La storia è affascinante non solo perché ci fa viaggiare nel passato, ma perché ci dice da dove veniamo e ci può insegnare qualcosa su dove dovremmo andare, anche sul piano della nostra salute. Un’importante suggestione in proposito arriva da una ricerca medica italiana sui Cavalieri Templari. Ebbene, vivevano il doppio dell’aspettativa media di vita del periodo, e forse oggi sappiamo perché.
L’indagine, pubblicata sulla rivista scientifica Digestive and Liver Disease, è stata condotta su documenti storici dell’epoca. Si chiama “ La dieta di Cavalieri Templari: il loro segreto di longevità?” Il dato di base è che centinaia di Templari vissero fino ai 70 anni e più, mentre la media dell’epoca – il Basso Medioevo, a partire da un millennio fa – non superava mediamente i 30.
Ora, a prima vista, si potrebbe banalmente pensare che dietro a quell’enorme scarto incidesse una differenza di ceto: i Cavalieri erano curati meglio della plebaglia medievale. Forse un po’ è così, ma solo in minima parte, per la semplice ragione che le classi agiate avevano abitudini tutt’altro che salubri. Non disdegnavano l’obesità, simbolo appunto di ricchezza, ed eccedevano nel consumi di carne e grassi, con conseguenze ad esempio sul dilagare della gotta, colesterolo alto e diabete mellito.
La realtà, invece, è che erano semplicemente più attenti a mangiare meglio. La loro dieta era calibrata, assomigliando parecchio all’odierna Mediterranea e “mirava a combattere proprio quelle patologie”, nota il coordinatore della ricerca Francesco Francesci, Direttore di Medicina d’urgenza al Policlinico Gemelli di Roma: un consumo moderato di carne (due volte a settimana), tanti legumi, potenti probiotici (tre volte a settimana), molto pesce e frutti di mare, olio d’oliva e agrumi (antibatterici) in gran quantità. Alla dieta si accompagnava una serie di comportamenti militarmente obbligati, a cominciare dall’igiene delle mani e dei refettori dove mangiavano, per finire con il bando della caccia a fini alimentari, mentre era invece incoraggiata la pesca e il relativo allevamento.
“L’elisir di lunga vita” è una leggenda antica con primogeniture rivendicate da varie civiltà. Quasi tutte riconducono però a terreni mediorientali, frequentati dai Templari. La mitologia, come sanno gli storici, dice la verità, o almeno la evoca. Anche per il nostro vivere nell’oggi.
I grandi dati aggregati a volte possono confondere. E a volte giustamente, perché lasciano in chi legge il sospetto che riflettano chissà quali altre variabili nascoste. Gli esempi più piccoli risultano allora spesso più chiari, senza quelle paventate controindicazioni. Sul ruolo del farmaco generico nel contenimento della spesa sanitaria è eloquente, ad esempio, il caso dell’Asl di Olbia, notato anche dalla stampa regionale.
Il dato secco è che aumentano le ricette mentre diminuisce la “spesa farmaceutica territoriale”, ovvero la spesa convenzionata dei pazienti in farmacia. Com’è possibile questo “miracolo? Ebbene, nota anche “La Nuova Sardegna”, il dato si spiega tutto nel ricorso al generico. Nella citata Asl la spesa territoriale è passata “ dai 28 milioni 81 mila euro del 2009 (per 1.400.806 ricette) ai 24 milioni 397 mila del 2015 (con 1.648.905 ricette). Oltre 3 milioni e mezzo di euro di risparmi di spesa per una riduzione della spesa netta per l’acquisto dei farmaci in ambito territoriale che supera il 13%, a fronte di un incremento del 17% delle ricette ”.
La tendenza si riflette comunque anche a livello nazionale. “Nel periodo Gennaio–Dicembre 2015 – ha rilevato l’ultimo rapporto in proposito di Assogenerici – quasi tutte le regioni fanno segnare una diminuzione della spesa territoriale netta verso lo stesso periodo del 2014”. Dov’è allora il problema? Perché invece si susseguono sistematicamente le notizie sullo sforamento dei tetti regionali di spesa farmaceutica?
La stessa Asl di Olbia chiarisce la risposta. Se i cittadini sono “virtuosi” in farmacia, scegliendo sempre più il generico, lo stesso ancora non vale per molti degli ospedali. “ La spesa per i farmaci acquistati per le strutture sanitarie pubbliche segue invece un trend di crescita, passando dai 12 milioni e 70 mila euro del 2012 ai 16 milioni e 169 mila del 2015 ”. La spiegazione è appunto uguale e contraria. “Negli ospedali si erogano terapie farmacologiche ad alto costo”, con minor ricorso ai generici.
Semplice, lapalissiano, e lo è anche per l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). “ Promuovere anche negli ospedali l’utilizzo dei medicinali generici e biosimilari”, ripete da mesi il presidente Mario Melazzini, dalle colonne del Corriere della Sera a, nei giorni scorsi, dalle pagine dei portali specializzati.
La carta stampata non sta bene e non è solo “colpa della crisi”. Prova ne è che anche dagli Stati Uniti, in cui in questi anni si è assistito a una discreta ripresa, arrivano notizie a ripetizione di cali di tiratura, chiusure e licenziamenti. Il problema è primariamente lo stravolgimento delle tecnologie di informazione, a iniziare dal web e dai suoi epigoni “social”. Eppure c’è chi resiste, e questo si riscontra anche e soprattutto in ambito sanitario. Con ricadute spesso salvifiche per la qualità dell’informazione.
Un ottimo esempio è il mensile “Come Stai” che, fondato ormai vent’anni fa a Milano, vende 12mila copie al mese: non male per una rivista di nicchia. Nell’edizione di aprile la rivista dedica un notevole spazio ai farmaci equivalenti. Quattro pagine scritte benissimo, a spiegarli con parole tanto semplici e precise da sembrare uscire dall’abile penna di un “comunicatore professionista” e invece a firma di un esperto medico di base, la dottoressa Geltrude Consalvo. S’intitola “Curarsi risparmiando”. Sottotitolo: “ Compreso che questi farmaci sono efficaci come quelli di marca, l’unica differenza è che costano meno. Una guida al loro uso per chi ha ancora qualche diffidenza ”.
