Le “cavie” sono state le infermiere, e non è certo la prima volta. Da un’ampia indagine sulle loro emicranie è emersa una correlazione con i rischi di malattie cardiovascolari, inclusi l’ictus e l’infarto. Sappiamo ancora relativamente poco dell’emicrania, e meno ancora dei possibili ulteriori risvolti patologici. Tuttavia una ricerca negli Stati Uniti aiuta quantomeno a identificare fattori e categorie a rischio, utili alla prevenzione e alla ricerca.
Pubblicata sul British Medical Journal, è stata condotta in collaborazione tra le università di Berlino e Harvard, rielaborando e approfondendo i dati di un precedente “censimento” sulla salute di oltre 114mila operatrici americane tra i 25 e i 42 anni, seguite tra il 1989 e il 2011. Tutte erano in buona salute all’inizio dell’osservazione, ovvero senza patologie cardiovascolari o sintomi anginosi. Al contempo molte infermiere, il 15,2% del campione, risultava affatto da emicrania.
In tale lasso di tempo si sono poi verificati 1329 eventi cardiovascolari maggiori (quali l’ictus e l’infarto del miocardio), mortali in 223 casi. Ed è emersa una chiara associazione statistica con l’emicrania, che aumenterebbe il rischio di patologie cardiovascolari del 50%. Scomponendo tra le varie patologie, la maggiorazione è inferiore sull’infarto (39%), ben superiore sull’ictus (62%) e ancor di più per l’angina/procedure di rivascolarizzazione coronarica (73%). Tendenze che si confermano anche sulla mortalità cardiovascolare, incrementata del 37% tre le infermiere soggette a emicrania.
A ulteriore conferma della solidità di tali tendenze, esse si confermano anche nelle scomposizioni tra vari sottogruppi, in base all’età, all’abitudine al fumo, alla presenza o meno di ipertensione, all’eventuale utilizzo di contraccettivi orali. La correlazione tra emicrania e patologia cardiovascolare si riproduce ovunque.
L’indagine del resto non distingue tra le diverse forme di emicrania, né chiarisce i rapporti di causa ed effetto. Altre ricerche avevano rilevato un nesso tra emicrania e ictus, ma sulle spiegazioni siamo ancora all’ambito delle ipotesi. Nondimeno il segnale qui emerge lampante: l’emicrania va curata e trattata anche per la sua natura di fattore di rischio cardiovascolare. Tenendo inoltre conto di un ulteriore fattore: essa colpisce le donne almeno tre volte in più rispetto agli uomini.
A leggerlo superficialmente, il dato emerso in questi giorni sull’impennata delle assicurazioni sanitarie potrebbe suonare come un indicatore di benessere, e magari anche di una pur parziale ripresa dei redditi familiari al seguito della più grave crisi economica del dopoguerra. La realtà è tuttavia ben più complessa, e fornisce viceversa segnali allarmanti sull’andamento dell’assistenza pubblica in Italia.
Nel 2015 le polizze private per malattia, rivela il Censis, hanno sfondato la quota di 2 miliardi di euro, il doppio rispetto a vent'anni fa. Il dato va ad alimentare quello delle spese private nella Sanità che, nonostante la recessione, ora superano i 33 miliardi di euro, cinque in più rispetto al 2004.
Non siamo diventati più ricchi, anzi. Lo stesso istituto di ricerca ha documentato come siano addirittura undici milioni gli italiani che rinunciano alle cure perché non possono permettersele, mentre solo nel 2012 erano due milioni in meno. La spiegazione di quell'incremento di spesa sta piuttosto nel fatto che ci si sente sempre meno assistiti dal Sistema Sanitario Nazionale, i cui ticket sono del resto saliti fino a rendere alcune prestazioni pubbliche perfino più onerose di quelle private. Oltre il 57% degli italiani ritiene, pertanto, che una polizza sia la soluzione più adeguata, alla ricerca non tanto di “corsie preferenziali” quanto anzitutto dell'assistenza di base.
E quando non ce la possiamo permettere, ci indebitiamo: secondo un'altra indagine, i prestiti per coprire cure mediche sono saliti al 4% del totale nel 2015, due anni prima erano al 2,5%. Gli assicuratori si sfregano le mani e moltiplicano anche gli accordi con le Asl per potenziare i propri prodotti, ma lo scenario tratteggiato è quello di una crisi crescente del servizio pubblico, per ragioni anzitutto finanziarie.
“ In questo quadro non si può continuare a ricorrere a misure contabili di corto respiro. Esistono fattori destinati a durare nel tempo, a cominciare dall’innovazione farmacologica ”, avverte il Presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, ricordando i contributi pregressi e quelli potenziali del settore all'obbiettivo di contenimento dei costi: “ Se si pone l’accento sul valore di ciò che il Servizio Sanitario acquista, è arduo non considerare che equivalenti e biosimilari ottimizzano il valore dell’investimento pubblico in salute ”.
Nel diabete di tipo 2 i controlli e la terapia sono salvifici. Tuttavia è bene anche non esagerare, perché un eccesso di test e di dosaggi farmacologici può addirittura risultare controproducente. I medici europei ne sono generalmente abbastanza consapevoli, ma è stavolta dagli Stati Uniti – ossia proprio dalla culla della filosofia del “more is better”, anche in ambito sanitario – che arriva un documentato appello alla moderazione.
L’iniziativa è della “Mayo Clinic”, celebrata organizzazione di ricerca medica dell’Arizona. Il fatto di base, rilevato dall’endocrinologa Rozalina McCoy, coordinatrice dello studio, è un “numero esagerato di test per la glicata”, con la conseguenza di terapie “ con una quantità esagerata di farmaci, rispetto a quelli necessari visti i livelli accertati di glicata stessa”. Obiettivo della ricerca è stato allora valutare le eventuali controindicazioni di tali eccessi. Quanto poi emerso risulta in effetti preoccupante.
Sono stati analizzati i dati tra il 2001 e il 2013 di quasi 32mila pazienti americani con diabete 2, a livello “stabile” e “ben controllato”. Nessuno era in terapia con insulina o aveva avuto episodi pregressi si ipoglicemia – considerati entrambi fattori di rischio per l’insorgere di quest’ultima. Sono quindi stati esaminati distintamente i giovani e i soggetti clinicamente “complessi”, ossia gli anziani (almeno 75 anni) e i pazienti con rilevanti comorbilità (patologia renale, demenza, altre patologie croniche gravi).
Ora, è emerso anzitutto che il 18,7% dei “complessi” e il 26,5% dei “non complessi” ricevevano un trattamento ingiustificatamente “intensivo”. Poi, è stato rilevato che i primi hanno manifestato un tasso di ipoglicemie doppio rispetto agli altri, e che il trattamento aumentava il rischio di un ulteriore 77% nell’arco di due anni. In altre parole, è emerso che, soprattutto tra i “complessi”, “ il trattamento intensivo arriva quasi a raddoppiare il rischio di gravi episodi di ipoglicemia”.
