Sul quadretto di un “lui” stremato da una banale influenza come fosse travolto da un treno mentre “lei” risponde tuttalpiù rallentando il suo ordinario attivismo c’è molto folklore, stereotipo e letteratura, oltre a qualche lite di coppia. Solo che adesso la letteratura è anche scientifica. La donna reagisce meglio ai malanni di stagione, per le ragioni accertate da una ricercatrice della Johns Hopkins University di Baltimora.
L'annuncio calza a pennello con la stagione delle influenze e le relative previsioni. Quelle dell'Istituto Superiore di Sanità sono stavolta clementi. Si prospetta “un'annata a bassa intensità”, secondo il Direttore del Dipartimento Malattie Infettive Giovanni Rezza, specie in raffronto al picco dell'inverno scorso su cui incise anche il caos vaccini che, seppur poi rientrato, scoraggiò molti ad adottarli. Quest'anno fa meno freddo, almeno per ora (si prospettano però picchi a febbraio e possibili prolungamenti della stagione influenzale), e, rassicurazione ulteriore, nessuna mutazione è riscontrata nei virus, né emerge “alcun allarme” dal nuovo “EAH1N1” isolato in maiali in Cina.
Tutto sotto controllo, dunque, e questo vale soprattutto per le donne. Tecnicamente, il loro vantaggio, spiega la studiosa Sabra Klein, sta negli ormoni. Si è riscontrato cioè che le cellule nasali – le più esposte all'influenza – reagiscono diversamente nelle donne grazie agli estrogeni, i quali agiscono da recettori e riducono la riproduzione del virus, nel proprio corpo e anche verso terzi.
La scoperta rappresenta uno sviluppo di altre ricerche che hanno evidenziato le proprietà antivirali degli estrogeni dinanzi a patologie gravi quali l'Hiv, l'Ebola e l'epatite. Niente generalizzazioni sulla “lady di ferro”, naturalmente, pena cadere nell'opposto stereotipo: esistono patologie in cui è proprio il gentil sesso a risultare più esposto, quali alcune categorie di dolore cronico.
In ogni caso è ora accertato che le donne hanno quest'arma in più. Con quel che rivela per il loro benessere “stagionale”, oltre che per la ricerca, inclusa quella “di genere”.
È la stessa parola a rischiare l’equivoco, nota l’Aifa. “Generico” è il contrario linguistico di “specifico”, evocando minor pertinenza dinanzi al dettaglio del malanno diagnosticatoci dal medico. E siccome “la salute è la prima cosa”, si è pronti ad accettare la spesa di almeno il 20% in più per “la marca”, al remoto dubbio che sia motivata.
L’ultima campagna informativa dell’Agenzia Italiana del Farmaco parte da questo, dalla persistenza dell’equivoco nonostante lo stesso legislatore già dieci anni fa avesse mutato la denominazione del farmaco “generico” in “equivalente”. E nel prendere esplicitamente atto del fallimento delle campagne precedenti, rilancia con un opuscolo accessibile a tutti.
L’equivalenza nella sicurezza ed efficacia terapeutica del “generico” è del resto ribadita dagli organi di garanzia di tutto il mondo. Prima del manuale pubblicato in dicembre dall’Aifa, è stata la “Food and Drug Administration” ad aggiornare il concetto e a documentarlo, oltre che con decenni di ricerche scientifiche, anche con l’identico rigore nei controlli. Così è negli Stati Uniti, così nell’Unione Europea, Italia in primis.
In proposito l’Aifa sottolinea però qualcosa in più. La verifica dell’equivalente, spiega sin dalla prefazione il Direttore Generale Luca Pani, “ si arricchisce della grande quantità di dati aggiuntivi ottenuti dall’uso consolidato del medicinale di riferimento (brand) nel corso degli anni, consentendo di valutare il profilo rischio/beneficio in modo più definito e delineato di quanto sia possibile per qualsiasi nuovo medicinale ”. Dieci anni di sperimentazioni ed eventuali correzioni in più. “In più”, non “in meno”.
La verità ha il riscontro degli ottimi dati globali sul mercato del settore, ma avrebbe il potenziale della dirompenza, anche nel quadro del dibattito quotidiano sui costi pubblici e privati della salute in Italia. Una “sfida culturale epocale”, nelle parole del neopresidente dell’Aifa Mario Melazzini, che dal Corriere della Sera spalanca la breccia: “Promuovere anche negli ospedali l’utilizzo dei medicinali generici e biosimilari”.
Il colesterolo cattivo o LDL potrebbe essere sconfitto grazie a una vaccino specifico.
È quanto sostenuto da uno studio della University of New Mexico e dei National Institutes of Health statunitensi, pubblicato sulla rivista ‘Vaccine’. Gli scienziati - gli stessi che hanno messo a punto il vaccino anti-HPV - usando lo stesso metodo di ricerca, hanno rivelato che la nuova immunizzazione potrebbe ridurre in maniera significativa il colesterolo presente nell’organismo, grazie ad una semplice iniezione. Fino ad ora il vaccino è stato testato solo su topi e scimmie, ma i test hanno dimostrato che è in grado di ridurre il colesterolo cattivo fino al 55% rispetto al 30% delle statine, attualmente utilizzate per la cura della patologia.
Il vaccino, inoltre, può anche essere utilizzato per aumentare l’efficacia di questi farmaci di un ulteriore 40%. Il prossimo passo sarà quello di passare alla sperimentazione sull’uomo: il nostro organismo produce il colesterolo per creare la vitamina D, gli ormoni e alcune molecole necessarie alla digestione, ma se la quantità prodotta è eccessiva, questo oltre a diventare superfluo, ostruisce le arterie e può portare a malattie cardiache o ictus. Il nuovo vaccino agisce su una proteina specifica, la PCSK9, la quale, dato che il colesterolo ha comunque una sua funzione utile per l’organismo, non lo elimina completamente. Ebbene l’immunizzazione andrebbe ad agire proprio su questa proteina-bersaglio, permettendo di eliminare il colesterolo in eccesso. « Visti gli ottimi risultati immunologici avuti con il vaccino anti-Hpv – ha dichiarato Bryce Chackerian, uno degli autori dello studio – abbiamo pensato che potevamo usare la stessa strategia per attivare le difese immunitarie dell’organismo contro la proteina bersaglio PCSK9. Le scimmie hanno ricevuto il vaccino tre volte a intervalli di due settimane e poi un richiamo dopo sei mesi. Il vaccino – conclude – sembra essere efficace per circa 90 giorni».
