“Deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi”. È l'amara ammissione della Ministra della Salute Beatrice Lorenzin. Il riferimento era a una serie di dati emersi nei giorni scorsi sulle difficoltà della sanità e dei pazienti italiani, che a ben vedere ruotano tutti intorno al nodo dei costi, senza esclusione per quelli farmaceutici.
A far rumore, e a indurre la Ministra a commentare – e a prospettare anche una “una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d'attesa” - è stata soprattutto un'indagine del Censis che ha svelato l'allarmante cifra di 11 milioni di persone costrette nell'ultimo anno a rinviare o a rinunciare alle prestazioni sanitarie. La causa principale è appunto il loro costo che, sommato ai tempi lunghi d'attesa, induce molti a lasciar perdere, e altri a rivolgersi ai privati, anche perché i ticket sono aumentati (del 5,6% negli ultimi tre anni) fino a risultare talora più onerosi della prestazione al di fuori delle strutture pubbliche.
Eppure, perfino in tempi di crisi, gli italiani sono disposti a spendere prioritariamente per la salute, quando possono. Tra il 2013 e il 2015 l'esborso da loro sostenuto nel settore è cresciuto del 3,2%, il doppio del resto dei consumi. Il problema è che molti invece non possono, e questo naturalmente riguarda soprattutto le fasce deboli, ossia gli anziani e i giovani. Ulteriore aggravante, mentre i costi salgono, la qualità del Servizio Sanitario Nazionale è percepita in peggioramento dal 45% degli italiani.
A tali cifre si incrocia l'ultimo consuntivo dell'Agenzia Italiana del Farmaco, che certifica per il 2015 un rosso da 1,880 miliardi di euro. Eppure, la spesa convenzionata netta è scesa dell'1,40% e le ricette sono calate del 2,17%. Com'è possibile tale contraddizione? Sta nel fatto che quasi l'intero “buco” è causato dalla spesa farmaceutica ospedaliera. Si tratta cioè dell'ambito su cui rimane più marginale il ricorso ai farmaci equivalenti. “E' tempo di promuoverne l'utilizzo”, ha nuovamente protestato al Senato il presidente dell'Aifa Mario Melazzini.
Il tema della sostenibilità finanziaria e della qualità dei generici ha fatto irruzione anche nella festa per il trentennale di Slow Food, a Roma. Al Centro Congressi di Eataly, la rete associativa Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato ha tenuto giovedì scorso un altro, solido incontro pubblico nell'ambito della campagna nazionale “IoEquivalgo”. L'equivalente è rigorosamente tale in tutto (principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica), tranne che in quella variabile oggi non più trascurabile, pena l'esclusione di milioni di pazienti dalle terapie: il prezzo, nettamente inferiore.
Nei giorni scorsi in Nigeria un signore di 62 anni si è recato dal giudice invocando lo scioglimento del matrimonio sulla base del fatto che la moglie sessantenne era divenuta riluttante al sesso. Dinanzi al magistrato la donna si è difesa ammettendo il proprio raffreddamento, e attribuendolo alla perlopiù menopausa. È una storia curiosa come tante, che però svela l’alone di pregiudizio culturale che ancora avvolge quella fase delicata di passaggio femminile. L’alone è del resto nel titolo stesso del giornale africano: non è dedicato all’iniziativa giudiziaria dell’uomo, ma alla menopausa della donna. La “notizia” starebbe nella sua risposta.
E invece non è lì la notizia. La menopausa è un naturale momento di passaggio nella vita di ogni donna, benché forse il più drammatico. Termina il ciclo mestruale, e con esso la fertilità, quel mistero che consegna al gentil sesso la magia e il potere ineguagliabile di creare vita. Quella fase è tipicamente assai poco ritualizzata nelle civiltà umane, il che ne sottolinea la marginalità e la marginalizzazione delle interessate. Eppure è una costante perfino anagrafica nella storia. Oggi è riscontrata in media tra i 45 e i 50 anni; ai tempi dei greci, con speranze di vita ben più basse, era ugualmente stimata verso i 45.
Ci sono risvolti psicologico-culturali, dunque, ma anche fisici, che è cruciale affrontare adeguatamente. Dalla Regione Toscana si annuncia un interessante progetto di ricerca (con un rilevante investimento da un milione di euro) che sarà sviluppato in collaborazione tra l’Università di Pisa, l’Istituto di informatica e telematica del Cnr e tre imprese locali (Signo Motus, Medea e Lucense). Può suonare strano, ma l’obiettivo è quello di sviluppare un’app, già battezzata “Vita Nova”, ad adeguato sostegno della donna.
“Mira a costruire un’applicazione adattiva capace di proporre strategie personalizzate per migliorare lo stile di vita delle donne che si avvicinano alla menopausa, adattando i suggerimenti alla tipologia di persona, ai suoi sintomi, alla condizione individuale ed anche alle sue risorse di tempo o economiche”, spiega il Professor Tommaso Simoncini, dell’Ateneo toscano che coordina il progetto. Potenziare l’automonitoraggio dei sintomi, dunque, modificando al contempo in modo dinamico le strategie per affrontarli.
Dalla ginnastica all’agopuntura, dal farmaco agli stili di vita, sono molteplici le consulenze su come affrontare la sintomatologia di quel poco celebrato rito di passaggio. A margine, come ha scritto una settimana fa un giornale canadese, va comunque ricordato “le donne non odiano i loro mariti durante la menopausa”, né, salvo un periodo transitorio, “perdono l’interesse nella sessualità”. Quel che chiedono è essenzialmente di essere ascoltate.
Giugno è il mese della prevenzione urologica, ed è un po' una contraddizione in termini perché - lamentano gli stessi promotori - gli uomini la fanno pochissimo. L'iniziativa è della Società Italiana di Urologia (Siu), e prevede l'apertura di circa duecento centri italiani a consulti e visite gratuite.
L'auspicio è proprio quello di innescare un cambio di rotta rispetto alla riluttanza tutta maschile verso il medico, nutrita da vecchi retaggi “machisti” nonché da qualche paura a scoprire e affrontare le proprie patologie. “L'uomo non fa prevenzione - incalza il Segretario Generale della Siu Vincenzo Mirone – Solo il 10-20% si è sottoposto nella vita a una visita preventiva, contro oltre il 50-60% delle donne”. L'esito ultimo è che “nove maschi su dieci vanno dallo specialista solo se affetti da patologie gravi”, quando magari è troppo tardi. E perfino quando ci vanno “sono estremamente reticenti a parlare con lui delle proprie problematiche”.
