il 39%. La medicina cresce, e con essa la capacità di raccogliere e dar seguito ai segnali della diagnostica.
Di qui il primo dei consigli ai pazienti, quello per un regolare controllo della propria pressione arteriosa. E poi tutto il resto. Nelle parole del professor Parati, “ combattere il sovrappeso, introdurre meno sale con gli alimenti, evitare i grassi favorendo una dieta ricca di frutta e verdura e fare attività aerobica regolarmente, almeno 30 minuti al giorno ”. Ancora una volta, la parola d’ordine è la prevenzione: “ Non è tanto l’aggressività con cui si riduce la pressione arteriosa che fa la differenza in termini di riduzione del rischio di complicanze cardiovascolari – nota lo scienziato - quanto la precocità degli interventi”.
A volte la sana attenzione per il proprio peso corporeo induce a dolorose rinunce, ma è bene tener presente che alcune di esse non solo sono inutili, ma possono risultare assai dannose. Questo riguarda perfino uno degli ingredienti più insidiosi, ossia il sale. Ebbene, non tutti i sali sono nocivi, se è “iodato” è anzi un nutrimento essenziale la cui assenza alimenta seri rischi per la salute.
L’ultima documentazione in proposito arriva per la verità dallo studio commissionato da un produttore agro-industriale, l’Osservatorio Nutrizionale Grana Padano, ma le indicazioni di fondo ricalcano quelle condivise da agenzie indipendenti e dallo stesso Ministero della Salute. Rivela uno scarso consumo in Italia di alimenti ricchi di iodio, con conseguenze insidiose soprattutto per il feto e per la crescita dei bambini.
Nel dettaglio, sono state esaminate 1200 interviste realizzate nel 2015 in varie regioni. Ed è emerso che il consumo medio è di 60 microgrammi al giorno, ossia meno della metà della dose consigliata, mentre solo il 5% della popolazione raggiunge tale fabbisogno (il quale varia a seconda delle fasi della vita, impennandosi durante la gravidanza e l’allattamento). Dati preoccupanti, in linea, se non peggiori, rispetto alle stime a livello globale, che calcolano l’esposizione alla carenza di iodio sul 29% della popolazione.
La gravità del danno è anch’essa nelle cifre. Si stima che in Italia si ammalano di gozzo (aumento del volume della tiroide causato proprio da tale carenza) circa 6 milioni di persone, oltre il 10% della popolazione, tanto da determinare 50 ricoveri ogni 100mila abitanti. Un “ problema sanitario e sociale grave”, incalzano i ricercatori.
Bene dunque usare il “sale iodato” al posto del comune sale da cucina. E poi la priorità sono i crostacei e i pesci di mare. A seguire uova, formaggi, e poi anche anacardi, noci e pistacchi, mentre la carne e i vegetali ne sono relativamente poveri. Indicazioni da prendere senza la tendenza opposta, e altrettanto nociva, all’esagerazione. Lo iodio comunque serve, e va ricordato. Per la tiroide, ma anche per lo sviluppo, la regolazione del metabolismo (anche calibrando i grassi in eccesso), la prontezza mentale (di cui l’importanza primaria per feti e bimbi), e la stessa salute della pelle, capelli e denti. La salute si difende prima che arrivino le magagne, anzitutto a tavola.
Lo abbiamo ricordato più volte, il tema della “medicina di genere” non è un’astrazione ideologica ma un’urgente necessità. Tra una ricerca medica ancora coniugata al “maschile”, un quadro generale di difficoltà socio-economiche che tende a colpire selettivamente le categorie meno protette, e una maggiore esposizione a diverse patologie, le donne reclamano più attenzione. Vivono mediamente di più, ma soffrono di più, con per giunta qualche segnale preoccupante da Eurostat sulla tendenza alla riduzione della distanza nella speranza di vita tra i sessi.
Un’ulteriore allarmante conferma arriva dai “Numeri del cancro in Italia 2016”, il rapporto diffuso nei giorni scorsi dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e dall'Associazione Italiana Registri Tumori (Airtum). Il dossier per la verità non è privo di dati incoraggianti, a iniziare dal fatto che di tumore si muore meno, tanto da far dire alla ministra della Salute Lorenzin che si tratta sempre più di una “ malattia cronica come altre, da cui poter guarire o comunque convivere, con una vita attiva e soddisfacente”. A condizione di un’adeguata assistenza, naturalmente.
