Il giro d’Italia di Cittadinanzattiva in favore dei farmaci generici riparte, con uno slancio d’impegno che porterà la principale rete associativa italiana dei pazienti a toccare ben otto tappe nell’arco di pochi giorni. E’ una mobilitazione importante, sana, di divulgazione e sensibilizzazione, che trova il supporto delle principali sigle professionali, dai medici ai farmacisti, dai produttori ai pensionati, con il sostegno di Assogenerici e il patrocinio dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa).
Dopo aver già attraversato il centrosud, la campagna “IoEquivalgo” toccherà Vicenza domenica prossima, appuntamento dalle 10 alle 18 al “villaggio” allestito in piazza Matteotti, pronto all’assistenza e all’informazione. Poi si riscenderà verso il centro, il 15 settembre a Senigallia, il 17 a Perugia, per continuare l’altalena a Campobasso, Crotone, Palermo, Udine, Chieti, e chiudere infine a Taranto il prossimo 14 ottobre.
Uno sforzo dunque notevole, che fa leva sulle fatiche anche locali delle associazioni, dei volontari e dei rappresentanti delle varie categorie degli addetti ai lavori. Uniti su un concetto non più prorogabile: il ricorso ai generici è un’urgenza di salute, di risparmio, e di civiltà. Il dato inaccettabile di base è che un italiano su dieci abbandona le cure a causa dei costi, come documenta un’inchiesta della stessa Cittadinanzattiva.
“Riceviamo ogni giorno segnalazioni dai cittadini- lamenta l'Associazione- che mostrano quanto i costi privati per i farmaci stiano diventando pesanti per loro (26,6%), spingendoli in alcuni casi anche a rinunciare alle cure, come accade al 9,5% degli italiani". Questioni di costo, di cui peraltro siamo colpevoli un po’ tutti, inclusi medici e pazienti. Ogni giorno gli italiani buttano alle ortiche due milioni e mezzo di euro, come si evince dal “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici, nella differenza di prezzo pagata per scegliere il farmaco di marca al posto degli equivalenti nei soli medicinali di fascia A, rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale.
Sprechi colossali, che pertanto toccano nel vivo le associazioni dei consumatori, anche al di là dell’ambito dei pazienti. Restando “al di qua”, il dato conclamato è duplice: da un lato ci sono gli amari raffronti con gli altri paesi europei, che sprecano molto meno (l’Italia è in fondo alle classifiche sul ricorso ai generici); dall’altro c’è la verità, confermata, verificata e documentata dalla stessa Aifa: quella dell’assoluta equivalenza del generico rispetto a “qualsiasi altro medicinale, in un’ottica di conformità ai requisiti di qualità, sicurezza ed efficacia” - nelle parole del direttore generale Luca Pani. Con per giunta il potenziale di “ un’opportunità per liberare risorse economiche da investire nell’ingresso dei nuovi medicinali”. E, soprattutto, consentire a tutti di curarsi adeguatamente, il che oggi ai fatti non avviene.
Un’altra novità preziosa nella lotta ai tumori, e ancora una volta arriva dall’Italia. E ancora una volta fa leva non su fantasmagorici antidoti escogitati a tavolino, bensì prospettando cure farmacologiche che prendano atto e valorizzino i meccanismi naturali di difesa già presenti nel nostro corpo. Il tema è il melanoma, ossia il più aggressivo dei tumori alla pelle, con un potenziale letale, nonché l’attività dei nostri nei. Spesso guardati con “sospetto”, quali possibili indicatori di un problema, essi contengono altresì difese essenziali. Da rinvigorire.
Lo studio è stato condotto dall’Istituto Pascale di Napoli, e finanziato (anche stavolta) dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc). La scoperta è quella di una piccola molecola. Per gli addetti ai lavori, si chiama “miR-579-3p”, della classe dei “microRna”. Quel che è importante (e comprensibile) è che essa funziona da soppressore della crescita tumorale, ed è presente in abbondanza nei normali nei. Per l’appunto, essi non sono “il problema”, ma anzi contengono la possibile soluzione.
C’è un “ma”. La sua quantità diminuisce man mano che il melanoma diventa più aggressivo, e questo per giunta si aggrava quando il melanoma diventa resistente ai farmaci inibitori. Tuttavia – e qui sta la novità promettente – se la molecola viene introdotta dall’esterno ripristina le proprie qualità, inibendo le cellule tumorali incluse quelle che resistono al medicinale, il che spalanca, secondo gli studiosi, a “ nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche”.
La novità ha l’ulteriore beneficio di incrociarsi in queste settimane con altre scoperte rilevanti, in particolare una annunciata da Israele. I ricercatori dell’Università di Tel Aviv (in collaborazione con il German Cancer Research Center di Heidelberg) hanno identificato il meccanismo con il quale il melanoma si diffonde agli altri organi, ossia la metastasi. E con esso hanno capito come fermarla.
L’indicazione è analoga, si tratta delle stesse molecole identificate a Napoli, il cui annientamento è appunto causa della crescita tumorale. Diventa metastasi perché si debellano le difese interne, e questo sin dalle fasi “preliminari” all’espansione cancerogena. E anche qui, come a Napoli, si è accertato che tale processo può essere fermato con l’iniezione di apposite sostanze chimiche. A questo punto trapela ottimismo. “Confidiamo – dicono gli scienziati israeliani – che tali risultati riducano il melanoma a una malattia facilmente curabile”.
In realtà è il più bello, importante, memorabile anche se il piccolo che lo vive non lo ricorda affatto, non almeno a livello cosciente (a quello incosciente sì, tanto da lasciare tracce a vita, se le cose vanno male). E’ il giorno che suscita le più grandi emozioni e le più antiche filosofie e teologie (gareggiando in questo tuttalpiù con l’ultimo, quello della morte). E’ il momento della procreazione. Tuttavia, segnala l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), è anche e ancora il più pericoloso. Per il bebé, e per la stessa creatrice, la madre.
Ogni anno muoiono 303mila donne nel mondo durante la gravidanza e il parto. Si stima inoltre che ogni giorno circa 830 donne muoiono per motivi evitabili con un minimo di cura. E poi, 2,7 milioni di bambini muoiono nei primi 28 giorni di vita, altri 2,6 milioni nascono morti. Numeri che fanno rabbrividire e che, si noti, sono alimentati soprattutto dai paesi privi di un’adeguata assistenza sanitaria. Il 99% dei decessi delle gestanti avviene nei paesi in via di sviluppo.
