“ Nemo propheta acceptus est in patria sua ”, dicevano gli evangelisti. Questo sembra valere ancora. Nella selva delle notizie e degli annunci scientifici sulla salute a volte spariscono quelli importanti, perfino se si tratta del più deleterio dei mali, la metastasi tumorale, e perfino se il protagonista è un connazionale. C’è una notizia in proposito che sta girando in tutto il mondo mentre perlopiù si ferma sulla soglia delle Alpi.
“Non farei mai promesse eccessive alle migliaia di malati di cancro”, premette il professor Mauro Ferrari. Friulano, 56 anni, è uno dei più importanti esperti mondiali di nanotecnologia applicata alla medicina. Di formazione matematica e ingegneristica, si è addentrato nella medicina in seconda battuta, sulla scia di una tragedia familiare. Il cancro, appunto. Studiando e scoprendo potenzialità delle “nanoparticelle”, strutture composte da pochi atomi utilizzabili per produrre farmaci di rilevante impatto e scarso effetto collaterale. Sulla scia dei suoi successi scientifici, dirige negli Stati Uniti l'Institute of Academic Medicine del Methodist Hospital System e presiede The Alliance for NanoHealth.
La notizia ora è nel risultato, definito “sbalorditivo”, di un farmaco composto da nanoparticelle in grado di penetrare direttamente nelle cellule metastatiche causate dal cancro al seno (superando i meccanismi di resistenza ai farmaci messi in atto dalle stesse cellule cancerogene) in organi come polmoni e fegato, distruggendole. Ebbene, la sperimentazione del nuovo nano-farmaco, chiamato iNPG-pDox, su cavie animali (topi) ha conseguito la completa guarigione nel 50% dei casi, il che rappresenta un equivalente umano di vent’anni di vita senza traccia di tumore residuo. “ Un risultato importantissimo alla luce del fatto che non ci sono terapie attualmente disponibili per i tumori metastatici”, commenta lo scienziato.
“Uccidere le cellule tumorali è tutto sommato facile, la cosa difficile è trasportare il farmaco giusto nel posto giusto”, scriveva Ferrari in un libro alcuni anni fa. L’obiettivo sarebbe stato raggiunto. A questo punto è una corsa contro il tempo. Le sperimentazioni umane sono attese l’anno prossimo, i ricercatori invocano dalle autorità sanitarie una corsia privilegiata.
Ci sono i grandi temi nella Sanità, i nodi organizzativi, gli oneri lavorativi, gli errori, i costi, le carenze strutturali, una territorializzazione incompiuta e altro, ma quando a mancare è lo strumento di base, ossia il farmaco, lo scandalo è imperdonabile, e fa evaporare tutto il resto. Sempre più si mobilitano su questo le associazioni dei pazienti e dei consumatori, perché la salute è un diritto, non un’opzione commerciale.
Denunce sacrosante, apprezzate anche dal mondo degli equivalenti. “E’ ormai una costante della sanità italiana e non dovrebbe sorprendere più nessuno”, incalza il presidentedi AssoGenerici Enrique Häusermann, sulla scia di un nuovo articolo in proposito – su Repubblica - che prende spunto dagli ultimi dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), risalenti ad alcune settimane fa: i prodotti introvabili sono circa 1200, formando un elenco di 97 pagine.
Non è un problema soltanto nazionale, intendiamoci. Perfino negli Stati Uniti, sede e mercato primario di imponenti multinazionali farmaceutiche, la carenza di medicinali al Pronto Soccorso è aumentata del 373% dal 2008 al 2014. La lacuna è gravissima e dilagante, mobilitando infiniti rimpalli di responsabilità circa le carenze e colpe sul lato produttivo, distributivo, normativo e finanziario.
La specificità italiana sta nel fatto che la diagnosi non richiede invece tutte quelle disquisizioni. Il dato è semplice. I farmaci ci sono, ma non si usano ancora abbastanza. E sono proprio i generici. Per 7 dei 13 principi attivi citati come mancanti nell’articolo di Repubblica il medicinale equivalente esiste, prodotto da almeno due case differenti. Il problema è che viene prescritto relativamente poco, specie dalle strutture ospedaliere, ancora largamente ancorate, a differenza degli altri paesi avanzati, al medicinale di marca.
Perché? “Resistenze culturali”, spiega Häusermann, citando anche il professor Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri (e già presidente della Commissione Ricerca e Sviluppo dell’Aifa), che in proposito lamenta “l’assenza di una politica culturale coerente e adeguata”. E ci sono naturalmente anche gli interessi avversi al cambio di rotta. In ogni caso la vittima è infine il paziente, come documenta anche una ricerca statunitense, per le pesanti conseguenze sull’aderenza terapeutica. Si arriva “ alla non terapia, accompagnata da peregrinazioni da una farmacia all’altra ”, nota ancora il leader di AssoGenerici, fatto “non plausibile per un paese al vertice delle classifiche per l’assistenza sanitaria”.
422 milioni di adulti soffrono di qualche forma di diabete, oltre l'8% degli esseri umani, secondo le ultime stime relative al 2014. Nel 1980 erano quattro volte di meno, e percentualmente la metà rispetto alla più esigua popolazione dell'epoca. I dati sono stati forniti nei giorni scorsi dall'Organizzazione Mondiale della Sanità consacrando perciò alla malattia la sua ultima “Giornata Mondiale” in concomitanza col proprio “compleanno” (l'Oms fu fondata il 7 aprile 1948).
L'allarme si alimenta inoltre nella previsione del raddoppio di tali cifre nell'arco di vent'anni. In molti casi la patologia è gestibile, ma spesso conduce a complicanze fatali, dall'infarto all'ictus, dalla cecità ai problemi al fegato. Nel 2012 sono morte di diabete un milione e mezzo si persone, quasi la metà prematuramente, sotto i 70 anni. Preoccupante anche l'evoluzione dell'età dei pazienti: un tempo erano quasi esclusivamente gli adulti, ora colpisce sempre di più anche i bambini.