La sfida per il Servizio Sanitario Nazionale diventa sempre più difficile: con l’allungamento della vita media continua a crescere la domanda di cure e di assistenza. Nel 2030 saranno più di 4 milioni le persone in cattivo stato di salute, e l'Italia si conferma un Paese diviso in due nell’accesso alle prestazioni socio-sanitarie. È la fotografia scatta dal Rapporto 2015 'Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali' di Censis e Unipol, al centro di un convegno domani a Roma. Negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2014, la spesa sanitaria pubblica è diminuita del 3,4% in termini reali. E oggi sono meno del 20% gli italiani che affermano di trovare nel welfare pubblico una piena risposta ai loro bisogni.
Più della metà delle famiglie di livello socio-economico basso - sottolinea il rapporto - è convinta che un eventuale aggravio dei costi per il welfare sarà incompatibile con i loro redditi disponibili. Nelle Regioni del Mezzogiorno l’82,8% della popolazione ritiene non adeguate le prestazioni offerte dal servizio regionale, mentre al Nord-Est e al Nord-Ovest la percentuale scende rispettivamente al 34,7% e al 29,7%.
In questo contesto la spesa privata in Italia è invece poco intermediata. La spesa sanitaria pubblica è pari al 6,8% del PIL del Paese, un valore più basso di quello di Francia (8,6%), Germania (8,4%) e Regno Unito (7,3%). La spesa sanitaria privata ammonta invece al 2% del PIL, un valore inferiore alla media dei Paesi Ocse (2,4%) e al dato di tutti i Paesi europei più avanzati. La quota di spesa privata intermediata da soggetti economici specializzati, come le compagnie assicurative, è pari oggi al 18% del totale della spesa sanitaria privata. Anche prescindendo dal confronto con gli Stati Uniti, che hanno un modello di welfare molto diverso dal nostro (in questo caso sale al 77,7% la quota di spesa intermediata), il dato italiano è molto più contenuto di quello di Francia (67,1%), Germania (44,4%) e Regno Unito (43,6%).
L’elisir di lunga vita potrebbe nascondersi in un vecchio farmaco antidiabetico, da anni disponibile come equivalente.
La metformina, infatti, sarebbe in grado di rallentare, o addirittura bloccare l'invecchiamento e potrebbe permetterci di vivere, mediamente, fino a 120 anni. Ma come è possibile? Grazie a questo farmaco “miracoloso”, utilizzata per trattare il diabete di tipo 2, che, come spiegato nello studio “Metformin improves healthspan and lifespan in mice” pubblicato su Nature Communications, ha effetti benefici su chi ne fa uso. La ricerca sugli animali, infatti, ha mostrato che i topi che la assumono vivono mediamente 8 anni più degli altri e che hanno il 30% di probabilità in meno di ammalarsi di cancro.
I topi sui quali è stato testato per ora il farmaco, con lo scopo di analizzarne le conseguenze sulla durata della vita, hanno vissuto il 40% degli anni in più rispetto ai topi ai quali non è stata somministrata la metformina. Secondo i ricercatori, un dato simile equivale, per noi umani, ad una durata delle vita pari appunto a 120 anni.
Visti i risultati ottenuti sugli animali, la Food and Drugs Administration ha concesso di iniziare i test sugli esseri umani. Il TAME (Targeting Ageing with Metformin ) coivolgerà circa 3.000 persone adulte che rischiano di sviluppare diverse patologie come cancro, problemi cardiaci o Alzheimer. Come previsto dallo studio, alcuni riceveranno il farmaco mentre altri il placebo. Per sapere se la metformina potrà farci vivere davvero fino a 120 anni dovremo però aspettare ancora un po' di tempo, circa 6 anni.
Assumere farmaci antipertensivi alla sera piuttosto che alla mattina riduce la pressione durante la notte e dimezza il rischio di sviluppare il diabete di tipo due. La scoperta è frutto di due studi dell’Università di Vigo, in Spagna, pubblicati di recente sulla rivista Diabetologia.
Nel primo studio i ricercatori mostrano come ridurre la pressione sanguigna nelle ore di sonno diminuisca il rischio di sviluppare il diabete. Nel secondo evidenziano, in particolare, come l’assunzione dell’intera dose quotidiana di antipertensivi prima di andare a letto favorisca una riduzione del rischio di diabete maggiore rispetto a quando si prendono i medicinali al mattino. Oltre 2000 i pazienti non diabetici considerati, suddivisi in due gruppi: antipertensivi al mattino e antipertensivi alla sera. Durante i sei anni in cui sono stati tenuti in osservazione sono stati 171 i soggetti che hanno sviluppato il diabete di tipo due. A sorpresa però quelli del gruppo di assunzione serale hanno potuto godere di una riduzione del 57% del rischio di sviluppare la malattia rispetto ai compagni della somministrazione mattutina.