In conclusione, secondo McCoy, ci si concentra “ troppo sui livelli di emoglobina glicata e si mira a obiettivi troppo bassi e ambiziosi da raggiungere per mezzo di un trattamento molto intensivo, che può creare problemi seri soprattutto ai pazienti più anziani e fragili ”. Le linee guida indicano tale livello intorno al 6,5%, ma molti scienziati consigliano di modularlo a seconda delle caratteristiche del paziente, che definiscono i rischi ipoglicemici. Bisogna curarsi, ma con moderazione. La corretta valutazione dei paletti sta ai medici, nonché ai pazienti, nonché al loro imprescindibile rapporto. E questo non vale solo per l’epatite 2.
“Il cancro è curabile”, e lo è sempre di più. Lo reclama da tempo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul cancro. A molti può suonare perlopiù come uno “slogan”, per incoraggiare i decisori e gli operatori della sanità a fare di più, segnalando appunto che tanto si può fare. La realtà è che a ritmo quasi quotidiano si annunciano progressi incoraggianti dalla ricerca medica. E a questa realtà fanno riscontro alcune novità che riguardano anche il nostro paese.
Una notizia, già rimbalzata sulla stampa, riguarda proprio i nostri ricercatori, anzi ricercatrici. Due connazionali hanno ricevuto il prestigioso “ Conquer Cancer Foundation Merit Award” della Società Americana di Oncologia Clinica (Asco), che ha riunito a Congresso nei giorni scorsi a Chicago migliaia di specialisti di tutto il mondo. Di recente era uscita una polemica tra una studiosa e il governo italiano, accusato di “vantare” alcuni risultati conseguiti in realtà all’estero, nell’ambito della “fuga di cervelli”.
In questo caso però non è così. Le due scienziate sono Emanuela Palmerini e Carlotta Antoniotti, la prima è oncologa all’Istituto Rizzoli di Bologna, l’altra all’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa. Per la dottoressa Palmerini è addirittura il sesto riconoscimento Asco, premiata stavolta per gli ottimi esiti di una ricerca chemioterapica sul Sarcoma di Ewing, condotte in collaborazione con un istituto londinese. “ Un grande risultato perché è un tumore raro che interessa soprattutto i bambini”, commenta. A ulteriore dimostrazione che molto si può e viene fatto in Italia, specie quando ci si apre alla collaborazione scientifica internazionale.
Alle novità sul fronte della ricerca italiana si sovrappongono quelle, ancor più imminenti, sulla salute degli italiani. Sono annunciate sempre da Chicago, dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom): nel 2015, per la prima volta, si registra una diminuzione dei tumori nel nostro paese, 363300, rispetto ai 365500 dell’anno precedente, e per giunta si rileva un +15% di guarigioni. Merito della ricerca, appunto, nonché dell’investimento farmacologico (100 miliardi spesi nel 2014, il 33% in più rispetto a quindici anni prima), sicché oggi oltre il 70% supera la malattia.
Ma il merito è anche altrove. Si chiama prevenzione, un’accresciuta consapevolezza pubblica, con effetti visibili sul fumo, qualità dell’alimentazione, attenzione alla diagnosi precoce. E si può fare ancor meglio. “Eliminare gli sprechi”, incalza il presidente dell’Aiom Carmine Pinto, tracciando un bilancio, tra esami strumentali e terapie di non comprovata efficacia, da “circa 350 milioni di euro ogni anno”. E’ vero, dunque, molto si può fare. Tra comportamenti privati, ricerca e scelte mediche oculate, anche sul nodo dei costi.
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A trentacinque anni dalla scoperta della malattia, nel complesso e lungo notiziario sull’evoluzione dell’Aids, le ultime novità sono sostanzialmente due, come emerso anche dal vertice delle Nazioni Unite dei giorni scorsi sul tema. Una buona e una cattiva. La prima è che la ricerca e la cura stanno producendo risultati incoraggianti, sebbene permangano criticità, specie tra i Paesi più colpiti e meno abbienti. La seconda è che il percorso di sensibilizzazione sembra segnare il passo, con indicatori allarmanti anche dall’Italia.
Cominciamo dalle cattive notizie, e dal nostro Paese. “ C’è ancora un preoccupante scarso livello di conoscenza specie tra i giovani, ossia le fasce più a rischio”, nota Rosaria Iardino, presidente onorario dell’Onlus Nps Italia, che ha commissionato un’indagine all’Swg, presentata una settimana fa all’Italian Conference of Aids and Antiviral Research, tenutasi a Milano. Tra i dati più eclatanti: il 50% degli intervistati neppure sa cosa sia l’Hiv, proporzione che aumenta tra i giovani; e il 55% dei ventenni ha paura di un semplice contatto fisico con un sieropositivo. Insomma, permane la disinformazione e lo stigma sui malati, complice anche larga parte dei media, “impreparati e orientati tuttalpiù all’allarmismo”. E questo è gravissimo, perché va a colpire il più efficace degli antidoti, ossia una corretta prevenzione.
Dal Palazzo di Vetro di New York arrivano invece segnali positivi sul progresso delle cure, per qualità ed estensione dei pazienti raggiunti. Questi sono raddoppiati negli cinque ultimi anni, arrivando a circa 17 milioni, sulla scia di un accordo globale che ha fissato l’obiettivo (peraltro difficilmente perseguibile fino in fondo), di raggiungerne 30 entro il 2020. C’è però un grande “ma”, rimarcato tra gli altri dal Medici Senza Frontiere, e sta nel fatto che c’è un’estesa area del pianeta che è rimasta quasi del tutto tagliata fuori dagli interventi. Si tratta dell’Africa centrale e occidentale, dove vivono quasi cinque milioni di malati, cifra da vera e propria emergenza umanitaria.
Un altro paese africano ad altissimo rischio – seppur con un’assistenza generalmente più adeguata – è il Sudafrica, con sette milioni di sieropositivi. Ed è lì che la ricerca ha compiuto un passo rilevante, ed è un passo italiano (che segue un finanziamento di 22 milioni di euro dalla Farnesina). E’ stato testato con successo, in un esperimento che ha coinvolto 200 pazienti, il “vaccino Tat”, sviluppato nei laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Si tratta di una proteina che permette la replicazione del virus e, così, incrementa significativamente le cellule immunitarie “T CD4”, moltiplicando l’efficacia dei farmaci anti-Hiv.
“Un esempio di eccellenza”, si congratula il presidente dell’Iss Walter Ricciardi. Un segnale di quanto si possa fare, quando c’è la volontà dei governi a sostegno della ricerca. E quando l’informazione non abbassa la guardia.