In essi, anche le cifre ufficiali difettano, tanto da far temere che quelle reali possano essere il doppio, e da indurre l’Oms a divulgare nei giorni scorsi alcune direttive finalizzate quantomeno a una più precisa raccolta dei dati: sul sistema di classificazione (molti paesi non registrano le cause di morte, e nemmeno le patologie pregresse), sull’analisi della stessa, e sulle conseguenti indicazioni organizzative e cliniche.
Gli allarmi peraltro finiscono qua, le notizie per la verità sono anche positive, e non poco. Negli ultimi quindici anni, ad esempio, la mortalità materna è stata quasi dimezzata (-44%), e l’aspettativa realistica per i prossimi è quella di ridurla ulteriormente a un rapporto di 7 per 10mila nascite (oggi siamo a una proporzione poco meno che doppia).
Come si raggiunge l’obiettivo? La risposta è apparentemente semplice, ma ci riguarda tutti. Servono competenze e strutture mediche correttamente attrezzate. Semplice, ma va fatto. E va fatta anche un’altra cosa: nei paesi avanzati c come il nostro, dove i rischi sono ridotti vicino allo zero, grazie a medici, ostetriche e ospedali adeguati, quelle competenze e strutture non vanno “tagliate” ma difese.
Qualche giorno fa ci ha lasciati un signore che tra qualche giorno avrebbe compiuto 88 anni. Si chiamava Donald Ainslie Henderson, americano di origine scozzese, una figlia e due figli, e verrà ricordato nella storia dell’umanità, oltre che della medicina: è ritenuto a giusto titolo il “medico del vaiolo”, ossia colui che più di chiunque altro ha permesso al mondo di far sì che tale grave patologia sia oramai solo un drammatico ricordo del passato. Ma quel che è altrettanto interessante è “come” ci è riuscito, e quel che ci insegna il “tipo” di contributo, salvifico, che seppe fornire, e che indica la via anche per i nostri odierni comportamenti, individuali e collettivi.
Henderson era sì un medico, epidemiologo, ma seppe sconfiggere la malattia a livello globale per altre qualità, ossia quelle di educatore e organizzatore. A metà degli anni ’60, fu incaricato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità di dirigere una massiccia campagna di vaccinazioni, specie in Asia e Africa. Ci riuscì, tant’è che nel 1977 fu rilevato l’ultimo caso in Somalia, e tre anni più tardi la malattia fu ufficialmente dichiarata del tutto debellata. Tant’è che, anche da noi, quell’inconfondibile “marchio” applicato a vita vicino alla spalla, i giovani (oramai fino ai 40enni inoltrati) non ce l’hanno più.
Non è un risultato da poco, stiamo parlando di una piaga che, si stima, ha fatto mezzo miliardo di morti. Il sintomo era quello di gravi lesioni al viso e al corpo, aveva una trasmissibilità molto facile, anche per via aerea, e l’esito, nelle forme più gravi, era quello di un tasso di mortalità fino al 35% nell’arco di pochi giorni.
Henderson non fu dunque quello che inventò il vaccino. La prima sorta di “vaccinazione” fu escogitata in India, ossia la terra del suo focolaio, circa 3000 anni fa, e poi fu Edward Jenner, alla fine del ‘700, a formalizzare il meccanismo, ossia proprio quello di inoculare materiale del virus stesso. Una modalità che oggi qualcuno definirebbe “omeopatica”. Henderson non inventò nulla, il suo merito fu un altro, quello di portare parole e risorse per indurre tutti a vaccinarsi.
Il tema è d’attualità, perché fioccano polemiche, spesso infondate, sulla necessità di vaccinarsi. Il che è invece cruciale, non solo per se stessi ma per la collettività. Di questi giorni il lancio di una campagna di vaccinazione in Africa contro la febbre gialla, che ha già fatto 500 morti solo quest’anno. "Non c'è cura per questa malattia – nota Save The Children - e l'epidemia può diventare globale”. Sperando che a diffondere il concetto sia qualcuno che assomigli al dottor Henderson.
I nostri strumenti difensivi sono potentissimi, ma altrettanto lo possono essere le cellule tumorali. Nella drammatica e decisiva battaglia che talora si innesca intervengono anche meccanismi di “strategia” finalizzati a “confondere” e quindi debellare il nostro sistema immunitario. Li ha scoperti l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (Roma) assieme all’Università di Genova, con il sostegno dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc), ed è una scoperta che può aprire a nuovi, importanti, indirizzi di cura. Agire non – o non solo – con l’intervento “esterno” di attacco ai tumori, bensì potenziare le nostre difese “interne”, istruendole a evitare “l’imbroglio”.
La novità, pubblicata sul Journal of Allergy and Clinical Immunology, riguarda appunto le nostre cellule protettive, le cosiddette “ natural killer”, capaci di riconoscere e distruggere i più acerrimi nemici. Ora, la loro “sentinella” consiste in un recettore inibitorio presente sulla loro superficie, una specie di “interruttore”, chiamato PD-1, che segnala la presenza del pericolo. Ed è proprio in questa fase che è emerso il problema.
Nell’entrare in contatto con la “collega” rivale, ossia la superficie esterna della cellula tumorale (PDL-1), la sentinella della cellula sana viene “distratta”, è confusa dall’altra, come se fosse una “sirena che ammalia Ulisse”. L’“interruttore” viene perciò spento, e questo fa disattivare l’azione difensiva dando campo libero alla crescita del tumore. Quel recettore era già stato scoperto in precedenza sui “linfociti T”, altro “soldato” che ci difende, ma non sulle “natural killer”, che rappresentano “l’ultimo baluardo”, quando i linfociti vengono sgominati.
Alla scoperta si incrocia un’immediata indicazione operativa: prevenire quell’azione bloccante attivata dalla superficie tumorale è possibile. “ Questo è stato dimostrato non solo in laboratorio ma anche in pazienti affetti da alcuni tumori molto frequenti, quali il melanoma e i tumori polmonari, grazie all'uso di un anticorpo monoclonale ”, annunciano i ricercatori. Quell’anticorpo agisce sulla superficie difensiva, “mascherandola”, “ impedendole di interagire con il PDL-1 e di generare segnali che disattivano le cellule killer ”. Come la cera alle orecchie dei compagni di Ulisse, che così si sottraggono alle lusinghe nemiche.