«In condizioni normali la pressione ha un ritmo oscillatorio con un calo notturno che però viene spesso a mancare nei soggetti ipertesi. I nuovi dati mostrano come l’assunzione serale dei farmaci antipertensivi ripristini il ritmo fisiologico (in particolare il cosiddetto “dipping”) della pressione con ricadute positive nella prevenzione del diabete. Per analogia, con gli antipertensivi accadrebbe un po’ quanto già osservato con le statine (i farmaci contro il colesterolo), rivelatesi più efficaci se assunte alla sera» sintetizza Carlo Giorda, past-president dell’Associazione Medici Diabetologi e Direttore della Struttura Complessa di Malattie Metaboliche e Diabetologia della ASL 5 di Torino. In particolare, i ricercatori spagnoli hanno evidenziato che nel gruppo di assunzione serale il fenomeno del “non dipping”, cioè del mancato calo pressorio notturno, si verificava solo nel 32% dei casi contro il 52% osservato in chi assumeva i farmaci al mattino. Per quanto riguarda gli effetti delle diverse classi di farmaci antipertensivi i nuovi dati mostrano che la riduzione maggiore del rischio di diabete si ha con la somministrazione serale di Ace-inibitori (69%), beta-bloccanti (65%) e inibitori del recettore dell’angiotensina (61%), principi attivi, disponibili come farmaci generici, che modulano o bloccano gli effetti dell’angiotensina II, un ormone responsabile di vasocostrizione (aumento della pressione sanguigna) che contribuisce anche ad aumentare il rilascio di glucosio da parte del fegato e a ridurre la sensibilità all’insulina.
Crescono i casi di influenza in Italia, soprattutto tra i bambini: secondo le stime più aggiornate del rapporto Influnet - Rete Nazionale di Sorveglianza Influenza, coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) il numero di casi stimati nella settimana dal 30 novembre al 6 dicembre è stato pari a circa 61.000, per un totale, dall'inizio della sorveglianza, di circa 378.000 casi.
«Ma il vero picco epidemico è previsto proprio nelle settimane dopo le feste. È bene ricordare che nel caso l'influenza ci metta a letto, ci sono alcuni farmaci a disposizione per alleviarne un poco i sintomi anche se la malattia è destinata a fare il suo corso. No quindi ad un abuso o ad un uso inutile dei farmaci, soprattutto senza controllo medico», dice Giovanni Rezza, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell'Istituto Superiore di Sanità.
«In realtà - precisa Rezza - al di fuori del periodo di picco dei contagi (come in questo momento) la maggioranza dei casi riportati non è vera influenza, ma si tratta di sindromi parainfluenzali; solo nella fase del picco la maggioranza dei casi con sintomatologia influenzale è riferibile ai virus dell'influenza veri e propri». Dal rapporto emerge anche che l'attività dei virus influenzali è ancora bassa: il livello di incidenza in Italia è pari a 1,01 casi per mille assistiti.
«È bene ricordare che l'influenza è una malattia che si 'autolimita', e cioè tende a risolversi spontaneamente in 3-5 giorni - spiega ancora Rezza - quindi non c'è granché da fare per combatterla se non attendere che faccia il suo corso. Se i sintomi sono particolarmente fastidiosi e la febbre è alta va assunto un antipiretico. In genere - aggiunge Rezza - si consiglia il paracetamolo perché l'aspirina può dare effetti collaterali, specialmente nei bambini». In proposito uno studio ha confermato che non serve aggredire troppo la febbre con questo farmaco, nella speranza di contenere così l'influenza. «Per gli adulti- rileva l'esperto - c'è la possibilità di prendere anche aspirina, ma non vi sono differenze dimostrate nell'utilizzo di un farmaco piuttosto che un altro. Ci sono anche dei farmaci diversi, i cosiddetti 'inibitori della neuroamidasi' (antivirali veri e propri) - continua Rezza - ma anche questi riducono di poco i sintomi e abbreviano poco il decorso della malattia, e comunque non sono raccomandati se non in casi eccezionali di persone ad alto rischio di complicanze».
Va anche ricordato che in corso di influenza non si danno antibiotici, ma questi possono essere prescritti in seguito e solo qualora comparissero complicanze di tipo batterico.
Il 1 dicembre, come di consueto l’Oms ha celebrato la Giornata mondiale di lotta contro l’Aids. Per l’occasione il Centro operativo Aids dell’Iss ha pubblicato i dati relativi alla situazione epidemiologica dell’infezione da HIV in Italia al 31 dicembre 2014.
Lo scorso anno sono state segnalate 3695 nuove diagnosi di infezione da Hiv, erano 3811 nel 2013, ma il numero potrebbe aumentare a causa del ritardo di notifica. Il numero di nuove infezioni definisce una incidenza di 6,1 nuovi casi di Hiv positività ogni 100.000 residenti, dati che collocano l’Italia al 12mo posto per l’incidenza tra le nazioni dell’Unione europea.
I dati europei, pubblicati dall’Ecdc (European center for disease prevention and control), riferiscono che nel 2014 i 31 Paesi della regione europea hanno segnalato quasi 30 mila nuove diagnosi di Hiv.. Rispetto al 2005 il tasso di nuove diagnosi è passato 6,7/100 mila abitanti a 6,4 nel 2014. Il primo dicembre, il “Telefono Verde Aids e Infezioni sessualmente trasmesse” sarà attivo oltre l’orario consueto fornendo supporto dalle 10.00 alle 18.00: a livello nazionale attraverso il numero 800.861061, e a livello internazionale attraverso il contatto Skype “uniticontrolaids”.
Gli esperti dell’istituto superiore di sanità avvertono: “Anche se diminuiscono i casi di Aids conclamato e la mortalità per Aids, il fatto che permangano da anni circa 4000 nuove infezioni all’anno testimonia da una parte la necessità di mantenere alta la guardia contro il virus e dall’altra di condurre più campagne informative dato che in molti casi le persone non sanno di essere sieropositive e al momento della diagnosi si trovano in una fase tardiva di infezione”.
Va comunque ricordato che grazie agli avanzamenti nell’efficacia dei farmaci (disponibili anche come equivalenti) l’infezione da Hiv da malattia acuta e quasi sempre mortale come era negli anni ’80 si è trasformata in malattia cronica.
Pazienti e aziende farmaceutiche insieme per la concorrenza. Un’alleanza probabilmente inedita in un settore, come quello farmaceutico, dove ai pazienti viene riservato al massimo un ruolo di partner consapevole della scelta terapeutica.