“Le due neoplasie più frequenti, quella della prostata negli uomini e del seno nelle donne - documenta il presidente di Aiom Carmine Pinto - presentano sopravvivenze a 5 anni che si avvicinano al 90%”, al punto che “ l'Italia è in testa nella classifica europea per sopravvivenza per quasi tutti i tumori, e questo nonostante la spesa per la Sanità rispetto al Pil sia tra le più basse ” in Europa. Il calo della mortalità è vistoso, oggi i pazienti con storia di cancro in Italia sono oltre tre milioni (di cui oltre un quarto completamente guariti), quasi un milione in più rispetto solo a dieci anni fa.
Le buone notizie proseguono con quella del calo degli uomini che si ammalano. Nell’ultimo anno le diagnosi per loro sono state meno di 190mila, il 2,5% in meno rispetto all’anno precedente. Un miglioramento di rilievo, dunque, con peraltro un grande “ma”: esso si riferisce solo agli uomini, mentre per le donne la realtà è quella di un ulteriore aumento, perfino superiore al calo rilevato tra i maschi: le italiane ammalatesi quest’anno sono state oltre 176mila, nel precedente erano meno di 169mila.
Sulle cause di quest’opposta tendenza le spiegazioni sono diverse. Gli oncologi, ad esempio, notano la concomitanza dei dati sul fumo, in relativo aumento nel gentil sesso. Ma c’è anche molto altro, a iniziare dall’esigenza di un’attenzione medica specifica, che in tempi di difficoltà economiche va aumentata, e non più sacrificata.
Tra promesse e annunci scientifici la cosa più convincente per chi si interessa di salute e ricerca medica è quella di superare tali “filtri” di comunicazione incontrando gli scienziati stessi. E’ quel che è successo nei giorni scorsi a Roma, con un incontro-stampa con la scienziata Francine Kaufman, pluripremiata endocrinologa americana (alla presenza di studiosi italiani, quali Martino di Messina, Coordinatore del Gruppo di studio del diabete della Società Italiana di Diabetologia Pediatrica), che ha raccontato con parole sue le novità in materia di “rivoluzione tecnologica sul diabete ”.
Fu lei infatti la prima ad aver concepito l’ipotesi di un “pancreas artificiale”, che coinvolgerà un microinfusore di insulina, un sistema di monitoraggio continuo della glicemia e formule algoritmiche connsse all’interno del microinfusore stesso capaci di regolarne in modo completamente automatico il corretto dosaggio.
Si tratta di un risultato ancora da raggiungere, ma alcune “tappe intermedie” sono già in atto, con rilevanti benefici per i pazienti. Dal marzo 2015 è infatti disponibile in Italia (e non ancora negli Stati Uniti) un “sistema integrato” (chiamato Medtronic MiniMed 640G) che, a detta dei produttori e della stessa Kaufman, è capace di prevenire oltre l’80% degli eventi ipoglicemici.
Il nodo è proprio nella definizione del giusto dosaggio di insulina richiesto dal diabete di tipo 1, caratterizzato dall’incapacità del pancreas di produrla. Il livello “giusto” non è uguale per tutti e in tutti i giorni, a seconda dell’alimentazione, dell’attività fisica e di altri fattori fisiologici, e tale variabilità induce spesso all’errore, stimato addirittura al 74% dei trattamenti. Ed è un errore grave, perché una somministrazione sbagliata può far aumentare la glicemia, e i rischi connessi di complicanze cardiovascolari, neuropatia e altro. Tale apparecchiatura sembra prevenire tutto questo, trasmettendo e visualizzando sullo schermo del microinfusore i valori di glucosio, sospendendo automaticamente l’erogazione di insulina quando in eccesso.
