Troppi zuccheri fanno male, lo sappiamo. Ma probabilmente non sappiamo “quanto” possano far male. Di più, rimaniamo spesso un po’ confusi su alcuni concetti di base. Un blog informativo del New York Times fa ulteriore chiarezza su un quesito fondamentale: ma se gli zuccheri sono così insidiosi, perché non vale anche per la frutta che ne è piena?
Non a caso il quesito è ricorrente nella stampa americana. Né è un paradosso che gli Stati Uniti siano ai vertici della piaga dell’obesità mentre i supermercati sono zeppi di alimenti con scritto “poco zucchero”. La contraddizione non c’è, perché la verità è che quell’etichetta dice assai poco di rilevante. Non è prioritario il “quanto” ce n'è, la cosa fondamentale è “con cosa” viene mangiato, il contesto alimentare nel suo insieme.
Ora, il consumo di zucchero, o di alimenti che spingono l’apparato digestivo ad alimentarlo, induce il pancreas a produrre insulina per assorbire il glucosio. Se si esagera, la resistenza si allenta alimentando il rischio, tra l’altro, di alcuni tipi di diabete. Ebbene, la frutta contiene molta fibra, che facilita tale metabolismo. È racchiusa lì dentro, ma lì deve rimanere. Quando una mela viene spezzata, elaborata industrialmente o anche solo spremuta, qualcosa perde. Lo zucchero, se associato a tale parete difensiva, è innocuo. Altrimenti fa male. Tutto qua, e qua c’è tutto.
La prevenzione alimentare è essenziale, tant'è che si moltiplicano in tutto il mondo le ricerche sugli effetti negativi di diete squilibrate per la salute. Non è solo un problema di linea, di indebolimento generale del corpo e di esposizione a svariate patologie. Il danno dell'eccesso di zuccheri è perfino al cervello: una ricerca effettuata a Roma dall'Università Cattolica del Sacro Cuore ha ad esempio rilevato danni innescati alla capacità autoriproduttiva delle cellule staminali, cruciali all'integrità neuronale dell'ippocampo.
Insomma è vero che “una mela al giorno leva il medico di torno”, ma solo se consumata intera.
Sembra ieri ma son passati 35 anni. L’8 febbraio scorso il Nasdaq ha festeggiato il proprio compleanno, e lo ha fatto scommettendo sull’ultimo “cambiamento rivoluzionario” dei nostri tempi, ossia l’avanzata dei farmaci generici.
In mezzo agli stravolgimenti, bolle, truffe e periodiche crisi che hanno investito la finanzia globale, a partire da quella americana, il Nasdaq ha consolidato una posizione di autorevolezza, documentata da un incremento del volume di affari che nell’arco di tutta la sua storia sfiora il 10% annuo. Sicché il primo mercato elettronico al mondo è diventato rapidamente anche il più esteso per capitali mobilitati, secondo solo a Wall Street. Di più, essendo il principale punto di riferimento dei “tecnologici”, quel che fa e scrive sul proprio sito è letto con prioritaria attenzione da chiunque guardi avanti e cerchi di capire dove va il mondo.
È da quel pulpito che si sottolinea la “rivoluzione”, a colpi di cifre, grafici, proiezioni, addirittura l’elaborazione di un indice specifico, l’Indxx Global Generics & New Pharma Index. In breve, si nota questo: solo negli Stati Uniti, gli equivalenti ammontano già all’88% di tutte le prescrizioni, con una stima a salire al 92% entro quattro anni. Nel periodo 2013-2018 si prevede che il settore contribuirà al 52% della crescita della spesa farmaceutica globale, rispetto al 35% degli originator, che in più devono scontare per loro natura più alti investimenti iniziali. Nel decennio in corso, i farmaci che perdono i diritti di “patent” sono stimati a un valore di vendita annuale pari a 200 miliardi di dollari e, quando scade la licenza, cedono agli equivalenti mediamente il 90% del mercato.
A tutto questo si aggiunge – nota ancora il Nasdaq – il combinato tra i rilevanti risparmi per i consumatori, le esigenze sanitarie crescenti di una popolazione che invecchia e l’aumentata consapevolezza di governi e pazienti circa la completa equivalenza nell’efficacia e sicurezza terapeutica. La “rivoluzione” è qui, scrisse anche un anno fa lo stesso portale americano. E’ proprio così, le “bolle” sono tutte altrove, ha voluto ora ribadire nel proprio anniversario.
Conoscenza, trasparenza, vigilanza. È cruciale in ambito sanitario districarsi nella mole di indicazioni, controindicazioni, verità presunte e preconcetti. Per i pazienti, e le associazioni che le rappresentano, è la massima priorità per la loro tutela e per l’appropriatezza della cura.
Un decisivo impulso in tal senso arriva dalla “Cassetta degli Attrezzi” costruita da Eupati. Quest’ultima è la sigla dell’“Accademia dei Pazienti Europei”, che riunisce 33 organizzazioni di 12 paesi tra cui l’Italia, incluse associazioni civiche, università e case farmaceutiche, oltre a rappresentanze istituzionali. Due anni fa lanciò un progetto formativo continentale, il 27 gennaio scorso è stato presentato il suo naturale sviluppo, una “cassetta” appunto, piena di “attrezzi” informativi alla portata di chiunque.
L’indirizzo è eupati.eu/it, raggruppa un enorme glossario medico e circa 3000 schede illustrative su un centinaio di argomenti diversi, con l’arricchimento di video e presentazioni grafiche che consentono di facilitare la consultazione, modularla e personalizzarla a seconda delle esigenze specifiche, scaricare materiali off-line e diffonderli agevolmente come strumenti a disposizione di chi, in particolare, si occupa di tutela dei pazienti.