Per arginare la piaga servirebbero alcune misure fondamentali. L'Oms indica anzitutto “l'uso di un piccolo campionario di farmaci generici”, e nota che solo un paese al mondo su tre dispone di medicinali adeguati. Cruciale poi una tempestiva diagnosi e l'educazione del paziente alla cura. Soprattutto, è essenziale la prevenzione, con due indicazioni prioritarie: praticare l'attività fisica ed evitare il sovrappeso.
Su questo spunta il caso delle Isole Samoa. Come documenta la rivista Lancet, laggiù, nel cuore del Pacifico, la percentuale dei malati di diabete ha raggiunto il record del 30% della popolazione. La spiegazione salta agli occhi: in tali isole l'indice medio di massa corporea è ai vertici mondiali.
Il dato però segnala anche qualcos'altro, ossia che non si tratta più della “malattia dei ricchi”, è anzi nei paesi in via di sviluppo che si rivolgono ora le maggiori preoccupazioni. Gli imputati principali sono la sedentarizzazione dell'esistenza e soprattutto la cosiddetta “transizione nutritiva”, in un pianeta in cui gli obesi hanno oramai superato i denutriti: nel mirino dei ricercatori di Samoa, in particolare, il dilagare dei fritti, con l'ausilio di oli scadenti importati a basso costo. La miglior ricetta per la lotta al diabete rimane quella, il ritorno a una sana alimentazione.
Nel tritacarne dell’informazione la Sanità, come altri settori, “fa notizia” perlopiù quando ci sono gli “scandali”. I casi di “malasanità” (a volte solo presunta), oppure di “corruzione”, finiti nei giorni scorsi sulle prime pagine per il meritevole quanto allarmante rapporto in materia presentato da Transparency Italia, Censis e Ispe-Sanità. Poco, invece, lo spazio alle “buone notizie”, e ai tanti che lavorano tanto, in silenzio e bene per la salute. E su questo spunta un dossier internazionale che, pur tra le difficoltà economiche degli ultimi anni, svela qualche dato incoraggiante per il nostro Paese.
Il rapporto si chiama proprio “Crisi economica, sistemi sanitari e salute in Europa”. Redatto in collaborazione con l’Osservatorio Europeo sui Sistemi e le Politiche Sanitarie (Eohsp – che include governi, centri di ricerca, Università, anche fuori dall’Ue), ha fatto riunire intorno a un tavolo a Roma alcuni dei principali operatori, studiosi e decisori del settore, inclusa la stessa ministra della Salute, Beatrice Lorenzin.
Non mancano le criticità e le ricadute sulla stessa salute. Questo “non sorprende – spiega il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi – in quanto una fase prolungata di crisi, con le conseguenti misure di austerità, porta a peggioramento dello stato di salute, specie nei gruppi più vulnerabili, inasprendo le diseguaglianze sia tra Paesi diversi sia all’interno di uno stesso Paese ”. Ed è grave, perché il peggioramento della cura compromette, assieme alla salute, anche la “produttività” su cui si gioca l’economia.
I dati sono eloquenti, per larga parte dei 53 paesi esaminati. Dal 2009 al 2012 il calo della spesa pubblica sanitaria pro capite è stato addirittura del 9% in Grecia, principale bersaglio della recessione. Malino anche l’Italia, con una diminuzione dell’1,1%. Tuttavia, sul nostro paese emerge a sorpresa qualche cifra di segno opposto, in particolare sull’incidenza della spesa sanitaria su quella pubblica che, anziché decrescere, è aumentata: dal 13,85% nel 2007 al 14,2% nel 2011. Non male, anche perché tale variabile è ritenuta un indicatore della “propensione all’investimento” nella salute.
Naturalmente si può fare molto di più. Meno corruzione, ovviamente, così come maggior ricorso ai farmaci generici per liberare risorse con la medesima qualità terapeutica. Ma anche a parità di risorse si può far meglio. Qualcosa è in cantiere. “ Dalla contrattazione collettiva nazionale alle forme di welfare aziendale, sta prendendo piede un modello innovativo di partnership pubblico-privato che noi sosteniamo e che, in questi anni di crisi economica, ha rappresentato un aiuto concreto per la salute di molte famiglie ”, nota il presidente di Federmanager Stefano Cuzzilla. Si chiama “sanità territoriale”, se ne parla da tempo, ma il margine resta amplissimo.
Nel 2005 il paternalistico governo giapponese elaborò una vera e propria “guida” alimentare, suggerendo ai concittadini il dettaglio di una dieta salutare. Vent'anni dopo, non pago, il National Centre for Global Health and Medicine di Tokyo ha completato una corposa verifica di tali indicazioni. Confermandone l'efficacia attraverso il riscontro di dati piuttosto vistosi sul loro impatto per la salute.
La minuziosa disamina ha coinvolto quasi ottantamila nipponici tra i 45 e i 75 anni, senza pregressi per cancro, malattie cardiovascolari o del fegato. In sintesi, coloro che seguivano meglio il vademecum su quantità e varietà dei cibi suggeriti hanno fatto registrare un tasso di mortalità più basso degli altri, addirittura del 15%. Il dato è impressionante anzitutto per quel che ribadisce sull'estrema importanza di una buona alimentazione.
I dettagli della ricerca forniscono poi delle sostanziose conferme sui capisaldi della “miglior dieta”. E a ben vedere, per la verità, il segreto perorato da Tokyo non si confina nel sushi o nel sashimi. Il nodo cruciale identificato dai ricercatori sta nell'equilibrio tra le varietà. Il nostro corpo richiederebbe prioritariamente un buon bilanciamento tra cereali, ortaggi, frutta, pesce e perfino carne, senza esagerare in alcuna di esse. Chi mangia così terrebbe alla larga le patologie più insidiose, con percentuali notevoli soprattutto per le malattie cerebrovascolari, terza causa di morte nei paesi avanzati.