È vero che la rete è uno strumento prezioso d’informazione (anche noi siamo qui) con la sua mole infinita di nozioni accessibili e di spazi preziosi di confronto tra medici, pazienti e associazioni ma, come sanno i “guru” del settore, il web si presta perlopiù a testi di estrema sintesi. Per gli approfondimenti, a farla da padrone è ancora il cartaceo.
Da quella rivista esce un articolato chiarimento sul generico: “ stesso principio attivo, stesso dosaggio, stessa formulazione e identico numero di unità posologiche”, rispetto al farmaco di marca. Cambia solo il nome e il prezzo, dati i diversi costi di ricerca richiesti dagli originator. Non sono “confezionati in fabbriche del Terzo Mondo”, almeno se “comprati in una farmacia o in una parafarmacia” (e non importati privatamente tramite qualche sito web). Sono sottoposti a norme e controlli rigidissimi sulla piena “bioequivalenza” rispetto all’originator, al punto che “anche le materie prime e il prodotto finito devono soddisfare le specifiche della Farmacopea europea” […]senza dimenticare che sono soggetti anche alla cosiddetta ‘sorveglianza’ post marketing che offre ulteriori garanzie. E poi: “ favoriscono l’aderenza terapeutica, per vari motivi. Il primo, molto importante, è il prezzo più basso”.
E avanti così, pagine e pagine a chiarire quei concetti di base. Lunga vita ai giornali di carta.
C’è uno spartiacque sul nodo dei conti pubblici e sull’intera economia europea: il 2008, l’autunno della grande crisi. Esiste un prima e un dopo e, se c’è un settore che più di ogni altro fotografa quello stravolgimento, è proprio quello della Sanità. Lo ha analizzato efficacemente Il Sole 24 Ore, identificando sulla base dei dati nazionali e internazionali le variabili che hanno condotto a un’escalation dei costi negli anni precedenti, e a una drastica compressione in quelli successivi.
La crescita della spesa sanitaria pubblica in Eurolandia tra il 2000 e il 2008 è stata del +5,2% annuo: notevole, seppur inferiore al +8,2% degli Stati Uniti. Altrettanto impressionante è la discrepanza territoriale. L’impennata maggiore è stata rilevata soprattutto in paesi poi incorsi in gravi problemi finanziari, a iniziare da Grecia e Irlanda, con balzi superiori al 9%. Oltre la media anche l’Italia che si attestava oltre il 6%. La più parsimoniosa di tutti era stata la Germania con il suo incremento contenuto sotto il 3%.
L'invecchiamento della popolazione non basta a giustificare tali balzi, e neppure l'apparizione di costosi medicinali di marca visto che l'incremento della spesa farmaceutica è stato inferiore a tale media. Lo stesso vale per i redditi da lavoro, cresciuti in diversi paesi, ma globalmente di meno. Il vero balzo è stato sui consumi intermedi e soprattutto, si noti, sui “servizi non sanitari”, quali pulizia, forniture energetiche e pasti.
In altre parole, la Sanità ha contribuito all'aggravamento dei costi pubblici per colpe primariamente non sue. Il nodo è perlopiù organizzativo e il quotidiano punta il dito anche su uno degli aspetti meno contestati della struttura contemporanea: il “decentramento” che, specie in Italia e Spagna, “produrrebbe un eccesso di capacità produttiva e favorirebbe la diffusione di comportamenti poco virtuosi” come riporta l’autore dell’articolo citando uno studio dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico).
Poi è arrivato il trauma del 2008. Alcuni paesi, Germania in primis, hanno reagito aumentando la spesa sanitaria. Altri sono stati drammaticamente costretti a tagliare: -0,5% annuo in Italia tra il 2009 e il 2013, addirittura -13,1% in Grecia. L'abbattimento ha riguardato soprattutto le spese per la prevenzione che, tuttavia, è risaputo essere fondamentale per la riduzione dei costi sanitari aggiuntivi per il futuro.
Ma a essere decisivo per il contenimento dei deficit sanitari è stato anzitutto un altro fattore, nota il giornale: “ la promozione dei farmaci generici”. In Italia ha consentito di mantenere i livelli di servizio, e nella virtuosa Germania e in altri paesi dove gli equivalenti sono prescritti più massicciamente, di ampliarlo.
Per approfondire l'argomento:
http://ec.europa.eu/health/reports/docs/health_glance_2014_en.pdf
http://www.oecd.org/publications/fiscal-sustainability-of-health-systems-9789264233386-en.htm
Avete mai sentito parlare di “virus del secolo”? Di certo sì, e più volte. Ebbene, ai fatti tale locuzione è in tutti i casi una sciocchezza, perché i virus sono sempre esistiti, anche quelli peggiori. La ricerca odierna si spinge sempre più indietro nel tempo e apre al contempo spiragli per la comprensione degli scenari patologici futuri.
L’ultima scoperta è del Boston College, in uno studio pubblicato sulla rivista eLife, che ha identificato virus risalenti a oltre 30 milioni di anni fa. Sono stati battezzati ERV-Fc, colpivano gli antenati dei moderni mammiferi e appartengono alla famiglia dei cosiddetti “retrovirus”, la stessa dell’Hiv e delle cellule leucemiche.
''I virus esistono ovunque si trovi la vita e hanno avuto un impatto significativo sull'evoluzione di tutti gli organismi, dai batteri agli esseri umani'' , spiega Welkin Johnson, tra i coordinatori della ricerca. Il problema è che non lasciano “fossili”, sicché è difficile rintracciarne l’origine e l’evoluzione. Il soccorso arriva dalla genetica contemporanea, in grado di trovarne tracce nel Dna.