Una tempestiva prevenzione, affiancata da stili di vita sani, sarebbe cruciale per inibire o comunque debellare le patologie tipiche degli uomini. Sono la prostatite, un'infezione che colpisce circa il 25% dei maschi, specie in età tra i 18 e i 45 anni. Ancor più diffusa e altrettanto curabile l'iperplasia prostatica benigna, affliggendo sei milioni di italiani, ovvero la metà degli over-60, e praticamente la totalità degli over-80, incidendo parecchio sulla loro qualità della vita, specie con disturbi alla minzione. Poi il dolorosissimo calcolo urinario, causa della colica renale, peraltro trattabile oggi con interventi mini-invasivi e comunque, di nuovo, largamente prevenibile con una buona alimentazione, ampio consumo idrico e visite frequenti. E ancora, l'infertilità, che per almeno il 50% dei maschi colpisce gli uomini, nonché la disfunzione erettile, che coinvolge ufficialmente due milioni e mezzo di italiani, ma in realtà sono molti di più, considerando che solo uno su tre si rivolge al medico.
Fin qui le patologie e i disturbi “benigni”. Ma c'è anche il cancro alla prostata, che rappresenta il tumore più frequente tra i maschi (circa 36mila nuove diagnosi e 7mila morti all'anno) e la seconda causa di morte per neoplasia, dopo quello al polmone. Anche e soprattutto qui, la visita di prevenzione è essenziale perché la patologia è spesso asintomatica nelle fasi iniziali, quando è ancora curabilissima.
L'iniziativa della Siu va allora presa sul serio. Per trovare la struttura più vicina si può consultare un apposito sito (controllati.it) o telefonare a un numero verde (800.822.822). Sperando che la visita diventi una salvifica abitudine annuale.
Si chiama Chris Wright, è un 26nne giocatore di basket. Viene dal Maryland, è alto 1,85 metri, che è pochino per un professionista della massima serie italiana. Invece gioca, ed è anzi tra i migliori, in forza come playmaker nella gloriosa Varese. Ha peraltro un handicap ulteriore, ben più grave. Quattro anni fa gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, la sta combattendo e al contempo si sta esponendo molto in incontri pubblici per raccontarla, e spiegare come la si può affrontare, almeno in parte ma perfino ad altissimi livelli sportivi.
Ora, almeno per il momento, il giovane statunitense si è “bruciato”. E’ stato sospeso per l’imperdonabile onta della positività al doping. La sua società si è subito schierata con lui declamando che il farmaco contestato, uno stimolatore , è utilizzato per difendersi dalla patologia. Motivazione plausibile, a tale scopo lo hanno usato in molti, ma questo non viene formalmente riconosciuto dalle autorità sanitarie, anche italiane (eccetto per combattere la narcolessia), mentre è incluso nell’elenco dei prodotti dopanti. Lo sa, e infatti non ha granché protestato, autorità sportive incluse, e la legalità è imprescindibile. Nondimeno, e qualunque sia l’esito, il caso “illustre” getta un po’ di luce sulle difficoltà a ad affrontare tale patologia, e sulla solitudine in cui si trova spesso il paziente alla faticosa ricerca di una terapia.
Quella solitudine è documentata anche dal silenzio con cui è passata nei giorni scorsi la diciottesima “Settimana della sclerosi multipla”, culminata nella Giornata “mondiale” il 25 maggio, coinvolgendo una settantina di paesi. Largamente sotto silenzio nei media, nonostante le decine di convegni e la mobilitazione massiccia dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, fondata oramai quasi mezzo secolo fa e nutrita da oltre settemila volontari, e quotidianamente mobilitata – al di là della settimana – nell’assistenza sanitaria e amministrativa, nella pressione politica, nella promozione della ricerca e nell’organizzazione di campagne on-line e di piazza per la sensibilizzazione.
In Italia ne sono affette circa 110mila persone, e ogni anno sono accertati 3400 nuovi casi, uno ogni tre ore, in larga parte prima dei 40 anni. “ E’ una malattia neurodegenerativa demielinizzante – spiega il professor Giancarlo Comi, del San Raffaele di Milano, tra i massimi esperti italiani - Per motivi ancora poco chiari, i linfociti T, cellule responsabili della risposta immunitaria specifica, vengono sensibilizzati, si attivano e attraversano le pareti dei vasi sanguigni, superando la barriera emato-encefalica e penetrando nel sistema nervoso centrale ”.
Tuttavia, anche dinanzi agli sviluppi peggiori della malattia, ossia quelli “progressivi”, Comi riferisce ad esempio degli ottimi esiti dell’Ocrelizumab, “un anticorpo monoclonale in grado di distruggere in modo selettivo la popolazione dei linfociti B”. Insomma molto si può fare oggi, e molto altro si potrà con lo sviluppo della ricerca. Senza dover ricorrere a sostanze “dopanti”. L’importante è andare avanti, e smetterla col silenzio.
Credits foto: Pallacanestro Varese
Ci sono le parole, e sono oramai le stesse, da parte di tutti, dalle associazioni dei pazienti al Ministero, dal governo alle Università, dall’Agenzia Italiana del Farmaco alle imprese produttrici, incluse quelle dei farmaci “di marca”. Principi attivi, efficacia terapeutica, sicurezza, sono identici nei farmaci equivalenti, la sola differenza è nel loro prezzo inferiore. Solo che quella differenza è enorme, con potenziali inesplorati per i bilanci delle famiglie come della sanità pubblica. E allora le cifre dicono ancor meglio delle parole. Le ultime sono uscite nei giorni scorsi sul Journal of the American Medical Association.
Gli studiosi delle Università dell’Ohio e del Michigan hanno analizzato la spesa farmaceutica di oltre 107mila utenti americani, pari a complessivi 760 miliardi di dollari, di cui 170 pagati direttamente dai cittadini. Ora, anche compiendo una serie di sottrazioni (legate a prescrizioni, permanenza del brevetto, indisponibilità del sostituto), la spesa nella marca, laddove c’era l’alternativa del generico, è stata conteggiata sui 73 miliardi di dollari. Ebbene, ricorrendo agli equivalenti, i pazienti ne avrebbero risparmiati 25.
Sono dati impressionanti, che poi risultano ancor più vistosi considerando che negli Stati Uniti le percentuali del ricorso agli equivalenti sono ben più alte che in Italia. La loro quota nel mercato farmaceutico complessivo oltreoceano, in base all’ultima indagine comparata dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), è all’84%. Nel nostro paese è solo al 19%, in volume, addirittura l’11% in valore, ai bassifondi nella classifica dei paesi avanzati.
E ci sono un po’ di altri dati concomitanti che lo stesso rapporto Ocse segnala e dovrebbero indurre alla riflessione. Il più generale e vistoso è quello del taglio alla spesa sanitaria pro-capite nel nostro paese dal 2011, addirittura del 3,5% in termini reali nel solo 2013. Livelli complessivi “ ampiamente al di sotto della spesa di alti paesi OCSE ad alto reddito”, nota l’organizzazione, che sottolinea anche come la quota di spesa farmaceutica pubblica italiana sia inferiore alla media. E tutto questo nonostante “ molti indicatori sull’assistenza primaria e ospedaliera rimangano invece al di sopra della media”.