La sezione italiana di Eupati è stata avviata nel 2013 su impulso soprattutto di alcune associazioni (quali Parent Project Duchenne, Associazione dei malati di Tumore della Tiroide ed Associati, Associazione Medici Endocrinologi), raccogliendo poi il sostegno, tra gli altri, di Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco, Federazione Ordini Farmacisti Italiani. In sintesi, gli obiettivi di fondo sono due. Potenziare il coinvolgimento dei pazienti, anche nei comitati bioetici e nei tavoli istituzionali per la registrazione dei farmaci. Il secondo è l’“aderenza terapeutica”: gli errori e le omissioni nell’attuazione di un trattamento farmacologico sono in cima alle cause di fallimento della cura. Sapere è fondamentale, specie nel fondamentale ambito della salute.
Sulla salute la prudenza non è mai troppa, salvo evitare la cattiva informazione e i luoghi comuni. Bene dunque cautelarsi e prendere sul serio i consigli circa i possibili rischi. Ma bene anche valutare la loro fonte e sostanza scientifica. Ebbene, da un’equipe di ricercatori americani sembra emergere che i timori circa l’effetto cancerogeno dei raggi X siano del tutto privi di tale base.
Lo sforzo degli oncologi del Loyola University Medical Center, alle porte di Chicago, è stato quello di una revisione sistematica dell’intera letteratura scientifica in materia negli ultimi 70 anni, ossia dall’orrore dei bombardamenti atomici. La conclusione è che le preoccupazioni di alcuni pazienti (e pochi medici) dinanzi a una radiografia o una Tac si basano su “ipotesi solo teoriche, che non hanno mai trovato il riscontro di alcuna prova”. Alla conclusione segue un alert, quello sulle “spese eccessive per misure di sicurezza azzardate quanto inutili e costose”.
L’assenza di presupposti scientifici adeguati era già stata tardivamente riscontrata in altre ricerche degli ultimi anni, e gli stessi portali ministeriali dei paesi avanzati evitano il tema o tuttalpiù lo segnalano a titolo solo ipotetico limitandosi a sconsigliare “esagerazioni” sull'uso di tali esami.
In questo caso si va oltre, “decostruendo” anche i capisaldi teorici di questa cautela. Essi si basano ancora sul modello elaborato negli anni ’40, il cosiddetto LNT (Linear No-Threshold), “lineare senza soglia”. In sostanza, si prendevano in considerazione i casi più gravi, quelli delle persone esposte alle radiazioni dell’ordigno nucleare, e si graduava la valutazione del rischio cancerogeno a tutti in modo appunto “lineare” rispetto all’intensità dell’esposizione.
Un modello fallace, dunque, considerando che le radiazioni sono ovunque, anche in natura, sicché le modeste entità sono facilmente assorbibili dal corpo. La differenza è qualitativa, non quantitativa. “Basta allarmismi, è tempo di sapere, educare – dicono da Chicago - e costruire un nuovo modello scientifico”. Che, curiosamente, 70 anni dopo ancora non c’è.
Il mercato del farmaco è in discreta salute, con tendenze al lieve aumento. In due parole i primi dati sull’intero 2015 mostrano questo. Il nodo è però che non si può dire “in due parole”. Il settore è talmente complesso e in evoluzione, tanto nell’offerta quanto negli orientamenti dei consumatori, da rendere impossibile l’aggregazione. Alcuni segmenti arrancano, altri segnano un mini-boom con prospettive stimate all’escalation. E questo è il caso in particolare degli equivalenti.
Le cifre, fornite da New Line Ricerche di Mercato documentano globalmente un incremento del mercato della farmacia dell’1,5% in valore, dell’1% a pezzi, sostanzialmente in linea con le stime pregresse dell’osservatorio internazionale di Ims Health, per un fatturato complessivo di oltre 25 miliardi di euro. Ma i dati vanno appunto scorporati.
Alcuni notano una differenza “merceologica”, sottolineando il balzo del 3,6% del fatturato (+2% a pezzi) di tutto ciò che viene venduto in farmacia senza obbligo di ricetta, in linea con gli anni precedenti. Ma anche qui bisogna distinguere, specie sui volumi. Su questi la crescita risulta addirittura piatta per i farmaci da banco (gli OTC e i “non pubblicizzabili” SOP), sicché l’aumento è perlopiù trainato da una parte dei parafarmaci, in alcuni segmenti specifici (dietetici, fitoterapici e veterinari).
La variabile più rilevante è di tipo farmacologico in senso stretto, e riguarda proprio il confronto tra originator ed equivalenti. I primi segnano il passo, con un calo dello 0,8% a valori e dello 0,9% a volumi. Il segno più appare per loro solo sul fatturato dei farmaci non mutuabili (fascia C), dovuto però solo all’aumento dei prezzi, in quanto le quantità vendute segnano anche qui una flessione del 2,2%. Di tutt’altro segno emergono i generici, positivi ovunque, in ogni fascia, con incrementi medi del 6,6% in valore e del 4,9% in volumi.
Sono dati importanti, che partono da lontano e porteranno ancor più lontano. L’alto potenziale del nostro paese, per le stime internazionali di settore, è motivato dal relativo ritardo segnalato dall’Ocse rispetto ad altri paesi avanzati, e al contempo dalla progressiva consapevolezza anche in Italia circa la pari efficacia e sicurezza del “generico” rispetto alla “marca”.