Preoccupazioni eccessive, paure, tendenze all'isolamento. Sono alcune tra le forme più lievi di quel fenomeno dilagante rappresentato dai disturbi dell'ansia, fonti di malessere psichico ma anche di una maggiore esposizione ad altre patologie psicofisiche. Talmente esteso dall'aver indotto l'Institute of Public Health dell'Università di Cambridge, previa finanziamento pubblico, a compiere una “ricerca delle ricerche”, raggruppando le indicazioni emerse da tutto il mondo al fine di individuare le categorie più sensibili e potenziare in prospettiva le capacità di prevenzione e cura.
Dalle 1200 indagini riesaminate emerge anzitutto la portata del problema, che colpisce ogni anno ben 60 milioni di cittadini europei, oltre il 10% della popolazione continentale, e proporzioni analoghe negli Stati Uniti, dove il costo sanitario annuale calcolato a oltre 42 milioni di dollari. In ambedue i casi la variabile più vistosa emersa è quella di genere. L'ansia colpisce le donne il doppio degli uomini, con una prevalenza riscontrata soprattutto al di sotto dei 35 anni.
La ricerca non è intesa a fornire spiegazioni sulle ragioni di tali tendenze. Possono dunque ora scatenarsi psicologi, biologi e sociologi. Tuttavia c'è qualcosa che già salta agli occhi e sgombra il campo da possibili eccessi di “dietrologia” sulle differenze di sesso. Difficilmente l'ansia è immotivata, vi sono anzi associate problematiche assai concrete. Ad esempio, i disturbi ossessivo-compulsivi sono rilevati con particolare frequenza tra le donne incinta e nella fase immediatamente successiva alla nascita, ossia nel momento più rilevante e delicato dell'esistenza umana, quello della creazione.
Analogamente, l'ansia colpisce primariamente persone che soffrono di gravi patologie, ad esempio l'11% degli adulti con malattie cardiovascolari, e addirittura un terzo dei pazienti di sclerosi multipla. L'indicazione più rilevante di tale ricerca dimora proprio nel fatto che l'ansia non spunti “dal nulla” nella nostra psiche, bensì sia largamente il correlato di reali sofferenze e fondate preoccupazioni.
Alcuni dati sembrerebbero entrare in contraddizione. Sono quelli che rilevano minori livelli d'ansia nelle minoranze etniche o linguistiche nei paesi occidentali, nonché in continenti più poveri. Invece non c'è paradosso, anche qui agisce un semplice fatto di sostanza, riconosciuto dagli stessi ricercatori: quello che in tali contesti il livello e la capillarità dell'assistenza sanitaria sono inferiori, impattando anche sulla diagnosi.
“Deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi”. È l'amara ammissione della Ministra della Salute Beatrice Lorenzin. Il riferimento era a una serie di dati emersi nei giorni scorsi sulle difficoltà della sanità e dei pazienti italiani, che a ben vedere ruotano tutti intorno al nodo dei costi, senza esclusione per quelli farmaceutici.
A far rumore, e a indurre la Ministra a commentare – e a prospettare anche una “una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d'attesa” - è stata soprattutto un'indagine del Censis che ha svelato l'allarmante cifra di 11 milioni di persone costrette nell'ultimo anno a rinviare o a rinunciare alle prestazioni sanitarie. La causa principale è appunto il loro costo che, sommato ai tempi lunghi d'attesa, induce molti a lasciar perdere, e altri a rivolgersi ai privati, anche perché i ticket sono aumentati (del 5,6% negli ultimi tre anni) fino a risultare talora più onerosi della prestazione al di fuori delle strutture pubbliche.
Eppure, perfino in tempi di crisi, gli italiani sono disposti a spendere prioritariamente per la salute, quando possono. Tra il 2013 e il 2015 l'esborso da loro sostenuto nel settore è cresciuto del 3,2%, il doppio del resto dei consumi. Il problema è che molti invece non possono, e questo naturalmente riguarda soprattutto le fasce deboli, ossia gli anziani e i giovani. Ulteriore aggravante, mentre i costi salgono, la qualità del Servizio Sanitario Nazionale è percepita in peggioramento dal 45% degli italiani.
A tali cifre si incrocia l'ultimo consuntivo dell'Agenzia Italiana del Farmaco, che certifica per il 2015 un rosso da 1,880 miliardi di euro. Eppure, la spesa convenzionata netta è scesa dell'1,40% e le ricette sono calate del 2,17%. Com'è possibile tale contraddizione? Sta nel fatto che quasi l'intero “buco” è causato dalla spesa farmaceutica ospedaliera. Si tratta cioè dell'ambito su cui rimane più marginale il ricorso ai farmaci equivalenti. “E' tempo di promuoverne l'utilizzo”, ha nuovamente protestato al Senato il presidente dell'Aifa Mario Melazzini.
Il tema della sostenibilità finanziaria e della qualità dei generici ha fatto irruzione anche nella festa per il trentennale di Slow Food, a Roma. Al Centro Congressi di Eataly, la rete associativa Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato ha tenuto giovedì scorso un altro, solido incontro pubblico nell'ambito della campagna nazionale “IoEquivalgo”. L'equivalente è rigorosamente tale in tutto (principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica), tranne che in quella variabile oggi non più trascurabile, pena l'esclusione di milioni di pazienti dalle terapie: il prezzo, nettamente inferiore.
Nei giorni scorsi in Nigeria un signore di 62 anni si è recato dal giudice invocando lo scioglimento del matrimonio sulla base del fatto che la moglie sessantenne era divenuta riluttante al sesso. Dinanzi al magistrato la donna si è difesa ammettendo il proprio raffreddamento, e attribuendolo alla perlopiù menopausa. È una storia curiosa come tante, che però svela l’alone di pregiudizio culturale che ancora avvolge quella fase delicata di passaggio femminile. L’alone è del resto nel titolo stesso del giornale africano: non è dedicato all’iniziativa giudiziaria dell’uomo, ma alla menopausa della donna. La “notizia” starebbe nella sua risposta.
E invece non è lì la notizia. La menopausa è un naturale momento di passaggio nella vita di ogni donna, benché forse il più drammatico. Termina il ciclo mestruale, e con esso la fertilità, quel mistero che consegna al gentil sesso la magia e il potere ineguagliabile di creare vita. Quella fase è tipicamente assai poco ritualizzata nelle civiltà umane, il che ne sottolinea la marginalità e la marginalizzazione delle interessate. Eppure è una costante perfino anagrafica nella storia. Oggi è riscontrata in media tra i 45 e i 50 anni; ai tempi dei greci, con speranze di vita ben più basse, era ugualmente stimata verso i 45.
Ci sono risvolti psicologico-culturali, dunque, ma anche fisici, che è cruciale affrontare adeguatamente. Dalla Regione Toscana si annuncia un interessante progetto di ricerca (con un rilevante investimento da un milione di euro) che sarà sviluppato in collaborazione tra l’Università di Pisa, l’Istituto di informatica e telematica del Cnr e tre imprese locali (Signo Motus, Medea e Lucense). Può suonare strano, ma l’obiettivo è quello di sviluppare un’app, già battezzata “Vita Nova”, ad adeguato sostegno della donna.