Lo studio è stato compiuto in pazienti con carcinoma all’ovaio ed è potenzialmente valido anche per i tumori pediatrici, ma servono ulteriori riscontri per capire la totalità delle forme cancerogene sulle quali possa agire. La strada è comunque tracciata. Si tratta di integrare le cure convenzionali con l’ancor più importante potenziamento delle nostre difese naturali. Adesso si sa come fare.
Quantificare sul piano fisiologico o clinico i rischi depressivi o addirittura le tendenze suicide, è un esercizio che sembra appartenere più alla fantascienza che alla scienza, sollevando fondati scetticismi soprattutto tra gli psicologi. È la vita, è il mondo che ci circonda, ad avere un’influenza decisiva, il singolo non è un “superuomo”, non è in controllo di tutto, né con la sua psiche né nel suo stato biologico-sanitario. Tuttavia una ricerca australiana sembra davvero documentare la presenza di una concausa, di natura prettamente fisiologica.
Il tema è in effetti una “tradizione” della ricerca medica in Australia da almeno vent’anni. E nel 2013, alla Macquarie University di Sidney, è emersa una correlazione tra la sovrapproduzione di una piccola neurotossina, detta “acido quinolinico”, con il comportamento suicida.
La scoperta ha destato interesse in ambito internazionale, tanto da aprire a una collaborazione con un centro di ricerca svedese (il Karolinska Institutet) e uno statunitense (il Van Andel Research Institute). Da tale simposio è uscito un risultato ulteriore, e cioè l’identificazione di un enzima (l’Acmsd), la cui carenza è risultata ridurre la produzione di un’altra tossina associata ai medesimi effetti, l’“acido picolinico”.
Non sarebbero novità da poco, in quanto aprirebbero, a detta degli scienziati, a nuove direzioni la ricerca sugli antidepressivi. “Questi hanno solitamente un effetto limitato – spiega il neuroscienziato Gilles Guillemin, responsabile della ricerca – perché hanno come target solo la “seratonina” (che agisce su un senso ‘percepito’ di ‘benessere’. NdR), mentre ignorano l’altro ramo del “triptofano” associato alle infiammazioni”.
Il senso di fondo, tradotto per i non addetti ai lavori, sta nell’importanza cruciale, fin qui sottovalutata, dei processi infiammatori. “È oramai noto che le persone che tentano il suicidio hanno generalmente marker di infiammazione cronica nel sangue e nel fluido spinale”, spiega Guillemin, perorando la formulazione di esami del sangue orientati a individuarli. Sul “suicidio” esistono perfino trattati filosofici, ma quel che emerge dalla scienza contemporanea è l’incidenza rilevante del nostro stato di salute. Che inciderebbe, oltre che sulle tendenze a togliersi la vita, anche su quelle, importanti e curabili, alla depressione e alle malattie neurogenerative.
A volte si fa l’errore in medicina di concentrarsi sul problema più grave omettendo i disagi apparentemente secondari che invece lo alimentano. È ad esempio il caso del sonno. Che dormire poco faccia male è una realtà che intuitivamente sappiamo, ma sulla quantificazione e sulla tipologia dei danni c’è ancora molto da scoprire. Una ricerca tedesca, pubblicata sulla rivista Neurology, ha ora esaminato la correlazione con uno degli eventi più temuti, l’ictus.
È emerso non solo che un cattivo sonno aumenta i rischi di tale patologia, ma che vale anche il contrario. Almeno 6 persone su 10 tra coloro che hanno avuto un ictus riscontrano problemi del sonno, che a loro volta ostacolano il recupero del paziente. Gli scienziati dell’University Hospital della città nord-renana di Essen hanno riesaminato e comparato i dati di 29 studi pregressi, coinvolgendo un campione complessivo di ben 2343 persone colpite da ictus.
Nello specifico, hanno rilevato che disturbi come l’insonnia e l’apnea ostruttiva fossero presenti nel 72% dei pazienti con ictus ischemico, nel 63% dei pazienti con ictus emorragico e nel 38% dei pazienti con mini ictus (“attacco ischemico transitorio”). I disturbi perlopiù si manifestavano “prima” dell’attacco, ma con proporzioni che successivamente tendevano ad aumentare.
Emerge insomma il quadro di un circolo vizioso, che va preso sul serio da medici e pazienti in fase di prevenzione quanto di recupero post-patologico. E non mancano i passi avanti verso una piena presa di coscienza circa l’importanza “clinica” della qualità del riposo. Da una recente indagine che ha coinvolto 214 strutture pneumologiche del nostro paese, è emerso che l’ampia maggioranza (187) sono impegnate anche sul fronte dei disturbi respiratori del sonno.
Dormire bene è cruciale, dunque, ma attenzione, è inoltre importante non esagerare. Una ricerca californiana – che ha documentato l’importanza del sonno per combattere l’infiammazione, fattore di rischio anche di eventi cardiovascolari, ipertensione e diabete 2 – ha ora rilevato conseguenze infiammatore aumentate non solo tra chi dorme poco (meno di 7-8 ore al giorno), ma anche in chi dorme troppo.
In estate a volte si sperpera, e a volte si fa bene, perché “abbassare l’attenzione” è prerogativa di un meritato relax, psicologico e fisico. Sulle cose importanti è bene tuttavia fare un po’ di attenzione, e la cosa più importante, si dice, è proprio la salute. Dal “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici, aggiornato ad agosto, spunta la cifra colossale di quasi 2 milioni e 900mila euro di risparmi gettati ogni giorno, calcolando solo la differenza pagata dal cittadino che sceglie il farmaco di marca al posto dell’equivalente sui medicinali di fascia A, ossia rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale.
I passi in avanti ultimamente ci sono stati, sulla spinta degli operatori sanitari quanto dei pazienti, nonché in reiterate rassicurazioni e campagne dell’Agenzia Italiana del Farmaco. “Quei passi sono innegabili ma siamo ancora indietro rispetto agli altri Paesi europei. Sul totale delle ricette, senza distinzioni di classi di rimborso, il 20% è 'senza marca'; per la classe A siamo al 27%, mentre considerando solo il mercato dei 'fuori brevetto' la fetta aumenta al 35%”.
Le cifre sono rammentate dal Direttore Generale di Assogenerici Michele Uda, che poi specifica: “Nella classe A i generici più venduti in Italia sono gli anti-ulcera, le statine e i corticosteroidi. Per la classe C con ricetta abbiamo paracetamolo, alcune benzodiazepine, gentamicina, e anche l'anti-impotenza sildenafil. Nella classe C senza ricetta al primo posto c'è il lassativo lattulosio, l'antivirale aciclovir, ancora il paracetamolo a basse dosi, l'ibuprofene e l'acido acetilsalicilico”.