La correlazione tra l'inquinamento e i rischi di alcune allergie è oramai un fatto consolidato, e gli ultimi rilevamenti dalla cosiddetta “emergenza smog” rilanciano drammaticamente le preoccupazioni, con particolare riferimento ai più piccoli. Il danno per loro è grave, con ricadute valutate ora perfino sul piano psicologico.
Infatti è più che triplicata la percentuale dei bambini italiani allergici negli ultimi vent'anni, passando dal 7% al 25% - la stima rivelata nei giorni scorsi a Roma nella conferenza stampa di presentazione di un congresso internazionale sul tema, promosso dall'Organizzazione Mondiale per le Allergie con l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Eloquente anche la statistica sulle patologie più diffuse, in quanto afferiscono alle vie aeree, anzitutto la rinite allergica, che colpisce in particolare gli adolescenti (oltre un terzo dei ragazzi tra i 13 e 14 anni), seguita dall'asma.
A tali dati si incrocia l'allarme sempre più elevato sull'inquinamento urbano in queste settimane di siccità e il suo impatto sulla salute dei minori. “ I Pronto Soccorso pediatrici, specie nelle grandi città, hanno registrato un aumento di almeno il 25% degli accessi negli ultimi due mesi per emergenze respiratorie ”, denuncia il presidente della Società Italiana di Pediatria Giovanni Corsello, citando in particolare i casi di “ iper-reattività delle mucose respiratorie agli inquinanti dell'aria”.
E tra gli effetti collaterali prende ora corpo anche l'ipotesi del danno psicologico. Uno studio dell'Università del Michigan su 546 bimbi tra i 4 e i 7 anni, pubblicato sulla rivista americana Pediatrics, ha identificato uno stretto parallelismo tra l'aumento delle allergie (e in particolare proprio la rinite allergica) e i disturbi di tipo emotivo e comportamentale, tra tendenze involutive e di isolamento, ansia e depressione. Rimane da esplorare la natura specifica e i rimedi più appropriati a tale correlazione, ma la sua sussistenza emerge palese.
Economia e salute, un binomio che ad alcuni può suonare male. Agli antipodi, un po’ come il “dindolò” dei bimbi, se sale uno scende l’altro. Che la percezione sia però fuori luogo è oramai un'evidenza globale, e non solo perché la riflessione sui costi sanitari crescenti è imposta con urgenza da una popolazione che cresce e invecchia. Ma soprattutto perché i due ambiti possono andare a braccetto. Curarsi meglio, spendendo meno è possibile, e lo è anche dinanzi a una delle più gravi emergenze degli ultimi anni, l’Hiv.
Il fatto è emerso chiaro e unanime a Milano nell’ultimo “Workshop di Economia e Farmaci” dedicato al virus. Sul piano dell’efficacia, tra gli altri, Adriano Lazzarin, primario della Divisione di malattie infettive dell’ospedale milanese San Raffaele, ha annunciato il buon esito dello “switch” da originari a generici di alcuni trattamenti (efavirenz, lamivudina e lamivudina+zidovudina). Identico riscontro, anche sulla sicurezza terapeutica, da uno studio presentato dal direttore della Clinica malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma Roberto Cauda, che ha rilevato l'assenza di differenze nei decorsi tra pazienti “switchers” (da branded a generico) e “non-switchers”.
Gli economisti rilanciano, vedendo nel passaggio all’equivalente il presupposto di nuove risorse per la ricerca. “Serve una presa di posizione netta e decisa da parte dei decisori”, incalza Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria all'Università capitolina di Tor Vergata, evocando norme e prassi che facilitino la disponibilità e l’uso di tali farmaci anche in ospedale. In piena sintonia la Lega Italiana per la Lotta all’Aids. L’uso degli equivalenti è “un’opportunità che ne apre altre”, sottolinea il presidente della Lila Massimo Oldrini.
Il Workshop è nato nel 2011 sotto la responsabilità scientifica di due titolati ordinari dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma, il gastroenterologo Antonio Gasbarrini e l’economista Americo Cicchetti. E’ un progetto di ricerca e formazione permanente che riunisce l’insieme degli attori del settore, pazienti inclusi. Fa riferimento all’estesa rete multisciplinare dell’Health Technology Assessment, cui afferiscono esperti di una settantina di paesi sui temi dell’innovazione e dell’organizzazione sanitaria.
Il concetto è che non sempre ci sono “costi e benefici” in materia. Qui emergono solo i secondi. “ I generici sono il futuro, amplieranno la cura dell’Hiv”, scrisse già nel 2012 la rivista Nature.
“Ministro, guardi, il Pronto Soccorso oggi è vuoto, sta giocando il Napoli”. Il paradosso raccontato l’anno scorso in un’intervista televisiva da Beatrice Lorenzin, in merito a una sua visita sorpresa al Cardarelli, è multiplo ma convergente. La tempistica dei “momenti di tregua” al pronto soccorso rivela il medesimo problema cronico della tendenza al sovraffollamento: quello dell’abuso da parte di alcuni che, per scarsa urgenza ed entità del loro malanno, avrebbero il diritto e dovere di trovare altri spazi per curarsi.
Gli ultimi dati delle strutture regionali aggravano il concetto. Nel Trentino, ad esempio, si stima che circa 40mila pazienti si rivolgono ogni anno al pronto soccorso pur non avendone bisogno. I “codici bianchi” (che secondo il protocollo non hanno problemi urgenti e non sono in pericolo) sono quasi un terzo. Sommati ai “codici verdi” (che pur avendo qualche problema in più potrebbero comunque rivolgersi al proprio medico curante), la proporzione sale addirittura all’83% (dati riferiti al 2014).