C’è insomma una Sanità che resiste, per l’impegno dei suoi operatori. Ma il quadro, a conti fatti, è quello di un declino nell’impegno pubblico che, anziché spingersi verso ulteriori orizzonti di “tagli”, potrebbe trovare risorse altrove, nel mondo dei farmaci stesso, con il ricorso agli equivalenti. Le cifre potenziali di tale risparmio sono aggiornate mensilmente dal “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici. Sarebbero tali da cambiare radicalmente il quadro della Sanità italiana.
Sull’obiettivo di contenere i costi sanitari dinanzi a una popolazione che invecchia si dibatte un po’ ovunque, nel mondo, e non sempre a proposito. Tra un’alchimia e l’altra il rischio è quello di finire a tagliare la qualità della cura, il che tipicamente impatta principalmente sulle fasce deboli. Soprattutto, talora si perdono di vista le soluzioni di risparmio semplici, a portata di mano, che potrebbero viceversa elevare la qualità delle cure, sprigionando nuove risorse. E’ il caso delle scadenze brevettuali, che aprono la strada a un più massiccio ricorso ai farmaci equivalenti.
Lo spunto arriva da un convegno tenutosi nei giorni scorsa da Roma, in relazione a uno studio ad hoc del gruppo EEHTA (Economic Evaluation, HTA and Corruption in Health) diretto dal professor Francesco Saverio Mennini, nell’ambito del Centre for Economic and International Studies dell’Università Tor Vergata, con il sostegno non condizionato della società Mylan. E’ stato analizzato un campione di 9 molecole e 311 forniture, delle quali 52 rinegoziate, 210 cessate senza essere rinegoziate e 49 con scadenza nel triennio 2016-2018 non ancora rinegoziate.
Il “risparmio mancato”, sintetizza Mennini con riferimento solo a quelle molecole, è quantificato “in oltre 81 milioni, dovuto al ritardo o alla mancata rinegoziazione”, in relazione alla “ scadenza brevettuale di prodotti farmaceutici inseriti in lotti già aggiudicati”. Cifra che salirebbe a diverse centinaia di milioni di euro sulla totalità del mercato.
I margini sono rilevanti anche in considerazione del numero e tipologia dei medicinali in scadenza di licenza. L’Ims Health nei mesi scorsi ha rilevato che, dopo quattro anni di calo, sono ben 29 i farmaci che perdono quest’anno la protezione, “per un valore stimato di circa 466 milioni di Euro, un valore di 100 milioni più alto rispetto a quanto avvenuto nel 2015”. Si tratta perlopiù di “terapie specialistiche soprattutto antineoplastiche, antivirali ed antibiotiche”, il cui fatturato più esposto coinvolge per oltre il 60% il canale ospedaliero, che ora presenta i ritardi maggiori nel ricorso ai generici.
“Promuovere anche negli ospedali il loro utilizzo”, è stato il proposito prioritario annunciato il gennaio scorso al Corriere della Sera dal neopresidente dell’Aifa Mario Melazzini, prefigurando ricadute benefiche per l’intera assistenza sanitaria: “Con i soldi risparmiati – disse -si potranno avere le risorse da investire per cure come quella dell’epatite”. Paletto ribadito da Mennini: “Tutti i risparmi generati devono necessariamente restare all’interno del sistema ed essere indirizzati a supporto dell’assistenza”. Sull’“ importante ruolo dei farmaci equivalenti” è intervenuto in proposito anche il Ministero della Salute, tramite il Direttore Generale del settore farmaceutico Marcella Marlatta. Tutti apparentemente d’accordo, dunque. E’ tempo però di accelerare.
Sembra un po’ roba da “Dr. House” o da altre serie televisive e film “catastrofici” americani, in cui il medico è una specie di “top gun” alle prese con le più gigantesche e improbabili emergenze. La realtà è che la simulazione del reale, specie tramite i più recenti “manichini speciali”, nella formazione alla gestione medica di crisi di larga scala, è entrata da un paio d'anni in alcune strutture italiane. Con buone ragioni. Saper curare non è solo tema di conoscenze e competenze. Ci sono aspetti psicologici, tecnici e strategici che possono risultare determinanti nell’efficacia dell’intervento. Le cifre di tali modelli didattici mostrano un ritardo del nostro paese, che però si riscatta con un “istinto” al soccorso umanitario, che non è certo una leggenda.
Tali sistemi didattici sono in effetti ancora pochi nelle nostre strutture ospedaliere. Un paio in Piemonte, altrettanti a Firenze, uno a Trento, un altro in Sicilia e uno in Sardegna. Tutto qua, nonostante, secondo gli esperti del settore, “ un’ora al simulatore chirurgico equivale a 100 ore in sala operatoria”. E’ col primo che si riuscirebbe rapidamente a inscenare emergenze e complicanze di ogni tipo ed entità, per imparare a gestirle.
Su questo la giornata finale di Exposanità, tenutosi a Bologna, ha riunito in un simposio, su iniziativa dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici (Aiic), accanto ai medici, esperti della difesa e del peace-keeping, tecnici biomedici, comandanti in aviazione. Tecnologia, formazione “militare”, capacità di stabilire priorità, sangue freddo. Temi non avulsi dal tradizionale bagaglio formativo del medico, ma su cui i moderni strumenti di simulazione sembrano aiutare. “Il 36% delle denunce contro medici riguarda l'ambito chirurgico”, si nota. Su quella cifra pesa la pericolosa prassi della “penalizzazione” della professione, ma gli errori ci sono e i margini per ridurli anche.
Del resto a Bologna non si discuteva solo dell’“emergenza ordinaria”, bensì di possibili scenari devastanti come “ una catastrofe naturale o un afflusso enorme di feriti dopo un attacco terroristico”. Le citate capacità, “psicologiche e strategiche”, diventano allora imprescindibili, come del resto già sanno molti, inclusi i medici impegnati nelle forze di polizia e dell’esercito.
In tali scenari, laddove non arriva ancora la moderna didattica, interviene tuttavia una tradizione italiana riconosciuta all’estero. E’ quella dell’attenzione, dell’istintiva dote e sensibilità nel gestire contesti emergenziali ovunque. Chiedere alle Ong internazionali, alle missioni Onu o Ue, circa la quantità e qualità professionale degli operatori sanitari italiani. Una tradizione che merita sostegno, oltre che plauso. Con quella base, e con le nuove tecnologie, potremmo esser noi a costruire centri di eccellenza formativa di attrattiva mondiale, suggerisce l’Aiic.
Interventi rapidi e poco invasivi. L'Italia rivendica progressi epocali e una posizione d'avanguardia nella chirurgia pediatrica. Dietro, c'è tanta ricerca medica e tecnologica, e altrettanta dedizione degli operatori sanitari. Un convegno in questi giorni all'Auditorium dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha fatto il punto della situazione nel nostro paese e sulle nuove opportunità di cura.