Nell'analizzare le banche dati esistenti sui mammiferi, è stato dunque identificato il retrovirus. Di più, in base alle sequenze emerse, non solo è stata stimata la sua origine – in un'epoca di drammatici cambiamenti climatici segnati dal raffreddamento che condusse all'era glaciale - ma è stato anche accertato il suo passaggio e le sue mutazioni su 28 diverse famiglie di animali in tutti i continenti, eccetto Australia e Antartide.
La scoperta non è di mero interesse storico. “Questo metodo – auspicano i ricercatori – ci permetterà di capire meglio quando e perché emergono nuovi virus e come impatterà nel lungo termine negli organismi colpiti”.
Siamo attenti, alcuni di noi attentissimi, ai grassi e ai cibi dannosi. E facciamo bene, perché una dieta equilibrata è il fondamento della salute e della “linea”. Da una ricerca australiana emerge, però, un’aggiornata gerarchia tra gli ingredienti “colpevoli”. Se, per esempio, mangiamo una patatina fritta, specie quelle in sacchetto, e sentiamo quell’irresistibile stimolo, quasi la dipendenza, a mangiarne cento, la colpa primaria non sta in oscure alchimie. C’è un indiziato numero uno, ed è banalmente il sale.
I ricercatori dell’Università di Deakin hanno convocato 48 adulti di ambedue i sessi, proponendo loro il medesimo pasto dopo la medesima colazione. Sono state prese in considerazione molte variabili, ma solo una è emersa come determinante. Chi mangiava cibi più salati, a parità di altre condizioni, è risultato aver bisogno di assumere l’11% del cibo in più. Il mistero sarebbe tutto qui: chi mangia più salato ha bisogno di altre calorie aggiuntive e questo, nella quotidianità, fa una differenza cospicua.
Anche nel nostro paese la ricerca ha rilanciato recentemente i rischi di una dieta ricca di sale. Secondo la Società Italiana di Nutrizione Umana, il nostro consumo medio tra gli adulti è stimato in 9 grammi al giorno, contro il tetto massimo dei 5 grammi raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I maggiori picchi si registrano al Sud, tra prodotti da forno, formaggi, salumi e tutti i prodotti confezionati con i loro livelli salini “nascosti”. Le conseguenze? L’aumento del rischio di ictus e malattie cardiache.
Nei giorni scorsi, in occasione della Giornata Mondiale del Rene, il tema è stato rilanciato, a partire dall’infanzia, con tanto di allarme sul fatto che il 7% degli italiani soffre di malattia renale cronica. Di nuovo, in cima al “decalogo” della prevenzione, quando si tratta di alimenti, l’imperativo è la riduzione del sale.
In tutto questo, c’è una curiosità. Nelle sintesi giornalistiche anglosassoni e italiane della ricerca australiana, si fa riferimento al “pacchetto di patatine”. La realtà, che ci coinvolge ancor più da vicino, è che, in realtà, lo studio è stato condotto sulla pasta e su quanto sale ci mettiamo.
“Sui generici c’è una tonnellata di opportunità”. L’agenzia internazionale Market Realist – sede centrale a New York – nei giorni scorsi ha alzato ulteriormente l’asticella delle già rosee aspettative mondiale sul settore. E lo ha fatto incrociando non solo i dati dei “guru” in materia, in particolare quelli diffusi a fine anno scorso dall’Institute for Heatlhcare Informatics (Ims), ma anche quelli delle autorità e delle associazioni sanitarie americane, europee e asiatiche, nonché le proiezioni dei principali analisti finanziari.
L’istantanea globale è quella di un boom in corso, ma le prospettive puntano all’escalation. Il dato di base è la crescita del settore farmaceutico nel suo insieme. La spesa globale in medicinali è stimata per il 2020 intorno alla cifra iperbolica di 1,4 milioni di miliardi di dollari, con un incremento (a prezzi costanti) di circa il 30% rispetto al 2015. L’ulteriore impennata è motivata da diversi fattori, dall’aumento della popolazione al suo invecchiamento, dall’estensione dei mercati emergenti (in particolare l’India) all’espansione di alcuni settori quali la terapia del dolore, dall’incremento atteso nelle percentuali delle persone curate – più di metà della popolazione vivrà in paesi in cui l’uso dei farmaci eccede mediamente una dose al giorno, nel 2005 era solo il 31% - all’immissione di nuovi e costosi farmaci originator.
Ed è proprio da tale generale premessa di fatto che scaturisce la pressione crescente sugli equivalenti. La salute costa troppo e costerà sempre di più, sicché sarà assolutamente vitale il ricorso ai generici, che hanno già consentito un risparmio mondiale di ben 1,68 milioni di miliardi di dollari tra il 2005 e il 2014. Negli Stati Uniti, ad esempio, dove già rappresentano l’88% dei farmaci prescritti – ma solo, si noti, il 28% dei costi – nel 2020 la percentuale sfonderà abbondantemente quota 90. Su scala mondiale, il consumo di generici è aumentato del 7% nel 2014, ma si prevede che il suo contributo alla crescita del mercato farmaceutico globale in questo decennio sarà addirittura del 52%.
Sull’Italia c’è una cautela legata al fatto che le scadenze brevettuali sui brand sono lievemente in calo. Ma il nostro paese ha un grosso vantaggio comparato, ed è quello di un rilevante margine di recupero rispetto alle medie degli altri paesi di pari reddito.
Il fatto è che prevenire è davvero semplice, e quasi sempre risolutivo. Il messaggio di fondo della scorsa “Settimana mondiale del glaucoma” promossa dall’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità (Iapb) è sostanzialmente questo. Sembra una banalità, ma in tale settore è più che mai la chiave di volta tra la patologia e il benessere.
La mobilitazione è stata massiccia, anche in Italia, dove ne soffre un milione di persone, ma solo la metà ne è consapevole e fa qualcosa, senza sapere che si tratta della causa principale della cecità. Una settantina di città italiane ha ospitato nei giorni scorsi visite di controllo gratuite alla vista e alla pressione oculare, grazie alle centinaia di postazioni mobili oftalmiche allestite dall’Iapb e all’adesione di molti studi oculistici, con il corredato di opuscoli informativi.