Il problema non è solo italiano. Un approfondimento, coordinato dalla Plymouth University e pubblicato in questi giorni sulla rivista Health Services and Delivery Research, nota che le ammissioni nelle strutture d’emergenza britanniche sono aumentate del 47% in 15 anni, con un’accelerazione negli ultimi. Si tratta inoltre di una stima solo parziale della pressione sulle sale di pronto soccorso in quanto non conteggia i pazienti che, come consentito dalle norme oltremanica, possono essere “non ammessi”.
Il dibattito è aperto e urgente, su scala globale. La strada è naturalmente quella di un potenziamento delle alternative sanitarie. Al di là dei nodi normativi (ticket, assunzioni di personale), il tema è anche la prassi organizzativa. C’è chi suggerisce ai medici di “uscire dall’ospedale”, chi invece incalza quelli di famiglia a una più stretta cooperazione con gli ospedali stessi. Un aspetto interessante comunque suggerito dalla ricerca inglese – che compara le prassi in 4 diverse strutture – è l’assenza di una “ricetta universale”. Nella logica di un’assistenza territoriale diffusa, è il contesto locale a fare la differenza.
Le donne soffrono di patologie cardiache più degli uomini, e i sintomi sono spesso ben diversi. Tali realtà suonano sorprendenti a molti, ma la sorpresa è essa stessa parte del problema, perché rivela come non sia sempre adeguatamente affrontata e curata, e più in generale come ancora non venga riconosciuta la differenza di genere nelle diagnosi quanto nei trattamenti.
Il dato di base è questo: sin dal 1984, la mortalità per motivi cardiaci è risultata superiore tra le donne rispetto agli uomini, anche se, nota l’ American Heart Association, in una recente ricerca seguita da una campagna stampa statunitense, emergono miglioramenti nell’ultimo decennio dovuti a una parziale presa di coscienza e a cure migliorate. Il problema però persiste. “Per loro il quadro è peggiore”, spiega la coordinatrice dell’indagine Laxmi Metha, dell’Università dell’Ohio, notando la sottovalutazione dei sintomi “inusuali” che per loro sono invece tipici, quali il respiro corto, nausea, vomito, alta pressione, dolori alla schiena. E l’esito finale è che “ alle donne succede più spesso di essere ricoverate una seconda volta, per infarto o morte”.
Insomma la realtà è che gli allarmi femminili tendono ancora a sottovalutarsi per il persistere di preconcetti, alimentati da dati che sembrano confermarli e invece dicono il contrario. Se le italiane vivono in media fino a 85 anni e gli uomini fino a meno di 80, mentre le aspettative sulla buona salute sono pressoché identiche, significa che si prospetta per le prime più anni di vita malata. E se le donne stesse temono molto meno gli infarti di altre patologie significa che sono anch’esse poco informate.
Da un ventennio la “medicina di genere” ha un riconoscimento globale, anche in sede di Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma esso fa leva su aspetti sociologici, quali le “discriminazioni”, più che sulla differenza biologica. Su questa arrivano molte ricerche dagli Stati Uniti, che documentano il diverso impatto tra i sessi di molte patologie, ma poca elaborazione complessiva.
In Italia il problema è speculare. Tra l’Osservatorio di Bari, corsi universitari a Roma, Padova, Torino e altrove, è passato il concetto che uomini e donne sono fatti diversamente e richiedono trattamenti differenti, ma si reclama più ricerca.
Gli americani si fidano degli equivalenti, anzi li preferiscono ai farmaci di marca con percentuali quasi da plebiscito. Il dato incrocia del resto da tempo le indicazioni delle autorità sanitarie d'oltreoceano, medici di base inclusi, e contiene anche implicazioni sulla qualità del trattamento farmacologico.
La recente analisi in proposito dell'agenzia The Harris Poll ha fatto leva su un sondaggio dello scorso agosto su oltre 2200 pazienti adulti. Più di un terzo dichiara di preferire i farmaci generici rispetto ai brand, e il 30% dice di volerli scegliere “in tutti i casi”, indipendentemente dal settore, patologia e costo. Tra gli altri dati interessanti emerge che il gradimento per gli equivalenti sale ulteriormente in relazione all'età: i più favorevoli sono proprio i consumatori più esperti.
Il crescente successo del generico negli Stati Uniti si accompagna a una sempre più netta presa di coscienza tra tutti gli stakeholders del settore, praticamente senza eccezioni. Di recente perfino l'American College of Physicians, la più corposa associazione americana di medici specialisti, ha lanciato un appello ai colleghi a “prescrivere gli equivalenti ogni volta che è possibile”, riconoscendone l'identica efficacia e sicurezza terapeutica, oltre che il rilevante risparmio.
Quest'ultimo aspetto si rivela a sua volta cruciale per determinare la qualità del trattamento. Un’estesa ricerca della fondazione Commonwealth Fund ha confrontato gli aspetti assicurativi della sanità americana con la qualità delle cure. L’analisi è complessa, con dettagli finanziari che a noi dicono poco, per il funzionamento ben distante della copertura sanitaria italiana. Il dato di fondo vale comunque anche qui: il nodo dei costi risulta determinante sulle scelte terapeutiche individuali. Ad alti costi tende a seguire una scarsa aderenza alle prescrizioni farmacologiche, con tutto quel che ne consegue per la salute.
Qualità degli equivalenti, bassi costi, appropriatezza terapeutica: la correlazione, negli Stati Uniti, è oramai riconosciuta come fatto consolidato.