“Sono 55 i centri italiani che fanno chirurgia pediatrica”, riferisce Alessandro Inserra, direttore del dipartimento chirurgico dell'ospedale romano, che detiene il record di interventi, 28mila l'anno, ossia un terzo del totale in Italia. Seguono il Gaslini di Genova, la Chirurgia Pediatrica dell'Università di Padova, il Burlo Garofalo di Trieste e il Meyer di Firenze. Tutte strutture del centro-nord, si noti, confermando l'allarmante ritardo, nell'insieme, del Mezzogiorno.
Globalmente gli interventi effettuati annualmente in Italia sono circa 70mila. Tra i più frequenti, tonsillectomie, appendiciti, ritenzioni del testicolo e interventi agli occhi per strabismo, miopia. Tutti questi, fino a pochi anni fa, richiedevano il ricovero, mentre oggi si fanno in “day surgery”. L'incremento di quest'ultimi è stato dell'81% dal 2012 al 2014. “L'aggressività chiururgica e costosa appartiene al passato”, commenta Inserra, sottolineando come sia proprio “ in età pediatrica e adolescenziale che è necessario esprimere tutte le migliori capacità terapeutiche disponibili”, per la loro salute presente e futura.
Alla “rivoluzione” ha contribuito la messa a punto di strumenti ad altissima precisione, che hanno segnato ad esempio il passaggio dal taglio ampio “a cielo aperto”, al taglio minimo. In neurochirurgia si è passati dagli interventi a occhio nudo al “virtuale”, che permette di trattare tramite robot epilessie o tumori al cervello riducendo al minimo la ferita. Nell'oculistica, il laser ha addirittura preso il posto del bisturi.
Ma il cambio di rotta è dovuto anche ad altro, a mutamenti organizzativi, con approcci multidisciplinari capaci di assistere il paziente pediatrico minimizzando l'impatto delle cure dal punto di vista fisico, psicologico e sociale. Un passo avanti “filosofico” complessivo, a cui contribuisce inoltre l'ambito farmacologico. Mini-invasività significa anche questo, dosaggi e formulazioni specifiche per i bambini, inclusa un'anestesia “light”.
La principale rete associativa italiana in ambito (tra l'altro) sanitario si rinnova. Confermando i propri vertici, e rilanciando la propria azione, stabilendo tra le sue priorità anche quella per i farmaci generici. E' successo tutto nello scorso fine settimana a Fiuggi, culmine del V Congresso di Cittadinanzattiva, e al contempo, come dev'essere, festa popolare, quella di “SpreK.O.”, densa di incontri, scambi, spettacoli, laboratori per i piccoli, cucina e punti informativi.
Al centro, in Piazza Martiri di Nassiriya, il villaggio di “IoEquivalgo” ha tagliato il nastro di partenza di un tour che fino al prossimo ottobre percorrerà le strade di Chieti, Campobasso, Asti, Caltanissetta, Perugia, Salerno, Senigallia, Udine, Vicenza, Taranto e Crotone. Le migliori campagne si fanno così: non bastano gli appelli nazionali, lanciati ripetutamente anche dall'Agenzia Italiana del Farmaco per l'urgenza del ricorso agli equivalenti. E' cruciale inoltre recarsi a incontrare fisicamente i cittadini, i pazienti, i consumatori. E a Fiuggi è andata benissimo, con migliaia di visitatori alle due iniziative e la diffusione vis-à-vis della corretta informazione sui farmaci equivalenti a centinaia di persone. Viva le feste locali, quindi, e viva anche i giornali locali. Quelli nazionali a volte tendono a disperdersi nel mare magnum dei “massimi sistemi”, i più esigui fogli locali, per loro ampiezza e vocazione, cercano di andare al sodo delle notizie e degli appuntamenti rilevanti, perfino quelli lontani dalla loro distribuzione.
E' ad esempio il caso del toscano Il Tirreno che, nel sottolineare la scorsa settimana l'importanza dell'evento ciociaro, ha ben chiarito i capisaldi della questione dei generici. “Oltre a contenere nella propria formulazione la stessa quantità di principio attivo hanno anche una bioequivalenza con altri medicinali "di marca" e con brevetto scaduto. In sostanza stesso principio attivo, stessa forma farmaceutica, cambia soltanto la marca ed il prezzo”, si legge, rilevando “risparmi considerevoli, che arrivano anche al 50%”. Poi viene citata la testimonianza del Coordinatore di Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato: “Riceviamo ogni giorno segnalazioni dai cittadini, che mostrano quanto i costi per i farmaci stiano diventando pesanti per loro – denuncia Tonino Aceti - spingendoli in alcuni casi anche a rinunciare alle cure, come accade al 9,5% degli italiani” E' arrivato dunque il tempo di scendere in piazza. E di metter fine a quello “SpreK.O.”, per la salute e per i bilanci delle famiglie e della collettività, costituito dal ritardo italiano nell'utilizzo di farmaci equivalenti.
Preziosa allora la mobilitazione di Cittadinanzattiva e delle organizzazioni che vi concorrono. Con i complimenti ai suoi leader, confermati in Congresso proprio a Fiuggi, ossia il Segretario Generale Antonio Gaudosio e il Presidente Marco Frey.
Sono numeri da vera e propria strage. Nel Vecchio Continente, culla del Welfare State, le “morti evitabili” superano la cifra di mezzo milione l’anno. La stima allarmante è di Eurostat, su elaborazione di dati nazionali, e non assolve il nostro paese, quello dell’un tempo celebrata “ miglior Sanità al mondo”. I dati vanno letti con cautela, ma vanno letti.
Nel dettaglio, le morti che si sarebbero potute evitare sono state oltre 577mila nel 2013, ossia nel 33,7% dei casi. La percentuale è riferita all’1,7 milioni di europei deceduti sotto i 75 anni. Il concetto di “morte evitabile” si riferisce infatti a fasce d’età e ambiti patologici che consentirebbero la sopravvivenza in caso di “un’assistenza sanitaria tempestiva ed efficace”. E’ dunque solo una stima, che tuttavia viene da tempo riconosciuta in ambito scientifico, inclusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
In cima alle 86 cause di morte evitabile si confermano gli attacchi cardiaci, quasi un terzo dei casi, seguiti dagli ictus, con circa 94mila decessi, poi il cancro al colon (12%), quello al seno (9%) e, a seguire, patologie legate all’ipertensione e polmoniti.
Il dramma è anche nell’ampiezza delle differenze tra paesi. Se la mortalità evitabile è contenuta al 23,8% in Francia, arriva a sfiorare il 50% in Romania e Lettonia. Le sperequazioni regionali continuano a coinvolgere purtroppo anche il nostro paese, con vistosi scarti tra Nord e Sud, e lo stesso dato complessivo non è lusinghiero, siamo al 33%, solo alcuni decimi di punto al di sotto della media europea. Per giunta sono dati destinati ad aggravarsi, alla luce delle stime, da noi già segnalate, sulla recente diminuzione nella speranza di vita, che si aggiungono a quelle pregresse sul calo della “ speranza di vita sana”.