Un aspetto per noi interessante sta nel fatto che tali indicazioni ricalcano da vicino gli ingredienti essenziali della dieta mediterranea. Eletta cinque anni fa a “Patrimonio Culturale dell'Umanità” dall'Unesco, è stata poi etichettata dall'Università di Harvard come “medicina” migliore contro l'invecchiamento.
Tra i mille riconoscimenti (e qualche tentata controindicazione), uno è arrivato nei giorni scorsi anche dalla Germania. Nonostante tale dieta non sia molto ricca di vitamina D – nota l'Università di Wurzburg - risulta un antidoto perfino alla frattura dell'anca.
Siamo tutti “stressati”, chi più e chi meno. Ma il “più” e il “meno” fanno la differenza tra la patologia e la salute. Quella differenza è peraltro spesso determinata non dall’entità degli stimoli esterni ma dalla nostra capacità di sostenerli. Ebbene, tale capacità, secondo quanto dimostrato da una ricerca anglo-americana, dimora tutta nel cervello.
La ricerca, pubblicata sull’elvetica “Frontiers in Neural Circuits”, è stata condotta su modelli animali (topi), messi appunto sotto eguale pressione, monitorandone le attività cerebrali. Sono emersi due aspetti, entrambi in misura piuttosto eclatante.
Il primo è che gli animali che “si arrendono” sono quelli che riducono in modo consistente l’attività cerebrale allo stimolo dello stress. Sotto pressione “ si pensa di meno”. Si azzera il cervello, incluse le facoltà di apprendimento e memoria, anziché attivarlo, e lo si fa ad apparente scopo difensivo. Il secondo è che tali topini “perdenti” tendono a palesare un comportamento uniforme, stereotipato benché “anormale”, simile a quello degli altri. Ci si chiude a riccio, con modalità del tutto analoghe. I “vincenti” sono invece quelli che riescono a elaborare risposte più “originali”, alla ricerca di risposte creative allo stress.
Tali esiti possono suonarci quasi scontati, ma la realtà è che le sindromi depressive abbisognano di tali approfondimenti per migliorare le possibilità di cura, psicologiche e farmacologiche, sia nella comprensione delle nostre reazioni nei diversi settori cerebrali che nei possibili rimedi.
Non è un tema da poco, in ambito medico e non solo. Il trattamento della depressione costa agli americani circa 300 miliardi di dollari l’anno. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon l’ha definita l’anno scorso una “crisi globale”. In Italia il consumo di antidepressivi è aumentato di quasi il 5% negli ultimi dieci anni, coinvolgendo oltre 7 milioni di persone. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la principale causa globale di disabilità. Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha un costo stimato al 4% del Pil. E’ tempo di occuparcene, seriamente, partendo dalla nostra testa.
I macro-dati sono essenziali, ma i “piccoli” casi specifici a volte spiegano meglio. Lo ha fatto una ricerca pubblicata il mese scorso sullo statunitense Journal of the National Cancer Institute (edito da Oxford University Press) con la supervisione di scienziati europei, fornendo dati salvifici per le nostre tasche. Su una patologia grave e costosa.
La sostanza è questa: esiste un farmaco antitumorale il cui brevetto è scaduto in gennaio. Ebbene, il suo equivalente, ora autorizzato dalla scadenza della licenza, consentirà a ciascun paziente un risparmio da centomila dollari nell’arco di cinque anni. Questo per i cittadini. Per gli assicuratori sanitari americani andrà ancor meglio, con una cifra stimata sui nove milioni di dollari.
La malattia focalizzata è la leucemia mieloide cronica. Ha origine nelle cellule del midollo osseo, precursori di quelle del sangue, che in questo caso non riescono a completare la trasformazione adeguata entrando in circolo nell’organismo. In quanto “cronica” ha una progressione lenta e spesso asintomatica, ma può innescare nel tempo una crescita incontrollata delle cellule tumorali.
Va da sé che l’indagine condotta nell’Illinois neppure contemplava l’ipotesi che il passaggio dal farmaco di marca al generico potesse accompagnarsi a un sacrificio di qualità della cura. Il dibattito su questo è semplicemente estinto negli Stati Uniti, il paese a più alto consumo di equivalenti: per legge, oltreoceano, e in modo ancor più rigoroso in Europa, le norme e i controlli blindano i “generici” alla completa equivalenza sotto il profilo dei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica.
Il tema dunque non c’è. E’ solo commerciale, una questione di brevetti e relativi costi: la loro scadenza comporta un risparmio per il consumatore, qui stimata dagli analisti fino al 90% del prezzo del medicinale di marca. Una proporzione che per tantissimi fa la differenza tra il potersi curare o meno.
Imprenditori e sindacalisti lo sanno bene. Firmare un contratto collettivo in tempi di crescita a volte può esser perfino più complicato che in tempi di crisi, in quanto l’asticella delle richieste naturalmente tende a elevarsi. Nonostante ciò, la scorsa settimana è stata apposta la firma definitiva al nuovo contratto di lavoro del settore chimico-farmaceutico, con reciproca soddisfazione delle parti. E l’annuncio è avvenuto a poche ore di distanza dalla presentazione degli ultimi dati sulla produzione farmaceutica italiana, che sono molto incoraggianti.
Nel 2015 il suo valore ha superato la soglia dei 30 miliardi di euro, quasi quanto la produzione in Germania, e ben di più rispetto a tutti gli altri paesi europei, incluse Francia (23 miliardi) e Regno Unito (18), segnando un balzo del 5% rispetto all’anno precedente, nonché un incremento delle esportazioni del 4%. I benefici rimbalzano sul lavoro, con un aumento dell’1% dell’occupazione, che coinvolge più di 65mila addetti. E la ricaduta è anche sulla ricerca, con l’incremento delle domande di brevetto e degli studi clinici, pari oramai al 18% di quelli che si svolgono nell’intera Unione Europea.