Come spesso accade, sono i governi a raccomandare misure di precauzione prima ancora dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I primi avvertono la responsabilità politica, la seconda è vocata perlopiù al coordinamento. Dal Ministero della Salute è quindi partito dalla scorsa settimana un “consiglio” al “differimento di viaggi” nei paesi latinoamericani dov’è diffuso il virus Zika alle “donne in gravidanza, e a quelle che stanno cercando una gravidanza”, nonché “ai soggetti affetti da malattie del sistema immunitario o con gravi patologie croniche”, mentre l’Oms ha preferito inizialmente scoraggiare “restrizioni inappropriate”, nonostante ammetta una diffusione “esplosiva”.
C’è chi ben va oltre, e in particolare in Colombia dove il governo ha sconsigliato alle donne di restare incinta per i prossimi sei mesi. La realtà è che il virus non è grave, ma si teme possa avere un impatto sui feti. Va quindi chiarito bene di che si tratta. Fu identificato già nel 1947 in alcune scimmie in Uganda durante un monitoraggio sulla febbre gialla. Il vettore è il medesimo, la zanzara Aedes Aegypti, lo stesso anche della dengue, ma ha una differenza fondamentale, è sostanzialmente innocuo, con sintomi lievi, perlopiù assimilabili a una normale influenza che dura tuttalpiù una settimana.
Qualcosa è però successo nell’ultimo anno. Dopo Asia e Africa, il virus ha assunto una valenza formalmente “epidemica” in Brasile (con rapida diffusione in altri paesi americani), e nel contesto dell’epidemia sono poi emersi dati preoccupanti sui nascituri, con un incremento nei casi di microcefalia.
In ogni caso la correlazione, seppur “fortemente ipotizzata”, non è per ora dimostrata, e lo stesso riguarda l'ipotesi che possa trasmettersi anche per via sessuale. Questa è la realtà, i timori sono per ora legati a sospetti e a possibili mutazioni virali, nonché all'assenza di un vaccino e cure specifiche. Sono perciò già in atto sperimentazioni biotecnologiche di “prevenzione”, alcune controverse, quali l'immissione di zanzare “geneticamente modificate” nell'ambiente di alcuni quartieri brasiliani.
La realtà unanimemente perorata è che serve più ricerca, oltre naturalmente a un'informazione equilibrata.
La spesa farmaceutica aumenta, i consumi poco. Gli ultimi dati dell'Osservatorio sull'Impiego dei Medicinali (OsMed), riferiti ai primi nove mesi del 2015, vanno letti con attenzione, scorporando tra settore farmacologico e contesti regionali, e rilanciano l'urgenza di un ricorso più esteso a generici e biosimilari.
Il rapporto rileva una spesa totale di 21,3 miliardi di euro, per oltre tre quarti rimborsato dal Servizio Sanitario. La spesa farmaceutica pubblica ha sfiorato i 10 miliardi (quasi 160 euro pro capite), con un incremento del 9,6% rispetto allo stesso periodo del 2014. Il Direttore Generale dell'Aifa Luca Pani sottolinea “l’impatto che i medicinali innovativi ad alto costo immessi sul mercato lo scorso anno”, in particolare “sulla spesa ospedaliera”. Decisiva è infatti la crescita della spesa per medicinali di classe A, addirittura del 37,4%. Quella farmaceutica convenzionata segna invece un lieve calo, a fronte di consumi in leggero aumento (+0,5%) corrispondenti alle “esigenze di cura di una popolazione che tende a invecchiare”.
L'impennata andrà probabilmente a ridimensionarsi nell'ultimo trimestre dell'anno, dato che l'osservatorio internazionale di Ims Health stima per quel periodo un rallentamento dei prezzi per alcune specialità. Il nodo dei costi del farmaco è in ogni caso centrale, con implicazioni anche sull'aderenza terapeutica dei pazienti, segnalata in difetto specie per (addirittura sotto il 50%) il trattamento con gli ipolipemizzanti.
Decisivo in proposito è l'utilizzo dei farmaci a brevetto scaduto: rappresentano il 53,7% della spesa convenzionata ma solo il 2,2% di quella per i farmaci acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche. Se poi si va a guardare il ben diverso andamento tra le regioni, salta di nuovo agli occhi come le più “virtuose” nel contenimento della spesa siano generalmente quelle dove negli ultimi anni è cresciuto di più il ricorso agli equivalenti.
Come hanno sottolineato gli studiosi dell'Aifa, “i generici e i biosimilari rappresentano un'opportunità essenziale per ottimizzare l'efficienza dei sistemi sanitari, rispondendo alla crescente domanda di cura in termini di efficacia terapeutica, personalizzazione, sicurezza e contenimento dei costi”, si legge sul Journal of Generic Medicines.
Tra salti culturali e problemi di lavoro, c’è un cambiamento epocale in famiglia, col papà a casa. Non accadeva dai tempi pre-industriali e forse, argomentano molti, non è mai accaduto in questa misura. Sul “mammo” si scatenano le varie scienze umane, perlopiù plaudendo al fenomeno. Attenzione però, perché l’allargata partecipazione domestica e la nuova presenza in sala parto andrebbero accompagnate a un’altra consapevolezza, primaria e clinica: il partner può aiutare, e molto, ma altrettanto può far male, se sta “depresso”, sin dal concepimento.
Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Obstetrics and Gynaecology, è stato condotto in Svezia su una platea molto estesa, 350mila nascite “premature” tra il 2007 e il 2012, ossia entro la 36ma settimana. Lo stato “depressivo” del genitore è stato definito dalla sussistenza di un trattamento farmacologico o di una consultazione ospedaliera nell’anno prima del concepimento fino al secondo semestre di gravidanza.