I vertici della Sanità naturalmente difendono i loro sforzi. “ L’approvazione dei nuovi Lea, un grande lavoro che abbiamo ultimato e che adeguano i livelli essenziali di assistenza fermi dal 2001 – spiega ad esempio Beatrice Lorenzin - fornirà uno strumento fondamentale per la riduzione della mortalità evitabile”. In ogni caso la ministra riconosce il dato, “migliorabile”, citando il caso dell’aumento delle patologie infettive, che “ riscontra la caduta delle coperture vaccinali, soprattutto nell’adulto e nell’anziano”. Più prevenzione, dunque, e, come si invoca in tutti i 28 paesi europei, basta tagli alla Sanità.
Dall’universo magico della maternità compaiono periodicamente sui media e sul web le immagini struggenti di donne che allattano i loro neonati nelle condizioni più difficili. Dai campi profughi ai barconi dei “viaggi della speranza”, dai luoghi di lavoro alle aule europarlamentari. Le donne sanno come si fa a proteggere quella fase essenziale dell’esistenza. Dall’Australia arriva un’indagine che fissa alcuni paletti sulla tempistica necessaria.
I ricercatori dell’Università del Queensland hanno analizzato i dati di 2300 mamme, tutte lavoratrici prima dell’arrivo dei figli. La ricerca, pubblicata sulla rivista internazionale Pediatrics, ha fatto emergere chiare differenze sull’esito del successivo allattamento, in funzione della durata del loro impegno lavorativo.
È emerso che circa il 60% delle madri che lavorano sotto le 20 ore alla settimana allattano ancora allo scadere dei sei mesi di vita del bambino. Non ci sono differenze significative tra chi ne lavora 19 o 10, la differenza è a livelli superiori. La proporzione scende al 47% per quelle che lavorano da 20 a 34, al 39% per quelle che lavorano 35 o più. Il segnale evidente, e delicato, è questo: sembra che sia l’esigenza professionale della donna a stabilire la durata dell’allattamento, più di quella dei figli.
Quei parametri non sono scelti a caso. La raccomandazione dei pediatri è proprio quella di un allattamento protratto per almeno sei mesi, che riduce, tra gli altri, il rischio di infezioni all’apparato respiratorio e alle orecchie, le allergie, il diabete. Questo riguarda il bebè, ma riguarda anche la madre, dato che periodi lunghi di allattamento sono associati a riduzioni di rischi di depressione, di deterioramento osseo e di alcune forme tumorali.
Tanti si mobilitano sul tema, dalle strutture consultoriali alle reti volontarie quali “La Leche League” (Lega per l’Allattamento Materno), una rete fondata nel 1956 in 72 paesi al mondo, e dotata di migliaia di consulenti volontari (in Italia sono oltre cento, dal 1979), per sensibilizzare e assistere le madri sul dono prezioso dell’allattamento. Il tema può essere declinato in tanti modi, dalla medicina alla sociologia ai diritti. Lo svolgimento, però, richiede che quella funzione essenziale venga protetta. Qualunque cosa avvenga attorno, la madre può e deve conservare il tempo e l’attenzione totale, nel corpo e nell’anima, per l’allattamento. È essenziale alla salute del nascituro, di lei stessa e del mondo.
Lo sappiamo fin troppo bene dalla storia. Religione e scienza non vanno sempre d’accordo, con anzi drammatici pregressi di censura e repressione. Detto questo, c’è una ricerca americana che rimescola le carte e documenta come, sul fronte dei pazienti, l’atto di “andare in chiesa” riveli correlazioni con la qualità dello stato di salute. Lo studio sta avendo parecchia eco, anche sulla scia di contestazioni e ilarità, e tuttavia il dato sembra statisticamente rilevante, e andrebbe quindi preso con pur critica attenzione.
Cosa dicono in dettaglio dagli Stati Uniti? Ebbene, un gruppo di ricercatori capitanato da Tyler J. Van der Weele, scienziato della School of Public Health di Harvard, si è messo a monitorare per 16 anni quasi 75mila donne adulte. Nel 1996 furono sottoposte a un questionario. In larga parte cattoliche o protestanti, non tutte – anzi solo la metà – erano realmente “frequentanti” di servizi religiosi. Già allora emerse qualcosa, ossia che le più “assidue” mostravano in generale meno sintomi depressivi e, tra le altre cose, fumavano meno.
Le stesse sono state poi seguite nel loro decorso sanitario, a volte fatale, visto che quasi un sesto di loro poi sono morte e, nella metà dei casi, per cancro o malattie cardiovascolari. In proposito, però emerge che le “frequentanti” hanno presentato un tasso di mortalità ridotto addirittura del 33%.
Non mancano i pregressi, soprattutto negli Stati Uniti, di studi che hanno evidenziato una correlazione tra spiritualità e salute, anzitutto mentale. Il gesto della “preghiera”, la “fede” in qualcosa o qualcuno sembrano essere una risorsa importante. E anche in Italia si sono scritti libri, per sottolineare l’importanza di offrire tempi e spazi alla meditazione religiosa, anche alle persone di fede diversa da quella cristiana.
Mancano invece evidenze scientifiche sui rapporti di causa ed effetto. Tuttavia, nota uno scienziato “discussant” indipendente, “ l’associazione statistica emersa da questa analisi è decisamente solida e importante”. Forse non sarà mai possibile stilare grafici e formule che spieghino tale correlazione, ma il segnale è già chiaro, e dice almeno due cose importanti, anche se possono suonare scontate. La prima è che il nostro benessere psichico è fondamentale per la salute, e quindi bisogna averne cura. La seconda è che, per fare questo, bisogna ogni tanto fermarsi. Che sia una chiesa, un tempio, una moschea, una sinagoga o un’entità anti o non religiosa, serve ogni tanto spegnere i telefonini e i pensieri imminenti e guardare oltre, fuori e dentro di noi. Non è una perdita di tempo, è un tempo che il nostro corpo merita.
È un articolo di Repubblica l’ultimo a lanciare l'allarme tramite una storia curiosa. Quella di oltre cento giovani emigrati italiani a Preston, cittadina nel nord-ovest dell'Inghilterra, sopra Manchester e Liverpool. Che ci fanno lassù, nella remota contea del Lancashire? Gli infermieri. Ebbene, le ragioni del loro espatrio costituiscono una denuncia circa la necessità di tutelare una professione vitale per la nostra assistenza sanitaria, anziché di umiliarla, il che ha la conseguenza ulteriore di allontanare i nostri talenti.
L’espatrio fino a una settantina d’anni fa era una necessità. Poi è divenuto perlopiù una scelta. Da pochi anni è ridiventato una necessità. Ai vertici delle classifiche degli emigranti italiani, tra i vari professionisti, ci sono da tempo i medici, al punto che Bruxelles ha recentemente documentato che oltre la metà dei laureati europei in medicina che lasciano il proprio paese è costituita da italiani.