Prezzi, regole, modalità di acquisto e quant’altro riguarda la vita economica e commerciale di un farmaco, con tutte le connessioni che questi elementi hanno con le dinamiche della sostenibilità della spesa sanitaria pubblica, non vedono il paziente come protagonista e attore delle scelte da adottare per coniugare qualità, accessibilità e risparmi.
In questo caso però, un’associazione di pazienti impegnata da anni su diversi fronti di intervento come Donne in Rete e un’associazione industriale come Assogenerici nella sua componente dei farmaci biosimilari (Italian Biosimilar Group) hanno rotto gli indugi e hanno intrapreso una fitta attività di studio per portare sul tavolo dei decisori istituzionali una proposta originale e innovativa per risolvere uno dei nodi del mercato dei biosimilari: quello delle gare di acquisto da parte delle regioni, oggi contraddistinte da regole e prassi estremamente diversificate. Con ripercussioni negative sia per l’accessibilità a questi farmaci sia per la garanzia di libertà prescrittiva dei medici in un’ottica di sostenibilità del sistema di tutela della salute. Attraverso il lavoro di analisi e dialogo con le diverse istituzioni interessate (Parlamento, Governo, Regioni, Aifa, Authority, Industria) e la comunità scientifica, è stata messa a punto una proposta legislativa lineare e praticabile per la regolamentazione delle gare regionali di acquisto dei farmaci biotecnologici a brevetto scaduto, con l’obiettivo primario di garantire l’effettiva concorrenza tra i prodotti originator e biosimilari, mantenendo comunque la libertà di scelta del medico sul farmaco da prescrivere in base alle sue autonome valutazioni cliniche.
Secondo simulazioni statistiche su dati di mercato e sulla base degli indicatori contenuti nei bandi di gare già svolti nelle diverse regioni italiane, si valuta che in un sistema di gare dove la concorrenza sia garantita realmente gli ospedali del SSN potrebbero risparmiare, già oggi, circa 100 milioni l’anno.
Una cifra destinata a salire già a 500 milioni l’anno, nel prossimo futuro quando andranno a scadenza brevettuale numerosi biotecnologici in aree terapeutiche importanti come l’oncologia, la leucemia, il diabete, le malattie autoimmuni. Per questi farmaci il SSN spende ogni anno circa 1,5 miliardi: i risparmi a portata di mano ammontano quindi ad un terzo della spesa.
Asma e broncopneumopatia cronica (Bpco) sono in costante aumento, la prevalenza della prima è passata dal 3,6% del 2005 al 7,1% del 2013 e la Bpco dal 2% al 3,3%. «In Italia le malattie respiratorie, dopo quelle cardiovascolari e neoplastiche, sono la terza causa di morte e, anche inconsiderazione dell’invecchiamento della popolazione, sono destinate ad aumentare con costi diretti e indiretti sempre più elevati» spiega Walter Canonica, direttore della Clinica di allergologia e malattie dell’apparato respiratorio dell’Università di Genova.
Il primo “trattamento” consigliato per queste patologie polmonari croniche consiste in un cambiamento delle abitudini di vita: smettere di fumare - le sigarette sono la causa più frequente di Bpco - e aumentare l’esercizio fisico, ma ci sono anche cure efficaci, il guaio, come ricorda sempre Walter Canonica, è che «spesso le malattie respiratorie non sono trattate in modo adeguato e uno dei principali problemi sta nella scarsa aderenza alle terapie da parte dei pazienti». Un problema comune a tutte le patologie croniche.
Secondo i dati di una recente revisione della Cochrane Collaboration (ente di ricerca indipendente per la valutazione della ricerca scientifica) solo metà dei pazienti prende i farmaci in modo corretto e continuativo. E uno studio della Società Italiana di Medicina Generale conferma il dato: dopo il primo anno di cure, solo la metà dei pazienti con patologie croniche, e senza un immediato rischio per la salute, prende ancora con regolarità i farmaci prescritti. L’aderenza al trattamento farmacologico nel caso specifico dell’asma è nella media dell’11,2 % e del 27,9 % per la Bpco (Rapporto nazionale Osmed, Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali, 2014).
Percentuali così basse sono dovute, secondo gli esperti, sia a un possibile uso scorretto dei farmaci, sia al fatto che nelle fasi iniziali dell’asma – di fronte ad episodi esclusivamente acuti - è previsto il ricorso ai medicinali solo al momento dell’attacco. Che consigli dare a chi soffre di patologie croniche? Innanzitutto chiedere un trattamento farmacologico “personalizzato” basato su osservazioni costanti che tengano conto di peggioramenti ma anche di eventuali miglioramenti; se il timore è quello di effetti collaterali dei farmaci non sentirsi imbarazzati nel chiedere al medico di essere aiutati a “interpretare” i foglietti illustrativi e “auto-aiutarsi” con farmaci di più facile utilizzo, che possono semplificare la posologia “unificando” la somministrazione di principi attivi diversi e siano in grado di dosare l’esatta quantità di farmaco somministrato.
La Commissione Europea ha pubblicato il documento ‘A Single Market Strategy for Europe - Analysis and Evidence’, che comprende la proposta di concedere a tutta l'industria farmaceutica europea di farmaci generici la possibilità di produrre medicinali ancora protetti dal certificato di protezione complementare purché destinati all’esportazione in paesi in cui il brevetto non esiste o è già scaduto o per lo stoccaggio su scala industriale destinato all'immissione in commercio alla scadenza del brevetto.
A oggi le case europee, a cominciare da quelle italiane che vogliono sviluppare l'export, sono costrette ad affidare la produzione a impianti collocati fuori dall’UE, con le conseguenze immaginabili sul piano occupazionale e sul PIL dei paesi dell’Unione. «Implementare la strategia della Commissione Europea è una misura che potrebbe rilanciare la domanda, aumentare l’occupazione qualificata e rendere sostenibile nel tempo la produzione farmaceutica di tutta Europa, e che non richiede né sovvenzioni né sconti fiscali» ha dichiarato Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici. «Mi sembra necessario che l’Italia usi il suo peso all’interno dell’Unione Europea perché questo nuovo schema venga adottato, non soltanto limitatamente a questo aspetto, ma anche per tutta la tematica dei brevetti. Riuscire ad avere una regolazione a livello sovranazionale darebbe certezze a tutto il comparto del farmaco».