Ebbene, il riscontro sorprendente è che l’incidenza della depressione del genitore sul rischio di un parto prematuro – che è causa principale di morte dei neonati in larga parte del mondo, nota l’Organizzazione Mondiale della Sanità – non solo è molto alta, con percentuali che arrivano al 40%, ma, e questa è la vera novità, rivela analogie tra i due genitori. Sui rischi della madre “depressa” si sapeva, su quelli del padre no. Il problema riguarda soprattutto i “nuovi” depressi, quelli che non avevano riscontrato patologie prima di tale periodo (forse per la positiva incidenza dei trattamenti avviati dai “vecchi” malati): i papà che vengono a trovarsi in tale categoria incrementano la probabilità del parto prematuro di addirittura il 38%.
Il dato è impressionante e meriterà un approfondimento scientifico. A detta degli stessi ricercatori, non è chiaro se la causa sia primariamente “ psicologica” (lo stress trasmesso dal partner alla donna incinta) o “fisiologica” (l’impatto della depressione sulla qualità dello sperma, con effetti possibili sul Dna del bambino e sulla placenta). Quel che è comunque evidente è che lo “star bene durante la gravidanza” non è più solo un diritto e dovere materno, vale anche per il padre. Con l’imperativo a superare la virile riluttanza a curarsi, se del caso.
Ridere fa bene, alla salute, alla forma e al peso. Non è una novità assoluta, ma c’è qualcuno che ha fatto un po’ di calcoli che allargano il concetto. Una ricerca semi-seriamente scientifica condotta oltremanica dice qualcosa in proposito e fa pensare. Il principio è che la prevenzione e il benessere dipendano meno dai dettagli della dieta alimentare o da faticose ginnastiche che dall’umore con cui affrontiamo il mondo.
I pregressi della ricerca in materia non mancano, con benefici accertati sulla risata in varie università su molti fronti, in primis quello cardiaco. Qui però si tenta una qualificazione e una quantificazione. L’“urlatore” può bruciare fino a 120 calorie all’ora; la risata “che piega la pancia” ne consuma 100; la “risatina” arriva a 33; il “ridacchiare” ne distrugge 20; il più compresso “ ghigno” ne debella comunque 10. Al conteggio seguono poi calcoli sui minuti necessari a un atteggiamento e all’altro, il conteggio comparato su quel che le diverse risate possono compensare rispetto a una dietra o l’altra e ulteriori conclusioni sulla tonicità muscolare, a iniziare naturalmente dagli addominali.
Intendiamoci, dietro al Comedy Research Project che sta impazzando in questi giorni sul tema, sia sulle riviste scientifiche che su quelle pop di mezzo mondo, non c’è moltissimo. Non ci sono campus, riviste accademiche o simili. Se ne parla da quasi quindici anni (intorno al termine “ gelotologia”, la cosiddetta “scienza della risata”) nel Regno Unito e altrove, perfino in consessi universitari, eppure, a ben vedere, le persone fisiche che lo animano sono perlopiù personaggi televisivi, comici e comunicatori scientifici. Il fatto è che tra questi c’è chi conosce la ricerca e la sa fare. È il caso, in particolare, della neuro-scienziata Helen Pilcher, che tra l’altro collabora per la celebrata rivista Nature e ha diretto quest’ultimo progetto.
Siccome poi lo studio è stato commissionato da una televisione, i risultati sono stati correlati alla visione di sit-com e altri programmi comici. Va da sé, come ben sanno gli autori, che le risate più grasse e salutari si producono lontano dallo schermo, nelle più banali serate tra amici. Sono importanti, da non omettere, per la cura della propria salute, dicono dunque gli studiosi.
“Gli Stati poveri dell’Africa ottengono l’estensione all’accesso ai meno costosi farmaci generici”. Titolava così lo scorso 19 dicembre scorso il keniano East African e, a ruota, i principali portali del “Continente Nero”. Il trionfalismo era assai motivato per i paesi in via di sviluppo. In ballo al vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) a Nairobi era la proroga delle concessioni per le importazioni di equivalenti oltre la scadenza prevista nel 2016, ed è stata ottenuta.
La decisione è compressa in quattro righe, senza clamori né comunicati stampa. Si fa riferimento al “Trips”, l’ Accordo sugli Aspetti Commerciali dei Diritti di Proprietà Intellettuale” siglato in Uruguay nel 1994 e alle successive deroghe in materia, l’ultima nel 2013. La proroga è stata ora estesa al vertice dell’anno prossimo ma di fatto, spiega correttamente la stampa locale, è a tempo indeterminato, finché non si opporranno almeno due terzi dei paesi membri dell’Organizzazione. Fino ad allora, si stabilisce, “ non saranno ammesse cause giudiziarie in ambito Trips”.
Il tema della “proprietà intellettuale” è esteso e complesso, con angolature e implicazioni ben diverse tra un settore e l’altro. Il farmaceutico è però quello commercialmente e umanamente più rilevante, specie per i paesi meno abbienti, dove, viene sottolineato, “ si vive con meno di un dollaro al giorno e si è al contempo molto più esposti a virus gravi, quali l’Hiv e la malaria, che nei paesi ricchi”.
E su questo l’interesse non era solo dei “paesi poveri” ma anche di quelli “emergenti”, a iniziare dall’India. Nel dopoguerra, dopo l’Indipendenza da Londra, introdusse norme per promuovere l’industria locale, che prevedevano criteri ben più lassisti rispetto ai 20 anni imposti dal Trips e ai 10 di solito riconosciuti ai farmaci “di marca”, con l’esito ultimo di portare la produzione nazionale al quarto posto nel mondo, con esiti formidabili sulla costruzione di un’assistenza sanitaria accessibile in patria quanto in Africa.