Nel pianeta, i ciechi sono 39 milioni, gli ipovedenti addirittura 246 milioni, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che sottolinea come risultino selettivamente colpiti i paesi in via di sviluppo. Il 90% dei disabili visivi vive lì. La causa prima, il glaucoma, colpisce circa 55 milioni di persone ed è distribuito più equamente. La grande discriminante non è dunque nella patologia ma nella possibilità di curarla e, soprattutto, prevenirla. L’80% dei casi di disabilità sono evitabili, documenta ancora l’Oms.
La “Settimana” è quella passata, ma il messaggio ovviamente rimane, forte e chiaro: passati i 40 anni è cruciale sottoporsi a controlli frequenti. All’insorgere della presbiopia, la visione sfocata da vicino tipica dell’avanzare dell’età, la risposta non è correre dall’oculista per acquistare gli occhiali. I migliori specialisti, infatti, spesso lo sconsigliano per evitare che le lenti, se messe prima del necessario, possano “impigrire” l’occhio.
Il da farsi è piuttosto una visita oftalmologica completa che accerti il livello di pressione oculare che, se eccessiva, può danneggiare il nervo ottico fino al manifestarsi del glaucoma. Questo lo si vede benissimo: la prevenzione è la miglior cura. Con un “occhio” anche alle patologie incorse ai propri avi, in quanto la genetica, in questo ambito, sembra contare parecchio.
“ Nei miei confronti continua una guerriglia di bassa intensità: di me si parla abbastanza spesso (faccio risparmiare montagne di euri) ma raramente in termini lusinghieri come meriterei ”. Scrive così, in prima persona, Andrea Gazzaniga, ordinario alla Facoltà di Scienze del Farmaco all’Università di Milano. La prima persona è però una metafora, in quanto il soggetto è il Farmaco Generico, al quale dedica nell’edizione cartacea del Notiziario Chimico Farmaceutico (Ncf) un caloroso “ Buon Compleanno”, con un’ampia e colorita ricostruzione dei suoi vent’anni di vita in Italia, tra speranze, conquiste e cospicui risparmi per i pazienti, tuttavia limitati da “resistenze anzitutto culturali”, come ha ricordato nei giorni scorsi al Tg2 il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann.
Ci sono ancora “ leggende metropolitane legate, per esempio, al fatto che potessi contenere meno principio attivo rispetto al Medicinale Originatore a cui devo necessariamente far riferimento ”, nota Gazzaniga, puntando il dito anche verso “ un'informazione non particolarmente curata, talvolta accompagnata da una ben orchestrata disinformazione”. In effetti, negli archivi dei giornali “mainstream” ci sono decine di titoli che raccontano un “flop” del mercato del settore, notando ad esempio come la percentuale dei generici sia ancora solo al 20%, ai livelli della Romania, ben lontano dal 60% rilevato in altri paesi europei quali Germania e Regno Unito. Sotto quei titoli, va detto, gli articoli non mancano di ricordare, oltre agli enormi risparmi, la piena e monitorata equivalenza nell’efficacia e sicurezza terapeutica non senza riportare, però, un commento che rilancia spesso il seme di immotivati “dubbi”.
La dimensione del risparmio potenziale per i cittadini è, nell’istantanea aggiornata mensilmente dal “Salvadanaio” di Assogenerici, impressionante, con tutto quel che dovrebbe suggerire dinanzi ai crescenti costi sanitari, pubblici e privati. Se tutti passassimo all’equivalente, risparmieremmo ogni giorno oltre due milioni e mezzo di euro, con proiezioni sull’anno che sfiorano il miliardo. Più realisticamente, da uno studio realizzato lo scorso anno da Nomisma, tale cifra potrebbe raggiungersi e superarsi nell’arco di cinque anni se solo ci allineassimo alle medie europee.
E allora, perché questi numeri in Italia? Il nodo è che qui da noi, sottolinea ancora Häusermann, “ non si sono mai adottati meccanismi incentivanti per far prescrivere e dispensare il generico al medico e al farmacista, come successo ad esempio in Germania già negli anni 80 ”. E, a proposito di resistenze culturali, solo un dato: i farmaci equivalenti venduti in Italia sono gli stessi che vengono venduti nei paesi in cui fanno i grandi numeri. E su questo Häusermann è chiaro: “ se il dottore non prescrive e non ha fiducia in questi prodotti è difficile che poi il paziente li vada a chiedere al farmacista”.
L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) si è chiaramente espressa a sostegno dei generici, anche con una chiara “guida”, aggiornata lo scorso dicembre, che certifica la loro assoluta bioequivalenza. Ma, come ha rimarcato nei giorni scorsi ai microfoni di Radio3 Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri “sesi dissemina l'idea che questi farmaci possano essere meno attivi degli altri, è chiaro che si scoraggiano i pazienti”. È un fenomeno tipicamente italiano, negli altri paesi europei la propaganda non regge”.
Abbiamo spesso paura del buio, e non solo da bambini. La verità è che dovremmo invece assecondare quell’assenza di luce. Se violiamo quell’incanto notturno facciamo male, anche a noi stessi. Il concetto di “inquinamento luminoso” ci suona ancora un po’ astratto. La pagina italiana di Wikipedia, per esempio, cita danni “ambientali, culturali ed economici”. Poco o nulla sulla salute.
L’impressione è insomma è che l’eccesso di luce artificiale notturna, oltre a consumare energia, sia di disturbo perlopiù all’estetica. Dalle città vediamo poco le stelle, e non è solo perché siamo più in basso rispetto alle montagne o perché l’aria sia intrisa di polveri industriali. Sono proprio le lucine domestiche e i lampioni stradali che, messi insieme, ci creano uno schermo dinanzi alla bellezza dell’infinito che ci circonda. Nel 1994 si creò il panico a Los Angeles, in quanto, durante un black-out, apparve un’inspiegabile “nuvola gigantesca”. Era solo la via lattea, solitamente oscurata agli abitanti delle città.