“L’eccellenza italiana”, sintetizza Il Sole 24 Ore: da tempo l’Istat mette l’ambito farmaceutico al primo posto sulla competitività e, di recente, Bankitalia lo ha promosso quale l’unico ad aver aumentato la capacità produttiva. I dati sono, infatti, in palese controtendenza rispetto al resto del settore manifatturiero: nell’insieme, la produzione nazionale è scesa del 7% nell’ultimo quinquennio, mentre la farmaceutica è aumentata del 10%.
I margini sono potenzialmente ancor più rosei, notano gli osservatori internazionali, in vista di un aumento della quota di farmaci generici, ancora inferiore rispetto ad altri paesi europei. Con ovvi benefici, in questo caso, anche per le tasche dei consumatori e quindi per le possibilità e qualità delle terapie, oltre che, come dimostrano anzitutto gli Stati Uniti (al vertice mondiale nell’uso degli equivalenti), per liberare ulteriori risorse per la ricerca.
“ Scricchiolii sinistri di un pezzo del nostro welfare che continuiamo a chiamare universalistico ma che è già diventato selettivo. A discapito dei più deboli ”. Così sentenzia La Stampa, rilanciando (con pochi altri) l’allarme suonato nei giorni scorsi dalla Corte dei Conti sui bilanci sanitari. Quelli pubblici come quelli delle famiglie. Quei conti non tornano, perché il rosso tinge ambedue le sfere, e al contempo le strutture si rivelano sempre meno capaci di aggiornare le proprie dotazioni tecniche.
Secondo l’ultimo rapporto in proposito di Assobiomedica, in Italia sono addirittura 6400 le apparecchiature diagnostiche obsolete e il 76% dei sistemi radiografici risultano datati più di dieci anni. Le ragioni sono molteplici, altrettante le ricette dibattute per porne rimedio, ma il dato di base è che, allo stato, mancano i denari, oggi più che mai, con l’aggravante di una popolazione che invecchia e incrementa la domanda sanitaria.
La Corte documenta infatti per il 2015 un rosso nei conti sanitari da un miliardo di euro, dopo anni di tenuta. Ancor più severo il monito dell’Agenzia Italiana del Farmaco, che stima a un miliardo e 700 milioni lo sforamento della spesa farmaceutica ospedaliera.
E’ dunque il farmaco la variabile che emerge a principale determinante. I ticket sono costati globalmente 2857 milioni alle famiglie. La cifra è considerevole, ma non rappresenta un incremento rispetto al 2014 per quel che riguarda le prestazioni specialistiche e di pronto soccorso, che hanno anzi segnato un calo del 3,1%. Ad aumentare, dell’1,3%, sono stati proprio i ticket per l’acquisto di medicinali.
Il dato può rivelare alcuni aspetti positivi, quali una sanità più “territorializzata” e gradualmente meno vincolata alle strutture, ma segnala comunque l’urgenza di una maggior efficienza nella spesa farmaceutica: “Risparmiare ricorrendo ai farmaci generici”, suggerisce La Stampa, sulla scia del resto delle sempre più assidue raccomandazioni dell’Aifa – anzitutto agli ospedali. Se non si agisce in fretta si compromette la Sanità, avverte la magistratura contabile, favorendo “ lo spostamento dal Servizio Sanitario Nazionale verso strutture sanitarie private, minando la stessa possibilità di garantire livelli di assistenza adeguati ”.
“Mi ricordo di quanto non vorrei: non posso dimenticare quello che vorrei”, diceva Cicerone, e tanti altri dopo di lui. Tuttavia qualche antropologo ha poi notato che saper dimenticare è una capacità intrinseca alle nostre stesse doti mnemoniche. Tale nesso in apparenza paradossale trova ora conferma nella ricerca scientifica, con potenziali risvolti terapeutici.
L’indagine, pubblicata sulla rivista Nature Communications, è stata condotta a Siviglia, all’Università Pablo Olavide, in collaborazione col Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (Embl) di Heidelberg. E’ stata condotta su topolini, con riferimento all’attività del loro ippocampo, sede cerebrale cruciale nei processi di apprendimento. Esso includerebbe tre “canali”: uno, il principale, è consacrato alla costruzione del ricordo, il secondo al suo richiamo, il terzo all’oblio.
L’apprendimento è anzitutto un processo associativo. Impariamo una cosa se la leghiamo a qualcos’altro. La memoria si cementa così, stabilendo connessioni tra neuroni. Ebbene, i ricercatori hanno notato che se si blocca il canale principale i topi non sono più capaci di elaborare una risposta “pavloviana”, quel riflesso condizionato che associa ad esempio un rumore a un comportamento capace di anticiparne le conseguenze. Se però tale connessione era stata in precedenza interiorizzata (coinvolgendo il secondo canale, quello capace di rinnovare il ricordo), il blocco si rivela insufficiente, e la memoria tende a ripristinarsi.
L’aspetto più interessante è speculare a tutto questo: l’utilizzo del primo canale provoca viceversa un indebolimento del secondo. In altre parole, la spinta all’oblio avviene essenzialmente nelle situazioni di apprendimento. “Abbiamo uno spazio non infinito nel cervello, quando si impara bisogna allentare alcune connessioni per lasciare spazio ad altre”, spiegano i ricercatori. In altre parole, “quando si imparano cose nuove bisogna dimenticarne altre apprese in precedenza”.
Gli esperimenti sono stati condotti tramite modifiche genetiche sui topi. Gli scienziati dell’Embl declamano però la possibilità di generare la pozione dell’oblio per semplice via farmacologica. Preziosa per superare eventi traumatici del passato, dicono. Più di Cicerone è allora cruciare il contemporaneo Milan Kundera: “ L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi […] Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli ”, scrive in “La lentezza”.
Sono gli stessi pazienti a sostenerlo. Scrivere è ritenuto una forma di terapia per l’81% delle persone colpite da un tumore, secondo un’indagine presentata nei giorni scorsi al Ministero della Salute dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica. Il tema del sondaggio, fondato su un campione di 150 persone, era peraltro ben più ampio. E’ l’intero processo di comunicazione a essere chiamato in causa, per il suo riconosciuto potenziale in crescita esponenziale, ma anche per qualche suo perdurante limite.