Tali norme sono state poi emendate per venire incontro alle esigenze dei trattati commerciali mondiali, ma hanno conservato dei paletti a tutela del generico. Alcuni governi africani si son detti “spaventati” circa la loro possibile rimozione, in India e in sede internazionale. Il pericolo, per ora, è stato scongiurato.
Siamo più vecchi, e lo saremo sempre di più. Questo riguarda anche e soprattutto un paese come l’Italia, dove nel 1963 solo uno su dieci superava i 65 anni, mentre mezzo secolo dopo la proporzione è raddoppiata, uno su cinque. Ma è il mondo a invecchiare, quasi ovunque, perfino in molti dei paesi poveri, tra decrementi nella natalità e incrementi nella speranza di vita. Un rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, “ Ageing: Debate the Issue”, rilancia l’allarme per il futuro prossimo, stimando per il 2050 oltre 2 miliardi di anziani, il 21% della popolazione, mentre oggi sono “solo” il 12%.
Naturalmente ci sono i rovesci della medaglia. Gli anziani di oggi stanno meglio di ieri, e sperabilmente quelli di domani meglio di oggi. Più produttivi, dunque, dal lavoro al volontariato, e perfino in famiglia. Già oggi sono spesso non “fonte di problemi”, ma “soluzione”, considerando che, nota l’Istat, il rischio di povertà tra le famiglie con pensionati sia più basso delle altre (nel 2013 il 16% contro il 22,1%).
In ogni caso le ripercussioni sono evidenti e crescenti, sul piano sociale, economico, previdenziale. Cambia drasticamente la popolazione, deve cambiare anche il welfare, perfino dove oggi funziona. “I sistemi sanitari non sono pronti”, dice l’Ocse. La ricetta dell’Organizzazione – condivisa almeno a parole da molti addetti ai lavori – è quella di spostare la priorità da una Sanità fondata sugli ospedali (da specializzare sui casi più delicati e gravi) a un sistema di assistenza territoriale diffusa. E questo richiede il contributo di tutti, inclusa la disponibilità degli operatori a “fare rete”, sia sul piano organizzativo che su quello tecnologico, anzitutto nella condivisione delle informazioni mediche.
Ma oltre alle alchimie strutturali ci sono le soluzioni di immediato risparmio e piena efficacia a portata di mano. L’adozione dei farmaci equivalenti, ad esempio, che in Italia cresce ma rimane ancora inferiore alla media Ocse. Gli appelli in tal senso si moltiplicano, col passo dell’urgenza. Dall’Aifa alle associazioni di medici, dalle più note Ong mondiali a, ovviamente, Assogenerici (come documentato da molti giornali italiani negli ultimi giorni): “ Diffondere la cultura del generico”, l’obiettivo condiviso.
La sentenza emessa a inizio anno dal Consiglio di Stato ha una valenza storica in materia di prescrizioni farmaceutiche, con un impatto destinato a protrarsi ben al di là dell'ambito territoriale dal quale è stato sollecitato, ossia la Regione Puglia.
Il supremo organo amministrativo ha sancito una volta per tutte che il medico, nel valutare tra farmaci di riconosciuta pari efficacia terapeutica e sicurezza, deve preferire quello meno costoso. In sostanza, se vale uguale e costa meno va scelto. Il principio, ispirato a una politica di contenimento della spesa sanitaria, era stato stabilito da una delibera regionale firmata a Bari il 26 febbraio di due anni fa, e poi era stato fatto proprio anche dal Tar. Nel respingere l’ulteriore ricorso di tre aziende farmaceutiche, lo ha reso un principio applicabile in qualsiasi angolo del paese.
In discussione (accesa) erano in particolare i farmaci “biosimilari”, che prospettano un risparmio fino al 60 per cento della spesa. L’imperativo dei giudici si applica ai pazienti “naive”, che devono entrare in terapia, altrimenti viene riconosciuta la discrezione del medico nell’atto di prescrivere i farmaci onde non rischiare di inficiare il principio della continuità di trattamento.
Con la sentenza, in più, la magistratura ora decreta la punibilità del professionista che non si adegui al principio: “ Non può censurarsi nemmeno la previsione di una procedura aggravata e di una possibile sanzione per i medici che risultino inadempienti", e cioè pagare di tasca propria il “rimborso della prescrizione” inutilmente onerosa. Di più, riconoscendo la sostanza scientifica e al contempo economica del principio, i giudici impegnano i direttori sanitari ad applicarlo, tra gli “obiettivi prioritari”, fino a “ considerare la loro attuazione oggetto di valutazione ai fini della conferma o della revoca dell'incarico".
La sentenza estende e generalizza alla collettività di cittadini e operatori un concetto già evocato in recenti pronunce dello stesso Consiglio su appalti e direttive dirigenziali di spesa in altre regioni, quali Umbria e Toscana.
La guerra fredda è alle spalle, ma Oltreoceano non cessa di scatenare i maestri hollywoodiani e perfino gli scienziati. E così, da un paper di tre ricercatori dell'Università del Vermont, è rispuntato lo spettro del “socialismo”. In ballo non sono però le caricature della storia, bensì i batteri, scoperti in azione comunitaria ben al di là delle loro “leggi di mercato”, ovvero delle “minacce esterne”.
Fuori dalle suggestioni socio-politiche, il tema è di concreto interesse per la scienza medica. Si documenta non solo come le cellule di una comunità batterica utilizzino le proteine per attivare meccanismi difensivi collettivi – fatto già accertato in precedenza - ma ora addirittura che lo facciano mentre non sono bersagliate dagli antibiotici, con l'esito ultimo di poter rigenerare l’infezione quand'anche ne sopravvivano pochissime.