Per gli infermieri l’accelerazione è ancora più vistosa. Dal 2012 hanno addirittura superato gli insegnanti tra le categorie di emigranti. Poi, negli ultimi tre anni, nota la Federazione Nazionale Collegi Infermieri (Ipasvi), l’espatrio ha conosciuto un’accelerazione del 70%. Solo rimanendo all’Inghilterra (tantissimi se ne vanno altrove, a iniziare da Germania e Svizzera), sono globalmente almeno 2500 i professionisti connazionali trasferitisi.
Perché se ne vanno? C’è una ragione legata alla crisi, che peraltro ha coinvolto anche il Regno Unito, salvo che da noi ha condotto dal 2008 a un blocco quasi totale delle assunzioni. Nel 2009 il 90% dei laureati trovava lavoro entro l’anno, proporzione crollata al 25% cinque anni dopo. L’esito è che ci sono 25mila neolaureati disoccupati mentre, documenta ancora l’Ocse, mancano nel nostro paese 60mila infermieri. Servirebbero come il pane – tant’è che nel precariato aumentano i lavoratori stranieri, rumeni in primis – ma non trovano spazio stabile. E se lo trovano, il compenso è irrisorio, lontanissimo dai duemila euro di salario d’ingresso in Inghilterra (che poi aumenta per merito fino a quadruplicarsi). “Sì, ma lassù la vita costa di più”, si dice. Vero, per Londra, dove peraltro è previsto un aumento del 20% proprio per il carovita. Ma non per un posto come Preston.
Non è solo questione di denari, ma di rispetto professionale. C’è un percorso di formazione, “ dopo sei mesi di affiancamento gli infermieri sono regolarmente assunti con un contratto a tempo indeterminato”, nota il presidente dell’Ipasvi Luigino Schiavon. Poi ci sono le testimonianze personali. “Sono venuti a prenderci in taxi da Manchester”, dicono gli emigranti di Preston. E ai fatti, racconta anche la Bbc, risultano bravissimi. Sarebbero importanti perfino in Italia.
Siamo ai nastri di partenza. Sabato prossimo nella bella Fiuggi scatta la prima tappa di “IoEquivalgo”, un vero e proprio giro d'Italia organizzato da Cittadinanzattiva, con il sostegno non condizionato di Assogenerici e il patrocinio dell'Agenzia Italiana del Farmaco, per una sensibilizzazione nazionale, “dal basso”, a sostegno del ricorso ai farmaci generici. L'evento avrà luogo nel contesto di un’altra iniziativa, mobilitata dalla medesima associazione, “ SpreK.O.”, la terza festa nazionale per la lotta agli sprechi. Coincidenza non casuale, perché il tema è in fondo lo stesso.
“Lo spreco è una questione trasversale”, spiega Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato. Coinvolge tutti, dal settore pubblico ai cittadini, e coinvolge anche le tasche di tutti, dagli ospedali ai pazienti, perché il differenziale tra quanto si spende per “la marca” e quanto di spenderebbe col generico è elevatissimo, conteggiato da stime indipendenti oltre la quota di un miliardo all'anno. Lo spreco è multiplo, perché oltre a spendere di più, si paga anche la “mancata aderenza terapeutica, dovuta all'interruzione delle cure per difficoltà economiche”, ricorda Antonio Gaudosio, Segretario generale dell'associazione.
La mobilitazione di Cittadinanzattiva per gli equivalenti non è del resto una novità; è da dieci anni che la principale rete associativa italiana del settore si impegna in campagne informative in materia. Secondo il suo Rapporto 2014 sui malati cronici, 7 pazienti su 10 non cambierebbero la terapia “brand” che sta assumendo con quella equivalente, o ha quantomeno perplessità a farlo, e la fonte principale dello scetticismo viene attribuita a una parte dei medici. L'esito ultimo è che mentre nei paesi avanzati la media (Ocse) dell'uso dei generici è al 48%, con punte dell'80% e più in Germania e Regno Unito, in Italia siamo ancora a un modesto 19%, seppur in recupero negli ultimi anni.
Il punto di svolta è in “una corretta informazione”, ha ribadito anche in questi giorni il Presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann. Questo si concreterà sabato e domenica prossimi nel microvillaggio di “IoEquivalgo” allestito in Piazza Martiri di Nassiriya della cittadina ciociara.
Intorno, spettacoli teatrali, laboratori d'arte e riciclo, musica, attività ludiche, perfino cucina, con Slow Food Lazio, e la priorità dichiarata dell'attenzione ai bambini. Insomma una festa, a tutti gli effetti. Quando si sta assieme è più difficile farsi disinformare.
Abbiamo già suonato di recente “l’allarme tarocco” sui farmaci, sottolineando anche i risvolti penali, oltre agli alti rischi sanitari, derivanti essenzialmente dall’acquisto sul web. E abbiamo al contempo notato come gli italiani, pur frequentando sempre più massicciamente (e giustamente) la rete per informarsi sulla salute, mantengano per fortuna una sana cautela quando si tratta di acquistare on-line. Dagli Stati Uniti arrivano peraltro nuovi dati preoccupanti sul mercato illegale, corroborati da analisi che puntano il dito non solo sulla criminalità organizzata, ma anche sul nodo dei costi dei farmaci leciti, specie quelli di marca di ultima generazione.
“Un medicinale su dieci è contraffatto”, denuncia la Food and Drugs Administration (Fda), l’agenzia americana del farmaco. Se il “grande affare” del business illegale è stato fin qui primariamente quello degli integratori e delle pillole di stimolazione sessuale, ora sta coinvolgendo anche i medicinali essenziali. E ad alimentare il fenomeno, si nota, sono anche i prezzi insostenibili di parte del mercato legale di marca. I nuovi anti-tumorali che agiscono sul sistema immunitario, ad esempio, sono già venduti negli Stati Uniti alla cifra di oltre 100mila dollari per ciclo terapeutico.
Seppur in tono minore, il problema, con tutte le sue determinanti, riguarda anche il nostro paese. Secondo l’Aifa gli italiani che acquistano farmaci on-line sono oramai almeno due milioni, mentre oltre il 99% delle farmacie in rete è illegale, e un medicinale su due è falso. “ E’ un business facile perché basta piazzare una nuova scatola, visto che i prodotti di nuova generazione arrivano a costare 200mila euro”, avverte Domenico Di Giorgio, direttore dell’Ufficio contraffazione dell’Agenzia.
Il nodo non sta solo nel “falso” in senso stretto. Sta anche in quei medicinali che sono “legali” nei paesi che li producono, come Cina o India, ma la cui importazione (possibile su internet ma appunto illecita) non lo è, perché confezionati con regole assai meno ferree di quelle europee, tanto da rivelare spesso impurità, contaminazioni o inadeguatezze nei principi attivi.