Il danno va tuttavia ben al di là della contemplazione. L’inquinamento luminoso provoca un danno al sonno, che coinvolge almeno un terzo della nostra esistenza, con tutto quel che consegue. Ad aggiornare il quadro è ora una ricerca statunitense, che sarà discussa il mese prossimo al 68mo Congresso della Società Americana di Neurologia a Vancouver, nel sud-ovest del Canada.
Sono state intervistate quasi 16mila persone, nell’arco di otto anni. Quasi un terzo di quelle che vivono in zone illuminate si è detto insoddisfatto della qualità del sonno, col 6% in più di probabilità di dormire meno di 6 ore, rispetto agli altri, quelli che vivono in centri con meno di mezzo milione di abitanti. Serie differenze sono state riscontrate anche nell’insonnia cronica, in altri disagi notturni e nei livelli di fatica al risveglio.
Non è roba di poco conto. La scienza ha già accertato conseguenze dei disturbi del sonno sulle patologie cardiovascolari, diabete, depressione, problemi articolari, perfino obesità. Dormire è fondamentale. “Spegnere la luce” non è una metafora. Ce lo chiede il corpo, non solo lo spirito.
Ovvio, banale, l’acqua è vitale, a ognuno di noi e al mondo, dal sostentamento alla prevenzione sanitaria, fino alla cura. Tanto da diventare un “business”, con enormi costi pubblici di raccolta e trasporto, assecondati dalla nostra scelta (quasi sempre immotivata, in Italia) della “bottiglietta” rispetto a quella che arriva ai nostri rubinetti. Talmente banale che nella quotidianità ce ne dimentichiamo. Da una ricerca americana emerge quanto l’acqua sia essenziale, non solo a tutto il resto, ma anche ai più elementari obiettivi dietetici, alla “linea”, insomma.
L’indagine, su dati raccolti dal 2005 fino a quasi i giorni nostri, è stata coordinata da un docente dell’Università dell’Illinois in “chinesiologia”, una branca fisioterapica dello studio del movimento umano. Ha coinvolto oltre 18mila americani adulti, riscontrando come un lieve incremento nel loro consumo idrico abbia l’automatico effetto di ridurre l’assunzione quotidiana di calorie (dell’1 per cento), coinvolgendo diminuzioni nei grassi saturati, zucchero, sodio e colesterolo.
Tecnicamente, chi aumenta il consumo d’acqua di un paio di bicchieri al giorno fa calare la domanda biologica di almeno un centinaio di calorie, fino a 235 milligrammi di sodio, con cali riscontrati nella produzione di colesterolo pari a circa una ventina di milligrammi al giorno.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala che il consumo di acqua, pulita, salverebbe annualmente la vita a oltre un milione di bambini e a mezzo milione di malati di malaria. E sono solo un paio di esempi. Per scendere su terreni più “borghesi”, un maggiore consumo idrico è consigliato anche a chi cerca di smettere o ridurre l’assunzione di fumo e alcol.
Ma c’è dell’altro ancora. La scienza dimostra che l’acqua è l’ingrediente fondamentale per chi vuole perdere peso. Ci sono mille alchimie, ricette, diete, faticosi percorsi. La realtà è che basta “perdersi in un bicchier d’acqua”. Permette al nostro corpo di consumare meno calorie, e di chiederne di meno.
“Medici Senza Frontiere, che fa affidamento ai farmaci generici per le sue attività di tutto il mondo, sostiene questo sforzo per rendere il sofosbuvir producibile in via generica ”. Di solito l’organizzazione umanitaria si tiene alla larga dalle discussioni sui farmaci, stavolta no, perché la vicenda è davvero grossa e, se andasse nella direzione sbagliata, comprometterebbe la cura vitale di decine di milioni di persone.
Sull’India, per la verità, Medici Senza Frontiere (MSF) era intervenuta anche sei mesi fa, in occasione della visita del premier Modi al presidente americano Obama, esortando Delhi a difendere il suo ruolo di “farmacia dei paesi in via di sviluppo” che produce medicinali generici per oltre 60 paesi meno abbienti, in virtù di alcune concessioni riconosciute nel tempo anche dalla comunità internazionale in tema di proprietà intellettuale.
Adesso si arriva al dunque, al “caso dei casi”, quello di un farmaco contro l’epatite C, distribuito “a prezzi esorbitanti” secondo Msf, tra gli altri. C’è un’azienda statunitense, la Gilead Sciences, che vorrebbe far valere un brevetto, al fine di “impedire di acquistare versioni più economiche ancorché dalla stessa efficacia”. La pretesa è stata già respinta da altri paesi, ritenendo l’ originator poco innovativo, e contenziosi sono in corso anche in Europa. Una causa giudiziaria è ora iniziata in India, e interessa quel miliardo di anime che non possono permettersi il medicinale.
Su tale farmaco costoso si è mossa concretamente anche l’Agenzia Italiana del Farmaco, il cui Direttore Generale Luca Pani ha pubblicamente invocato “ trasparenza e responsabilità” nelle determinazioni di prezzo.
In tutto questo va fatta una precisazione, su di noi. Nonostante le mille rassicurazioni delle autorità italiane ed europee, permane in qualcuno il timore che il generico sia “roba made-in-India”, o prodotto in altri paesi di cui ci fidiamo meno. Il timore è infondato, anche perché le norme e i controlli imposti nel Vecchio Continente sono implacabilmente più rigorosi che in qualsiasi altro posto al mondo. Lo riconosce anche la Federazione delle Associazioni Italiane degli Informatori Scientifici del Farmaco, che nota: “ C’è chi fugge dall’Italia per trovare il farmaco low cost e chi snobba quello che ha in casa”.