“Mira a costruire un’applicazione adattiva capace di proporre strategie personalizzate per migliorare lo stile di vita delle donne che si avvicinano alla menopausa, adattando i suggerimenti alla tipologia di persona, ai suoi sintomi, alla condizione individuale ed anche alle sue risorse di tempo o economiche”, spiega il Professor Tommaso Simoncini, dell’Ateneo toscano che coordina il progetto. Potenziare l’automonitoraggio dei sintomi, dunque, modificando al contempo in modo dinamico le strategie per affrontarli.
Dalla ginnastica all’agopuntura, dal farmaco agli stili di vita, sono molteplici le consulenze su come affrontare la sintomatologia di quel poco celebrato rito di passaggio. A margine, come ha scritto una settimana fa un giornale canadese, va comunque ricordato “le donne non odiano i loro mariti durante la menopausa”, né, salvo un periodo transitorio, “perdono l’interesse nella sessualità”. Quel che chiedono è essenzialmente di essere ascoltate.
Giugno è il mese della prevenzione urologica, ed è un po' una contraddizione in termini perché - lamentano gli stessi promotori - gli uomini la fanno pochissimo. L'iniziativa è della Società Italiana di Urologia (Siu), e prevede l'apertura di circa duecento centri italiani a consulti e visite gratuite.
L'auspicio è proprio quello di innescare un cambio di rotta rispetto alla riluttanza tutta maschile verso il medico, nutrita da vecchi retaggi “machisti” nonché da qualche paura a scoprire e affrontare le proprie patologie. “L'uomo non fa prevenzione - incalza il Segretario Generale della Siu Vincenzo Mirone – Solo il 10-20% si è sottoposto nella vita a una visita preventiva, contro oltre il 50-60% delle donne”. L'esito ultimo è che “nove maschi su dieci vanno dallo specialista solo se affetti da patologie gravi”, quando magari è troppo tardi. E perfino quando ci vanno “sono estremamente reticenti a parlare con lui delle proprie problematiche”.
Una tempestiva prevenzione, affiancata da stili di vita sani, sarebbe cruciale per inibire o comunque debellare le patologie tipiche degli uomini. Sono la prostatite, un'infezione che colpisce circa il 25% dei maschi, specie in età tra i 18 e i 45 anni. Ancor più diffusa e altrettanto curabile l'iperplasia prostatica benigna, affliggendo sei milioni di italiani, ovvero la metà degli over-60, e praticamente la totalità degli over-80, incidendo parecchio sulla loro qualità della vita, specie con disturbi alla minzione. Poi il dolorosissimo calcolo urinario, causa della colica renale, peraltro trattabile oggi con interventi mini-invasivi e comunque, di nuovo, largamente prevenibile con una buona alimentazione, ampio consumo idrico e visite frequenti. E ancora, l'infertilità, che per almeno il 50% dei maschi colpisce gli uomini, nonché la disfunzione erettile, che coinvolge ufficialmente due milioni e mezzo di italiani, ma in realtà sono molti di più, considerando che solo uno su tre si rivolge al medico.
Fin qui le patologie e i disturbi “benigni”. Ma c'è anche il cancro alla prostata, che rappresenta il tumore più frequente tra i maschi (circa 36mila nuove diagnosi e 7mila morti all'anno) e la seconda causa di morte per neoplasia, dopo quello al polmone. Anche e soprattutto qui, la visita di prevenzione è essenziale perché la patologia è spesso asintomatica nelle fasi iniziali, quando è ancora curabilissima.
L'iniziativa della Siu va allora presa sul serio. Per trovare la struttura più vicina si può consultare un apposito sito (controllati.it) o telefonare a un numero verde (800.822.822). Sperando che la visita diventi una salvifica abitudine annuale.
Si chiama Chris Wright, è un 26nne giocatore di basket. Viene dal Maryland, è alto 1,85 metri, che è pochino per un professionista della massima serie italiana. Invece gioca, ed è anzi tra i migliori, in forza come playmaker nella gloriosa Varese. Ha peraltro un handicap ulteriore, ben più grave. Quattro anni fa gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, la sta combattendo e al contempo si sta esponendo molto in incontri pubblici per raccontarla, e spiegare come la si può affrontare, almeno in parte ma perfino ad altissimi livelli sportivi.
Ora, almeno per il momento, il giovane statunitense si è “bruciato”. E’ stato sospeso per l’imperdonabile onta della positività al doping. La sua società si è subito schierata con lui declamando che il farmaco contestato, uno stimolatore , è utilizzato per difendersi dalla patologia. Motivazione plausibile, a tale scopo lo hanno usato in molti, ma questo non viene formalmente riconosciuto dalle autorità sanitarie, anche italiane (eccetto per combattere la narcolessia), mentre è incluso nell’elenco dei prodotti dopanti. Lo sa, e infatti non ha granché protestato, autorità sportive incluse, e la legalità è imprescindibile. Nondimeno, e qualunque sia l’esito, il caso “illustre” getta un po’ di luce sulle difficoltà a ad affrontare tale patologia, e sulla solitudine in cui si trova spesso il paziente alla faticosa ricerca di una terapia.
Quella solitudine è documentata anche dal silenzio con cui è passata nei giorni scorsi la diciottesima “Settimana della sclerosi multipla”, culminata nella Giornata “mondiale” il 25 maggio, coinvolgendo una settantina di paesi. Largamente sotto silenzio nei media, nonostante le decine di convegni e la mobilitazione massiccia dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, fondata oramai quasi mezzo secolo fa e nutrita da oltre settemila volontari, e quotidianamente mobilitata – al di là della settimana – nell’assistenza sanitaria e amministrativa, nella pressione politica, nella promozione della ricerca e nell’organizzazione di campagne on-line e di piazza per la sensibilizzazione.
In Italia ne sono affette circa 110mila persone, e ogni anno sono accertati 3400 nuovi casi, uno ogni tre ore, in larga parte prima dei 40 anni. “ E’ una malattia neurodegenerativa demielinizzante – spiega il professor Giancarlo Comi, del San Raffaele di Milano, tra i massimi esperti italiani - Per motivi ancora poco chiari, i linfociti T, cellule responsabili della risposta immunitaria specifica, vengono sensibilizzati, si attivano e attraversano le pareti dei vasi sanguigni, superando la barriera emato-encefalica e penetrando nel sistema nervoso centrale ”.
Tuttavia, anche dinanzi agli sviluppi peggiori della malattia, ossia quelli “progressivi”, Comi riferisce ad esempio degli ottimi esiti dell’Ocrelizumab, “un anticorpo monoclonale in grado di distruggere in modo selettivo la popolazione dei linfociti B”. Insomma molto si può fare oggi, e molto altro si potrà con lo sviluppo della ricerca. Senza dover ricorrere a sostanze “dopanti”. L’importante è andare avanti, e smetterla col silenzio.
