Crolla un mito che alimentava qualche recondita preoccupazione tra alcune gestanti. Studi passati avevano prospettato una correlazione tra il parto indotto e i rischi successivi di autismo dei nascituri. Un’ampia rilevazione condotta da un gruppo di ricercatori svedesi, il cui esito è pubblicato sulla rivista Jama Pediatrics, ha ora smentito tale legame, approfondendo alcune statistiche che a prima vista sembravano invece ribadirlo.
Sono stati presi in esame i dati di oltre 1,3 milioni di nascite in Svezia tra il 1992 e il 2015. Di esse l’11% erano avvenute con induzione del travaglio. E’ allora emerso che il 3,5% dei bebè nati con induzione hanno sviluppato autismo, mentre tra gli altri la proporzione scende al 2,5%. La differenza è tutt’altro che irrisoria, traducendosi in un aumento di rischio, tra i primi, addirittura del 19%.
La teoria della correlazione sembrerebbe dunque confermarsi, ma anche i numeri a volte possono tradire, specie se non si va a vedere cosa li innescano. In particolare, sono state poi comparate le informazioni su centinaia di coppie di fratelli, di cui uno era nato con induzione e l’altro no. Ebbene, tra loro, lo scarto tra le rispettive esposizioni al rischio tende a scomparire, rovesciando del tutto le conclusioni. Le modalità del parto risultano irrilevanti, mentre pesano altri fattori, dall’insorgere di altri problemi medici alla stessa genetica.
“Risultati rassicuranti per i genitori”, commentano scienziati estranei alla ricerca, alludendo ai timori legati al magico ma delicato momento della “creazione”, che spesso richiede qualche induzione (specie tra le donne in età avanzata, obese, ipertese o diabetiche), farmacologica e/o chirurgica. A tal proposito, emerge peraltro un aspetto debole nell’indagine, ed è quello della mancata distinzione tra le diverse entità e forme di “induzione”.
E’ una lacuna che ribadisce l’importanza di un approccio, tra medici e ostetriche, orientato alla prudenza e all’attenzione personalizzata sulla singola paziente. Alla lacuna se ne aggiunge un’altra, di natura generale: le cause dell’autismo rimangono ignote, e perfino la sua diagnosi è sovente incerta, legata solo a criteri comportamentali. Nelle parole della Fondazione Ares (Autismo, Ricerca e Sviluppo), al momento “ non esistono indagini di laboratorio e/o strumentali che possano confermare un sospetto clinico”.
Non è esattamente una novità, anzi molti operatori in prima linea nella lotta al tabagismo e/o all’alcolismo lo hanno già notato. A volte il fumo è la sublimazione di un altro problema, quello dell’alcol, così come il contrario. In ogni caso tali vizi, deleteri per la salute, vanno a braccetto, e adesso, da Londra, arriva un ulteriore riscontro scientifico. Sul concetto che è falsa l’idea che ci si butta su un vizio per compensare la rinuncia all’altro. E’ invece vero l’esatto opposto.
L’University College ha consultato quasi 32mila adulti in età lavorativa, di cui oltre 6200 fumatori, incrociando i questionari e le analisi con i dati raccolti separatamente da altri due centri di ricerca medica sugli altrettanti vizi. Tra i fumatori, 144 avevano iniziato un percorso per smettere di fumare una settimana prima dell’indagine, compiuta tra il marzo 2014 e il settembre 2015.
Ebbene, un apposito test alcolemico ha poi rilevato la tendenza tra questi ultimi a diventare bevitori più “leggeri” degli altri, se non addirittura astemi. La ricerca è solo “osservativa” e non orientata a chiarire i rapporti di causa ed effetto, ma l’esito è comunque lampante. Anche se sembrerebbe un po’ stridere con la recente indagine dell’Istat sugli “Aspetti della vita quotidiana” degli italiani (dati raccolti nel 2015), focalizzata sui comportamenti personali più nocivi.
Qui infatti il segnale apparente è di un “trade-off”. Se quasi due terzi della popolazione (a partire dagli 11 anni) dichiara di bere alcolici segnando un aumento rispetto al 2014, quelli che fumano, benché oltre la considerevole cifra di 10 milioni, sono invece in calo, in scia con una tendenza oramai pluriennale. Attenzione, però, perché a ben vedere, se si scorpora la categoria di “bevitori”, sono in aumento solo quelli “sporadici”, mentre i “quotidiani” diminuiscono anch’essi.
Insomma il segnale pare confermato, anche dalle maxi-statistiche del nostro paese. Sebbene manchino spiegazioni documentate, il fenomeno, intuitivamente (tra gli addetti ai lavori e gli stessi “viziati”) può ascriversi al fatto che il calice “chiama” i fumatori alla sigaretta, sicché lasciarli entrambi sarebbe d’aiuto. L’indicazione è insomma importante. “Smettere di fumare è facile”, si legge in un best-seller sul tema. E può ulteriormente facilitarsi iniziando col lasciar perdere “l’altro vizio”, in quanto complice del “vizio principale”.
Sui farmaci alcuni conti non tornano, a iniziare dai “tetti di spesa”, sistematicamente sforati in quasi tutte le regioni, per giunta a fronte di un calo degli acquisti in farmacia da parte dei pazienti, perlopiù a causa di problemi economici. Ma poi ci sono conti che tornano benissimo, e sono quelli degli enti territoriali più “virtuosi” nella gestione dei conti quanto nella qualità dell’offerta sanitaria. Ebbene, sono gli stessi che fanno maggior ricorso ai farmaci generici.
Il caso limite è quello del Trentino, “con il 40 percento sul totale dei farmaci venduti e un considerevole risparmio per le tasche dei cittadini” – rivendica la stampa locale. Seguono, ma a rilevante distanza (tra 5 e 10 punti percentuali in meno) altre regioni del Nord Italia. Il fanalino di coda è la Calabria, con solo il 18,2%, con a ruota le altre regioni del Sud. Insomma anche sugli equivalenti si rispecchia un paese spaccato, che produce una media nazionale del 26,6%, assai modesta rispetto al resto d’Europa.