Il dato di base rimane l’entità del dramma. Ogni giorno mille italiani si ammalano di cancro (dati del 2015) e, se l’83% si dice ottimista in ragione dei recenti miglioramenti terapeutici (la sopravvivenza a 5 anni è aumentata nel nostro paese dal 45% al 60% nel solo lasso tra il 1990 e il 2007), tuttavia il danno è avvertito come grave non solo per la salute, ma anche, sostengono due pazienti su tre, per la discriminazione sociale, dalle relazioni umane all’ambito lavorativo.
E qui emerge il ruolo cruciale della comunicazione. L’ambito primario è ancora quello del rapporto col medico. Il dialogo con l’oncologo è valutato positivamente dal 78% degli intervistati, e il 68% dice di averne tratto più consapevolezza su terapie e gestione dei disturbi, anche psicologici.
Tale ambito è ora amplificato dal web, che moltiplica gli spazi di informazione e confronto. Portali web, blog, forum, perfino pagine facebook. Ci sono punte d’eccellenza, come il sito di consulti Medicitalia.it o il portale dell’Ansa, inclusa appunto una nuova sezione di “medicina narrativa”. La scrittura è dunque “terapeutica” non solo perché aiuta a elaborare timori e pregiudizi, ma anche perché alimenta le possibilità di scambio di nozioni ed esperienze, sia con i professionisti che con gli altri pazienti.
Il nodo, rilevato anche dall’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano, è che relativamente pochi, per il momento, si fidano della rete, anche se la fiducia tende a crescere tra le nuove generazioni. Problema ulteriore: i pazienti a volte hanno ragione a diffidare. Perfino l’autorevole rivista “Science” è stata ultimamente costretta a rettificare un articolo che attribuiva il tumore alla “sfortuna”, citando una ricerca che diceva ben altro. L’informazione web è responsabilità di tutti, se fatta male sulla salute il danno è imperdonabile.
“ Siamo richiamati al lavoro durante i giorni di riposo per coprire i turni che all’improvviso rimangono senza personale […] per non mettere in difficoltà le colleghe finiamo per andare a dare una mano. Ma l’azienda è costretta a pagarci una marea di straordinari: sarebbe più conveniente assumere nuove persone. Senza contare il fatto che i pagamenti avvengono in ritardo e temiamo che non ci saranno […] L’emergenza è tale che ci hanno chiesto di rinunciare alle ferie ”.
La testimonianza, l’ennesima, di una “situazione al collasso” è di un’ostetrica, rilasciata a un quotidiano nazionale. Orari massacranti, che talora si prolungano di decine di ore, l’impossibilità di fatto a obiettare alla chiamata o alla proroga del turno, specie se si è precari. Lavorare nella Sanità è un onore e una responsabilità, ma il dispendio è spesso drammatico, specie per chi sta in prima linea, a iniziare da infermieri e medici. Con ricadute anche sulla qualità della cura.
In proposito è arrivato l’esito illuminante di un’estesa ricerca britannica, curata dal National Institute for Health Research Collaboration for Leadership in Applied Health Research and Care. Ha incrociato dei dati amministrativi, sul rapporto numerico tra pazienti e personale sanitario in 137 ospedali nazionali, con un’indagine apposita su un campione i circa tremila infermieri, analizzando le risultanze sulla salute degli utenti. Il risultato è impressionante, con la stima di una riduzione del 20% della mortalità per effetto del semplice abbassamento da 10 a 6 del numero medio dei pazienti affidati a ogni infermiere.
Lavorare meno è dunque condizione essenziale del benessere non solo degli operatori ma anche dei pazienti. Dalla fine dell’anno scorso è entrata in vigore una legge che pur tardivamente recepisce l’ultima direttiva europea in materia, risalente al 2003. Non mancano le polemiche su di essa, ma stabilisce comunque alcuni paletti, quali il tetto di tredici ore lavorative di fila e un riposo di almeno undici ore tra un turno e l’altro.
Il problema è rispettare quei tetti. Non è una mera esigenza “sindacale”. Lo reclama anzitutto la salute.
Quando l’attesa è troppo lunga il risultato ultimo è che la cura non c’è, men che meno la prevenzione. Un sondaggio di Repubblica ha rilanciato nei giorni scorsi l’allarme, peraltro ben noto ai pazienti. Dietro alla piaga ci sono nodi organizzativi e finanziari e, come denuncia Cittadinanzattiva, parecchi sprechi. In essi c’è al contempo la chiave virtuale della soluzione, su cui i generici potrebbero fornire un contributo decisivo.
I dati sono questi: quasi la metà degli italiani rinuncia alla prestazione sanitaria pubblica a causa delle lungaggini, oppure si rivolge ai privati moltiplicando le proprie spese, secondo una recente indagine del Censis. Ci vogliono mediamente due mesi per una mammografia, un mese e mezzo per un’estrazione dentaria urgente, altrettanto per una visita ginecologica, ancor di più per una visita ortopedica.
Queste sono però solo le medie, che nascondono situazioni e tempi ben più drammatici. Si arriva ai 478 giorni per le mammografie asintomatiche al Cardarelli di Napoli, 441 alle Molinette di Torino. Per una risonanza alla colonna vertebrale ci vogliono 289 giorni al Galliera di Genova. A Lecce bisogna aspettare quasi un anno per una tac addominale, altrettanto per operarsi alle tonsille agli Spedali Civili di Brescia. Addirittura due anni per una day surgery proctologica al San Camillo di Roma.
Sono dati incresciosi, che fanno moltiplicare i convegni e le tavole rotonde alla ricerca di una soluzione. In questi giorni, tra l’altro, un vertice ad Arezzo tra sindaci della provincia, una conferenza della Cisl nel Lazio. Soprattutto, un rapporto di Cittadinanzattiva-Tribunale per i Diritti del Malato ha evidenziato un’enormità di sprechi, per la metà attribuiti al mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali. “ I tagli al Servizio Sanitario Nazionale cumulati tra il 2011 e il 2015 – incalza il coordinatore Tonino Aceti - sono stati di 54 miliardi, praticamente mezzo fondo sanitario. Nessuno però ha spiegato se e quanti sono stati gli effettivi risparmi prodotti e come sarebbero stati reinvestiti ”.