Un elenco che potrebbe continuare, coinvolgendo l’intero parco farmacologico: “Servono più campagne di informazione non solo rivolte ai cittadini, come quella che abbiamo sostenuto per Cittadinanzattiva ma che vedano al centro anche gli operatori pubblici, che prescrivono e dispensano i medicinali”, la “ricetta” suggerita da Uda. E nella lunga lista in discussione a livello globale c’è tra l’altro anche il nodo dei farmaci contro l’Hiv. “Dal 2000 a oggi, grazie ai farmaci generici, prezzi ridotti dal 10mila a 100 dollari l’anno”, evidenzia un documento di Medici Senza Frontiere, presentato nelle scorse settimane all’apposito Congresso mondiale in Sudafrica.
Appelli e indicazioni scientifiche convergenti, come i dati sul ricorso agli equivalenti in Italia, in netto recupero ma ancora su cifre inferiori rispetto al resto d’Europa. Cifre che sarebbero salvifiche, oltre che per la salute, anche per il dibattutissimo nodo dei costi sanitari crescenti. Da un approfondimento dell’organizzazione “Ims Health” è emerso ad esempio che, grazie ai generici, il costo dei singoli trattamenti è diminuito negli ultimi dieci anni in Italia del 9% mentre è raddoppiata la popolazione in terapia.
Se mai vi capitasse un colloquio di lavoro in sede internazionale, in particolare europea, e vi arrivasse un quesito del tipo: “Sei a fine giornata ma c’è un lavoro importante da finire, che faresti?”, attenzione perché sarebbe una domanda “a trabocchetto”. Un’eventuale risposta, orientata alla presunta soddisfazione dell’ambito datore del lavoro, quale: “Rimango a finirlo, costi quel che costi, dovessi anche rientrare a casa all’alba”, non sarebbe infatti ben vista, e suonerebbe anzi come la più sbagliata delle repliche, giudicata immatura e inconsapevole.
Non è che la controparte sia in tal caso un esempio di estrema clemenza verso il lavoratore. La ragione della cattiva valutazione della risposta sta piuttosto altrove, in un paio di calcoli. Il primo è che un lavoratore, se non riposa, arriva stremato all’indomani, a discapito della “produttività”. Il secondo è che un lavoratore non in salute non serve, e che l’eccesso di lavoro sia un danno sanitario è una verità che trova ora ulteriore riscontro in una ricerca italiana condotta dalle Università di Bologna e Trento, pubblicato sul “Journal of Management”.
Si chiama “Workalcholism”, e l’alcol non c’entra. È una “dipendenza” costituita da una vera e propria ossessione per il lavoro, tanto da renderci incapaci di “staccare”, con conseguenze psicologiche, quali il malessere affettivo, l’irritabilità, l’ansia, la depressione, ma anche effetti strettamente fisici, a iniziare da un'elevata pressione sanguigna.
Due i gruppi analizzati dagli scienziati, un campione di 311 persone, tra liberi professionisti, dirigenti e imprenditori, e un altro di 235 lavoratori perlopiù dipendenti. Le conseguenze deleterie sono state riscontrate in ambedue i casi, con un impatto sulla salute mentale rilevato soprattutto a partire da un anno dall’inizio dell’eccesso di carico lavorativo, e con aumentati rischi di rilevanza clinica. “Le organizzazioni lavorative non alimentino questo fenomeno, cercando di prevenirlo per evitare un degradamento significativo delle condizioni di benessere delle risorse umane e della loro vitalità”, l’appello degli studiosi.
Che poi questo non avvenga è purtroppo un tema generalizzato della difficile realtà produttiva dei nostri tempi, che in ogni caso dovrebbe non far perdere di vista le responsabilità individuali, anche verso noi stessi. Rimane il quesito su quale sia “la risposta giusta” alla domanda ricevuta nell’ipotetico colloquio. Ebbene, una risposta singola non c’è, sta ai singoli improvvisare un’idea che permetta di salvaguardare l’aspetto prioritario, quello che in inglese si chiama il “work-family balance”. Tradotto, il diritto inviolabile al riposo e agli affetti (e possibilmente a una vacanza), prerogativa della salute.
I pregiudizi sono duri a morire, e ancora di recente la scienza medica si è trovata a smentire una serie di idee sbagliate – tramandate da retaggi “razzistici” o anche solo da impressioni “istintuali” – sulle presunte differenze fisiologiche tra “razze”. I bianchi sono più esposti a una patologia o meno all’altra, i neri resistono meglio al dolore. Eccetera. Tutto falso, e oggi ampiamente confutato. Una ricerca americana sembra d’altronde aver identificato una differenza reale, che afferirebbe proprio alla pelle.
Da Cleveland, gli studiosi della Case Western Reserve University hanno preso in esame i dati raccolti nel registro nazionale dei tumori tra il 1992 e il 2009 su quasi centomila pazienti affetti da melanoma, residenti nelle isole americane del Pacifico, esaminandone la progressione tumorale al momento della diagnosi e negli sviluppi, in relazione alla gravità iniziale della patologia.
Il risultato più eclatante è che, se i “caucasici” erano risultati assai più esposti degli altri alla malattia, gli “afro-americani” avevano però le possibilità più basse di sopravvivenza. Questi ultimi rischierebbero dunque meno di ammalarsi, ma quando avviene risultano più gravemente colpiti degli altri.
Dinanzi a tale tipo di analisi sorge subito il dubbio che ambedue le differenze siano banalmente da ascriversi al minor grado di tutela sanitaria che viene mediamente offerto alla popolazione di colore negli Stati Uniti. Questo è un dato reale, e tuttavia tale fattore è stato “neutralizzato” nell’ambito della ricerca confrontando persone che erano nella stessa situazione patologica iniziale e ricevevano cure analoghe.
L’indagine ristabilisce allora, seppur in relazione al solo melanoma, la fondatezza di qualche pregiudizio sulle differenze fisiologiche “di razza”? Non proprio. In realtà, i ricercatori di Cleveland lanciano il messaggio esattamente opposto. “I nostri risultati suggeriscono la necessità di maggiore consapevolezza e attenzione alla diagnosi per le popolazioni non-bianche al fine di incrementarne le probabilità di guarigione”. Ancor più esplicitamente, notano che "Non è dunque la conferma di un preconcetto, è anzi la denuncia della sua permanenza, a scapito della cura di molti, specie tra le fasce più deboli."