“Il merito va suddiviso tra i medici (attenti nella prescrizione) e tra i farmacisti (che hanno un ruolo fondamentale nel momento dell’acquisto) ma è anche dell’azienda sanitaria, che sul tema ha avviato una campagna informativa, con l’obiettivo di ridurre le spese, spiega il Corriere delle Alpi, aggiungendo però che “alla fine il merito è soprattutto dei cittadini che hanno dimostrato di avere fiducia nei farmaci senza marchio e sono stati premiati con un considerevole risparmio”. Merito di tutti, insomma, dalla sensibilizzazione sul tema promossa dalle autorità sanitarie provinciali alla prontezza dei singoli ad accoglierla. Il concetto è ribadito Riccardo Roni, responsabile del servizio farmaceutico dell’azienda sanitaria trentina: “Non c’è differenza tra i farmaci di marca e il semplice principio attivo venduto senza marchio”. Tutto qua, solo che i primi costano di più.
Che le rivendicazioni locali siano ben fondate è poi documentato da fattori ulteriori, anzitutto dai numeri. Proprio in questi giorni sono usciti i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco sui citati tetti alla spesa, ospedaliera e territoriale. Sono relativi al primo trimestre dell’anno, e confermano la tendenza allo sforamento, con la sola eccezione di quattro regioni. Sono tutte del Nord-Est, e la più virtuosa è proprio la Provincia trentina.
In linea generale, aumenta la distribuzione ospedaliera diretta, mentre calano gli acquisti dei cittadini in farmacia. E su tutto pesa un dato, l’aumento della forbice di prezzo nell’ultimo anno, di un ulteriore 1,3%, tra quanto si paga per il prodotto di marca e l’equivalente. Il ricorso ai generici risulta dunque più che mai decisivo. Perfino in Trentino. “Qui ci sono ancora 5 milioni di euro all’anno che i cittadini potrebbero risparmiare, scegliendoli”, nota lo stesso dottor Roni. Su scala nazionale la proiezione, aggiornata anche in questi giorni dal nostro Salvadanaio della Salute, sfiora il miliardo. Un dato che fa la differenza per tantissimi circa la possibilità di curarsi o meno.
Nel mondo della sanità i temi occupazionali non sono solo questioni “sindacali”. La ricaduta delle carenze di personale – in quantità e qualità del loro lavoro – è appunto sull’ambito primario della salute della collettività, con effetti diretti e oramai ben documentati. La Federazione Nazionale Collegi Infermieri (Ipasvi) ha rilanciato in questi giorni l’attenzione sul settore, con cifre piuttosto preoccupanti.
Si tratta di rielaborazioni sulle singole regioni dai dati dell’ultimo Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, in vista dell’apertura delle trattative sul nuovo contratto nazionale. Analisi “interessata”, dunque, ma su elementi reali. La stima è di un fabbisogno di addirittura 47mila infermieri, con punte segnalate soprattutto in Campania, Lazio e Calabria, e il corollario di retribuzioni diminuite di 70 euro negli ultimi cinque anni e di un ricorso sempre maggiore a straordinari e turni massacranti.
Questo dice l’Ipasvi, e noi stessi abbiamo documentato in passato il disagio della categoria, tanto da rappresentare dal 2012 la principale professione degli emigranti italiani, alla ricerca di migliori opportunità, salari e condizioni lavorative, specie in Inghilterra, Germania e Svizzera. Sicché, se in Italia nel 2009 il 90% dei laureati trovava lavoro entro l’anno, la proporzione è crollata al 25% cinque anni dopo, con l’esito ultimo che ci sono 25mila neolaureati disoccupati, mentre al contempo, con l’aumentare dei contratti precari, incrementa il numero di infermieri stranieri.
Sull'impatto diretto di tali carenze professionali per la salute pubblica il riscontro scientifico è consolidato, anche in ambito internazionale. Ad esempio, nei mesi scorsi un'estesa indagine pubblica britannica sul rapporto tra utenti e personale sanitario in 137 ospedali nazionali ha rilevato una riduzione del 20% della mortalità per effetto del solo abbassamento da 10 a 6 del numero medio di pazienti affidati a ogni infermiere.
E in Italia quel rapporto è confinato a un modesto 1 a 12. Il tema non riguarda dunque solo i lavoratori e le loro controparti. Ci riguarda tutti, con una certa urgenza. Abbiamo bisogno di infermieri.
Chi frequenta le palestre e cerca di potenziare la propria muscolatura un po’ lo sa, se dotato di un minimo di saggezza: esagerare, specie con i pesi, non fa granché bene alla nostra salute, è uno stress che mina l’equilibrio fisico, alimentando anche qualche rischio, specie di natura cardiovascolare. Quel che si sa un po’ meno è che tali “strappi” servono poco anche all’obiettivo prefissato di ingrossare i muscoli.
A documentarlo interviene ora una ricerca canadese pubblicata sul “Journal of Applied Physiology”. Gli studiosi della McMaster University hanno preso in esame un campione di sportivi esperti in questa disciplina, suddividendoli in due gruppi. Ai primi è stato chiesto di fare 20-25 ripetizioni quotidiane di sollevamento di “pesetti”, al secondo 8-12 sollevamenti di pesi ben più grandi.
E’ stato quindi monitorato l’aumento della massa muscolare tra i due gruppi di atleti dopo dodici settimane di allenamento, tramite una serie di misurazioni e analisi del sangue. Ebbene, l’esito sorprendente è che tale incremento è risultato pressoché identico. E’ dunque del tutto inutile aumentare il peso che si va a sollevare, la sola conseguenza è quella di anticipare e aggravare la sensazione di stress, con quel che consegue per l’ambito aerobico e anaerobico. La regola, suggerita dal coordinatore dello studio Stuart Phillips, sarebbe allora quella di esercitarsi con pesi assai leggeri, e ripetendo il sollevamento più volte, “fino a raggiungere il punto di fatica”.
A margine, nel mondo del body building, ci sono peraltro anche persone del tutto avulse dalla citata “saggezza”. Nelle scorse settimane, ad esempio, da un controllo antidoping in una competizione ufficiale è emersa la positività di una dozzina di atleti, e uno di loro ha addirittura centrato il “record” di ben 21 sostanze proibite!
Comunque, tornando allo sport, e al sollevamento pesi, la novità sembra qui rilevante. Gli atleti di altre discipline, quali i ciclisti e i maratoneti, sono già consapevoli di quanto sia importante andare piano, o almeno partire piano, per arrivare più lontano. Adesso però si sa che questo vale non solo per la “resistenza”, bensì anche per la “potenza”.