Un ulteriore sviluppo tecnologico, tramite un sistema “ibrido”, è stato sperimentato e pubblicato in questi giorni sul Journal of the American Medical Association. L’importanza di queste novità è nell’ampiezza della platea dei pazienti affetti da diabete 1, stimata in Italia sulle 250mila persone, di cui quasi un decimo minorenni, con costi pubblici di ricovero per un’ipoglicemia calcolati sui 2900 euro al giorno. Ora, “ci vorranno ancora alcuni decenni” per il traguardo di una cura definitiva del diabete. Fino ad allora, la priorità è quella della prevenzione, a partire dall’appropriatezza dei dosaggi. Oggi verificabile con una precisione fin qui sconosciuta.
Molto si discute anche in questi giorni sul tema dei costi sanitari, coinvolgendo tra l’altro tensioni e dichiarazioni governative sul nodo delle intenzioni di spesa nel settore. Il tema è però ben più esteso di quello delle “somme”, in quanto può esser decisivo “come” vengono spese, e “quanto” si potrebbe risparmiare allargando le possibilità di cura anziché comprimerle. Il nodo degli sprechi è al cuore della politica sanitaria, e per giunta chiama tutti alla responsabilità, inclusi medici e pazienti - come ben sanno le loro associazioni, a iniziare da Cittadinanzattiva - perché alle questioni di efficienza organizzativa si aggiungono quelle dell’appropriatezza prescrittiva, dell’aderenza terapeutica e naturalmente dei costi dei farmaci.
L’ultimo aggiornamento in proposito arriva da uno studio della sezione giovanile del sindacato dei medici, l’Anaao Assomed, pubblicato dal Sole 24 Ore. Non mancano gli atti d’accusa verso i decisori, tra “l’ eccessiva eterogeneità regionale e locale che si ripercuote in diseguaglianze all'accesso dei servizi, scarsa valorizzazione del capitale umano, mancanza di programmazione, assenza di coordinazione tra ospedale e territorio, turn-over eccessivo dei direttori generali, riorganizzazioni aziendali spesso decise su basi politiche”.
E poi c’è lo scarso peso della prevenzione, pari a solo il 4,2% della spesa sanitaria pubblica, il che costituisce di per sé uno spreco in quanto “è causa di crescita di costi futuri legata al peggioramento delle condizioni di salute della popolazione”, con particolare riferimento alle “ Regioni coinvolte dai piani di rientro”.
Tutt’altro che secondario il nodo dei farmaci. Da un’indagine pubblicata sul British Medical Journal emerge che addirittura il 10% del volume dei medicinali erogati in Italia finisce nel cestino, pari a un valore annuo di 1,6 miliardi di euro. Problemi di appropriatezza, e soprattutto di aderenza, considerando ad esempio che nell’ultimo anno un paziente su tre non ha seguito correttamente le terapie antibiotiche.
Qui s’incrocia, pesantemente, il nodo dei costi, che spinge tanti, troppi italiani, a rinunciare o ad abbandonare le cure. E qui c’è anche un elemento di speranza, considerando che i brevetti farmaceutici in scadenza sono stimati da qui al 2020 a un valore complessivo di oltre 2,1 miliardi di euro. In altre parole, stando a stime realistiche, il ricorso a farmaci generici genererà in tale lasso un risparmio di almeno 1,1 miliardi, solo per i medicinali di classe A.
Si tratta di una variabile di primaria importanza, come sottolineato in questi mesi anche dalla campagna “IoEquivalgo” di Cittadinanza che sta attraversando le città italiane di ogni latitudine, ricordando l’assoluta equivalenza nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica dei generici, in aggiunta a quel rilevante risparmio che può far la differenza sulla possibilità o meno di curarsi. Anche non saperlo è uno spreco. E non è un caso che la prima tappa del tour avviato dalla principale rete associativa italiana in favore degli equivalenti, lo scorso maggio a Fiuggi, sia stata proprio nell’ambito della sua festa annuale contro gli sprechi.
E' una delle patologie più temute dagli uomini, con buone ragioni. Il tumore alla prostata costituisce il 15% dei tumori diagnosticati al genere maschile, con 35mila nuovi casi accertati ogni anno nel nostro paese, sicché, a conti fatti, se ne ammala nella propria vita un italiano su otto, a partire perlopiù dai 50 e soprattutto 60 anni. Spesso si guarisce, ma non mancano gli effetti collaterali che incidono seriamente sulla qualità della vita. Ed è proprio su questi che si annunciano novità assai promettenti.