Credits foto: Pallacanestro Varese
Ci sono le parole, e sono oramai le stesse, da parte di tutti, dalle associazioni dei pazienti al Ministero, dal governo alle Università, dall’Agenzia Italiana del Farmaco alle imprese produttrici, incluse quelle dei farmaci “di marca”. Principi attivi, efficacia terapeutica, sicurezza, sono identici nei farmaci equivalenti, la sola differenza è nel loro prezzo inferiore. Solo che quella differenza è enorme, con potenziali inesplorati per i bilanci delle famiglie come della sanità pubblica. E allora le cifre dicono ancor meglio delle parole. Le ultime sono uscite nei giorni scorsi sul Journal of the American Medical Association.
Gli studiosi delle Università dell’Ohio e del Michigan hanno analizzato la spesa farmaceutica di oltre 107mila utenti americani, pari a complessivi 760 miliardi di dollari, di cui 170 pagati direttamente dai cittadini. Ora, anche compiendo una serie di sottrazioni (legate a prescrizioni, permanenza del brevetto, indisponibilità del sostituto), la spesa nella marca, laddove c’era l’alternativa del generico, è stata conteggiata sui 73 miliardi di dollari. Ebbene, ricorrendo agli equivalenti, i pazienti ne avrebbero risparmiati 25.
Sono dati impressionanti, che poi risultano ancor più vistosi considerando che negli Stati Uniti le percentuali del ricorso agli equivalenti sono ben più alte che in Italia. La loro quota nel mercato farmaceutico complessivo oltreoceano, in base all’ultima indagine comparata dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), è all’84%. Nel nostro paese è solo al 19%, in volume, addirittura l’11% in valore, ai bassifondi nella classifica dei paesi avanzati.
E ci sono un po’ di altri dati concomitanti che lo stesso rapporto Ocse segnala e dovrebbero indurre alla riflessione. Il più generale e vistoso è quello del taglio alla spesa sanitaria pro-capite nel nostro paese dal 2011, addirittura del 3,5% in termini reali nel solo 2013. Livelli complessivi “ ampiamente al di sotto della spesa di alti paesi OCSE ad alto reddito”, nota l’organizzazione, che sottolinea anche come la quota di spesa farmaceutica pubblica italiana sia inferiore alla media. E tutto questo nonostante “ molti indicatori sull’assistenza primaria e ospedaliera rimangano invece al di sopra della media”.
C’è insomma una Sanità che resiste, per l’impegno dei suoi operatori. Ma il quadro, a conti fatti, è quello di un declino nell’impegno pubblico che, anziché spingersi verso ulteriori orizzonti di “tagli”, potrebbe trovare risorse altrove, nel mondo dei farmaci stesso, con il ricorso agli equivalenti. Le cifre potenziali di tale risparmio sono aggiornate mensilmente dal “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici. Sarebbero tali da cambiare radicalmente il quadro della Sanità italiana.
Sull’obiettivo di contenere i costi sanitari dinanzi a una popolazione che invecchia si dibatte un po’ ovunque, nel mondo, e non sempre a proposito. Tra un’alchimia e l’altra il rischio è quello di finire a tagliare la qualità della cura, il che tipicamente impatta principalmente sulle fasce deboli. Soprattutto, talora si perdono di vista le soluzioni di risparmio semplici, a portata di mano, che potrebbero viceversa elevare la qualità delle cure, sprigionando nuove risorse. E’ il caso delle scadenze brevettuali, che aprono la strada a un più massiccio ricorso ai farmaci equivalenti.
Lo spunto arriva da un convegno tenutosi nei giorni scorsa da Roma, in relazione a uno studio ad hoc del gruppo EEHTA (Economic Evaluation, HTA and Corruption in Health) diretto dal professor Francesco Saverio Mennini, nell’ambito del Centre for Economic and International Studies dell’Università Tor Vergata, con il sostegno non condizionato della società Mylan. E’ stato analizzato un campione di 9 molecole e 311 forniture, delle quali 52 rinegoziate, 210 cessate senza essere rinegoziate e 49 con scadenza nel triennio 2016-2018 non ancora rinegoziate.
Il “risparmio mancato”, sintetizza Mennini con riferimento solo a quelle molecole, è quantificato “in oltre 81 milioni, dovuto al ritardo o alla mancata rinegoziazione”, in relazione alla “ scadenza brevettuale di prodotti farmaceutici inseriti in lotti già aggiudicati”. Cifra che salirebbe a diverse centinaia di milioni di euro sulla totalità del mercato.
I margini sono rilevanti anche in considerazione del numero e tipologia dei medicinali in scadenza di licenza. L’Ims Health nei mesi scorsi ha rilevato che, dopo quattro anni di calo, sono ben 29 i farmaci che perdono quest’anno la protezione, “per un valore stimato di circa 466 milioni di Euro, un valore di 100 milioni più alto rispetto a quanto avvenuto nel 2015”. Si tratta perlopiù di “terapie specialistiche soprattutto antineoplastiche, antivirali ed antibiotiche”, il cui fatturato più esposto coinvolge per oltre il 60% il canale ospedaliero, che ora presenta i ritardi maggiori nel ricorso ai generici.
“Promuovere anche negli ospedali il loro utilizzo”, è stato il proposito prioritario annunciato il gennaio scorso al Corriere della Sera dal neopresidente dell’Aifa Mario Melazzini, prefigurando ricadute benefiche per l’intera assistenza sanitaria: “Con i soldi risparmiati – disse -si potranno avere le risorse da investire per cure come quella dell’epatite”. Paletto ribadito da Mennini: “Tutti i risparmi generati devono necessariamente restare all’interno del sistema ed essere indirizzati a supporto dell’assistenza”. Sull’“ importante ruolo dei farmaci equivalenti” è intervenuto in proposito anche il Ministero della Salute, tramite il Direttore Generale del settore farmaceutico Marcella Marlatta. Tutti apparentemente d’accordo, dunque. E’ tempo però di accelerare.
Sembra un po’ roba da “Dr. House” o da altre serie televisive e film “catastrofici” americani, in cui il medico è una specie di “top gun” alle prese con le più gigantesche e improbabili emergenze. La realtà è che la simulazione del reale, specie tramite i più recenti “manichini speciali”, nella formazione alla gestione medica di crisi di larga scala, è entrata da un paio d'anni in alcune strutture italiane. Con buone ragioni. Saper curare non è solo tema di conoscenze e competenze. Ci sono aspetti psicologici, tecnici e strategici che possono risultare determinanti nell’efficacia dell’intervento. Le cifre di tali modelli didattici mostrano un ritardo del nostro paese, che però si riscatta con un “istinto” al soccorso umanitario, che non è certo una leggenda.
Tali sistemi didattici sono in effetti ancora pochi nelle nostre strutture ospedaliere. Un paio in Piemonte, altrettanti a Firenze, uno a Trento, un altro in Sicilia e uno in Sardegna. Tutto qua, nonostante, secondo gli esperti del settore, “ un’ora al simulatore chirurgico equivale a 100 ore in sala operatoria”. E’ col primo che si riuscirebbe rapidamente a inscenare emergenze e complicanze di ogni tipo ed entità, per imparare a gestirle.