Massafra, provincia di Taranto, ai piedi della Murgia. Dal Sud Italia spunta il caso esemplare di una mobilitazione severa quanto consapevole sui costi della Sanità. Che invoca uno stop ai tagli, e al contempo mette la lente sugli sprechi e sull’abitudine delle autorità sanitarie di non pagare, o pagare in grave ritardo, i fornitori dei beni essenziali per la salute.
La molla è scattata dalle preoccupazioni circa la ventilata chiusura di alcuni nosocomi, in particolare l’ospedale Moscati di Taranto e il San Marco di Grottaglie, a cui si aggiungono piani regionali, in Puglia come altrove, specie nel Sud Italia, di riduzione delle strutture. Di qui la mobilitazione del “ Comitato per la difesa dei cittadini di Massafra”, anche per una convocazione straordinaria del Consiglio Comunale.
E’ solo un esempio delle tantissime iniziative locali in corso, che coinvolgono associazioni, organizzazioni sindacali, gruppi spontanei di cittadini e professionisti intorno alla politica sanitaria, dalle scelte regionali agli indirizzi nazionali. Per la verità la stessa ministra Lorenzin in questi giorni è intervenuta, proprio in Puglia, a un convegno dell’Università di Bari, fornendo qualche rassicurazione, nell’orizzonte di un “Patto per il Sud” che ponga la Sanità al centro: “ Garantire lo sblocco dei turn over, l’aumento del fondo sanitario per la stabilizzazione dei precari e lo sblocco delle assunzioni dove è necessario. Oltre all’accesso alle terapie innovative per il Sud allo stesso modo che per il Nord Italia ”, ha detto.
In ogni caso la novità è nell’attenzione pubblica, che sembra salita a livelli senza precedenti, portando il tema della salute al cuore di larga parte delle mobilitazioni civiche. Da conferenze stampa improvvisate, a sit-in e volantinaggi organizzati da pensionati e sindacalisti, addirittura medici che “si imbavagliano” a Napoli per contestare i tagli al settore.
Di più, il salto in avanti non è solo “quantitativo”, ma anche nella maturità della consapevolezza diffusa circa la complessità del tema sanitario. I cittadini di Massafra non si limitano a opporre l'altolà ad alcune chiusure ospedaliere. Sottolineano anche il nodo della “ corruzione e lo spreco di denaro nella gestione dei servizi sanitari”, e quello dei ritardi pubblici nel pagamento dei fornitori di servizi e farmaci: “non sono stati mai rispettati i tempi prescritti dalla legge”, con tutto quel che consegue per i lavoratori e i pazienti, nonché per l’intero settore chiamato a prendersene cura.
Aids, Durban, 18-22 luglio. L’appuntamento biennale del mondo della scienza e della sanità ha riavuto luogo, 16 anni dopo, proprio nel Sudafrica dove Nelson Mandela aveva lanciato strali anche su questo tema contro le autorità, che a lungo addirittura negarono la correlazione tra l’Hiv e l’Aids. Un “ritorno a casa” denso di preoccupazioni ma anche di speranze, suscitate dalla ricerca scientifica nonché dall’acclarato contributo del ricorso ai farmaci generici, con risparmi che possono fare la differenza ovunque.
Allora si decise di rendere disponibili, virtualmente a tutti, i farmaci antiretrovirali, istituendo a tale scopo il Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria. Per la verità non sono arrivati a tutti, e anzi ci sono ancora interi pezzi di Continenti di fatto esclusi, in particolare l’Africa Occidentale. Nondimeno il passo fu reale, tanto da invertire il senso della parabola. Nel 2005 i morti di Aids sono stati due milioni, l’anno scorso poco più della metà.
Quei dati però stridono con quelli dei nuovi contagi da Hiv, che hanno sfondato la quota di due milioni di persone anche nel 2015. Ed è per questo che il fulcro del nuovo consesso sudafricano è stavolta la “prevenzione”. Che vuol dire almeno due cose: anzitutto tanta e buona informazione, soprattutto ai giovani, spesso male informati (anche in Italia) sui rischi e sulle reali modalità di trasmissione della patologia; il secondo fattore è l’orizzonte, finalmente, di un possibile “vaccino”.
Un test in proposito è stato annunciato in Conferenza già per quest’anno, sulla base di un processo messo a punto dal 2009 in Tailandia, che avrebbe constatato riscontri convincenti in almeno un terzo dei casi. Ricerche analoghe sono in corso all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che nei mesi scorsi ha anche creato un “Consorzio” mondiale con i più rinomati centri d’eccellenza del settore.
Ma c’è un terzo fattore cruciale, di prevenzione quanto di cura, ed è il nodo dei costi. I prezzi dei nuovi farmaci sono troppo alti mentre, nota al contempo Medici Senza Frontiere, “quelli vecchi continuano a diminuire”. E qui s’innesta il ruolo cruciale dei farmaci generici. L’ultimo “Workshop di Economia e Farmaci” svoltosi nei mesi scorsi a Milano ha sottolineato la completa equivalenza dello “switch” da farmaci originari agli equivalenti anche sull’Hiv. Lo avevamo già segnalato (e oltre a noi la rivista “Nature”), sicché non è più una notizia: è una realtà che può salvare molte vite nel mondo, Italia inclusa.
Fiuggi, Salerno, e poi Asti. L’allegra acrobazia della campagna “IoEquivalgo” mobilitata da Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato, col sostegno non condizionato di Assogenerici, sta lambendo ogni latitudine della penisola in un crescendo di attenzione pubblica. Meno allegro è il dato di fondo che contribuisce all’urgenza della stessa mobilitazione per i farmaci generici, ossia il fatto che le difficoltà economiche costringono tante italiane e tanti italiani a rinunciare al loro bene più prezioso, la cura della propria salute.
Le cifre ufficiali sembrano peraltro riservare qualche sorpresa. In particolare, la povertà assoluta in Italia, anziché aumentare, sarebbe in diminuzione: nel 2014, per la prima volta dal 2007, ossia al culmine della più grave recessione dal dopoguerra, risulta in calo, per l’esattezza al 5,7% delle famiglie e al 6,8% degli individui (oltre quattro milioni di persone, comunque). In questo sembra però pesare il “ nuovo metodo di calcolo proposto dall’Istat”, avverte l’ultimo dossier della Fondazione Banco Farmaceutico.