C’era una volta la discussione sui farmaci generici, in cui si scontravano resistenze perlopiù psicologiche, anche tra qualche addetto ai lavori, a rinunciare al prodotto “di marca” in favore dell’assai meno costoso equivalente, benché del tutto identico nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica. Quel tempo sembra fortunatamente appartenere perlopiù al passato, e a sancirlo è una presa di posizione più che mai netta da parte dei medici di base.
“Non esistono farmaci più sicuri dei generici, perché straordinariamente testati”, rilancia il professor Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale e delle cure primarie (Simg). “I vecchi 'nemici' dei medicinali equivalenti non dicevano mai che si tratta di prodotti che sono stati assunti da centinaia di migliaia di persone, di cui sappiamo ormai tutto”, nota il medico fiorentino.
Di qui il consiglio “agostano”: “Sono perfetti da portare in vacanza, anche perché spesso già presenti nei nostri armadietti”. Poi la spiegazione: “I farmaci da portare sono sia quelli da prendere al bisogno, per l'automedicazione, sia quelli che si assumono tutto l'anno per le patologie croniche (dall'ipertensione ai disturbi cardiaci, dai trattamenti per i reumatismi agli anti-diabetici), spesso generici”.
Infine l’avvertenza: “Molte persone si dimenticano di portare con sé queste pillole. Alcune di loro anche deliberatamente, perché convinte che in vacanza si sia liberi anche dalle terapie. Ma chiaramente non è così”. Con una menzione speciale, di nuovo, per i “medicinali per l’autocura”: “Sono oramai quasi tutti generici perché fuori brevetto e usati da molti anni, cosa che li rende sicuri da usare anche senza bisogno di ricetta. Sono i prodotti più comuni, che devono far parte della piccola 'trousse' delle ferie: dal paracetamolo per la febbre, ai prodotti per l'indigestione, all'ibuprofene per i dolori”.
Consigli importanti, quanto l’autorevolezza della fonte. Del resto, le rappresentanze dei medici, ma anche di farmacisti, infermieri e pazienti si sono già ampiamente schierate, anche sostenendo e concretamente alimentando la campagna in corso di Cittadinanzattiva, “IoEquivalgo”, che fino a ottobre attraverserà le piazze di tante città italiane a sostegno dei medicinali equivalenti. “Passate le polemiche molto faziose di qualche anno fa, oggi i generici devono essere considerati una risorsa straordinaria – incalza Cricelli - anche perché senza i risparmi che generano il Servizio sanitario non avrebbe retto fino a oggi. Con – ennesima specifica - una qualità nella produzione ormai provata e fuori discussione”.
Crolla un mito che alimentava qualche recondita preoccupazione tra alcune gestanti. Studi passati avevano prospettato una correlazione tra il parto indotto e i rischi successivi di autismo dei nascituri. Un’ampia rilevazione condotta da un gruppo di ricercatori svedesi, il cui esito è pubblicato sulla rivista Jama Pediatrics, ha ora smentito tale legame, approfondendo alcune statistiche che a prima vista sembravano invece ribadirlo.
Sono stati presi in esame i dati di oltre 1,3 milioni di nascite in Svezia tra il 1992 e il 2015. Di esse l’11% erano avvenute con induzione del travaglio. E’ allora emerso che il 3,5% dei bebè nati con induzione hanno sviluppato autismo, mentre tra gli altri la proporzione scende al 2,5%. La differenza è tutt’altro che irrisoria, traducendosi in un aumento di rischio, tra i primi, addirittura del 19%.
La teoria della correlazione sembrerebbe dunque confermarsi, ma anche i numeri a volte possono tradire, specie se non si va a vedere cosa li innescano. In particolare, sono state poi comparate le informazioni su centinaia di coppie di fratelli, di cui uno era nato con induzione e l’altro no. Ebbene, tra loro, lo scarto tra le rispettive esposizioni al rischio tende a scomparire, rovesciando del tutto le conclusioni. Le modalità del parto risultano irrilevanti, mentre pesano altri fattori, dall’insorgere di altri problemi medici alla stessa genetica.
“Risultati rassicuranti per i genitori”, commentano scienziati estranei alla ricerca, alludendo ai timori legati al magico ma delicato momento della “creazione”, che spesso richiede qualche induzione (specie tra le donne in età avanzata, obese, ipertese o diabetiche), farmacologica e/o chirurgica. A tal proposito, emerge peraltro un aspetto debole nell’indagine, ed è quello della mancata distinzione tra le diverse entità e forme di “induzione”.
E’ una lacuna che ribadisce l’importanza di un approccio, tra medici e ostetriche, orientato alla prudenza e all’attenzione personalizzata sulla singola paziente. Alla lacuna se ne aggiunge un’altra, di natura generale: le cause dell’autismo rimangono ignote, e perfino la sua diagnosi è sovente incerta, legata solo a criteri comportamentali. Nelle parole della Fondazione Ares (Autismo, Ricerca e Sviluppo), al momento “ non esistono indagini di laboratorio e/o strumentali che possano confermare un sospetto clinico”.
Non è esattamente una novità, anzi molti operatori in prima linea nella lotta al tabagismo e/o all’alcolismo lo hanno già notato. A volte il fumo è la sublimazione di un altro problema, quello dell’alcol, così come il contrario. In ogni caso tali vizi, deleteri per la salute, vanno a braccetto, e adesso, da Londra, arriva un ulteriore riscontro scientifico. Sul concetto che è falsa l’idea che ci si butta su un vizio per compensare la rinuncia all’altro. E’ invece vero l’esatto opposto.
L’University College ha consultato quasi 32mila adulti in età lavorativa, di cui oltre 6200 fumatori, incrociando i questionari e le analisi con i dati raccolti separatamente da altri due centri di ricerca medica sugli altrettanti vizi. Tra i fumatori, 144 avevano iniziato un percorso per smettere di fumare una settimana prima dell’indagine, compiuta tra il marzo 2014 e il settembre 2015.
Ebbene, un apposito test alcolemico ha poi rilevato la tendenza tra questi ultimi a diventare bevitori più “leggeri” degli altri, se non addirittura astemi. La ricerca è solo “osservativa” e non orientata a chiarire i rapporti di causa ed effetto, ma l’esito è comunque lampante. Anche se sembrerebbe un po’ stridere con la recente indagine dell’Istat sugli “Aspetti della vita quotidiana” degli italiani (dati raccolti nel 2015), focalizzata sui comportamenti personali più nocivi.