Su questo la giornata finale di Exposanità, tenutosi a Bologna, ha riunito in un simposio, su iniziativa dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici (Aiic), accanto ai medici, esperti della difesa e del peace-keeping, tecnici biomedici, comandanti in aviazione. Tecnologia, formazione “militare”, capacità di stabilire priorità, sangue freddo. Temi non avulsi dal tradizionale bagaglio formativo del medico, ma su cui i moderni strumenti di simulazione sembrano aiutare. “Il 36% delle denunce contro medici riguarda l'ambito chirurgico”, si nota. Su quella cifra pesa la pericolosa prassi della “penalizzazione” della professione, ma gli errori ci sono e i margini per ridurli anche.
Del resto a Bologna non si discuteva solo dell’“emergenza ordinaria”, bensì di possibili scenari devastanti come “ una catastrofe naturale o un afflusso enorme di feriti dopo un attacco terroristico”. Le citate capacità, “psicologiche e strategiche”, diventano allora imprescindibili, come del resto già sanno molti, inclusi i medici impegnati nelle forze di polizia e dell’esercito.
In tali scenari, laddove non arriva ancora la moderna didattica, interviene tuttavia una tradizione italiana riconosciuta all’estero. E’ quella dell’attenzione, dell’istintiva dote e sensibilità nel gestire contesti emergenziali ovunque. Chiedere alle Ong internazionali, alle missioni Onu o Ue, circa la quantità e qualità professionale degli operatori sanitari italiani. Una tradizione che merita sostegno, oltre che plauso. Con quella base, e con le nuove tecnologie, potremmo esser noi a costruire centri di eccellenza formativa di attrattiva mondiale, suggerisce l’Aiic.
Interventi rapidi e poco invasivi. L'Italia rivendica progressi epocali e una posizione d'avanguardia nella chirurgia pediatrica. Dietro, c'è tanta ricerca medica e tecnologica, e altrettanta dedizione degli operatori sanitari. Un convegno in questi giorni all'Auditorium dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha fatto il punto della situazione nel nostro paese e sulle nuove opportunità di cura.
“Sono 55 i centri italiani che fanno chirurgia pediatrica”, riferisce Alessandro Inserra, direttore del dipartimento chirurgico dell'ospedale romano, che detiene il record di interventi, 28mila l'anno, ossia un terzo del totale in Italia. Seguono il Gaslini di Genova, la Chirurgia Pediatrica dell'Università di Padova, il Burlo Garofalo di Trieste e il Meyer di Firenze. Tutte strutture del centro-nord, si noti, confermando l'allarmante ritardo, nell'insieme, del Mezzogiorno.
Globalmente gli interventi effettuati annualmente in Italia sono circa 70mila. Tra i più frequenti, tonsillectomie, appendiciti, ritenzioni del testicolo e interventi agli occhi per strabismo, miopia. Tutti questi, fino a pochi anni fa, richiedevano il ricovero, mentre oggi si fanno in “day surgery”. L'incremento di quest'ultimi è stato dell'81% dal 2012 al 2014. “L'aggressività chiururgica e costosa appartiene al passato”, commenta Inserra, sottolineando come sia proprio “ in età pediatrica e adolescenziale che è necessario esprimere tutte le migliori capacità terapeutiche disponibili”, per la loro salute presente e futura.
Alla “rivoluzione” ha contribuito la messa a punto di strumenti ad altissima precisione, che hanno segnato ad esempio il passaggio dal taglio ampio “a cielo aperto”, al taglio minimo. In neurochirurgia si è passati dagli interventi a occhio nudo al “virtuale”, che permette di trattare tramite robot epilessie o tumori al cervello riducendo al minimo la ferita. Nell'oculistica, il laser ha addirittura preso il posto del bisturi.
Ma il cambio di rotta è dovuto anche ad altro, a mutamenti organizzativi, con approcci multidisciplinari capaci di assistere il paziente pediatrico minimizzando l'impatto delle cure dal punto di vista fisico, psicologico e sociale. Un passo avanti “filosofico” complessivo, a cui contribuisce inoltre l'ambito farmacologico. Mini-invasività significa anche questo, dosaggi e formulazioni specifiche per i bambini, inclusa un'anestesia “light”.
La principale rete associativa italiana in ambito (tra l'altro) sanitario si rinnova. Confermando i propri vertici, e rilanciando la propria azione, stabilendo tra le sue priorità anche quella per i farmaci generici. E' successo tutto nello scorso fine settimana a Fiuggi, culmine del V Congresso di Cittadinanzattiva, e al contempo, come dev'essere, festa popolare, quella di “SpreK.O.”, densa di incontri, scambi, spettacoli, laboratori per i piccoli, cucina e punti informativi.
Al centro, in Piazza Martiri di Nassiriya, il villaggio di “IoEquivalgo” ha tagliato il nastro di partenza di un tour che fino al prossimo ottobre percorrerà le strade di Chieti, Campobasso, Asti, Caltanissetta, Perugia, Salerno, Senigallia, Udine, Vicenza, Taranto e Crotone. Le migliori campagne si fanno così: non bastano gli appelli nazionali, lanciati ripetutamente anche dall'Agenzia Italiana del Farmaco per l'urgenza del ricorso agli equivalenti. E' cruciale inoltre recarsi a incontrare fisicamente i cittadini, i pazienti, i consumatori. E a Fiuggi è andata benissimo, con migliaia di visitatori alle due iniziative e la diffusione vis-à-vis della corretta informazione sui farmaci equivalenti a centinaia di persone. Viva le feste locali, quindi, e viva anche i giornali locali. Quelli nazionali a volte tendono a disperdersi nel mare magnum dei “massimi sistemi”, i più esigui fogli locali, per loro ampiezza e vocazione, cercano di andare al sodo delle notizie e degli appuntamenti rilevanti, perfino quelli lontani dalla loro distribuzione.
E' ad esempio il caso del toscano Il Tirreno che, nel sottolineare la scorsa settimana l'importanza dell'evento ciociaro, ha ben chiarito i capisaldi della questione dei generici. “Oltre a contenere nella propria formulazione la stessa quantità di principio attivo hanno anche una bioequivalenza con altri medicinali "di marca" e con brevetto scaduto. In sostanza stesso principio attivo, stessa forma farmaceutica, cambia soltanto la marca ed il prezzo”, si legge, rilevando “risparmi considerevoli, che arrivano anche al 50%”. Poi viene citata la testimonianza del Coordinatore di Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato: “Riceviamo ogni giorno segnalazioni dai cittadini, che mostrano quanto i costi per i farmaci stiano diventando pesanti per loro – denuncia Tonino Aceti - spingendoli in alcuni casi anche a rinunciare alle cure, come accade al 9,5% degli italiani” E' arrivato dunque il tempo di scendere in piazza. E di metter fine a quello “SpreK.O.”, per la salute e per i bilanci delle famiglie e della collettività, costituito dal ritardo italiano nell'utilizzo di farmaci equivalenti.