E a far suonare scricchiolante tale “metodo” sono proprio i dati reali sulla spesa sanitaria. Mediamente è rimasta costante, sui 444 euro pro capite all’anno, ma quella delle fasce meno abbienti è crollata a 69 euro. La differenza, si noti, non è solo sui valori assoluti, ma anche in proporzione ai diversi redditi: i non poveri destinano il 3,8% del loro bilancio domestico alle cure, la proporzione scende all’1,8% per gli indigenti.
Di quei 69 euro, 52 - nota ancora la Fondazione – sono destinati all’acquisto di farmaci, segnando un calo del 2,1% solo nell’ultimo anno, quando i "non poveri" hanno invece fatto segnare un recupero del 2,7%. Segnali eloquenti, che chiamano l’intero settore sanitario alla responsabilità. E in effetti, a collaborare con i volontari di Cittadinanzattiva nella loro causa a sostegno dei farmaci equivalenti sono un po’ tutti, dai medici agli infermieri, dagli studiosi ai farmacisti, con le relative rappresentanze e il patrocinio dell’Agenzia Italiana del Farmaco. Uniti dalla consapevolezza di quanto legalmente e assiduamente comprovato, ovvero la completa equivalenza dei generici, dai principi attivi all’efficacia e sicurezza terapeutica.
La sola differenza è nel prezzo ben più basso, ed è una differenza miliardaria, come accerta costantemente il nostro “Salvadanaio della Salute”. Centinaia le persone accorse nei giorni scorsi anche in piazza San Secondo, ad Asti, ultima tappa del tour che coinvolgerà fino a ottobre un’altra decina di città italiane. E poi c’è la “piazza” del web, dei social e dell’app di “IoEquivalgo”, che sta segnando un’escalation. Sono oramai migliaia i contatti che segnalano una “fame” di salute e di risparmio meritevole di un’urgente risposta collettiva.
Tecnica antica, perorata dai nonni, e dai nonni dei nonni. Per rassicurare il bimbo, per fare quello che oggi fa il ciuccio, oppure per superarne il distacco. Ma il gesto istintivo di succhiarsi il pollice (e più in là di mangiarsi le unghie) non solo ha benefici psicologici riconosciuti anticamente, senza effetti collaterali di rilievo – che suscitano talora inusitate preoccupazioni tra gli adulti. Di più, la ricerca contemporanea ora documenta come esso racchiuda effetti salvifici per la salute presente e futura del piccolo.
L’ultima, robustamente documentata, novità in tal senso arriva dalla Nuova Zelanda, dove gli scienziati dell’Università di Otago (la più antica accademia del paese) hanno preso a campione ben un migliaio di bambini, seguendoli fino a un’età adulta inoltrata, effettuando test allergici alle età di 13 e 32 anni.
L’esito è vistoso, e cioè quelli che avevano tali “vizi” da piccoli hanno riscontrato meno allergie degli altri, il 38% contro il 49% dei coetanei “beneducati”. Di più, la proporzione si riduce ulteriormente, al 31%, tra chi ha denunciato di aver sperimentato ambedue le abitudini.
La risposta fornita dagli scienziati, come si legge nella rivista internazionale “Pediatrics” è quasi banale: fino alla più tenera età il contatto con gli allergeni ne ridurrebbe la sensibilizzazione, potenziando il sistema immunitario e proteggendo da germi, acari, erba, muffe e perfino pelo di animali.
Beninteso, nessuno contesta l’esigenza di igiene, specie per i piccoli, men che meno gli studiosi neozelandesi. I vertici sanitari europei e globali forniscono anzi dati allarmanti a ripetizione sull’impatto dei difetti igienici per la salute pubblica, con appelli che giustamente si rinnovano annualmente nella “Giornata Mondiale” fissata sul tema a inizio maggio. Il segnale è però che, rispettate per bene alcune regole imprescindibili, esagerare non serve. Al contrario, il dito di un bambino, se pulito, può essere un ottimo vaccino. Forse lo sa meglio di noi, che succhiarlo fa bene.
Molti stanno facendo il (salubre) percorso contrario, “tornando nel verde”, addirittura a ritrasferirsi in campagna. Sui grandi numeri però la tendenza oramai pluri-secolare resta quella, si cerca ancora la città, a costo di enormi sacrifici, tanto da stimare che la percentuale urbana della popolazione mondiale sfonderà la quota del 70% entro il 2020, inclusi i vasti territori meno industrializzati. Il tema incontra estese analisi pregresse di tipo socio-economico, ma finalmente ne arriva una che pone la salute al centro, e arriva dall’Italia.
Si chiama “Health City Think Tank”, è coordinato dal presidente della Società italiana di Endocrinologia Andrea Lenzi, e ha concluso nei giorni il suo primo “Forum” (interdisciplinare) sul tema, che ha ricevuto perfino “l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica”, oltre agli interventi delle massime autorità del settore, quali il presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco Mario Melazzini, che ha ribadito la priorità dell’“ Appropriatezza nelle prescrizioni e aderenza alle terapie”: nella selva urbana, più che mai è urgente il ripristino di un’attenzione medica calibrata sul paziente, il quale va al contempo responsabilizzato sul corretto comportamento tanto nella terapia quanto nei comportamenti preventivi.
Nel dettaglio, è emerso un “decalogo” che anzitutto ribadisce il “diritto alla salute di ogni cittadino”, riconosciuto quale “fulcro di tutte le politiche urbane”. Poi, la promozione dell’’informazione e dell’educazione sanitaria, a cominciare dai “programmi scolastici”, l’incoraggiamento a “stili di vita sani”, dalla famiglia ai luoghi di lavoro, incentivando anche una “ cultura alimentare appropriata”.
Ancora, potenziare “l’accesso alle pratiche sportive e motorie per tutti, favorendo lo sviluppo psico-fisico dei giovani e l’invecchiamento attivo ”, sviluppare “politiche locali di trasporto urbano orientate alla sostenibilità ambientale”, “promuovere l’adesione dei cittadini ai programmi di prevenzione primaria”, “ considerare la salute delle fasce più deboli e a rischio quale priorità per l’inclusione sociale nel contesto urbano”, monitorare i determinanti della salute urbana “attraverso una forte alleanza tra Comuni, Università, Aziende sanitarie, Centri di ricerca, industria e professionisti”.