Le percentuali di sopravvivenza – oltre il 90% a cinque anni dalla diagnosi – sono infatti tra le più elevate tra i tumori. Troppo spesso però la guarigione è seguita da una serie di gravi e poco curabili disturbi, dall'incontinenza urinaria alla disfunzione erettile, per effetto delle tecniche tradizionali di intervento, dalla chirurgia alla radioterapia. E' per questo che sono state recentemente elaborate tecniche assai meno invasive, con effetti ben più limitati.
E' il caso in particolare dell'“ablazione”. L'Università di Chicago, con una pubblicazione sulla rivista European Urology, ha riesaminato i dati emersi da 37 studi internazionali che hanno coinvolto globalmente oltre 3200 pazienti. Si tratta della “terapia focale”, che si alimenta di diverse fonti energetiche (ultrasuoni, crioterapia, terapia fotodinamica, termoterapia interstiziale laser, brachiterapia, elettroporazione irreversibile, radiofrequenza) per determinare appunto l'”ablazione” del tessuto prostatico.
L'esito è piuttosto convincente. Dopo la terapia, i tassi di continenza (senza perdite né necessità di tamponi) sono stati calcolati tra l'83,3% e il 100%, e la potenza (erettiva) veniva preservata tra l'81,5% e il 100% dei casi.
Gli scienziati americani peraltro ostentano prudenza. “ I pazienti devono sapere che comunque non esiste una cura certa contro il cancro che offra la garanzia di non produrre effetti collaterali”, avvertono. Ma alle valutazioni incoraggianti sulla sicurezza dell'intervento si aggiungono anche i dati recenti sull'efficacia dello stesso. Dei mesi scorsi l'annuncio della sperimentazione di una nuova tecnica da parte di un istituto californiano, l'ablazione “laser-focale”. Si tratta solo di un test preliminare, ma i suoi buoni esiti entrano nel solco globale di una ricerca virtuosa e in rapida evoluzione, nonché ad alto impatto sulla qualità della vita successiva all'intervento.
Va detto a bassa voce, anche perché potrebbe suonare come un insalubre messaggio di conforto per chi fa uso, e soprattutto abuso, di alcol. Il concetto da recepire è tutt'altro, riguarda invece la fondamentale importanza dell'attività fisica che, se condotta con costanza e al contempo ragionevolezza, è il migliore amico della prevenzione, nell’ambito perfino di altri comportamenti personali dannosi.
Sono gli stessi scienziati dell'Università di Sidney, autori della ricerca pubblicata sul “British Journal of Sports Medicine”, a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco sulla nocività dell'alcol: “ E' il ‘farmaco psicotropo’ più usato e, al contrario di molti altri, è socialmente e culturalmente accettato ”, denuncia il professor Emmanuel Stamatakis, ricordandone gli effetti deleteri, a iniziare dagli accresciuti rischi di tumore, cardiopatie, malattie del fegato e disturbi mentali.
Sono problemi già documentati, ma gli studiosi australiani hanno avuto l'idea di riesaminarli nel contesto, per una volta, di comportamenti viceversa virtuosi per la salute, a iniziare dall'attività motoria. Hanno quindi preso in rassegna i dati pregressi raccolti su oltre 36mila ultraquarantenni nell'ambito delle indagini annuali compiute in Gran Bretagna negli scorsi vent'anni.
Ebbene, è emerso che le persone che fanno un esercizio fisico scarso o nullo e bevono in modo moderato hanno un rischio di mortalità aumentato in tale lasso (rispetto agli astemi) del 20%, che si eleva al 47% per i decessi di tumore. Tra i “pigri” che bevono invece molto - oltre le “linee guida” stabilite dalle autorità britanniche - tali rischi si impennano, rispettivamente a +58% e al +87%.
La sorpresa riguarda però le persone che viceversa esercitano attività fisiche con una certa continuità. Ebbene, tra queste, i bevitori “pesanti” vedono gli accresciuti rischi di mortalità (sempre rispetto agli astemi) contenersi al 18%, e addirittura del 9% per i decessi tumorali. Inoltre, tra i bevitori moderati che fanno sport la differenza si azzera del tutto, il corpo sembra capace di “assorbire” e ricalibrarsi al livello degli astemi. L'alcol fa male, dunque, e sempre. Ma qui c'è dell'altro: la sedentarietà ne alimenta notevolmente il danno, anche quando consumato a piccole dosi, mentre all’opposto l'attività motoria è in grado di limitarlo sensibilmente.