Il nodo è largamente qui, l’investimento. “Abbiamo stanziato 10 milioni per assumere 150 professionisti nei settori in difficoltà”, ha spiegato al quotidiano il governatore della regione più virtuosa nella riduzione dei tempi d’attesa, l’Emilia Romagna. Dove trovare le risorse? “Gli ospedali colmino il ritardo nel ricorso ai meno costosi farmaci generici”, ripetono da mesi come un mantra i vertici dell’Agenzia Italiana del Farmaco.
Quasi due secoli fa il giovane Louis Braille escogitò quel sofisticato sistema che ha consentito ai non vedenti come lui di rompere le barriere con il mondo, a iniziare dalla lettura. Oggi la ricerca estende il concetto, dimostrando come l'uso di tale sistema alfabetico abbia il potenziale di allargare le capacità mentali di tutti, inclusi i vedenti, per la medesima qualità di “rompere le barriere” tra i meccanismi cerebrali.
Lo sappiamo un po' tutti, il nostro cervello è organizzato in aree, diversificate per funzione. Siamo in parte “scollegati”, non solo tra corpo e mente (secondo la visione aristotelica che ha segnato la civiltà occidentale), ma anche tra scompartimenti cerebrali. Una ricerca dell'Università Jagiellonian di Varsavia, pubblicata sulla rivista scientifica eLife, svela nuovi potenziali dell'irrobustimento della loro connessione.
29 volontari vedenti si sono prestati a un esperimento per nove mesi. Consisteva proprio nell'apprendimento dell'alfabeto Braille. Hanno raggiunto il buon esito di imparare a leggere fino a 17 parole al minuto. Al contempo, all'inizio e alla fine del corso, sono stati sottoposti a una particolare risonanza magnetica mirata a valutare l'eventuale impatto sulle diverse aree cerebrali. L'esito si è rivelato convincente, sul piano appunto delle “connessioni” attivate, in particolare tra la corteccia visiva e quella tattile.
La notevole capacità adattiva del cervello dinanzi a traumi o deprivazioni sensoriali, quali la cecità, è cosa già nota tra gli addetti ai lavori. I ricercatori polacchi rivendicano però di aver dimostrato come tale capacità interconnettiva possa efficacemente attivarsi anche in assenza di tali disturbi. “Basta allenarla in modo adeguato”, dicono. E sarebbe proprio in tale “flessibilità” che il cervello umano si qualifica rispetto a quello degli animali.
A margine, il mese scorso si è celebrata la “Giornata del Braille”, istituita dall'Unesco nel 2007. Tante le iniziative in tutta Italia, perfino una piazza di Cagliari dedicata allo studioso francese. Con alcune buone notizie, quali l'avanzare delle nuove tecnologie a sostegno dei non vedenti, incluso un apposito tablet in preparazione dall'Università del Michigan. Utile potenzialmente a tutti, a quanto emerge.
La storia è affascinante non solo perché ci fa viaggiare nel passato, ma perché ci dice da dove veniamo e ci può insegnare qualcosa su dove dovremmo andare, anche sul piano della nostra salute. Un’importante suggestione in proposito arriva da una ricerca medica italiana sui Cavalieri Templari. Ebbene, vivevano il doppio dell’aspettativa media di vita del periodo, e forse oggi sappiamo perché.
L’indagine, pubblicata sulla rivista scientifica Digestive and Liver Disease, è stata condotta su documenti storici dell’epoca. Si chiama “ La dieta di Cavalieri Templari: il loro segreto di longevità?” Il dato di base è che centinaia di Templari vissero fino ai 70 anni e più, mentre la media dell’epoca – il Basso Medioevo, a partire da un millennio fa – non superava mediamente i 30.
Ora, a prima vista, si potrebbe banalmente pensare che dietro a quell’enorme scarto incidesse una differenza di ceto: i Cavalieri erano curati meglio della plebaglia medievale. Forse un po’ è così, ma solo in minima parte, per la semplice ragione che le classi agiate avevano abitudini tutt’altro che salubri. Non disdegnavano l’obesità, simbolo appunto di ricchezza, ed eccedevano nel consumi di carne e grassi, con conseguenze ad esempio sul dilagare della gotta, colesterolo alto e diabete mellito.
La realtà, invece, è che erano semplicemente più attenti a mangiare meglio. La loro dieta era calibrata, assomigliando parecchio all’odierna Mediterranea e “mirava a combattere proprio quelle patologie”, nota il coordinatore della ricerca Francesco Francesci, Direttore di Medicina d’urgenza al Policlinico Gemelli di Roma: un consumo moderato di carne (due volte a settimana), tanti legumi, potenti probiotici (tre volte a settimana), molto pesce e frutti di mare, olio d’oliva e agrumi (antibatterici) in gran quantità. Alla dieta si accompagnava una serie di comportamenti militarmente obbligati, a cominciare dall’igiene delle mani e dei refettori dove mangiavano, per finire con il bando della caccia a fini alimentari, mentre era invece incoraggiata la pesca e il relativo allevamento.
“L’elisir di lunga vita” è una leggenda antica con primogeniture rivendicate da varie civiltà. Quasi tutte riconducono però a terreni mediorientali, frequentati dai Templari. La mitologia, come sanno gli storici, dice la verità, o almeno la evoca. Anche per il nostro vivere nell’oggi.
I grandi dati aggregati a volte possono confondere. E a volte giustamente, perché lasciano in chi legge il sospetto che riflettano chissà quali altre variabili nascoste. Gli esempi più piccoli risultano allora spesso più chiari, senza quelle paventate controindicazioni. Sul ruolo del farmaco generico nel contenimento della spesa sanitaria è eloquente, ad esempio, il caso dell’Asl di Olbia, notato anche dalla stampa regionale.