Nelle parole del presidente dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani Enzo Bianco (sindaco di Catania), la chiave di volta è dunque in una “ sinergia tra istituzioni, cittadini e operatori” che ponga la salute al cuore delle priorità. Sono appunto solo “parole”, ma che spostano il paradigma della discussione pubblica, ponendo la salute al centro del progetto politico-urbanistico. In fondo le città servirebbero a questo, a riunire le persone intorno alle loro esigenze di base.
Da precisare subito, non è una bocciatura a 360 gradi, anzi, né riguarda solo gli smartphone. Nondimeno va colto con attenzione l'appello lanciato da un gruppo di ricercatori londinesi sull'utilizzo assiduo dei dispositivi elettronici. E l'appello sostanzialmente è quello di lasciare il telefonino alla larga quantomeno quando si va a letto.
Lo studio, pubblicato sul “New England Journal of Medicine ”, ha raccolto gli esperti di diverse istituzioni sanitarie della capitale britannica (la City University London, il Moorfields Eye Hospital, il King’s College e il National Hospital for Neurology and Neurosurgery) che si sono concentrati sul caso specifico di due donne che avevano manifestato problemi visivi a un occhio solo.
Arrivando subito alla conclusione dei ricercatori, essa è che in entrambi i casi la “colpa” principale non stava nel dispositivo, bensì nel diverso impiego imposto ai due occhi. Nell’atto di coricarsi, il comportamento è tipicamente quello di affondare un occhio nel cuscino, mettendolo “al buio”. Questo non ha solo l’effetto di “scaricare” sull’altro l’intera fatica, ma anche di fornirgli un segnale “cieco”, con un effetto di qualche minuto, conosciuto come “ bleaching differenziale dei fotopigmenti”, implicando una riduzione della sensibilità misurabile a livello della retina.
Nulla, in sé, di particolarmente drammatico né di nuovo, trattandosi di un sintomo temporaneo rilevato anche in condizioni normali da pazienti con cataratta e, in passato, anche al cospetto della televisione (quando guardata appunto a letto, con un occhio solo), tanto da esser battezzato come “Cecità di Carson”, in nome di un compianto showman televisivo americano. Di più, il proposito della ricerca non era quello di “procurare allarme”, ma viceversa di “rassicurare” i colleghi medici sulla diffusa sintomatologia, evitando loro (e soprattutto ai pazienti) il carico immediato e diffuso di costose analisi, a volte inutili.
Quella “cecità” temporanea va presa sul serio, perché a volte segnala ben altro, inclusi rischi di ictus, come documentano ricerche pregresse, benché normalmente costituisca un disturbo solo provvisorio. In ogni caso l’ampiezza odierna dell’uso di smartphone e simili reclama un’esigenza di cautela per noi tutti. Abbiamo bisogno di riposare dalle nuove tecnologie, e lo meritano anzitutto i nostri occhi, almeno quando ci adagiamo su un cuscino.
Il cancro è una piaga che non risparmia i giovani, colpendo ogni anno ben ottomila italiani sotto i 40 anni, e in due terzi dei casi si tratta di donne. Un’età che evidentemente consentirebbe ancora di avere figli. Eppure è un aspetto largamente trascurato durante le terapie oncologiche: meno del 10% delle donne che hanno avuto una diagnosi tumorale accede alle tecniche di preservazione della fertilità. Di qui l’alleanza tra le associazioni di specialisti sancita nei giorni scorsi a Roma, con un convegno scientifico seguito dall’annuncio di una “carta” rivolta alle istituzioni, presentata in conferenza stampa.
Al cuore delle “Raccomandazioni sull’Oncofertilità” - siglate dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), dalla Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetrica (SIGO) – c’è la proposta di una Rete nazionale (pubblica) di appositi Centri, a disposizione dei pazienti oncologici fin dalla diagnosi. Le strutture non mancano nel nostro paese, vi sono già 319 Oncologie e 178 Centri di Procreazione Medicalmente Assistita, ma va definita la loro comunicazione e collaborazione.
“In ogni Regione dovrebbe essere istituito almeno un Centro di riferimento in cui operino team multidisciplinari composti da ginecologi, senologi, andrologi, biologi e psicologi collegati in rete con i centri oncologici ed ematologici”, spiega il presidente SIGO Paolo Scollo. Non una “struttura in più”, ma una rete di coordinamento per medici e pazienti, quindi una “riforma a costo zero”.
L’implicazione operativa sarebbe immediata. “Dal momento in cui al paziente viene diagnosticata una neoplasia - specifica Carmine Pinto, presidente dell’AIOM - l’oncologo sarà in grado di metterlo direttamente in contatto con il centro pubblico di riferimento per procedere, dopo adeguato counselling, alla crioconservazione dei gameti prima dell’inizio delle terapie, bypassando tutte le liste di attesa”.
“Attivare un confronto con le società scientifiche per programmare il numero, le dimensioni, la distribuzione territoriale e i volumi minimi di attività per la definizione dei Centri”, la proposta illustrata dal presidente del SIE Andrea Lenzi al Ministero della Salute. La Titolare del Dicastero Beatrice Lorenzin non manca di sensibilità sul tema, tanto da aver lanciato l’anno scorso un “Piano Nazionale per la Fertilità” (nel contesto del paese europeo con la più bassa natalità), orientato soprattutto a un lavoro di formazione e prevenzione sul tema. Ora gli specialisti hanno tracciato un percorso concreto, che pone finalmente al centro il paziente oncologico.
Da Fiuggi a Salerno, il passo è breve se c'è di mezzo la militanza e l’ampiezza organizzativa di Cittadinanzattiva-Tribunale dei Diritti del Malato, ossia la principale rete associativa del settore. Lo scorso maggio il lancio del tour italiano di “IoEquivalgo” nella città ciociara, la scorsa settimana il rilancio da Salerno. Una campagna che corre su web, social e app, ma che si concreta anzitutto nell'incontro fisico con i pazienti e i cittadini in 12 città italiane, fino a ottobre.