Per Adrian van den Hoven, direttore generale dell’European Generic medicines Association, «l’industria europea del farmaco equivalente e del biosimilare potrebbe trovarsi nelle condizioni di creare molti posti di lavoro in più e di aumentare l’accesso dei pazienti a medicinali di alta qualità. Ma perché questo si realizzi l’UE deve adottare rapidamente la strategia delineata nel documento della Commissione». Senza trascurare, conclude Häusermann, «che poter contare su una produzione più basata localmente permetterebbe ai generici di entrare rapidamente in commercio anche nei paesi UE alla scadenza del brevetto, con un ulteriore risparmio per i servizi sanitari che la stessa Commissione ha stimato nel 20% circa della spesa attuale».
Sono due uomini e una donna i vincitori del Nobel per la Medicina 2015: l’irlandese William C. Campbell, il giapponese Satoshi Omura e la cinese Youyou Tu. I primi due sono stati premiati per le loro ricerche contro i nematodi, parassiti responsabili di diverse infezioni, la dottoressa Tu per aver scoperto nel 1972 una nuova terapia contro la malaria, l’artemisinina, oggi l’antimalarico più usato al mondo. La scienziata cinese è la dodicesima donna a ricevere il Nobel per la Medicina: la prima è stata Gerty Cori nel 1947. I candidati al Nobel per la Medicina (tradizionalmente il primo dei premi assegnati ogni anno) erano 327, di cui 57 nominati per la prima volta. L’ammontare del premio è di 8 milioni di corone svedesi, ovvero 855mila euro, da dividere fra i tre scienziati.
"Accetto umilmente il premio, è un giorno molto felice" sono state le prime parole di Satoshi Omura. "Ci sono molti ricercatori che hanno ottenuto moltissimi risultati. Il mio lavoro non è stato condotto pensando che avrei vinto un Nobel – ha aggiunto - ma sono stato fortunato. E sono molto contento che quello in cui ho creduto si sia rivelato corretto", afferma. Omura ha ricordato un aneddoto riguardo all’origine degli studi che gli sono valsi il massimo riconoscimento scientifico: teatro della sua scoperta è stato «un campo da golf sul mare, fra erba, sabbia e legno», dove il ricercatore ha trovato il microrganismo che è alla base del farmaco rivelatosi in grado di ridurre l’incidenza delle due gravi parassitosi.
Il Nobel assegnato è un premio alla lotta contro le malattie della povertà, che colpiscono centinaia di milioni di persone ogni anno. Le ricerche sulle infezioni provocate da parassiti condotte da Campbell e Omura hanno infatti permesso di mettere a punto nuove armi contro malattie (come la cecità fluviale e la filariasi linfatica) che affliggono un terzo della popolazione mondiale, concentrata in Africa sub-sahariana, Sud Asia e Centro-Sud America. La cinese Tu ha dato un enorme contributo alla lotta contro la malaria. “Quest’anno i premi Nobel sono andati a personalità che hanno sviluppato terapie che hanno rivoluzionato la cura di alcune delle malattie parassitarie più devastanti”, si legge in una nota del Karolinska Institutet di Stoccolma, che assegna i riconoscimenti. “Due scoperte - rileva il comitato dei Nobel - che hanno fornito all’umanità nuove armi per combattere malattie debilitanti: le conseguenze in termini di miglioramento della salute umana e di riduzione della sofferenza sono «incommensurabili». Dopo decenni di progressi limitati nello sviluppo di terapie efficaci contro malattie come la cecità fluviale, la filariasi linfatica e la malaria, le scoperte degli scienziati insigniti del premio Nobel 2015 hanno cambiato radicalmente la situazione”.
I farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) hanno dimostrato di inibire l'ovulazione e ridurre i livelli di progesterone nelle donne giovani e questo potrebbe ridurre la fertilità. Sono le conclusioni di una recente ricerca presentata al congresso dei reumatologi europei (Eular).
"I FANS, che sono ampiamente usati e possono essere acquistati senza prescrizione medica, impediscono la maturazione del follicolo ovarico provocando il mancato rilascio dell'ovulo nelle donne che li stanno assumendo", ha spiegato Sami Salman, dell'Università di Baghdad. Anche se "questo processo è reversibile, i medici devono consigliare alle donne di interrompere l'assunzione di questi farmaci, se vogliono essere fertili", ha dichiarato l'esperto a Medscape Medical News.
Salman e colleghi hanno valutato 39 donne in età fertile seguite in una clinica reumatologica perché affette da mal di schiena. Le donne sono state assegnate a uno dei quattro regimi di trattamento: diclofenac 100 mg/die, naprossene 500 mg due volte al giorno, etoricoxib 90 mg/die, o placebo. Prima di iniziare il trattamento, ogni donna ha fatto un'ecografia per valutare il diametro del follicolo dominante, le dimensioni dell'ovaio, e lo spessore endometriale. Nel corso della ricerca sono stati misurati anche i livelli di progesterone, che si abbassano a causa dei FANS, poiché è essenziale per l'ovulazione e l'impianto di un embrione fecondato.
“I trattamenti sono stati avviati il decimo giorno del ciclo della donna al fine di garantire che vi fosse un follicolo in via di maturazione” - ha chiarito Salman. Dopo 10 giorni consecutivi di trattamento, le donne sono state sottoposte un'altra ecografia per valutare l'effetto della terapia. "Per quelle che assumevano diclofenac, l'ovulazione è stata ridotta di un sorprendente 93%, mentre per entrambi naprossene e etoricoxib, l'ovulazione è stata ridotta di circa il 75%" - ha chiarito lo scienziato.
Dopo 10 giorni di utilizzo continuo dei FANS, c'è stata una significativa diminuzione del progesterone. I ricercatori sono stati in grado di convincere circa la metà delle donne a tornare il mese successivo per la valutazione dell'ovulazione.