Tutti a vezzeggiare il gentil sesso per la ricorrenza, ma la realtà è che le donne meritano ogni giorno un miglior trattamento, anche sanitario. Sono loro che, nota Eurostat, “salvano la salute” della popolazione europea. E sono sempre loro l'anello debole dinanzi a parecchie patologie, una differenza su cui manca ancora una piena presa d’atto in ambito sanitario internazionale.
I dati demografici più significativi dell’agenzia europea sono quelli sull’invecchiamento della popolazione (in dieci anni la percentuale di over-65 è aumentata del 4%), con la doppia conseguenza di una tendenza al calo della popolazione, specie quella in età lavorativa, e di un aumento nella domanda di cure sanitarie. E su tutto questo la pur cospicua immigrazione è una compensazione solo parziale, tanto da far presagire, pur in tempi di crisi e di alta disoccupazione (intorno al 10%), un futuro problema opposto di “carenza di manodopera”.
Sono tendenze più o meno note, che non destano troppa sorpresa, se non in un fatto ulteriore, quello sulla speranza di vita tra i due sessi. Ebbene, emerge che la forbice, da sempre favorevole alle donne, si sta assottigliando, ovunque. I casi sono due: o sono migliorate le cure per gli uomini e peggiorate per le donne; oppure, più seriamente, abbiamo una sanità che si sviluppa “al maschile”, con scarso riguardo alle specifiche esigenze femminili.
La donna, seppur longeva, è il principale bersaglio di molte malattie e disturbi. Le donne vivono di più, ma soffrono di più. Temono soprattutto il tumore, specie al seno, secondo tutte le indagini, ma sono anche le prime vittime delle patologie cardiovascolari e del dolore cronico, tra l’altro. L’istanza di una “medicina di genere” è ampiamente riconosciuta dalla ricerca italiana e da alcune strutture pubbliche, ma la prassi concreta rimane perlopiù latente.
Un altro fatto accertato dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna e in apparente controtendenza, è che le donne sono nell’insieme consapevoli dell’importanza della prevenzione. Due terzi di loro vorrebbero fare di più ma non ci riescono. Tra i motivi c’è il fatto che 3 donne su 4 sono a loro volta prese a occuparsi della salute di almeno un familiare. È il momento che si faccia anche il contrario.
Tra il succedersi di crisi finanziarie e una popolazione che invecchia, la pressione sulla Sanità si moltiplica, di pari passo con la legittima domanda di contenimento sui costi, anzitutto pubblici. Tuttavia un’analisi dettagliata degli accademici di Harvard rovescia il tavolo dimostrando come i tagli sanitari finiscano con l’essere controproducenti, non solo sotto il profilo della cura, ma anche di quello contabile. La ragione è che generano costi ulteriori e non agiscono sull’efficienza sanitaria. Tendono piuttosto a peggiorarla, per la causa primaria che si dà scarsa retta agli addetti ai lavori.
Lo studio, uscito sotto forma di “seminario web”, risale a più di un anno fa, a firma di Robert Kaplanand Derek Haas dell’Harvard Business University, ma è stato lanciato in Italia nei giorni scorsi dall’ottimo portale di Quotidiano Sanità. Individua “cinque errori fondamentali” da evitare.
Il primo errore è il taglio del personale e/o della sua remunerazione con la conseguente dequalificazione e riduzione della produttività e dell’attenzione alla cura. Il secondo è il disinvestimento negli spazi e nelle apparecchiature, che ingrossa i costi derivanti dalla mancata cura, oltre alle liste d’attesa. Il terzo è la stretta sugli appalti che, se generalizzata, può condurre a un abbattimento del servizio a scapito, non a beneficio, di un recupero di efficienza. Il quarto è la tendenza di amministratori ospedalieri a massimizzare l’ingresso di pazienti, un criterio agli antipodi rispetto alla qualità del servizio. Il quinto è il mancato coordinamento interno, sicché risulta che i costi delle stesse strutture a volte divergano in modo rilevante tra un reparto e l’altro.
Morale, i tagli lineari non servono neanche all’obiettivo contabile, anzi lo peggiorano. C’è invece un enorme margine di risparmio a disposizione per fermare i costi sanitari crescenti, documentati anche dall’ultimo rapporto della Corte dei Conti. Quel margine si trova in un salto di qualità gestionale, rappresentato anche da un più robusto ricorso al farmaco generico che genera già 28 miliardi di risparmio l’anno in Italia, nonostante resti ancora ai posti più bassi tra i paesi avanzati.
Si pensa solitamente alle malattie dell’apparato digerente come a un problema secondario nella salute, e si pensa male. Sono la seconda causa di ospedalizzazione in Italia, con alte percentuali di mortalità, soprattutto al Sud (8,1%) in ragione della minor tutela sanitaria. Due recenti convegni, a Napoli e Roma, hanno affrontato il problema, sollecitando a un’attenzione che avrebbe ricadute importanti non solo per i pazienti, ma anche per i conti pubblici.
I ricoveri in Italia sono stati 878mila solo nel 2014, secondo la ricerca presentata dall’Associazione Italiana Gastroenterologi ed endoscopisti Ospedalieri (Aigo), interessando perlopiù il sesso maschile e gli over-65. L’indagine si è focalizzata su ben tremila pazienti in una cinquantina di strutture specializzate.
Ma c’è dell’altro e di peggio, per quel che rivela sulle strutture di assistenza. Da un ulteriore studio dell’Aigo realizzato in collaborazione col Ministero della Salute su quasi 5 milioni di cartelle cliniche emerge che solo il 7,4% dei pazienti viene curato negli ospedali italiani dallo specialista gastroenterologo, col risvolto che la mortalità intraospedaliera risulta raddoppiata rispetto alla media delle altre patologie.
Urge un salto di qualità nella consapevolezza e nei trattamenti sul tema che permetterebbe di curare meglio, e anche di guadagnare in efficienza. Se tutti i pazienti dell’apparato digerente fossero ricoverati in reparti specialistici si risparmierebbe, per loro e per le strutture che li ospitano, almeno 360mila giornate di degenza all’anno. La ragione è che la durata dei ricoveri è mediamente inferiore rispetto agli altri reparti. Serve meno tempo e più competenza, dunque.