Fondamentale dunque, di nuovo, uscire dal web ed effettuare l’acquisto in farmacia, dove il tarocco non può entrare. La lotta a quel mercato da 200 miliardi di dollari l’anno può esser vinta proprio lì, nella farmacia stessa. Andandoci. E scegliendo i medicinali equivalenti che, a identica qualità, sicurezza ed efficacia, costano molto meno rispetto ai prodotti “di marca”. Nel “salvadanaio della salute” aggiornato mensilmente da Assogenerici ci sono le cifre da capogiro del risparmio potenziale per i cittadini. Il nemico numero uno del tarocco, a quanto emerge, sono proprio i farmaci generici.
Nelle classifiche mondiali di vario ordine e grado stiamo perlopiù retrocedendo. Su una cosa però rimaniamo campioni. Il sonno. Non è un’ironia, dobbiamo esserne fieri e felici. Lo sottolinea una ricerca americana, di base nel Michigan. L’indagine è partita da un’app gratuita sviluppata qualche anno fa da alcuni studiosi per aiutare a superare il cosiddetto “jet lag”, la sindrome del fuso orario. Ne è uscita una mappatura globale. Che ci premia, per diversi ottimi motivi.
Non siamo per la verità i primissimi della classe. Ci battono, forse a sorpresa data la latitudine, gli olandesi. Ma siamo comunque nella “top ten”, con una media di 7 ore e 53 minuti, 20 in più dei meno dormiglioni di tutti, i giapponesi. Sembrerebbero differenze lievi, ma a livello di massa il dato è molto significativo, e a livello sanitario una differenza di decine di minuti di riposo quotidiano può fare la differenza.
Mediamente andiamo a letto alle 23.42 (secondi solo agli spagnoli), e ci svegliamo alle 7.35. A riposare di meno sono soprattutto gli uomini, e soprattutto di mezza età, per modalità che non sono generalmente stabilite da fattori naturali, quanto da impegni familiari, sociali e di lavoro. E non va bene.
Quindi, seppur nell’insieme “bravi” a tutelare il sonno, dovremmo averne ancor più cura. Una carenza di sonno aumenta il rischio di contrarre alcune forme tumorali, malattie cardiovascolari, diabete, e perfino patologie più lievi come l’influenza, o ancor meno percettibili come le perdite del tessuto cerebrale o della concentrazione degli spermatozoi tra gli uomini.
Ai disturbi del sonno si associano istintivamente gli adulti, ma anche questo è un mito che va sfatato. Da un’altra ricerca condotta ad Harvard emerge che il 61% degli adolescenti dorme poco. E il danno è gravissimo. Anche per gli effetti sull’aggressività. Comportamenti devianti in proposito sono accertati nel 40% di loro, e in larga parte si tratta di giovani che non riposano a sufficienza.
Bene dirlo subito, siamo solo alla ricerca di base. Annuncia risultati visibili, ma essenzialmente di breve periodo (circa 24 ore), con implicazioni sulla medicina ancora tutti da accertare. Nondimeno quei risultati ci sono, e arrivano da un’accademia di primo livello, qual è il Massachussets Institute of Technology (Mit), tanto da trovare eco in tanta stampa scientifica, a iniziare dall’americana Nature.
Dai ricercatori del New England è partorita (e sperimentata in uno studio pilota sugli esseri umani) un’elastica pellicola biomimetica, tecnicamente un “polimero” invisibile, elastico e inossidabile, capace di restituire all’epidermide sia la funzione meccanica che quella fisiologica, in altre parole una pelle giovane e sana. “Esistevano già trattamenti per ripristinare ciascuna delle due funzioni, ma pochi agiscono contemporaneamente su entrambe”, rivendicano gli studiosi del Mit.
C’è anche un video che illustra il processo. Prima viene steso un gel per “preparare” l’epidermide, poi l’applicazione del polimero, che resiste all’acqua, al sapone e ad altri effetti collaterali, restituendo non solo benefici estetici (meno rughe e borse sotto agli occhi), ma anche funzionali, con un’idratazione cutanea irrobustita, che risulta efficace soprattutto tra i pazienti con pelle molto secca.
Da notare che l’obiettivo perorato dai ricercatori non è prioritariamente “estetico”, bensì “sanitario”. La novità della “seconda pelle” è che si comporterebbe “come la prima”. “ In molti avevano provato prima di noi, ma i materiali messi a punto finora non avevano la stessa flessibilità, non erano così funzionali o provocavano irritazioni ”, dichiara una dermatologa che ha partecipato al progetto.
In altre parole, senza sottovalutare gli obiettivi “cosmetici” (“meglio delle creme di bellezza”), si spera che la ricerca abbia un impatto farmacologico, anzitutto nel trattamento delle ferite, eczemi e psoriasi. La pelle non è stata finora “brevettata”. Al Mit sembrano aver fatto un balzo in avanti, con quel che consegue per la possibilità di curarla.
No, non è un tema “sexy”, per il web, social e simili. Quando si parla di tutela degli “anziani”, specie in tempi di crisi, il pensiero tende subito a spostarsi alle nuove generazioni. Quelle che, si dice, “non vedranno mai la pensione”. Solo che essi esistono, per fortuna, in numero crescente e con un ruolo crescente, anche di protezione dei più giovani, proprio perché in tempi di crisi. Solo che poi ci si dimentica lo stesso delle loro necessità e diritti violati. C’è un esaustivo studio in proposito, che gira da mesi, ma significativamente con poco impatto nei media.
Il corposo Quinto Rapporto sugli anziani non autosufficienti promosso nei mesi scorsi dall’Irccs-Inrca (Istituto Nazionale di Riposo e Cura per Anziani - Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, Ancona) ha trovato ora riscontro in un approfondimento de La Stampa. Centinaia di pagine a scandagliare quella che appare una vera e propria emergenza, l'esigenza crescente di cura per la terza età e un'assistenza pubblica incapace di tenere il passo, tanto da affidarsi sempre di più al volontariato.
Solo il 12% degli anziani riceve un assegno di invalidità, ossia circa la metà dei bisognosi. Uno su tre vive da solo, e solo il 4% riceve l'assistenza domiciliare. E “la solitudine è forse il problema più grave – spiega Marco Trabucchi, neuropsicofarmacologo all'Università romana di Tor Vergata – perché in un 75nne anche un piccolo deficit cognitivo peggiora rapidamente se non c'è nessuno a fianco”.
“ Senza un robusto incremento del finanziamento pubblico per l’assistenza agli anziani non autosufficienti il sistema è destinato a un inevitabile e progressivo declino ”, avverte Cristiano Gori, coordinatore del rapporto, data anche la tendenza all'invecchiamento della piramide dell'età. Mancano le risorse, ma non le idee: “Se i lavoratori dipendenti e autonomi rinunciassero a un giorno di ferie pagate potremmo creare un fondo” per pagare almeno un infermiere durante le vacanze, suggerisce il presidente dell'Associazione Nazionale Strutture per la Terza Età Alberto De Santis, ricordando che così si fa in Germania già dal '95 e, a ruota altrove. “L'Italia è l’unico grande Paese europeo a non avere riorganizzato in maniera organica il suo sistema”, si legge nell'indagine.