Qui infatti il segnale apparente è di un “trade-off”. Se quasi due terzi della popolazione (a partire dagli 11 anni) dichiara di bere alcolici segnando un aumento rispetto al 2014, quelli che fumano, benché oltre la considerevole cifra di 10 milioni, sono invece in calo, in scia con una tendenza oramai pluriennale. Attenzione, però, perché a ben vedere, se si scorpora la categoria di “bevitori”, sono in aumento solo quelli “sporadici”, mentre i “quotidiani” diminuiscono anch’essi.
Insomma il segnale pare confermato, anche dalle maxi-statistiche del nostro paese. Sebbene manchino spiegazioni documentate, il fenomeno, intuitivamente (tra gli addetti ai lavori e gli stessi “viziati”) può ascriversi al fatto che il calice “chiama” i fumatori alla sigaretta, sicché lasciarli entrambi sarebbe d’aiuto. L’indicazione è insomma importante. “Smettere di fumare è facile”, si legge in un best-seller sul tema. E può ulteriormente facilitarsi iniziando col lasciar perdere “l’altro vizio”, in quanto complice del “vizio principale”.
Sui farmaci alcuni conti non tornano, a iniziare dai “tetti di spesa”, sistematicamente sforati in quasi tutte le regioni, per giunta a fronte di un calo degli acquisti in farmacia da parte dei pazienti, perlopiù a causa di problemi economici. Ma poi ci sono conti che tornano benissimo, e sono quelli degli enti territoriali più “virtuosi” nella gestione dei conti quanto nella qualità dell’offerta sanitaria. Ebbene, sono gli stessi che fanno maggior ricorso ai farmaci generici.
Il caso limite è quello del Trentino, “con il 40 percento sul totale dei farmaci venduti e un considerevole risparmio per le tasche dei cittadini” – rivendica la stampa locale. Seguono, ma a rilevante distanza (tra 5 e 10 punti percentuali in meno) altre regioni del Nord Italia. Il fanalino di coda è la Calabria, con solo il 18,2%, con a ruota le altre regioni del Sud. Insomma anche sugli equivalenti si rispecchia un paese spaccato, che produce una media nazionale del 26,6%, assai modesta rispetto al resto d’Europa.
“Il merito va suddiviso tra i medici (attenti nella prescrizione) e tra i farmacisti (che hanno un ruolo fondamentale nel momento dell’acquisto) ma è anche dell’azienda sanitaria, che sul tema ha avviato una campagna informativa, con l’obiettivo di ridurre le spese, spiega il Corriere delle Alpi, aggiungendo però che “alla fine il merito è soprattutto dei cittadini che hanno dimostrato di avere fiducia nei farmaci senza marchio e sono stati premiati con un considerevole risparmio”. Merito di tutti, insomma, dalla sensibilizzazione sul tema promossa dalle autorità sanitarie provinciali alla prontezza dei singoli ad accoglierla. Il concetto è ribadito Riccardo Roni, responsabile del servizio farmaceutico dell’azienda sanitaria trentina: “Non c’è differenza tra i farmaci di marca e il semplice principio attivo venduto senza marchio”. Tutto qua, solo che i primi costano di più.
Che le rivendicazioni locali siano ben fondate è poi documentato da fattori ulteriori, anzitutto dai numeri. Proprio in questi giorni sono usciti i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco sui citati tetti alla spesa, ospedaliera e territoriale. Sono relativi al primo trimestre dell’anno, e confermano la tendenza allo sforamento, con la sola eccezione di quattro regioni. Sono tutte del Nord-Est, e la più virtuosa è proprio la Provincia trentina.
In linea generale, aumenta la distribuzione ospedaliera diretta, mentre calano gli acquisti dei cittadini in farmacia. E su tutto pesa un dato, l’aumento della forbice di prezzo nell’ultimo anno, di un ulteriore 1,3%, tra quanto si paga per il prodotto di marca e l’equivalente. Il ricorso ai generici risulta dunque più che mai decisivo. Perfino in Trentino. “Qui ci sono ancora 5 milioni di euro all’anno che i cittadini potrebbero risparmiare, scegliendoli”, nota lo stesso dottor Roni. Su scala nazionale la proiezione, aggiornata anche in questi giorni dal nostro Salvadanaio della Salute, sfiora il miliardo. Un dato che fa la differenza per tantissimi circa la possibilità di curarsi o meno.
Nel mondo della sanità i temi occupazionali non sono solo questioni “sindacali”. La ricaduta delle carenze di personale – in quantità e qualità del loro lavoro – è appunto sull’ambito primario della salute della collettività, con effetti diretti e oramai ben documentati. La Federazione Nazionale Collegi Infermieri (Ipasvi) ha rilanciato in questi giorni l’attenzione sul settore, con cifre piuttosto preoccupanti.
Si tratta di rielaborazioni sulle singole regioni dai dati dell’ultimo Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, in vista dell’apertura delle trattative sul nuovo contratto nazionale. Analisi “interessata”, dunque, ma su elementi reali. La stima è di un fabbisogno di addirittura 47mila infermieri, con punte segnalate soprattutto in Campania, Lazio e Calabria, e il corollario di retribuzioni diminuite di 70 euro negli ultimi cinque anni e di un ricorso sempre maggiore a straordinari e turni massacranti.
Questo dice l’Ipasvi, e noi stessi abbiamo documentato in passato il disagio della categoria, tanto da rappresentare dal 2012 la principale professione degli emigranti italiani, alla ricerca di migliori opportunità, salari e condizioni lavorative, specie in Inghilterra, Germania e Svizzera. Sicché, se in Italia nel 2009 il 90% dei laureati trovava lavoro entro l’anno, la proporzione è crollata al 25% cinque anni dopo, con l’esito ultimo che ci sono 25mila neolaureati disoccupati, mentre al contempo, con l’aumentare dei contratti precari, incrementa il numero di infermieri stranieri.
Sull'impatto diretto di tali carenze professionali per la salute pubblica il riscontro scientifico è consolidato, anche in ambito internazionale. Ad esempio, nei mesi scorsi un'estesa indagine pubblica britannica sul rapporto tra utenti e personale sanitario in 137 ospedali nazionali ha rilevato una riduzione del 20% della mortalità per effetto del solo abbassamento da 10 a 6 del numero medio di pazienti affidati a ogni infermiere.