I reni sono spesso l’ultima delle preoccupazioni dei diabetici. A torto. C’è una patologia, chiamata “nefropatia”, e colpisce quasi il 40% dei pazienti, con conseguenze che arrivano all’insufficienza renale, a dialisi e perfino necessità di trapianto, che per giunta sono segnalate in rapido aumento, complice anche la crescente sedentarizzazione di molti. Dinanzi a tali danni è stata annunciata nei giorni una novità che suona promettente.
Se n’è parlato a Monaco di Baviera al 52mo Congresso dell’Associazione Europea per lo Studio sul Diabete (Easd). L’Università tedesca di Erlangen-Nuremberg ha rilevato anzitutto che i maschi con diabete di tipo 2 corrono un rischio sei volte più grande (rispetto ai non diabetici) di incorrere in tale malattia, che rappresenta per giunta un fattore di rischio per le patologie cardiovascolari. Di qui la sperimentazione su alcuni farmaci, definiti erroneamente “nuovi” da qualche organo di stampa, mentre sono già in uso da qualche anno.
Sono stati quindi esaminati oltre 9300 pazienti di trentadue paesi diversi, seguendoli per cinque anni. E’ stato valutato in particolare l’effetto (comparato col placebo) della “liraglutide”, un analogo (somministrato con penne pre-caricate) di un ormone endogeno che potenzia, in risposta al consumo di zuccheri, la secrezione insulinica del pancreas, utilizzato anche in terapie contro l’obesità, in quanto innesca un ritardo nello svuotamento gastrico con riduzione dell’appetito e della massa corporea.
E’ stata così accertata una significativa riduzione del rischio di comparsa o di peggioramento di danni renali del 26%, nonché di morte per cause cardiovascolari del 22%. “Sono dati di grande rilevanza clinica”, spiegano i ricercatori, anche perché è stata inoltre accertata la sostanziale insussistenza di effetti collaterali indesiderati, con per giunta un’incidenza lievemente diminuita di pancreatiti.
Il tema è importante, anche perché, scrive ad esempio il professor Sergio Marigo, fondatore del Centro antidiabetico di La Spezia, “ la nefropatia fa più danno che paura”, rispetto ad altre patologie, anche legate al diabete. Invece è un aspetto che merita un’accresciuta attenzione. “La funzione dei reni è indispensabile per la vita – aggiunge - e lo prova il fatto che tutti gli esseri viventi, superiori e inferiori, possiedono i reni o qualche cosa che gli assomiglia”. Un tassello cruciale per la salute e per la vita, dunque, che ora sappiamo un po’ meglio come proteggere.
Tra concerti, convegni, incontri di piazza l’Italia si è mossa in questi giorni sull’Alzheimer, al ricorrere della 23esima giornata mondiale. Un’occasione per ricordare che la gravità del problema è tale da meritare un’attenzione ben più estesa di quelle ventiquattr’ore, e che molto di più si può fare per aiutare le persone, nell’assistenza quanto nella cura.
Ogni anno si registrano quasi dieci milioni di nuovi casi nel mondo, cioè uno ogni tre secondi, e in Italia, secondo un’indagine del Censis con l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (Aima), ne soffrono 600mila ultrasessantenni, stando solo ai casi accertati (senza contare i milioni di anziani con altre forme di deficit cognitivo), ossia quasi il 20% in più rispetto solo a dieci anni fa, il che segnala una tendenza anche per l’avvenire. Dimenticarcene è un male, per tutti, oltre che per i pazienti, considerando che i costi diretti dell’assistenza nel nostro paese superano gli 11 miliardi di euro, pari a oltre 70mila euro a paziente. E considerando anche un’altra cosa: che solo un quarto di quei costi è sostenuto dal Servizio Sanitario Nazionale, il resto è tutto a carico delle famiglie.