Un “villaggio” allestito il 13 giugno sul Lungomare Trieste del centro campano, cinque ore di incontri, centinaia di prospetti informativi consegnati dai volontari dell'associazione. Cruciale, inoltre, la presenza di medici di famiglia, infermieri e farmacisti. Un sodalizio che segna un punto di svolta sull’ambito di primario interesse collettivo: la salute, nonché i costi privati e pubblici per tutelarla. “I medicinali generici sono uguali in tutto, cambia solo il prezzo”, ricorda lo spot della campagna.
E a sottolinearne l'importanza le parole non servono, bastano i dati, a iniziare da quello, drammatico, che un italiano su dieci rinuncia alle cure per motivi economici. “Il 26,6% delle segnalazioni che riceviamo ogni giorno mostrano quanto i costi privati per i farmaci stiano diventando pesanti per loro”, riferisce Cittadinanzattiva, citando anche i dati dell'Osservatorio sull'Impiego dei Medicinali (Osmed): “nel 2014 la spesa pro capite per ogni compartecipazione del cittadino è stata di 24,7 euro, di cui il 63,6% per la differenza di prezzo tra il medicinale acquistato e quanto rimborsa il Servizio Sanitario Nazionale”, sulla base appunto del valore dell'equivalente di riferimento.
Dati oramai fatti propri non solo da larga parte degli operatori sanitari, ma anche dalle loro rappresentanze. La campagna, che beneficia del sostegno non condizionato di Assogenerici, riceve il patrocinio dell'Agenzia Italiana del Farmaco e la collaborazione delle principali associazioni, sindacati e ordini del settore, quali l'Associazione Nazionale Pensionati, Sindacato Pensionati Italiani della Cgil, Federfarma, Federazione Ordini Farmacisti Italiani (Fofi), Federfarma, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatria, Federazione Nazionale Collegi Infermieri, Società Italiana di Farmacia Clinica e Terapia, Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie, Società Italiana di Medicina Generale e delle cure primarie, eccetera. Insomma, la totalità dei principali “stakeholders”.
I quali si espongono in modo sempre più esplicito. “Gli equivalenti sono una risorsa per i cittadini ed è quindi benvenuta una campagna di sensibilizzazione che faccia chiarezza e ne favorisca l'utilizzo”, le parole della presidente di Federfarma Annarosa Racca. “Sostenere la campagna di Cittadinanzattiva significa promuovere davvero l'empowerment del cittadino”, echeggia il senatore Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani.
Il monito è severo, anche se la natura è talmente clemente e autoprotettiva che a volte va bene lo stesso. Nondimeno, oltre a essere severo, l’avvertimento lanciato tramite il British Journal of Urology è anche serio e fondato. Arriva stavolta da un’Università brasiliana, e documenta chiaro e tondo quanto la sigaretta rechi non uno ma parecchi danni al liquido spermatico.
Non è certo una novità, tutt’altro, ma adesso arriva la spiegazione del perché e del come. “ Sapevamo che il fumo comporta una riduzione dell’initegrità del patrimonio genetico degli spermatozoi, con diminuzione dell’attività mitocondriale e alterazioni acrosomiali – ricapitola il coordinatore dello studio Ricardo Bertolla Pimenta della Università Federale San Paolo.
Nel dettaglio, “ gli spermatozoi dei fumatori hanno minore capacità di fecondare e, a causa degli elevati tassi di frammentazione del DNA, hanno anche maggiori probabilità di indurre ad aborto precoce o a conseguenze sulla prole. Inoltre, i danni del DNA spermatico sono correlati a rischio di tumori infantili ”.
Lo studio è stato condotto su quaranta fumatori, esaminando il volume, la concentrazione, la motilità e il PH del loro sperma. Sono allora emersi danni genetici e attività mitocondriale, che diminuiscono l’attività spermatica e ne modificano la costruzione proteica, segnalando a sua volta l’infiammazione testicolare e di altre ghiandole. “L a fecondazione è un evento ben congegnato, durante il quale gli spermatozoi vanno incontro a modifiche in punti specifici per essere in grado di fecondare l’ovocita ”, spiega Bertolla. Ma “se le modifiche si innescano troppo precocemente, essi possono perdere questa capacità”.
Per neutralizzare tali effetti, il consiglio di smettere viene fissato per gli uomini nell’arco di almeno tre mesi prima del concepimento, il che corrisponde al tempo di produzione di uno spermatozoo maturo. Per le donne, si sapeva già, il fumo comporta rischi di menopausa precoce, aborto spontaneo e altro. Quel che ora si sa meglio di prima è che anche lui va responsabilizzato, per la salute e la possibilità stessa del concepimento.
La lotta all’Alzheimer si nutre quotidianamente degli sforzi di medici e psicologi, alla ricerca di terapie e percorsi capaci di fermare quella che è la principale causa mondiale della demenza (nell’ordine di oltre 25 milioni di affetti accertati). Da Milano arriva peraltro l’inaugurazione di una strada diversa, anticipata. Intervenire cioè prima che la patologia irrompa, sulla base di nuove tecniche e possibilità diagnostiche, oltre che terapeutiche.
Le novità sono state presentate nei giorni scorsi al convegno mondiale “NeuroMi”, presso l’Università di Milano-Bicocca. Il nodo appunto è anzitutto la diagnosi preventiva del rischio, facilitata da nuove tecniche, quando ancora non sono apparsi segnali evidenti, o solo marginali, di deterioramento della funzione cognitiva. D’ora in poi basterà una “Pet” (tomografia a base di positroni) accompagnata da una puntura lombare. Il rilevamento risulta sufficiente ad accertare l’accumulo di “beta-amiloide”, una proteina che innesca la degenerazione dei neuroni nel cervello e nel liquido cerebrospinale.
E’ una novità importante, anche perché si accompagna ad altre sperimentazioni, discusse in questi giorni nel capoluogo lombardo, che dimostrano l’efficacia della terapia preventiva. Si possono somministrare molecole capaci di ridurre la produzione dello stesso beta-amiloide, o addirittura anticorpi capaci di far progressivamente scomparire la medesima proteina dal tessuto cerebrale, penetrando con una semplice iniezione sottocute o endovena.
Il Centro di neuroscienze milanese è stato fondato solo due anni fa in tale Università, unendo le competenze di oltre 300 neuroscienziati dell’area, allo scopo specifico di convergere in un approccio multidisciplinare nello studio delle funzioni cerebrali e nel trattamento dei loro disturbi.