Il dato secco è che aumentano le ricette mentre diminuisce la “spesa farmaceutica territoriale”, ovvero la spesa convenzionata dei pazienti in farmacia. Com’è possibile questo “miracolo? Ebbene, nota anche “La Nuova Sardegna”, il dato si spiega tutto nel ricorso al generico. Nella citata Asl la spesa territoriale è passata “ dai 28 milioni 81 mila euro del 2009 (per 1.400.806 ricette) ai 24 milioni 397 mila del 2015 (con 1.648.905 ricette). Oltre 3 milioni e mezzo di euro di risparmi di spesa per una riduzione della spesa netta per l’acquisto dei farmaci in ambito territoriale che supera il 13%, a fronte di un incremento del 17% delle ricette ”.
La tendenza si riflette comunque anche a livello nazionale. “Nel periodo Gennaio–Dicembre 2015 – ha rilevato l’ultimo rapporto in proposito di Assogenerici – quasi tutte le regioni fanno segnare una diminuzione della spesa territoriale netta verso lo stesso periodo del 2014”. Dov’è allora il problema? Perché invece si susseguono sistematicamente le notizie sullo sforamento dei tetti regionali di spesa farmaceutica?
La stessa Asl di Olbia chiarisce la risposta. Se i cittadini sono “virtuosi” in farmacia, scegliendo sempre più il generico, lo stesso ancora non vale per molti degli ospedali. “ La spesa per i farmaci acquistati per le strutture sanitarie pubbliche segue invece un trend di crescita, passando dai 12 milioni e 70 mila euro del 2012 ai 16 milioni e 169 mila del 2015 ”. La spiegazione è appunto uguale e contraria. “Negli ospedali si erogano terapie farmacologiche ad alto costo”, con minor ricorso ai generici.
Semplice, lapalissiano, e lo è anche per l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). “ Promuovere anche negli ospedali l’utilizzo dei medicinali generici e biosimilari”, ripete da mesi il presidente Mario Melazzini, dalle colonne del Corriere della Sera a, nei giorni scorsi, dalle pagine dei portali specializzati.
La carta stampata non sta bene e non è solo “colpa della crisi”. Prova ne è che anche dagli Stati Uniti, in cui in questi anni si è assistito a una discreta ripresa, arrivano notizie a ripetizione di cali di tiratura, chiusure e licenziamenti. Il problema è primariamente lo stravolgimento delle tecnologie di informazione, a iniziare dal web e dai suoi epigoni “social”. Eppure c’è chi resiste, e questo si riscontra anche e soprattutto in ambito sanitario. Con ricadute spesso salvifiche per la qualità dell’informazione.
Un ottimo esempio è il mensile “Come Stai” che, fondato ormai vent’anni fa a Milano, vende 12mila copie al mese: non male per una rivista di nicchia. Nell’edizione di aprile la rivista dedica un notevole spazio ai farmaci equivalenti. Quattro pagine scritte benissimo, a spiegarli con parole tanto semplici e precise da sembrare uscire dall’abile penna di un “comunicatore professionista” e invece a firma di un esperto medico di base, la dottoressa Geltrude Consalvo. S’intitola “Curarsi risparmiando”. Sottotitolo: “ Compreso che questi farmaci sono efficaci come quelli di marca, l’unica differenza è che costano meno. Una guida al loro uso per chi ha ancora qualche diffidenza ”.
È vero che la rete è uno strumento prezioso d’informazione (anche noi siamo qui) con la sua mole infinita di nozioni accessibili e di spazi preziosi di confronto tra medici, pazienti e associazioni ma, come sanno i “guru” del settore, il web si presta perlopiù a testi di estrema sintesi. Per gli approfondimenti, a farla da padrone è ancora il cartaceo.
Da quella rivista esce un articolato chiarimento sul generico: “ stesso principio attivo, stesso dosaggio, stessa formulazione e identico numero di unità posologiche”, rispetto al farmaco di marca. Cambia solo il nome e il prezzo, dati i diversi costi di ricerca richiesti dagli originator. Non sono “confezionati in fabbriche del Terzo Mondo”, almeno se “comprati in una farmacia o in una parafarmacia” (e non importati privatamente tramite qualche sito web). Sono sottoposti a norme e controlli rigidissimi sulla piena “bioequivalenza” rispetto all’originator, al punto che “anche le materie prime e il prodotto finito devono soddisfare le specifiche della Farmacopea europea” […]senza dimenticare che sono soggetti anche alla cosiddetta ‘sorveglianza’ post marketing che offre ulteriori garanzie. E poi: “ favoriscono l’aderenza terapeutica, per vari motivi. Il primo, molto importante, è il prezzo più basso”.
E avanti così, pagine e pagine a chiarire quei concetti di base. Lunga vita ai giornali di carta.
C’è uno spartiacque sul nodo dei conti pubblici e sull’intera economia europea: il 2008, l’autunno della grande crisi. Esiste un prima e un dopo e, se c’è un settore che più di ogni altro fotografa quello stravolgimento, è proprio quello della Sanità. Lo ha analizzato efficacemente Il Sole 24 Ore, identificando sulla base dei dati nazionali e internazionali le variabili che hanno condotto a un’escalation dei costi negli anni precedenti, e a una drastica compressione in quelli successivi.
La crescita della spesa sanitaria pubblica in Eurolandia tra il 2000 e il 2008 è stata del +5,2% annuo: notevole, seppur inferiore al +8,2% degli Stati Uniti. Altrettanto impressionante è la discrepanza territoriale. L’impennata maggiore è stata rilevata soprattutto in paesi poi incorsi in gravi problemi finanziari, a iniziare da Grecia e Irlanda, con balzi superiori al 9%. Oltre la media anche l’Italia che si attestava oltre il 6%. La più parsimoniosa di tutti era stata la Germania con il suo incremento contenuto sotto il 3%.