Preziosa allora la mobilitazione di Cittadinanzattiva e delle organizzazioni che vi concorrono. Con i complimenti ai suoi leader, confermati in Congresso proprio a Fiuggi, ossia il Segretario Generale Antonio Gaudosio e il Presidente Marco Frey.
Sono numeri da vera e propria strage. Nel Vecchio Continente, culla del Welfare State, le “morti evitabili” superano la cifra di mezzo milione l’anno. La stima allarmante è di Eurostat, su elaborazione di dati nazionali, e non assolve il nostro paese, quello dell’un tempo celebrata “ miglior Sanità al mondo”. I dati vanno letti con cautela, ma vanno letti.
Nel dettaglio, le morti che si sarebbero potute evitare sono state oltre 577mila nel 2013, ossia nel 33,7% dei casi. La percentuale è riferita all’1,7 milioni di europei deceduti sotto i 75 anni. Il concetto di “morte evitabile” si riferisce infatti a fasce d’età e ambiti patologici che consentirebbero la sopravvivenza in caso di “un’assistenza sanitaria tempestiva ed efficace”. E’ dunque solo una stima, che tuttavia viene da tempo riconosciuta in ambito scientifico, inclusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
In cima alle 86 cause di morte evitabile si confermano gli attacchi cardiaci, quasi un terzo dei casi, seguiti dagli ictus, con circa 94mila decessi, poi il cancro al colon (12%), quello al seno (9%) e, a seguire, patologie legate all’ipertensione e polmoniti.
Il dramma è anche nell’ampiezza delle differenze tra paesi. Se la mortalità evitabile è contenuta al 23,8% in Francia, arriva a sfiorare il 50% in Romania e Lettonia. Le sperequazioni regionali continuano a coinvolgere purtroppo anche il nostro paese, con vistosi scarti tra Nord e Sud, e lo stesso dato complessivo non è lusinghiero, siamo al 33%, solo alcuni decimi di punto al di sotto della media europea. Per giunta sono dati destinati ad aggravarsi, alla luce delle stime, da noi già segnalate, sulla recente diminuzione nella speranza di vita, che si aggiungono a quelle pregresse sul calo della “ speranza di vita sana”.
I vertici della Sanità naturalmente difendono i loro sforzi. “ L’approvazione dei nuovi Lea, un grande lavoro che abbiamo ultimato e che adeguano i livelli essenziali di assistenza fermi dal 2001 – spiega ad esempio Beatrice Lorenzin - fornirà uno strumento fondamentale per la riduzione della mortalità evitabile”. In ogni caso la ministra riconosce il dato, “migliorabile”, citando il caso dell’aumento delle patologie infettive, che “ riscontra la caduta delle coperture vaccinali, soprattutto nell’adulto e nell’anziano”. Più prevenzione, dunque, e, come si invoca in tutti i 28 paesi europei, basta tagli alla Sanità.
Dall’universo magico della maternità compaiono periodicamente sui media e sul web le immagini struggenti di donne che allattano i loro neonati nelle condizioni più difficili. Dai campi profughi ai barconi dei “viaggi della speranza”, dai luoghi di lavoro alle aule europarlamentari. Le donne sanno come si fa a proteggere quella fase essenziale dell’esistenza. Dall’Australia arriva un’indagine che fissa alcuni paletti sulla tempistica necessaria.
I ricercatori dell’Università del Queensland hanno analizzato i dati di 2300 mamme, tutte lavoratrici prima dell’arrivo dei figli. La ricerca, pubblicata sulla rivista internazionale Pediatrics, ha fatto emergere chiare differenze sull’esito del successivo allattamento, in funzione della durata del loro impegno lavorativo.
È emerso che circa il 60% delle madri che lavorano sotto le 20 ore alla settimana allattano ancora allo scadere dei sei mesi di vita del bambino. Non ci sono differenze significative tra chi ne lavora 19 o 10, la differenza è a livelli superiori. La proporzione scende al 47% per quelle che lavorano da 20 a 34, al 39% per quelle che lavorano 35 o più. Il segnale evidente, e delicato, è questo: sembra che sia l’esigenza professionale della donna a stabilire la durata dell’allattamento, più di quella dei figli.
Quei parametri non sono scelti a caso. La raccomandazione dei pediatri è proprio quella di un allattamento protratto per almeno sei mesi, che riduce, tra gli altri, il rischio di infezioni all’apparato respiratorio e alle orecchie, le allergie, il diabete. Questo riguarda il bebè, ma riguarda anche la madre, dato che periodi lunghi di allattamento sono associati a riduzioni di rischi di depressione, di deterioramento osseo e di alcune forme tumorali.
Tanti si mobilitano sul tema, dalle strutture consultoriali alle reti volontarie quali “La Leche League” (Lega per l’Allattamento Materno), una rete fondata nel 1956 in 72 paesi al mondo, e dotata di migliaia di consulenti volontari (in Italia sono oltre cento, dal 1979), per sensibilizzare e assistere le madri sul dono prezioso dell’allattamento. Il tema può essere declinato in tanti modi, dalla medicina alla sociologia ai diritti. Lo svolgimento, però, richiede che quella funzione essenziale venga protetta. Qualunque cosa avvenga attorno, la madre può e deve conservare il tempo e l’attenzione totale, nel corpo e nell’anima, per l’allattamento. È essenziale alla salute del nascituro, di lei stessa e del mondo.
Lo sappiamo fin troppo bene dalla storia. Religione e scienza non vanno sempre d’accordo, con anzi drammatici pregressi di censura e repressione. Detto questo, c’è una ricerca americana che rimescola le carte e documenta come, sul fronte dei pazienti, l’atto di “andare in chiesa” riveli correlazioni con la qualità dello stato di salute. Lo studio sta avendo parecchia eco, anche sulla scia di contestazioni e ilarità, e tuttavia il dato sembra statisticamente rilevante, e andrebbe quindi preso con pur critica attenzione.
Cosa dicono in dettaglio dagli Stati Uniti? Ebbene, un gruppo di ricercatori capitanato da Tyler J. Van der Weele, scienziato della School of Public Health di Harvard, si è messo a monitorare per 16 anni quasi 75mila donne adulte. Nel 1996 furono sottoposte a un questionario. In larga parte cattoliche o protestanti, non tutte – anzi solo la metà – erano realmente “frequentanti” di servizi religiosi. Già allora emerse qualcosa, ossia che le più “assidue” mostravano in generale meno sintomi depressivi e, tra le altre cose, fumavano meno.
Le stesse sono state poi seguite nel loro decorso sanitario, a volte fatale, visto che quasi un sesto di loro poi sono morte e, nella metà dei casi, per cancro o malattie cardiovascolari. In proposito, però emerge che le “frequentanti” hanno presentato un tasso di mortalità ridotto addirittura del 33%.