“ La nostra grande speranza è che nei prossimi anni la diagnosi dell’Alzheimer non sia una sentenza inesorabile di una patologia devastante e progressiva, ma la comunicazione di un possibile rischio ”, spiega il direttore scientifico di NeuroMi. Precisando che ad esso “è possibile far fronte con nuove terapie, attualmente in fase sperimentale ”. Un nuovo orizzonte terapeutico, dunque, che parte dal concetto che “arrivare prima” non solo si deve, ma soprattutto ora si può.
La donna va seguita con molta cura durante il fatidico quanto delicato periodo della gravidanza, ma è un’attenzione che non dovrebbe poi cessare al seguito dei nove mesi. Il messaggio viene rilanciato da una ricerca accademica cinese pubblicata sulla rivista internazionale “Hypertension”, che ha rilevato come gli stessi esami del sangue compiuti in tale fase andrebbero annotati anche quali indicatori di possibili rischi per la salute della gestante dopo il parto.
Gli studiosi del Guangdong Women and Children Hospital di Guangzhou hanno seguito 506 donne senza pregressi di ipertensione o sintomi di diabete, valutandone in particolare la pressione sanguigna, ma anche il peso e gli esiti di altri esami a cui vengono normalmente sottoposte durante la gravidanza, proseguendo poi il loro monitoraggio nei diciotto mesi successivi.
Gli esiti più eclatanti riguardano proprio gli effetti della pressione arteriosa. “Le gestanti sono solitamente sottoposte ad almeno 10 check-up – nota il professor Jian-Min Niu, coordinatore della ricerca – e tuttavia non vengono poi allertate sui rischi per la loro salute a meno che la pressione sia pari superiore a 140/90 mmHg”, ossia al livello ritenuto “alto”.
Invece, secondo i ricercatori cinesi, l’allarme andrebbe lanciato anche ai livelli “medio-alti”, ossia tra tali valori e quelli, ritenuti ottimali, di 120/80 mmHg. E’ emerso infatti che le donne che rientrano in quella fascia negli ultimi mesi di gravidanza riscontrino un rischio aumentato di ben sei volte di sviluppare successivamente la sindrome metabolica, detta anche “sindrome a insulino-resistenza” (legata a una serie di sintomi quali l’eccesso di glucosio e grassi), ritenuta un insidioso viatico alle patologie cardiovascolari e diabete.
La gravidanza non è quindi un evento in sé, andrebbe trattata anche come “stress test” per la salute successiva delle gestanti. Quella fascia “medio-alta”, finora negletta, è stata riscontrata in ben il 13% casi. Sono numeri ed evidenze importanti, a detta anche di commentatori scientifici estranei allo studio. Il messaggio dunque si rinnova, le donne andrebbero protette ben al di là dei loro nove mesi più grandi.
Sulle prospettive dell’occupazione in Italia non c’è da stare troppo allegri, a leggere le ultime stime nazionali e internazionali. La creazione di posti di lavoro è destinata a procedere più lenta che in altri paesi avanzati per la convergenza di diversi fattori. Tuttavia, da uno studio di Unioncamere, emergono anche spiragli interessanti per quel che riguarda le qualificazioni professionali e alcuni settori, a iniziare dalla salute.
Partiamo dalle cattive notizie. Sono quelle delle previsioni di crescita occupazionale da qui al 2020, fissate a un complessivo 2,1%, solo lo 0,4% annuo. Meglio di niente, ma peggio che in quasi tutti i paesi europei. La ragione è anzitutto che la crescita del Pil resterà limitata – stando alle stime macroeconomiche della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale – sicché gli ingressi lavorativi saranno perlopiù innescati dal naturale turnover, che però, problema ulteriore, sarà frenato dall’allungamento dell’età lavorativa previsto dalle norme sulle pensioni.
Il bicchiere può comunque legittimamente vedersi “mezzo pieno”, e non solo perché quelle pur piccole percentuali si tradurrebbero in un esercito di oltre due milioni e mezzo di nuovi occupati, ma anche perché, secondo l’approfondimento di Unioncamere, si tratterà soprattutto di professioni qualificate. Gli “High-Skill Jobs” aumenteranno del 2,2%, quasi quanto in Germania, e ben più che in Francia (0,8%).
A fare la parte del leone sarà proprio l’ambito sanitario. In cima alle professioni tecniche, ad esempio, si prevede l’assunzione di 136mila addetti alle scienze della salute e della vita, secondi solo al composito ambito amministrativo-commerciale-finanziario. Lo studio non dice invece molto a proposito dei medici, sui quali anzi si rinnova in questi giorni qualche polemica circa la programmazione dei posti per il relativo corso di laurea, fissato per l’anno prossimo a 9224 mentre quelli disponibili nel Servizio Sanitario Nazionale sarebbero circa duemila in meno.
In ogni caso il settore, nel suo insieme, si conferma trainante per l’economia italiana. Ancor più espliciti i dati reali sulla produzione industriale, calata del 7% nel 2015, e al contempo cresciuta del 5% in ambito farmaceutico, collocandolo al secondo posto in Europa. C’è un’Italia che lavora, e bene, e c’è un’Italia in cui cresce, anche per ragioni anagrafiche, la domanda di salute. Che merita risposta, pubblica e privata.
Si rinuncia alle cure per ragioni di paura o pigrizia, per ritardi e carenze organizzative dei servizi sanitari. Ma soprattutto perché costano troppo, ed è un “troppo” insostenibile in momenti di crisi. Ai tanti allarmi lanciati dalle associazioni dei pazienti si aggiunge il sigillo ora di un approfondimento di Eurostat. Che affronta il tema su scala europea, sulla base di dati relativi al 2014, ma rileva segnali particolarmente preoccupanti per il nostro paese.
Il dato generale è che il 6,7% della popolazione dei 28 denuncia un bisogno insoddisfatto di cure. Per il 2,4% degli europei la prima motivazione è dovuta ai costi; la seconda è quella delle liste d'attesa troppo lunghe, per l'1,1%. Le percentuali di insoddisfazione ribadiscano poi un quadro di pesanti disparità nel continente. A lamentare la situazione più grave è l'Estonia, col 13% dei suoi cittadini costretti a rinunciare alla cure, mentre il quadro migliore, forse a sorpresa, emerge a Malta, dove la proporzione scende al 2%.