Dopo l'interruzione dei FANS, tutte le donne "hanno ovulato normalmente durante il ciclo successivo", ha riferito il ricercatore. "Questo ci ha convinto che gli effetti anovulatori dei FANS sono reversibili. Tuttavia, questi risultati evidenziano gli effetti che i FANS possono avere sulla fertilità, e – ha aggiunto - potrebbero anche aprire la porta per la ricerca sulla nuova contraccezione d'emergenza con un profilo di sicurezza più favorevole di quella attualmente in uso".
"I farmaci contro la disfunzione erettile acquistati al mercato clandestino non hanno effetti, perché spesso non contengono neanche una percentuale minima del principio attivo e portano effetti collaterali non controllati". Questo l'allarme lanciato da Paolo Verze, responsabile scientifico del Simposio "Keeping men healthy", tenutosi a Napoli.
A margine del convegno, organizzato dalla Fondazione Menarini, Verze ha commentato i dati dell'Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) secondo cui cresce in Italia il mercato dei farmaci illegali, che vede in testa proprio le "pillole dell'amore". "Nel mercato della terapia erettile - spiega Verze - c'è sempre stato il problema dell'autoprescrizione, anche perché molti uomini vivono in modo ludico questi prodotti. A questo si è aggiunto un mercato illegale di contrabbando, come testimoniano i dati di molte polizie europee che spiegano come il traffico clandestino che prima era solo di sostanze stupefacenti o sigarette è stato in buona parte sostituito da quello dei farmaci per la disfunzione erettile. Chi li acquista - conclude Verze - lo fa per un risparmio economico e per by-passare l'acquisto in farmacia che crea un imbarazzo o addirittura un blocco psicologico per l'uomo. Ma acquistarli al mercato nero o online è un rischio molto forte".
La disfunzione erettile comunque non deve essere sottovalutata, anche perché potrebbe essere spia di una malattia cardiaca.
"Già nel 2003 uno studio condotto al San Raffaele dimostrò che circa il 70 per cento dei pazienti maschi giunti in pronto soccorso per un infarto cardiaco soffrivano di disfunzione erettile e che nella maggior parte di questi casi i problemi di difficoltà nell’erezione erano insorti mediamente tre anni prima dei sintomi cardiaci”, spiega il professor Francesco Montorsi, primario dell’Unità di Urologia e Direttore Scientifico dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. "In tutti i pazienti che oggi lamentano difficoltà nell’ottenere o mantenere l’erezione e che abbiano uno o più dei seguenti fattori di rischio associati (età superiore ai 50 anni, diabete mellito, fumo, ipertensione arteriosa) – aggiunge Montorsi - si raccomanda di eseguire la visita specialistica cardiologica con elettrocardiogramma sotto sforzo”.
Uno stile di vita sano e corretto è fondamentale per la nostra salute. E questo è ancora più vero soprattutto nelle fasi della vita più delicate, come la gravidanza. A questo tema il Ministero della Salute ha voluto dedicare un doppio appuntamento, nello Spazio Donna di Padiglione Italia a Expo: il primo per affrontare il tema della sicurezza nutrizionale, il secondo per approfondire il tema del diabete durante la gestazione.
"In gravidanza - ha spiegato Alberto Mantovani, esperto dell'Istituto Superiore di Sanità - l'alimentazione deve essere equilibrata, ricca di vitamine e minerali essenziali. In particolare, quando si programma la gravidanza e nei primi 3 mesi la supplementazione con acido folico, che è una delle varie vitamine B, è importante per prevenire alcune gravi malformazioni, soprattutto del sistema nervoso. Ed è ancora più efficace se integrata da una dieta varia, ricca di verdura e frutta contenenti folati". Seguire la dieta mediterranea, sottolinea il Ministero, riduce la frequenza di bimbi nati con la spina bifida, con malformazioni congenite del cuore, del labbro e del palato. Inoltre, una corretta alimentazione, si legge, "aiuta a portare avanti la gravidanza nei migliori dei modi riducendo il rischio di parto pretermine e diabete gestazionale".
Proprio il diabete in gravidanza è una patologia in crescita, a causa della sedentarietà delle gestanti, di scorrette abitudini alimentari o per l'innalzamento dell'età media delle donne incinte. I responsabili di Diabetologia dell'Ospedale Niguarda di Milano, della Società Italiana di Medicina Generale e dell'Ospedale di Vimercate hanno allora illustrato come "una corretta alimentazione è condizione indispensabile a garantire un buon esito della gravidanza, attraverso un adeguato incremento del peso corporeo e una buona condizione nutrizionale. Tutti strumenti necessari per soddisfare le richieste energetiche materne e fornire al feto i nutrienti indispensabili per il suo sviluppo".
In gravidanza è quindi consigliata un'alimentazione varia ed equilibrata, che includa ogni giorno i diversi gruppi di alimenti: “almeno 5 porzioni di frutta e verdura - concludono gli esperti - farinacei come pasta, pane, riso, patate, proteine derivate da carne, pesce, legumi, abbondanza di fibre derivate da pane integrale, frutta e verdura, prodotti caseari come latte, formaggi, yogurt".
Il crepacuore, che colpisce 9 volte su 10 le donne, esiste, ha un nome e uccide come l'infarto. Ricercatori dell'Istituto di Cardiologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico A. Gemelli di Roma hanno scoperto che la questo misterioso attacco di cuore, noto come sindrome di Takotsubo (oppure cardiomiopatia da stress), non è purtroppo benigna come ritenuto finora, ma può arrivare a tassi di mortalità simili a quelli dei pazienti ricoverati in ospedale per infarto (5%). La scoperta è frutto di uno studio appena pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine che arriva la vigilia della giornata mondiale per il cuore.
Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale e per l'Italia ha coinvolto un gruppo di ricercatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore guidato dal professor Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, e dalla dottoressa Leda Galiuto, professore presso lo stesso Dipartimento. Fra le università e i centri internazionali coinvolti nello studio la Mayo Clinic di Rochester, l'Università di Zurigo e l'Oxford University.
La sindrome si manifesta come un infarto, con sintomi quali dolore al petto o affanno improvviso, si associa ad alterazioni dell'elettrocardiogramma, ma al momento della coronarografia d'urgenza, eseguita nel sospetto di infarto miocardico, le coronarie risultano sorprendentemente normali, senza stenosi (restringimento). Il cuore, però, mostra una alterazione della forma, che diventa a palloncino, a simulare appunto il vaso (tsubo) che usano i giapponesi per raccogliere i polipi (tako). La terapia di questa strana sindrome si basa sull’impiego di farmaci prevalentemente attivi contro lo scompenso cardiaco, che sono tutti disponibili anche come farmaci equivalenti
Febbricola, naso che cola, mal di gola, spossatezza. Circa 60 mila italiani alla settimana fanno i conti con i malanni autunnali, colpiti da virus 'cugini’ dell'influenza. A favorire queste infezioni gli sbalzi climatici marcati di questo periodo, spiega Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano, sottolineando che l'influenza vera e propria è ancora lontana e "dovrebbe arrivare per Natale".
"Siamo ancora in attesa di sapere come è andata l'epidemia nell'emisfero australe - aggiunge - ma ci aspettiamo una stagione media, con 4-5 milioni di casi. Il virus influenzale è ancora quello dello scorso anno H1N1. C'è poi una mutazione svizzera H3N2 e una variante di tipo B che arriva dalla Thailandia. Non ci sarà molta differenza rispetto alla stagione passata. Ma il clima sarà cruciale: se sarà rigido i casi potranno essere di più".
Intanto in occasione della campagna di informazione "l'Influenza che verrà #previenila", lanciata e promossa da Moige (Movimento Italiano Genitori Onlus), Amiot (Associazione Medica Italiana Di Omotossicologia) e Sipps (Società Italiana Di Pediatria Preventiva E Sociale), gli esperti ricordano le sette regole d’oro per prevenire l’influenza: lavare spesso le mani con acqua e sapone; riparare bocca e naso quando si tossisce o starnutisce e non toccare occhi, naso e bocca; evitare il fumo attivo e passivo; seguire sempre uno stile alimentare sano che preveda cibi ricchi di vitamina C; rimanere a casa quando si manifestano i primi sintomi dell'influenza ed evitare luoghi affollati quando i casi di malattia sono molto numerosi. Infine, vaccinarsi: il medico di famiglia e il pediatra sono le persone più indicate a cui rivolgersi.
Tra gli strumenti un sito (www.previenila.it), un numero verde già attivo (800385014) per informazioni e materiale informativo distribuito nelle farmacie e negli studi medici. "Insieme al mondo medico - aggiunge poi Maria Rita Munizzi, presidente nazionale Moige - sarà creato anche un Osservatorio Influenza per informarci sui periodi di picco influenzale". L'Osservatorio sarà guidato da Fabrizio Pregliasco. "Nella prevenzione dell'influenza la vaccinazione è la strategia raccomandata, insieme alle buone norme igieniche”, ribadisce l’esperto.
Una maglietta hi-tech per sconfiggere la depressione. Si chiama Nevermind ed è un progetto finanziato con cinque milioni di euro dalla Commissione Ue. Il dispositivo, frutto della collaborazione tra Università di Pisa, Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana (AOUP) e centro di ricerca Enrico Piaggio, è in grado di monitorare i segnali fisiologici dell'organismo associati all'insorgenza della depressione e di utilizzarli per il trattamento di pazienti con malattia psicosomatica.
La T-shirt “anti-depressiva” studierà gli effetti della mindfulness, una tecnica basata sulla meditazione orientale affermatasi nel trattamento della depressione all'interno delle terapie cognitivo-comportamentali più moderne.
"La depressione - spiega Pietro Pietrini, dell'Unità operativa di Psicologia clinica dell'AOUP - si accompagna a una moltitudine di cambiamenti nei parametri fisiologici che, per quanto talvolta possano anche non essere percepiti dal paziente, sono misurabili e rappresentano uno strumento efficace per seguire il decorso della malattia e gli effetti della terapia attraverso il linguaggio del corpo".
Il progetto Nevermind, sottolinea lo psicologo clinico Claudio Gentili, consentirà di "studiare pazienti nefropatici a Pisa, oncologici a Torino, cardiopatici e amputati in Portogallo e i comportamenti e la prevenzione del suicidio in Svezia. In questo modo - aggiunge - potremmo avere un'ampia gamma di pazienti diversi e tentare di definire le basi psicofisiologiche comuni e condivise delle reazioni psicologiche depressive, indipendentemente dal tipo di patologia in cui si verificano".
Il “male oscuro”, come è stata definita la depressione, rappresenta una delle patologie psichiatriche più diffuse e in crescita. La scoperta che nelle persone depresse esiste una minore presenza di alcune molecole utilizzate dalle cellule del cervello per “dialogare”, in particolare la serotonina e la noradrenalina, ha permesso di sintetizzare farmaci, disponibili come equivalenti, che, aumentando i livelli di queste molecole, permettono, insieme alle terapie psicoanalitiche, di ritornare a una vita piena e positiva.
Il consumo di sale cambia da regione a regione in Italia. E con esso anche l’impatto che ha sulla salute cardiaca delle persone. È questo il risultato di una ricerca pubblicata sulla rivista di settore British Journal of Medicine. Che ci indica come ad influire sulla nostra salute, anche se non viene adeguatamente percepito, concorrano anche le differenze economiche e sociali.
L’Italia in questo caso sembra quasi divisa in due: il Nord ed il Centro da una parte ed il Meridione dall’altra, in base alla scolarizzazione ed alla ricchezza. Ed è quest’ultimo a far registrare un consumo di sale molto più alto con le relative conseguenze. Questo minerale, se utilizzato in eccesso, può causare ritenzione idrica e tutta una serie di disturbi tra i quali pressione alta e scompensi elettrolitici.