Non mancano i pregressi, soprattutto negli Stati Uniti, di studi che hanno evidenziato una correlazione tra spiritualità e salute, anzitutto mentale. Il gesto della “preghiera”, la “fede” in qualcosa o qualcuno sembrano essere una risorsa importante. E anche in Italia si sono scritti libri, per sottolineare l’importanza di offrire tempi e spazi alla meditazione religiosa, anche alle persone di fede diversa da quella cristiana.
Mancano invece evidenze scientifiche sui rapporti di causa ed effetto. Tuttavia, nota uno scienziato “discussant” indipendente, “ l’associazione statistica emersa da questa analisi è decisamente solida e importante”. Forse non sarà mai possibile stilare grafici e formule che spieghino tale correlazione, ma il segnale è già chiaro, e dice almeno due cose importanti, anche se possono suonare scontate. La prima è che il nostro benessere psichico è fondamentale per la salute, e quindi bisogna averne cura. La seconda è che, per fare questo, bisogna ogni tanto fermarsi. Che sia una chiesa, un tempio, una moschea, una sinagoga o un’entità anti o non religiosa, serve ogni tanto spegnere i telefonini e i pensieri imminenti e guardare oltre, fuori e dentro di noi. Non è una perdita di tempo, è un tempo che il nostro corpo merita.
È un articolo di Repubblica l’ultimo a lanciare l'allarme tramite una storia curiosa. Quella di oltre cento giovani emigrati italiani a Preston, cittadina nel nord-ovest dell'Inghilterra, sopra Manchester e Liverpool. Che ci fanno lassù, nella remota contea del Lancashire? Gli infermieri. Ebbene, le ragioni del loro espatrio costituiscono una denuncia circa la necessità di tutelare una professione vitale per la nostra assistenza sanitaria, anziché di umiliarla, il che ha la conseguenza ulteriore di allontanare i nostri talenti.
L’espatrio fino a una settantina d’anni fa era una necessità. Poi è divenuto perlopiù una scelta. Da pochi anni è ridiventato una necessità. Ai vertici delle classifiche degli emigranti italiani, tra i vari professionisti, ci sono da tempo i medici, al punto che Bruxelles ha recentemente documentato che oltre la metà dei laureati europei in medicina che lasciano il proprio paese è costituita da italiani.
Per gli infermieri l’accelerazione è ancora più vistosa. Dal 2012 hanno addirittura superato gli insegnanti tra le categorie di emigranti. Poi, negli ultimi tre anni, nota la Federazione Nazionale Collegi Infermieri (Ipasvi), l’espatrio ha conosciuto un’accelerazione del 70%. Solo rimanendo all’Inghilterra (tantissimi se ne vanno altrove, a iniziare da Germania e Svizzera), sono globalmente almeno 2500 i professionisti connazionali trasferitisi.
Perché se ne vanno? C’è una ragione legata alla crisi, che peraltro ha coinvolto anche il Regno Unito, salvo che da noi ha condotto dal 2008 a un blocco quasi totale delle assunzioni. Nel 2009 il 90% dei laureati trovava lavoro entro l’anno, proporzione crollata al 25% cinque anni dopo. L’esito è che ci sono 25mila neolaureati disoccupati mentre, documenta ancora l’Ocse, mancano nel nostro paese 60mila infermieri. Servirebbero come il pane – tant’è che nel precariato aumentano i lavoratori stranieri, rumeni in primis – ma non trovano spazio stabile. E se lo trovano, il compenso è irrisorio, lontanissimo dai duemila euro di salario d’ingresso in Inghilterra (che poi aumenta per merito fino a quadruplicarsi). “Sì, ma lassù la vita costa di più”, si dice. Vero, per Londra, dove peraltro è previsto un aumento del 20% proprio per il carovita. Ma non per un posto come Preston.
Non è solo questione di denari, ma di rispetto professionale. C’è un percorso di formazione, “ dopo sei mesi di affiancamento gli infermieri sono regolarmente assunti con un contratto a tempo indeterminato”, nota il presidente dell’Ipasvi Luigino Schiavon. Poi ci sono le testimonianze personali. “Sono venuti a prenderci in taxi da Manchester”, dicono gli emigranti di Preston. E ai fatti, racconta anche la Bbc, risultano bravissimi. Sarebbero importanti perfino in Italia.
Siamo ai nastri di partenza. Sabato prossimo nella bella Fiuggi scatta la prima tappa di “IoEquivalgo”, un vero e proprio giro d'Italia organizzato da Cittadinanzattiva, con il sostegno non condizionato di Assogenerici e il patrocinio dell'Agenzia Italiana del Farmaco, per una sensibilizzazione nazionale, “dal basso”, a sostegno del ricorso ai farmaci generici. L'evento avrà luogo nel contesto di un’altra iniziativa, mobilitata dalla medesima associazione, “ SpreK.O.”, la terza festa nazionale per la lotta agli sprechi. Coincidenza non casuale, perché il tema è in fondo lo stesso.
“Lo spreco è una questione trasversale”, spiega Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato. Coinvolge tutti, dal settore pubblico ai cittadini, e coinvolge anche le tasche di tutti, dagli ospedali ai pazienti, perché il differenziale tra quanto si spende per “la marca” e quanto di spenderebbe col generico è elevatissimo, conteggiato da stime indipendenti oltre la quota di un miliardo all'anno. Lo spreco è multiplo, perché oltre a spendere di più, si paga anche la “mancata aderenza terapeutica, dovuta all'interruzione delle cure per difficoltà economiche”, ricorda Antonio Gaudosio, Segretario generale dell'associazione.
La mobilitazione di Cittadinanzattiva per gli equivalenti non è del resto una novità; è da dieci anni che la principale rete associativa italiana del settore si impegna in campagne informative in materia. Secondo il suo Rapporto 2014 sui malati cronici, 7 pazienti su 10 non cambierebbero la terapia “brand” che sta assumendo con quella equivalente, o ha quantomeno perplessità a farlo, e la fonte principale dello scetticismo viene attribuita a una parte dei medici. L'esito ultimo è che mentre nei paesi avanzati la media (Ocse) dell'uso dei generici è al 48%, con punte dell'80% e più in Germania e Regno Unito, in Italia siamo ancora a un modesto 19%, seppur in recupero negli ultimi anni.
Il punto di svolta è in “una corretta informazione”, ha ribadito anche in questi giorni il Presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann. Questo si concreterà sabato e domenica prossimi nel microvillaggio di “IoEquivalgo” allestito in Piazza Martiri di Nassiriya della cittadina ciociara.
Intorno, spettacoli teatrali, laboratori d'arte e riciclo, musica, attività ludiche, perfino cucina, con Slow Food Lazio, e la priorità dichiarata dell'attenzione ai bambini. Insomma una festa, a tutti gli effetti. Quando si sta assieme è più difficile farsi disinformare.