Meno cure chirurgiche, più cure mediche specialistiche. Questo il senso dell’accorato appello degli addetti ai lavori. In altre parole, più spazio e “ letti alle gastroenterologie che sono spesso unità sottodimensionate”, l’appello del presidente dell’Aigo Antonio Balzano. Sarebbe salvifico per tanti e costerebbe meno a tutti.
No, non è piacevole fare un brutto sogno. Anzi spesso produce un danno, anche al rientro alla veglia, generando un “day after” segnato da un fondo di stress, con i suoi effetti sull’indebolimento del sistema immunitario. Tuttavia, più la ricerca affonda nell’universo onirico, più emerge che l’incubo, in sé, ha tutt’altra funzione ed effetto. Serve a segnalarci utilmente un problema, e a volte anche a superarlo.
Uno degli ultimi studi scientifici in materia arriva dalla Scandinavia (pubblicato anche sulla rivista specializzata americana Sleep), e si è focalizzato su un corposo campione di 14mila persone di varia età adulta. L’esito, in breve, è non solo la confermata associazione tendenziale tra la qualità dei sogni e il livello di benessere psico-fisico, ma anche il fatto che il brutto sogno agisca, nelle parole del coordinatore finlandese Nils Sandman, “come indicatore precoce dell’insorgenza di una sindrome depressiva”. Non sono una patologia, neppure tra i ricorrenti, sono anzi la sua diagnosi che, se colta, può essere anticipata e affrontata.
In apparenza non è una grande novità, e in qualche modo si allinea con le indicazioni di massima che arrivano da oltre un secolo di psicanalisi. La realtà è che quell’universo affascinante e inquietante rimane tuttora largamente avvolto nel mistero, anche sui risvolti clinici, lasciando aperti alcuni equivoci di fondo, sicché ogni frammento di verità risulta prezioso. Uno degli equivoci è l’istinto a tenere gli incubi alla larga, possibilmente dimenticarli, per il disagio che recano. Invece no, vanno accolti e ascoltati, per tutto quel che provano a rivelarci, anche sulle nostre patologie.
Ma c’è dell’altro. L’incubo può essere terapeutico in sé, un alleato per assorbire, sfogare le difficoltà, e magari anche svelare la propria capacità di riconoscerle e superarle. Un segnale terapeutico, o addirittura una medicina. La storica rivista femminile Marie Claire nei giorni scorsi ha raccolto una serie di pareri scientifici convergenti in proposito.
L’esempio più suggestivo, che comincia ad apparire in qualche manuale di psicologia, rimane però quello di una quindicina di anni fa. Arriva da una corposa ricerca di una nota psicologa canadese, Rosalind Cartwright. Il tema era il divorzio, e i seri disagi correlati. Ebbene, il risultato lampante è che chi aveva incubi assidui sull’ex erano quelli che avevano superato meglio il trauma.
I primi farmaci biosimilari sono stati ammessi nel mercato europeo solo nove anni fa ma, sebbene i dati sulla crescita siano da escalation, con previsioni che arrivano al 50% delle nuove registrazioni entro il 2020, permangono le resistenze tra prescrittori e pazienti, specie in Italia. E con esse, permangono le richieste di nuove verifiche. Così ha fatto la Commissione del Farmaco del Lazio, partendo dal presupposto del bassissimo uso nella Regione, solo il 6%, inferiore alla media nazionale, che a sua volta si colloca in basso alle classifiche europee.
Le ulteriori verifiche, intendiamoci, possono suonare stucchevoli, in quanto l’approvazione stessa del farmaco biologico è preceduta da onerose analisi e assidui monitoraggi che ne comprovano la similitudine rispetto al farmaco originator “di riferimento”, con documentata irrilevanza delle differenze legate ai diversi metodi di produzione. Nessun farmaco biosimilare “non comparabile” è sul mercato, così come nessun biosimilare ammesso è mai stato ritirato dal commercio.
In ogni caso, per fugare ogni dubbio nell’opinione pubblica, a partire da medici e pazienti, la Commissione regionale ha prodotto uno studio esteso, che ha fatto leva su centinaia di ricerche, locali e internazionali, e su centinaia di migliaia di pazienti.
L’esito è l’accertata “sovrapponibilità” dei biosimilari ovunque. Sono stati esaminati diversi settori, in relazione ai vari agenti eritropoietici (Esa). Ebbene, si è riscontrata la completa sostituibilità rispetto ai medicinali di riferimento riguardo a varie categorie di pazienti e patologie, dai tumori all’anemia alle malattie renali. In nessun caso è emersa una differenza nella qualità dell’assistenza.
Lo studio conteggia anche il potenziale risparmio di un maggior utilizzo dei biosimilari: 11 milioni di euro annui nel solo Lazio. Non c’è altro da aggiungere, salvo una curiosità: il corposo lavoro di verifica e ricerca della Commissione è stato ben documentato sull’edizione cartacea de Il Sole 24 Ore, ma quasi nessun portale ne ha fatto eco.
L’Italia è culla di tante cose, purtroppo non della puntualità. E se il ritardo colpisce il lavoro e il denaro, il difetto è grave per tutti, famiglie, imprese e l’intero patto sociale. Se poi riguarda l’ambito sanitario, il ritardo diventa drammatico. Un’inchiesta specifica dell’eccellente centro studi della Cgia (Associazione Artigiani Piccole Imprese) di Mestre fa il punto e, pur con qualche segnale positivo, ribadisce l’annoso problema, specie a sud, sul quale la stessa Assogenerici si è spesa da tempo.