L'invecchiamento della popolazione non basta a giustificare tali balzi, e neppure l'apparizione di costosi medicinali di marca visto che l'incremento della spesa farmaceutica è stato inferiore a tale media. Lo stesso vale per i redditi da lavoro, cresciuti in diversi paesi, ma globalmente di meno. Il vero balzo è stato sui consumi intermedi e soprattutto, si noti, sui “servizi non sanitari”, quali pulizia, forniture energetiche e pasti.
In altre parole, la Sanità ha contribuito all'aggravamento dei costi pubblici per colpe primariamente non sue. Il nodo è perlopiù organizzativo e il quotidiano punta il dito anche su uno degli aspetti meno contestati della struttura contemporanea: il “decentramento” che, specie in Italia e Spagna, “produrrebbe un eccesso di capacità produttiva e favorirebbe la diffusione di comportamenti poco virtuosi” come riporta l’autore dell’articolo citando uno studio dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico).
Poi è arrivato il trauma del 2008. Alcuni paesi, Germania in primis, hanno reagito aumentando la spesa sanitaria. Altri sono stati drammaticamente costretti a tagliare: -0,5% annuo in Italia tra il 2009 e il 2013, addirittura -13,1% in Grecia. L'abbattimento ha riguardato soprattutto le spese per la prevenzione che, tuttavia, è risaputo essere fondamentale per la riduzione dei costi sanitari aggiuntivi per il futuro.
Ma a essere decisivo per il contenimento dei deficit sanitari è stato anzitutto un altro fattore, nota il giornale: “ la promozione dei farmaci generici”. In Italia ha consentito di mantenere i livelli di servizio, e nella virtuosa Germania e in altri paesi dove gli equivalenti sono prescritti più massicciamente, di ampliarlo.
Per approfondire l'argomento:
http://ec.europa.eu/health/reports/docs/health_glance_2014_en.pdf
http://www.oecd.org/publications/fiscal-sustainability-of-health-systems-9789264233386-en.htm
Avete mai sentito parlare di “virus del secolo”? Di certo sì, e più volte. Ebbene, ai fatti tale locuzione è in tutti i casi una sciocchezza, perché i virus sono sempre esistiti, anche quelli peggiori. La ricerca odierna si spinge sempre più indietro nel tempo e apre al contempo spiragli per la comprensione degli scenari patologici futuri.
L’ultima scoperta è del Boston College, in uno studio pubblicato sulla rivista eLife, che ha identificato virus risalenti a oltre 30 milioni di anni fa. Sono stati battezzati ERV-Fc, colpivano gli antenati dei moderni mammiferi e appartengono alla famiglia dei cosiddetti “retrovirus”, la stessa dell’Hiv e delle cellule leucemiche.
''I virus esistono ovunque si trovi la vita e hanno avuto un impatto significativo sull'evoluzione di tutti gli organismi, dai batteri agli esseri umani'' , spiega Welkin Johnson, tra i coordinatori della ricerca. Il problema è che non lasciano “fossili”, sicché è difficile rintracciarne l’origine e l’evoluzione. Il soccorso arriva dalla genetica contemporanea, in grado di trovarne tracce nel Dna.
Nell'analizzare le banche dati esistenti sui mammiferi, è stato dunque identificato il retrovirus. Di più, in base alle sequenze emerse, non solo è stata stimata la sua origine – in un'epoca di drammatici cambiamenti climatici segnati dal raffreddamento che condusse all'era glaciale - ma è stato anche accertato il suo passaggio e le sue mutazioni su 28 diverse famiglie di animali in tutti i continenti, eccetto Australia e Antartide.
La scoperta non è di mero interesse storico. “Questo metodo – auspicano i ricercatori – ci permetterà di capire meglio quando e perché emergono nuovi virus e come impatterà nel lungo termine negli organismi colpiti”.
Siamo attenti, alcuni di noi attentissimi, ai grassi e ai cibi dannosi. E facciamo bene, perché una dieta equilibrata è il fondamento della salute e della “linea”. Da una ricerca australiana emerge, però, un’aggiornata gerarchia tra gli ingredienti “colpevoli”. Se, per esempio, mangiamo una patatina fritta, specie quelle in sacchetto, e sentiamo quell’irresistibile stimolo, quasi la dipendenza, a mangiarne cento, la colpa primaria non sta in oscure alchimie. C’è un indiziato numero uno, ed è banalmente il sale.
I ricercatori dell’Università di Deakin hanno convocato 48 adulti di ambedue i sessi, proponendo loro il medesimo pasto dopo la medesima colazione. Sono state prese in considerazione molte variabili, ma solo una è emersa come determinante. Chi mangiava cibi più salati, a parità di altre condizioni, è risultato aver bisogno di assumere l’11% del cibo in più. Il mistero sarebbe tutto qui: chi mangia più salato ha bisogno di altre calorie aggiuntive e questo, nella quotidianità, fa una differenza cospicua.
Anche nel nostro paese la ricerca ha rilanciato recentemente i rischi di una dieta ricca di sale. Secondo la Società Italiana di Nutrizione Umana, il nostro consumo medio tra gli adulti è stimato in 9 grammi al giorno, contro il tetto massimo dei 5 grammi raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I maggiori picchi si registrano al Sud, tra prodotti da forno, formaggi, salumi e tutti i prodotti confezionati con i loro livelli salini “nascosti”. Le conseguenze? L’aumento del rischio di ictus e malattie cardiache.
Nei giorni scorsi, in occasione della Giornata Mondiale del Rene, il tema è stato rilanciato, a partire dall’infanzia, con tanto di allarme sul fatto che il 7% degli italiani soffre di malattia renale cronica. Di nuovo, in cima al “decalogo” della prevenzione, quando si tratta di alimenti, l’imperativo è la riduzione del sale.
In tutto questo, c’è una curiosità. Nelle sintesi giornalistiche anglosassoni e italiane della ricerca australiana, si fa riferimento al “pacchetto di patatine”. La realtà, che ci coinvolge ancor più da vicino, è che, in realtà, lo studio è stato condotto sulla pasta e su quanto sale ci mettiamo.