E in Italia quel rapporto è confinato a un modesto 1 a 12. Il tema non riguarda dunque solo i lavoratori e le loro controparti. Ci riguarda tutti, con una certa urgenza. Abbiamo bisogno di infermieri.
Chi frequenta le palestre e cerca di potenziare la propria muscolatura un po’ lo sa, se dotato di un minimo di saggezza: esagerare, specie con i pesi, non fa granché bene alla nostra salute, è uno stress che mina l’equilibrio fisico, alimentando anche qualche rischio, specie di natura cardiovascolare. Quel che si sa un po’ meno è che tali “strappi” servono poco anche all’obiettivo prefissato di ingrossare i muscoli.
A documentarlo interviene ora una ricerca canadese pubblicata sul “Journal of Applied Physiology”. Gli studiosi della McMaster University hanno preso in esame un campione di sportivi esperti in questa disciplina, suddividendoli in due gruppi. Ai primi è stato chiesto di fare 20-25 ripetizioni quotidiane di sollevamento di “pesetti”, al secondo 8-12 sollevamenti di pesi ben più grandi.
E’ stato quindi monitorato l’aumento della massa muscolare tra i due gruppi di atleti dopo dodici settimane di allenamento, tramite una serie di misurazioni e analisi del sangue. Ebbene, l’esito sorprendente è che tale incremento è risultato pressoché identico. E’ dunque del tutto inutile aumentare il peso che si va a sollevare, la sola conseguenza è quella di anticipare e aggravare la sensazione di stress, con quel che consegue per l’ambito aerobico e anaerobico. La regola, suggerita dal coordinatore dello studio Stuart Phillips, sarebbe allora quella di esercitarsi con pesi assai leggeri, e ripetendo il sollevamento più volte, “fino a raggiungere il punto di fatica”.
A margine, nel mondo del body building, ci sono peraltro anche persone del tutto avulse dalla citata “saggezza”. Nelle scorse settimane, ad esempio, da un controllo antidoping in una competizione ufficiale è emersa la positività di una dozzina di atleti, e uno di loro ha addirittura centrato il “record” di ben 21 sostanze proibite!
Comunque, tornando allo sport, e al sollevamento pesi, la novità sembra qui rilevante. Gli atleti di altre discipline, quali i ciclisti e i maratoneti, sono già consapevoli di quanto sia importante andare piano, o almeno partire piano, per arrivare più lontano. Adesso però si sa che questo vale non solo per la “resistenza”, bensì anche per la “potenza”.
Massafra, provincia di Taranto, ai piedi della Murgia. Dal Sud Italia spunta il caso esemplare di una mobilitazione severa quanto consapevole sui costi della Sanità. Che invoca uno stop ai tagli, e al contempo mette la lente sugli sprechi e sull’abitudine delle autorità sanitarie di non pagare, o pagare in grave ritardo, i fornitori dei beni essenziali per la salute.
La molla è scattata dalle preoccupazioni circa la ventilata chiusura di alcuni nosocomi, in particolare l’ospedale Moscati di Taranto e il San Marco di Grottaglie, a cui si aggiungono piani regionali, in Puglia come altrove, specie nel Sud Italia, di riduzione delle strutture. Di qui la mobilitazione del “ Comitato per la difesa dei cittadini di Massafra”, anche per una convocazione straordinaria del Consiglio Comunale.
E’ solo un esempio delle tantissime iniziative locali in corso, che coinvolgono associazioni, organizzazioni sindacali, gruppi spontanei di cittadini e professionisti intorno alla politica sanitaria, dalle scelte regionali agli indirizzi nazionali. Per la verità la stessa ministra Lorenzin in questi giorni è intervenuta, proprio in Puglia, a un convegno dell’Università di Bari, fornendo qualche rassicurazione, nell’orizzonte di un “Patto per il Sud” che ponga la Sanità al centro: “ Garantire lo sblocco dei turn over, l’aumento del fondo sanitario per la stabilizzazione dei precari e lo sblocco delle assunzioni dove è necessario. Oltre all’accesso alle terapie innovative per il Sud allo stesso modo che per il Nord Italia ”, ha detto.
In ogni caso la novità è nell’attenzione pubblica, che sembra salita a livelli senza precedenti, portando il tema della salute al cuore di larga parte delle mobilitazioni civiche. Da conferenze stampa improvvisate, a sit-in e volantinaggi organizzati da pensionati e sindacalisti, addirittura medici che “si imbavagliano” a Napoli per contestare i tagli al settore.
Di più, il salto in avanti non è solo “quantitativo”, ma anche nella maturità della consapevolezza diffusa circa la complessità del tema sanitario. I cittadini di Massafra non si limitano a opporre l'altolà ad alcune chiusure ospedaliere. Sottolineano anche il nodo della “ corruzione e lo spreco di denaro nella gestione dei servizi sanitari”, e quello dei ritardi pubblici nel pagamento dei fornitori di servizi e farmaci: “non sono stati mai rispettati i tempi prescritti dalla legge”, con tutto quel che consegue per i lavoratori e i pazienti, nonché per l’intero settore chiamato a prendersene cura.
Aids, Durban, 18-22 luglio. L’appuntamento biennale del mondo della scienza e della sanità ha riavuto luogo, 16 anni dopo, proprio nel Sudafrica dove Nelson Mandela aveva lanciato strali anche su questo tema contro le autorità, che a lungo addirittura negarono la correlazione tra l’Hiv e l’Aids. Un “ritorno a casa” denso di preoccupazioni ma anche di speranze, suscitate dalla ricerca scientifica nonché dall’acclarato contributo del ricorso ai farmaci generici, con risparmi che possono fare la differenza ovunque.
Allora si decise di rendere disponibili, virtualmente a tutti, i farmaci antiretrovirali, istituendo a tale scopo il Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria. Per la verità non sono arrivati a tutti, e anzi ci sono ancora interi pezzi di Continenti di fatto esclusi, in particolare l’Africa Occidentale. Nondimeno il passo fu reale, tanto da invertire il senso della parabola. Nel 2005 i morti di Aids sono stati due milioni, l’anno scorso poco più della metà.