La legge stabilisce un limite per il pagamento delle fattura a 60 giorni dall’emissione. Ebbene, ad esempio in Molise, il saldo viene effettuato mediamente dopo 412 giorni, a Napoli, dall’Asl 1, dopo 401, nella capitale, dall’Asl Roma A, dopo 397. Ritardi ingiustificabili, sebbene il debito sanitario risulti negli ultimi mesi globalmente in lieve calo. Ma i tempi e l’accumulo pregresso restano gravissimi. “Un debito di 30 miliardi, quasi la metà dei 70 miliardi che tutta la pubblica amministrazione deve alle imprese”, nota il coordinatore dell’Ufficio Studi Paolo Zabeo.
L’indagine sottolinea e incoraggia anche le pratiche in controtendenza, quasi tutte al centro-nord. Il record è quello dell’Asl 1 di Trieste che paga addirittura con 25 giorni di anticipo. Segno che, volendo, si può.
Da anni Assogenerici denuncia il problema dei ritardi. “A volte pari a due anni”, lamentava ad esempio in un comunicato nel 2009, notando che “colpisce tutti i fornitori, ma nel caso dei produttori di equivalenti si rivela ancora più vessatoria, visti i bassi costi e gli ancora più bassi margini dei medicinali venduti agli ospedali e alle altre strutture sanitarie”.
Nei giorni scorsi, nel ringraziare il Presidente della Commissione salute della Conferenza delle Regioni uscente Venturi e nel complimentarsi con l’entrante Saitta, il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann, ha ricordato l’importanza del settore dei generici e biosimilari, quali “alleati su aspetti fondamentali per la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale come la razionalizzazione della spesa farmaceutica e il sostegno all’innovazione”. Generici e biosimilari garantiscono pari efficacia e costano meno e, anche per questo, se non sono pagati, il danno è multiplo.
L’epilessia è un dramma per la salute e la persona, ed è anche percepito come un problema sociale, dal proprio vissuto alla sua accettazione per gli altri. Ha bisogno di cure, non di sciocchezze, men che mai quelle che ogni tanto circolano sul generico. Il governo americano sta provando a far chiarezza su questo, le associazioni dei pazienti e la stampa scientifica si muovono di pari passo. Per ricordare l’urgenza e l’affidabilità del ricorso ai farmaci equivalenti.
“I generici sono davvero equivalenti?” Il quesito, già posto molte volte, è stato rinnovato con riferimento specifico all’epilessia da una sperimentazione dell’Università di Cincinnati in coordinamento con una decina di altre istituzioni scientifiche, grazie al supporto finanziario sia dell’esecutivo federale che delle principali fondazioni del settore. Ebbene, la risposta è stata di nuovo pienamente affermativa.
Sono stati considerati 35 casi di epilettici trattati in sei diversi ospedali. Un farmaco contro le convulsioni, chiamato lamotrigine, utilizzato per 14 giorni, è stato poi sostituito con un generico per il medesimo periodo. Oltre ad accertarne la bioequivalenza, si è rilevato il perfetto decorso terapeutico, senza alcun impatto negativo per i pazienti. Si tratta dello “studio più rigoroso in materia”, sottolineano i ricercatori.
L’indagine è stata pubblicata anche sulla celebrata rivista Lancet, che inoltre riporta alcuni dati impressionanti sul risparmio generato dal passaggio all’equivalente. Negli Stati Uniti, dove oramai costituisce la maggioranza delle prescrizioni, i consumatori hanno potuto spendere 158 miliardi di dollari in meno solo nel 2010. La cifra potrebbe raddoppiarsi in un paese come la Cina, con risparmi potenziali stimati al 65%, percentuale che sale fino al 90 nei paesi a reddito medio o basso.
Non si tratta solo di spendere meno, il nodo è che quel risparmio consente di ampliare la platea dei pazienti e di liberare risorse per la ricerca. Il concetto è oramai chiaro anche nelle istituzioni e nella scienza italiana, ma permangono resistenze. “ E’ tempo che gli scettici sul passaggio agli equivalenti antiepilettici cambino idea”, incalza sulla stessa Lancet il farmacologo Emilio Perucca, ordinario a Pavia.
C’è chi ci ha già provato, almeno un centinaio di persone negli Stati Uniti. Sperando, prima di morire, di potersi risvegliare chissà quando, e cioè quando la scienza lo renderà possibile. Da un laboratorio californiano esce il proclama che quel tempo è vicino. Un cervello animale è stato ibernato e poi riportato a temperatura ambiente, senza che le cellule cerebrali avessero riportato alcun danno.
Beninteso, siamo ancora a tentativi che suonano di fantascienza, ma la ricerca di base si muove e in questi giorni ha fatto emergere degli esiti che paiono promettenti. Il più roboante, e di eco internazionale, è quello annunciato dalla rivista americana Criobiology. Il cervello di un coniglio è stato congelato a oltre 100 gradi sotto zero e, una volta scongelato, non ha mostrato alcun danno anatomico. Il problema dell’ibernazione è che l’acqua, quando si cristallizza, rompe le pareti cellulari e i relativi sistemi biologici. Questo non è accaduto, tramite la sostituzione del sangue con una soluzione di aldeidi, che previene la disidratazione. È solo un esperimento, le cui ricadute sull’essere umano sono ancora tutte da valutare.
Ma è un risultato che si aggiunge a una prassi già avviata di ricerca e di trapianti di organi. Di più, si aggiunge ad altre indagini promettenti emerse proprio in questi giorni. Da un recente studio giapponese risulta che alcuni animali, pescati nelle acque vicine al Polo Sud, sono stati rivitalizzati dopo oltre trent’anni dall’ibernazione. Si tratta degli Acutuncus antarcticus, una specie “tardigradi”, microscopici invertebrati marini. Non è ancora accertato se dopo lo scongelamento abbiano riportato alcuni danni. Di visibili comunque non ce ne sono, si son visti muovere, hanno dunque mostrato segni di vita e, dicono i ricercatori, gli eventuali guasti al Dna saranno essi stessi utili alla ricerca.
Il punto è proprio questo. Non si tratta almeno per ora di affondare nell’insolubile mito della sopravvivenza. Il tema è la ricerca e la cura.