Così non va, perché molte non ce la fanno, e perfino quando ce la fanno non è facile, anche perché a invecchiare sono gli stessi “caregiver”, ossia i figli e i badanti che li aiutano. Mediamente hanno quasi 60 anni, nel 2006 ne avevano 5 in meno, così come i malati hanno oggi quasi 79 anni, due in più rispetto a dieci anni fa. Invecchiano tutti, aumentano i rischi, mentre ancora è troppo lento il progresso nell’assistenza. Oggi ci vogliono in media quasi due anni per una corretta diagnosi, vent’anni fa la durata era solo di qualche mese in più.
Eppure i progressi ci sono stati. Esistono molti specialisti pubblici, esistono diverse Unità di Valutazione Alzheimer, ed esistono le novità della ricerca, sulle possibilità terapeutiche e su quella variabile decisiva che è una tempestiva diagnostica. Di questi giorni, ad esempio, l’esito di uno studio tutto italiano, svolto dall’Istituto di Neuroscienze del Cnr (progetto “Italian Longitudinal Study on Aging”) su oltre duemila anziani, che avrebbe elaborato un modello capace di predire con otto anni di anticipo varie forme di demenza, a partire dall’osservazione di piccoli deficit comportamentali.
Di quei progressi molte famiglie rimangono però lontane, spesso per poca informazione, ancor più spesso per poche risorse. Nella Giornata è spuntata anche una lettera aperta della presidente dell’Aima Patrizia Spadin ai vertici dell’Inps. Lamenta le cifre irrisorie delle indennità di accompagnamento e perfino le difficoltà ad accedervi. Chiedendo “ un’iniziativa per trovare soluzioni che evitino di far ricadere tutto su pazienti e familiari, già così duramente colpiti”.
Lo si è già scritto e denunciato, anche da queste pagine. La recessione esplosa nel 2008 ha avuto un impatto sulla qualità della salute, specie dove si è accompagnata a tagli al welfare. “La crisi uccide”, è perfino il titolo di un libro uscito già tre anni fa. Adesso arriva una dettagliata conferma, da uno studio di scienziati americani e britannici, che rilancia e documenta un semplice concetto: non si esce dalla depressione se si deprimono le persone.
Gli scienziati della City University di Londra e della californiana Standford University, in una pubblicazione uscita sul British Medical Journal, hanno messo insieme e sistematizzato l’esito di 41 studi compiuti tra il gennaio 2008 e il dicembre scorso, con particolare riferimento ai due paesi europei più severamente colpiti dalla recessione, ossia la Grecia e la Spagna.
Si tratta naturalmente di una ricerca scientifica e non di un “pamphlet”, tanto che non mancano le attestazioni di prudenza sulle conclusioni circa diversi aspetti della correlazione ipotizzata tra economia e salute, i paesi coinvolti e le “sindromi” analizzate, evidenziando elementi di variabilità e invocando “altri approfondimenti empirici”. C’è ad esempio il caso dei tassi di mortalità, che sarebbero nell’insieme ulteriormente diminuiti nonostante gli anni difficili, sebbene non manchi qualche recente segnale di una possibile inversione di tendenza, anche in Italia. Ebbene, quel calo potrebbe attribuirsi, a detta dei ricercatori, a un miglioramento dei comportamenti personali, ad esempio nel consumo di fumo e alcol, innescato proprio dai problemi di spesa.
Nondimeno i punti fermi ci sono, e piuttosto evidenti. Anzitutto è emerso che la salute delle categorie sociali più deboli, a iniziare dagli immigrati, si è deteriorata molto più degli altri ceti nel periodo considerato. Ancora, le sindromi depressive (spesso accompagnate a patologie fisiologiche) sono nettamente aumentate, e in particolare tra le donne. E poi addirittura i suicidi, in chiaro incremento, specie tra gli uomini (come a dire, le donne sembrano soffrire di più ma infine “reggono” meglio).
Sono tasselli di un mosaico di effetti sanitari ben più vasto, che chiama evidentemente in causa le politiche sulla salute. Pur senza proclami né toni apocalittici, gli studiosi dicono questo: il tema non sono solo gli “effetti della crisi”, ma soprattutto quelli derivanti dalle “risposte dei decisori alla recessione”. Sicché l’appello è infine assai chiaro, ed è rivolto non solo alle autorità ma perfino agli stessi medici: “Che si battano anch’essi per difendere la tutela del welfare”, scrivono.