Quei dati però stridono con quelli dei nuovi contagi da Hiv, che hanno sfondato la quota di due milioni di persone anche nel 2015. Ed è per questo che il fulcro del nuovo consesso sudafricano è stavolta la “prevenzione”. Che vuol dire almeno due cose: anzitutto tanta e buona informazione, soprattutto ai giovani, spesso male informati (anche in Italia) sui rischi e sulle reali modalità di trasmissione della patologia; il secondo fattore è l’orizzonte, finalmente, di un possibile “vaccino”.
Un test in proposito è stato annunciato in Conferenza già per quest’anno, sulla base di un processo messo a punto dal 2009 in Tailandia, che avrebbe constatato riscontri convincenti in almeno un terzo dei casi. Ricerche analoghe sono in corso all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che nei mesi scorsi ha anche creato un “Consorzio” mondiale con i più rinomati centri d’eccellenza del settore.
Ma c’è un terzo fattore cruciale, di prevenzione quanto di cura, ed è il nodo dei costi. I prezzi dei nuovi farmaci sono troppo alti mentre, nota al contempo Medici Senza Frontiere, “quelli vecchi continuano a diminuire”. E qui s’innesta il ruolo cruciale dei farmaci generici. L’ultimo “Workshop di Economia e Farmaci” svoltosi nei mesi scorsi a Milano ha sottolineato la completa equivalenza dello “switch” da farmaci originari agli equivalenti anche sull’Hiv. Lo avevamo già segnalato (e oltre a noi la rivista “Nature”), sicché non è più una notizia: è una realtà che può salvare molte vite nel mondo, Italia inclusa.
Fiuggi, Salerno, e poi Asti. L’allegra acrobazia della campagna “IoEquivalgo” mobilitata da Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato, col sostegno non condizionato di Assogenerici, sta lambendo ogni latitudine della penisola in un crescendo di attenzione pubblica. Meno allegro è il dato di fondo che contribuisce all’urgenza della stessa mobilitazione per i farmaci generici, ossia il fatto che le difficoltà economiche costringono tante italiane e tanti italiani a rinunciare al loro bene più prezioso, la cura della propria salute.
Le cifre ufficiali sembrano peraltro riservare qualche sorpresa. In particolare, la povertà assoluta in Italia, anziché aumentare, sarebbe in diminuzione: nel 2014, per la prima volta dal 2007, ossia al culmine della più grave recessione dal dopoguerra, risulta in calo, per l’esattezza al 5,7% delle famiglie e al 6,8% degli individui (oltre quattro milioni di persone, comunque). In questo sembra però pesare il “ nuovo metodo di calcolo proposto dall’Istat”, avverte l’ultimo dossier della Fondazione Banco Farmaceutico.
E a far suonare scricchiolante tale “metodo” sono proprio i dati reali sulla spesa sanitaria. Mediamente è rimasta costante, sui 444 euro pro capite all’anno, ma quella delle fasce meno abbienti è crollata a 69 euro. La differenza, si noti, non è solo sui valori assoluti, ma anche in proporzione ai diversi redditi: i non poveri destinano il 3,8% del loro bilancio domestico alle cure, la proporzione scende all’1,8% per gli indigenti.
Di quei 69 euro, 52 - nota ancora la Fondazione – sono destinati all’acquisto di farmaci, segnando un calo del 2,1% solo nell’ultimo anno, quando i "non poveri" hanno invece fatto segnare un recupero del 2,7%. Segnali eloquenti, che chiamano l’intero settore sanitario alla responsabilità. E in effetti, a collaborare con i volontari di Cittadinanzattiva nella loro causa a sostegno dei farmaci equivalenti sono un po’ tutti, dai medici agli infermieri, dagli studiosi ai farmacisti, con le relative rappresentanze e il patrocinio dell’Agenzia Italiana del Farmaco. Uniti dalla consapevolezza di quanto legalmente e assiduamente comprovato, ovvero la completa equivalenza dei generici, dai principi attivi all’efficacia e sicurezza terapeutica.
La sola differenza è nel prezzo ben più basso, ed è una differenza miliardaria, come accerta costantemente il nostro “Salvadanaio della Salute”. Centinaia le persone accorse nei giorni scorsi anche in piazza San Secondo, ad Asti, ultima tappa del tour che coinvolgerà fino a ottobre un’altra decina di città italiane. E poi c’è la “piazza” del web, dei social e dell’app di “IoEquivalgo”, che sta segnando un’escalation. Sono oramai migliaia i contatti che segnalano una “fame” di salute e di risparmio meritevole di un’urgente risposta collettiva.
Tecnica antica, perorata dai nonni, e dai nonni dei nonni. Per rassicurare il bimbo, per fare quello che oggi fa il ciuccio, oppure per superarne il distacco. Ma il gesto istintivo di succhiarsi il pollice (e più in là di mangiarsi le unghie) non solo ha benefici psicologici riconosciuti anticamente, senza effetti collaterali di rilievo – che suscitano talora inusitate preoccupazioni tra gli adulti. Di più, la ricerca contemporanea ora documenta come esso racchiuda effetti salvifici per la salute presente e futura del piccolo.
L’ultima, robustamente documentata, novità in tal senso arriva dalla Nuova Zelanda, dove gli scienziati dell’Università di Otago (la più antica accademia del paese) hanno preso a campione ben un migliaio di bambini, seguendoli fino a un’età adulta inoltrata, effettuando test allergici alle età di 13 e 32 anni.
L’esito è vistoso, e cioè quelli che avevano tali “vizi” da piccoli hanno riscontrato meno allergie degli altri, il 38% contro il 49% dei coetanei “beneducati”. Di più, la proporzione si riduce ulteriormente, al 31%, tra chi ha denunciato di aver sperimentato ambedue le abitudini.
La risposta fornita dagli scienziati, come si legge nella rivista internazionale “Pediatrics” è quasi banale: fino alla più tenera età il contatto con gli allergeni ne ridurrebbe la sensibilizzazione, potenziando il sistema immunitario e proteggendo da germi, acari, erba, muffe e perfino pelo di animali.
Beninteso, nessuno contesta l’esigenza di igiene, specie per i piccoli, men che meno gli studiosi neozelandesi. I vertici sanitari europei e globali forniscono anzi dati allarmanti a ripetizione sull’impatto dei difetti igienici per la salute pubblica, con appelli che giustamente si rinnovano annualmente nella “Giornata Mondiale” fissata sul tema a inizio maggio. Il segnale è però che, rispettate per bene alcune regole imprescindibili, esagerare non serve. Al contrario, il dito di un bambino, se pulito, può essere un ottimo vaccino. Forse lo sa meglio di noi, che succhiarlo fa bene.