I dati sono stati raccolti nell’ambito del Programma MINISAL-GIRCS e dimostrano come nelle regioni del Sud il consumo di sale sia pari a 11 grammi circa a persona rispetto ai valori del resto di Italia, inferiori ai 10 grammi. Questo comportamento alimentare ha forti ripercussioni sulla salute, mettendo come già anticipato le malattie cardiache in prima linea: “Questo studio ci fornisce indicatori importanti per la costruzione di strategie mirate di informazione e prevenzione delle malattie cardiovascolari e va nella direzione auspicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che indica proprio nella riduzione del consumo di sale alimentare uno degli obiettivi prioritari di queste strategie”, commenta Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
A differente consumo di sale corrispondono incidenze diverse di ipertensione e rischi cardiovascolari. Analizzando il rapporto sodio-potassio nel campione studiato, composto da 3857 donne e uomini di età compresa tra i 39 ed i 79 anni, è stato possibile verificare come ad alti valori di sodio corrispondessero bassi valori di potassio, una situazione non ideale a livello cardiovascolare. Come risolvere il problema? Consumando meno sale e mangiando più frutta. Nei casi tuttavia in cui la pressione troppo alta del sangue non diminuisca dopo adozione di uno stile di vita idoneo, è necessario avviare una terapia farmacologica con preparati oggi disponibili come farmaci equivalenti efficaci e accessibili a tutti.
Ogni 3 secondi, nel mondo, una persona si ammala di demenza, e l'Alzheimer è la forma più comune perché rappresenta il 60% di tutti i casi. A livello planetario i casi sono oltre 46 milioni, una situazione che andrà a peggiorare nei prossimi anni, visto che le stime ne prevedono 74,7 milioni nel 2030 e 131,5 milioni nel 2050.
Nel nostro Paese le persone con demenza saranno ben 1.609.000 nel 2030 e 2.272.000 nel 2050. Oggi nel nostro paese si contano un milione e 240 mila malati, come rivelano i dati del Rapporto mondiale Alzheimer 2015. "Considerando l’anno in corso, i nuovi casi sono 269.000 e i costi ammontano a 37,6 miliardi di euro - spiega Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia. Alla luce di queste numeriche, chiediamo al governo di mettere in atto il Piano nazionale demenze, assegnandogli i finanziamenti adeguati per supportare concretamente i malati e le loro famiglie".
L'Alzheimer è un processo degenerativo che colpisce le cellule cerebrali, provocando il declino progressivo delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità. Eppure molto può essere fatto, anche grazie alle tecnologie, per aiutare le famiglie di chi ha perso la memoria a causa di questa patologia. In occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer, celebrata il 16 settembre, al Ministero dell'Interno è stato sottoscritto un protocollo di intesa tra il dicastero, il Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse Vittorio Piscitelli e i Ministeri della Salute e del Lavoro. Lo scopo è quello di potenziare gli strumenti per ritrovare le persone scomparse affette da gravi patologie neurodegenerative, mediante l'uso di sistemi di geolocalizzazione, in collaborazione con le sale operative delle Forze dell'Ordine. Concretamente, il progetto si fonda su un dispositivo elettronico, che dovrebbe costare tra i 100 e i 150 euro, in grado di avvertire la centrale di controllo nel momento in cui un malato si allontana dal perimetro definito con i familiari o con chi lo ha in cura. Se i primi tentativi di rintracciarlo dovessero fallire, il centro di monitoraggio un alert alle forze di polizia. Il progetto risponde a un'emergenza sociale, perché spesso la malattia porta i malati ad allontanarsi dal proprio domicilio con il rischio di perdersi e di mettere a repentaglio la propria vita. I malati potranno essere dotati, nelle fasi iniziali della patologia, del dispositivo da portare al collo o alla cintura che consente di rintracciarli attraverso l'allarme generato dal sistema di controllo.
La tecnologia dunque in aiuto dei malati, ma anche dei medici che devono diagnosticare precocemente la malattia. "La ricerca ha fatto importanti passi avanti - spiega Vincenzo Di Lazzaro, direttore dell'Unità operativa di Neurologia del Campus Bio-Medico di Roma - grazie soprattutto all’analisi di sostanze presenti nel liquido cefalorachidiano, di marcatori genetici, di tecniche avanzate di risonanza magnetica e di esami come la PET con cui si può studiare il metabolismo cerebrale".
Nuove tecniche d'indagine neurofisiologica consentono inoltre di studiare la funzione di particolari gruppi di cellule all'interno del cervello umano in maniera non invasiva, registrando gli effetti prodotti dalla stimolazione di specifiche aree cerebrali mediante campi magnetici. "Nel nostro istituto - aggiunge Di Lazzaro - è in corso un progetto di ricerca il cui obiettivo è riuscire a diagnosticare precocemente e con bassi costi la malattia. Alcuni protocolli d'indagine consentono di misurare l'attività di particolari cellule cerebrali, la cui funzione è compromessa in maniera specifica nell'Alzheimer rispetto ad altre forme di demenza". Tutto ciò nella speranza di trovare cure efficaci che possano affiancarsi alle terapie farmacologiche. Ma nel frattempo è indispensabile garantire un aiuto ai malati di Alzheimer e a chi si prende cura di loro. Secondo Patrizia Spadin, presidente dell'Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA) “Le celebrazioni, come la Giornata Mondiale, sono inefficaci, servono i fatti. Venti o trenta anni fa era fondamentale, per far conoscere il problema, denunciare i numeri della prevalenza e dell'incidenza, descrivere la patologia. Ma oggi no. I problemi sono altri: il taglio previsto di 3 miliardi e mezzo in sanità, l’insufficiente finanziamento di 400 milioni al Fondo nazionale per la non autosufficienza, il mancato adeguamento dei Lea, l'Isee che considera fonte di reddito la pensione di invalidità e l'indennità di accompagnamento, i tagli locali ai servizi territoriali".