Ai media piacciono più le storie come quella di Emma Morano, piemontese di Verbania, divenuta a 116 anni la donna più vecchia al mondo. Sta bene, e solo da qualche mese ha chiesto un'assistenza a tempo pieno. Ma dietro a quella bella storia ce ne sono mille altre di ben altro tenore.
Un paio di settimane fa abbiamo raccontato una novità in arrivo, stando almeno agli “atti di indirizzo” del governo d’accordo con le regioni. Riguarda i medici di famiglia, impatta l’insieme dell’assistenza di base, allargando le fasce orarie degli studi e alleviando la necessità di ricorrere al pronto soccorso, almeno nelle fasce diurne. Più “sanità territoriale” e meno “ospedaliera”, dunque, secondo un concetto perorato diffusamente da anni.
Abbiamo anche sottolineato il seppur cauto appoggio di massima dalle associazioni dei pazienti, nonché quello del principale sindacato della categoria, la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg). Tuttavia non tutti sono d’accordo, e data l’importanza del tema per la collettività, è giusto darne conto e illustrarne le motivazioni.
La “rivoluzione” consisterebbe in un’estensione dell’apertura degli studi medici di famiglia, addirittura 16 ore al giorno, dalle 8 alle 24, sette giorni su sette, allargando anche la pediatria (dalle 8 alle 20, per cinque giorni alla settimana), potenziandone inoltre le funzioni amministrative (prenotazioni, ticket). Questo sarebbe possibile tramite le “aggregazioni funzionali territoriali”, gruppi di professionisti capaci di sostituire il medico di base quando non c’è, assicurando la continuità del servizio.
Ora, qual è l’obiezione contestata principalmente dai sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil), con tanto di manifestazione la scorsa settimana in piazza Montecitorio? Il problema, dicono, è quel che accadrebbe dalle 24 alle 8. Si consoliderebbe in apparenza l’assistenza diurna ma, obiettano, di notte sarebbe il caos. Ci sarebbe “il taglio della guardia medica e l'uso improprio del 118 in quella fascia oraria”. In altre parole, i pronto soccorsi, che teoricamente dovrebbero trarre sollievo dalla riforma, di fatto finirebbero a intasarsi ulteriormente in quelle ore, costretti a occuparsi di “febbriciattole” a scapito delle vere emergenze. Il contrario dell’obiettivo dichiarato, insomma.
Chi ha ragione e chi torto? Probabilmente non ci sono risposte esaustive. Sulla filosofia della riforma il consenso è piuttosto ampio, sui dettagli si dovrà fare attenzione. “La riforma non stanzia alcuna risorsa”, notano i detrattori. Ed è questo a segnare anche la “cautela” dell’appoggio delle associazioni. “Che il piano non nasconda ulteriori costi per i pazienti”, avvertono.
“I farmaci equivalenti sono identici agli altri farmaci per qualità, sicurezza ed efficacia. L’unica differenza è che costano meno”. A vedere lo spot della campagna #ioequivalgo che sta girando viralmente in rete si potrebbe pensare a una qualche sorta di pubblicità. Invece è tutt’altro, nella matrice, negli obiettivi e nei significati. Si tratta del video di supporto di una vera e propria mobilitazione di base lanciata dalla principale rete associativa italiana dei pazienti, Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato. “ Una campagna di sensibilizzazione, coinvolgimento e partecipazione sui farmaci equivalenti, che sgombri il terreno dai falsi miti”, si legge .
A collaborare con la campagna sono inoltre molti dei principali attori del settore: una quantità di altre associazioni di cittadini e pazienti, quelle che raggruppano i medici, i farmacisti, ordini professionali inclusi, gli infermieri, società scientifiche e sindacati. A dare un sostegno non condizionato c’è Assogenerici. E a patrocinarla c’è l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), l’ente pubblico che ha la responsabilità di verificare, tra le altre cose, il rigoroso rispetto delle stringenti norme nazionali ed europee in materia di equivalenza terapeutica, sicurezza e qualità dei farmaci equivalenti. E’ la stessa Agenzia ad aver lanciato nei mesi scorsi la sua ennesima campagna di informazione su tutto questo. Ma è chiaro che se a muoversi contro tali “ falsi miti” - che ancora permangono nel nostro paese assai più che nel resto dei paesi avanzati – sono le loro principali vittime, ossia i pazienti stessi, l’impatto ha ben altro potenziale.
“ Favorire la trasparenza delle politiche dei prezzi, la sostenibilità della spesa per le famiglie e del Servizio Sanitario Nazionale, e la riduzione degli sprechi derivanti dalla mancata aderenza terapeutica, dovuta dalla interruzione delle cure per difficoltà economiche ”, gli obiettivi prioritari sottolineati dal segretario generale di Cittadinanzattiva Antonio Gaudosio, riferendo di quotidiane lamentele ricevute dai cittadini sui prezzi dei farmaci, e ricordando il dato scandaloso del 10% degli italiani costretti a rinunciare alla terapia per motivi economici.
“ Si può e si deve fare di più per aumentare l’uso dei farmaci equivalenti e coglierne tutte le opportunità, anche nei casi di indisponibilità o irreperibilità di medicinali ”, incalza Tonino Aceti, coordinatore del Tribunale del malato, sullo sfondo dei dibattiti dilaganti sui “farmaci mancanti” e sui loro costi, per i cittadini e per la sanità pubblica. Lo Stato potrebbe avere “un risparmio di 500 milioni di euro l’anno”, spiega il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann. Per quel che riguarda il differenziale pagato dai cittadini che ancora scelgono “la marca”, la cifra sfiora il miliardo, ha sottolineato nei giorni scorsi (tra gli altri) Il Sole 24 Ore. Cifre inaccettabili, specie in tempi di difficoltà economiche, collettive e private.
“Io mi curo… non solo della scatola… anche del portafoglio… non solo dell’aspetto… anche della pensione”, recita lo spot. E per aiutare i cittadini ad essere più consapevoli, Cittadinanzattiva ha pensato anche a un portale, a una brochure informativa distribuita nelle farmacie e attraverso la rete dei partner della campagna, ad attività social e alla app #ioequivalgo che aiuta in tempo reale l’utente nella ricerca dei farmaci equivalenti disponibili.
La chiave è “un’informazione corretta”, sottolinea ancora Häusermann. Per assicurarla, la mobilitazione scenderà anche in piazza per avvicinarsi ancora di più alla gente. Sta, infatti, partendo un lungo “giro d’Italia” che, fino a ottobre, coinvolgerà le città di Chieti, Campobasso, Asti, Caltanissetta, Perugia, Salerno, Senigallia, Udine, Vicenza, Taranto, Crotone. Il nastro di partenza sarà tagliato a Fiuggi il prossimo 28 e 29 maggio, in occasione – significativa concomitanza – di SpreK.O, la III Festa per la lotta agli sprechi.