L'Italia, col suo 7,8%, sta messa purtroppo sotto la media europea, seppur non di molto, ma è comunque un dato che stride malamente con la più volte decantata pretesa di rappresentare la “migliore sanità al mondo”. Peggio ancora, è un dato che suona sottostimato rispetto all’ampiezza del dramma, che il Censis ha conteggiato recentemente nella cifra di 11 milioni di persone costrette a rinunciare o a rinviare le cure.
Sul perché di tutto questo interviene ancora, non a caso da noi più che altrove, il nodo dei costi. Per gli italiani, ancor più che per gli altri, è il primo dei problemi. Il 6,2%, quasi il triplo della media europea, rinuncia alle terapie (ospedaliere o farmacologiche) perché non se le può permettere e non per le liste d’attesa, “assolte”, ovvero confinate allo 0,8%.
Il dato è significativamente parallelo a un altro, e cioè a quello che ci colloca agli ultimi posti europei nel ricorso ai farmaci equivalenti. Si discute molto di costi sanitari che “sfondano” i tetti. A ben vedere, stando anche agli ultimi dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco, mentre la spesa farmaco-ospedaliera “vola”, quella territoriale, affrontata dai cittadini nelle farmacie, non sfonda proprio nulla. Al contrario crolla, con cali accertati a oltre il 6% nei primi mesi dell’anno. Segno che i pazienti non ce la fanno più. E che l’uso dei meno costosi medicinali equivalenti – identici per efficacia e sicurezza terapeutica – non è più un’opzione residuale, ma un dovere sociale. Per noi stessi e per tutti.
Che faccia bene passeggiare, e farlo possibilmente nel verde, è una verità antica, bagaglio non solo di ogni medico ma anche del sentire comune. Da una ricerca australiana arriva qualche documentato dettaglio in più, accompagnato da un appello degli scienziati ai decisori perché ne facciano un vero e proprio obbligo prescrittivo da sottoporre all’intera popolazione – come si trattasse di farmaci, o addirittura “vaccini” - con massima priorità ovviamente fissata per chi vive in ambiti densamente urbanizzati.
L’Università del Queensland ha dunque realizzato una complessa elaborazione – ora pubblicata sulla rivista internazionale Scientific Reports – di questionari sullo stato di salute di oltre 1500 residenti nella città di Brisbane. Ne è emersa una stima sulle “dosi” minime necessarie perché la camminata nella natura porti i suoi acclarati benefici per la salute.
In particolare, viene fissato il paletto di almeno trenta minuti settimanali di erranza nel verde. Questi conseguirebbero un decremento del 7% nel rischio di patologie depressive e addirittura del 9% per quelle cardiovascolari. “Considerando che i costi sanitari della sola depressione in Australia sono stimati a quasi dieci miliardi all’anno – notano i ricercatori – i risparmi complessivi per i conti sanitari pubblici sarebbero immensi”.
Tutto questo potrebbe suonare una banalità, eppure non lo è, anche in ragione del fatto che il 40% degli intervistati ammette di non aver mai visitato un parco cittadino. Ad accreditare la serietà dello studio e delle cifre fornite interviene inoltre un ridimensionamento degli aspetti “sociologici” facilmente desumibili sul tema.
Ad esempio, chi si dichiara “amante della natura” riferisce ai ricercatori anche di stringere più intense relazioni interpersonali, ritenute un volano importante contro le tendenze repressive. Tuttavia dall’indagine non emergono controprove reali circa un nesso tra le dichiarazioni di amore per il verde e la propensione alla “coesione sociale”. Questa si appalesa nella realtà non tra chi “dichiara” belle parole sulla natura, ma solo tra chi ci va davvero.
Coloro che si dichiarano “amanti della natura” sono anche quelli che riferiscono di livelli superiori di “coesione sociale”, con tutto ciò che consegue per il benessere psico-fisico. Invece, tale aspetto non trova riscontro nella realtà. Lo trova solamente quando nella natura ci si va davvero.
Si chiama inositolo, il suo battesimo quale “molecola della fertilità” è uscito da un recente congresso che ha riunito a Firenze ginecologi e pediatri di tutto il mondo. E' in tale sede che sono stati documentati i suoi benefici contro la sindrome dell'ovaio policistico (Pcos), una complessa patologia che colpisce fino al 10% delle donne in età riproduttiva, rappresentando la causa principale della loro impossibilità di concepire tramite l'innesco di diverse alterazioni endocrinologiche e metaboliche, incluso l'aumento degli ormoni maschili.
Le novità sono annunciate in particolare dall'Unversità di Chiasso (Svizzera) e dalla Virginia Commonwealth University (Stati Uniti). Emerge tra l'altro che la metà delle pazienti che assume l’inositolo torna ad ovulare dopo circa un mese e l’88 % ripristina il ciclo mestruale dopo 3 mesi. Inoltre 7 donne su 10 tornano ad avere un ciclo mestruale regolare e il 55% riesce ad avere una gravidanza spontanea.
“L’inositolo è una molecola che si trova in diverse forme, ma solo due, il Myo-inositolo (MI) e il D-chiro-inositolo (DCI) – specifica lo scienziato elvetico Vittorio Unfer - hanno dimostrato dagli studi clinici di essere mediatrici dell’insulina”, allentandone la “resistenza” che è alla base di molti disturbi, e determinando così effetti apparentemente salvici per, in particolare, le donne in sovrappeso.
Tutto questo è uno sviluppo di una serie di studi che avevano già accertato una pluralità di benefici della molecola, incluse funzioni antidepressive e a protezione della tiroide. Chiamata in passato “Vitamina B7”, tale definizione è oggi perlopiù contestata in quanto le vitamine sono ritenute tali quando assunte solo con la dieta, mentre l'inositolo può essere prodotto autonomamente dal corpo umano, sembra a partire dal glucosio. Un “auto-anticorpo”, dunque.
Nondimeno, è presente in diversi cibi sicché, se le ultime ricerche suonano promettenti sul piano farmacologico, l'indicazione alimentare è immediata. Bene i cereali, i legumi e la frutta. In particolare, risultano in tal senso preziosi, tra gli altri, la leticina di soia, il riso integrale, l'orzo, il grano saraceno, le arance, le fragole, i piselli e il cavolfiore. Sin d'ora, dunque, buon appetito.