La resistenza e le mutazioni dei batteri sono in cima agli incubi dei ricercatori, non senza qualche rischio di “procurato allarme” nell’opinione pubblica. Nelle scorse settimane è emerso ad esempio, in allevamenti maiali britannici oltre che in precedenza in Cina, un ceppo batterico resistente perfino alla colistina, tra gli antibiotici più potenti, inducendo poi diversi scienziati (e la rivista Nature) a minimizzare sui rischi per la salute pubblica. Altri biologi, nell’ottica della rassicurazione, hanno recentemente anche messo in discussione, rovesciandolo, l’assunto che il corpo umano abbia più batteri che cellule, tema che peraltro appare di scarsa ricaduta scientifica.
In ogni caso la novità qui non sta nella natura o nella quantità dei batteri, bensì nel loro comportamento “sociale”. L’identificazione di quel “ sistema socialista” di difesa sembra indicare nuove direzioni alla ricerca. In particolare, negli auspici degli scienziati del Vermont, il potenziale è nella comprensione di patologie fin qui senza guarigione, come la fibrosi cistica.
La morte di una donna per l’Ebola in Sierra Leone poche ore dopo l’annuncio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – “ L’Africa Occidentale è a zero” contagi – potrebbe far pensare a un macroscopico errore dell’agenzia dell’Onu dopo 68 anni di onorato servizio. Non è così, e per capire che l’avvenire possa ancora essere dietro le spalle basta un’occhiata al testo del comunicato.
“E’ probabile che emergano nuovi focolai”, si legge già nel titolo, seguito dall’impegno a uno “ sforzo massiccio per assicurare una solida prevenzione, sorveglianza e capacità di risposta” nell’area. I timori restano dunque alti, motivati dall’Oms con un esempio proprio sulla Liberia, l’ultimo dei tre paesi (dopo Sierra Leone e Guinea) a essere dichiarato “virus-free” (tecnicamente per il conteggio di 42 giorni trascorsi dal contagio alla guarigione dell’ultimo paziente accertato): ebbene, la stessa Liberia era stata dichiarata “libera” già lo scorso maggio, ma il contagio è poi riapparso per ben due volte.
In due anni Ebola ha infettato quasi 30mila persone uccidendone più di 11mila. L’epidemia più letale, da quando apparve per la prima volta il virus nel 1976, ha devastato la popolazione e l’economia di tre paesi, contagiando cittadini di altri 30, incluso un cooperante italiano. Mancano ancora certezze su terapia e vaccinazioni. Insomma, come spiega la rivista Nature, tra le “7 lezioni” impartite dalla tragedia, la più importante sta nel fatto che non è finita.
Le altre 6 riguardano l’adeguatezza della risposta internazionale all’emergenza, tra nodi organizzativi, farmacologici, perfino culturali. È la stessa Oms peraltro a indicare l’aspetto cruciale: servirebbe “una copertura sanitaria universale” per prevenire questa e altre pandemie, che agiscono selettivamente soprattutto nei paesi più poveri di risorse, strutture e cure.
Un imponente studio finanziato da diverse fondazioni americane fa i conti: affrontare le emergenze pandemiche può costare al mondo circa 60 miliardi di dollari all'anno: per evitarle – spiega - basterebbe investire meno di un decimo di tale cifra per realizzare ovunque un’adeguata prevenzione sanitaria.
“L’Istat invita alla cautela nelle analisi dei dati di mortalità”. Alla soglia di Capodanno l’Istituto di Statistica si è sentito costretto a intervenire su qualche commento allarmato alle proprie cifre. E ha fatto bene, perché qualche preoccupazione c’era e c’è. A dicembre è stato stimato un incremento dei decessi tendenziale (su base annua) di addirittura l’11,3%, pari a circa 68mila morti in più.
Sono dati aggregati, riferiti fino all’agosto scorso, sicché per la conferma delle percentuali e per un’analisi “disaggregata” sulle cause ci vorranno mesi, se non anni. Questo dice l’Istat e qualsiasi serio ricercatore. Sui grandi numeri valgono due regole fondamentali: la prima è che ci vuole tempo per sezionarli e capirli; la seconda è che, se sono davvero grandi, rivelano comunque qualche verità, non sono casualità.
Di qui le prime congetture, da tuttologi ma anche da demografi e medici, chi a tirare in ballo l’invecchiamento degli italiani, chi a ricordare lo “scandalo vaccini” che ha scoraggiato molti all’assunzione, chi a citare i rilevamenti sullo smog, chi a notare la tendenza generale al decremento della popolazione che ha segnato il passo nel 2015 in misura che non accadeva da un secolo. Tutti dati veri ma che non possono, almeno da soli, spiegare tutto.
Molti attaccano poi i tagli alla Sanità. “Ci si ammala sempre più (per i motivi di cui sopra) e ci si cura sempre meno”, si dice. Tra loro l’associazione “Italia Aperta”, che con un blog ben documentato (e gestito in piena autonomia) sul Fatto Quotidiano, punta il dito proprio sulla variabile farmaceutica, con particolare riferimento agli equivalenti. “ La quota di mercato rappresentata da farmaci generici è quadruplicata dagli anni 2000, contribuendo alla riduzione dei prezzi e della spesa. Tuttavia – si legge ancora - la penetrazione dei farmaci generici resta relativamente bassa in Italia, e rappresenta il 19% del mercato farmaceutico totale in volume nel 2013 (rispetto a un media OCSE del 48%) e l’11% in valore (meno della metà della media OCSE, pari a 24%) ”.
Niente allarmismi sull’aumento della mortalità, dunque. Ma il dato c’è e qualcosa dice.