Si chiama Sindrome Metabolica e indica una serie di alterazioni che, se presenti contemporaneamente, possono essere molto rischiose per la salute. Non si tratta di una vera e propria malattia ma piuttosto di uno stadio di pre-malattia che, se trascurato, può condurre all'insorgenza di gravi conseguenze cardiovascolari, al diabete e ad altre disfunzioni del metabolismo. Per questo motivo, spiegano gli specialisti dell’Associazione Nazionale dei Medici Cardiologi Ospedalieri (Anmco), riconoscere per tempo la Sindrome Metabolica significa a tutti gli effetti prevenire le malattie del cuore e del metabolismo.
Negli ultimi anni le persone colpite da patologie cardiovascolari sono aumentate nel nostro Paese e in generale in tutto il mondo occidentale. Le cause di questa aumentata incidenza, quando non sia presente una predisposizione genetica, sono spesso da ricercare in un errato stile di vita caratterizzato da un'eccessiva sedentarietà, da un'alimentazione scorretta e poco equilibrata, dall'abuso di alcolici e dal fumo.
La Sindrome Metabolica interessa circa 14 milioni di italiani, di entrambi i sessi, con età compresa principalmente tra i 30 e i 60 anni: per tutte queste persone il rischio di andare incontro all'infarto o all'ictus è fino a cinque volte maggiore rispetto alle persone sane.
Le ricerche svolte hanno portato all’identificazione di cinque fattori di rischio che aumentano la possibilità di sviluppare le malattie cardiovascolari e il diabete e che sono le condizioni per le quali oggi si parla di Sindrome Metabolica.
In un soggetto a rischio, almeno tre dei seguenti valori presentano un’alterazione:
L'alimentazione e l'attività fisica giocano quindi un ruolo fondamentale nella prevenzione della Sindrome Metabolica: aumentare l'attività fisica regolare e ridurre il peso corporeo, associando agli esercizi una dieta regolare, povera di grassi e ricca di frutta e verdura, è un’ottima ricetta per evitarla.
È inoltre utile programmare visite di controllo, verificare la pressione sanguigna, il colesterolo e i livelli della glicemia a intervalli regolari. Nei casi in cui sia necessario, si dovrà ricorrere a farmaci che per il controllo di queste condizioni sono disponibili anche come equivalenti. Alla loro documentata efficacia e sicurezza si unisce la convenienza economica, aspetto non secondario nelle terapie croniche.
Tatuaggi e piercing una moda sempre più diffusa che può esporre al rischio di infezioni e danni al fegato specie i giovanissimi. A stabilirlo è una ricerca condotta dall’università di Roma Tor Vergata, che su 2500 studenti liceali, coinvolti con questionario anonimo, ha rilevato come il 24% di essi abbia avuto complicanze infettive. Solo il 17% ha firmato un consenso informato e il 54% è sicuro della sterilità degli strumenti che sono stati utilizzati. “Una volta esclusi i tossicodipendenti dall’analisi - spiega Carla Di Stefano, autrice dell’indagine e ricercatrice all’università di Tor Vergata - si può stimare che chi si sottopone a un tatuaggio ha un rischio 3,4 volte più alto di contrarre l’epatite C. Per quanto riguarda il piercing, il rischio di contrarre l’epatite C è 2,7 volte maggiore rispetto a chi non se lo fa applicare".
Scopo della ricerca è stato quello di informare gli adolescenti che sottoporsi a piercing e tatuaggi in locali non certificati senza rispetto delle norme igieniche, così come le pratiche fai da te con strumenti artigianali inadeguati, espongono al rischio di trasmissione di malattie infettive, dall’epatite B, alla C, all’Aids, potenzialmente gravi. Inoltre l’inoculazione nella cute di sostanze chimiche non controllate può portare a reazioni indesiderate di tipo tossicologico o di sensibilizzazione allergica. “Se l’80% dei ragazzi ha affermato di essere a conoscenza dei rischi d’infezione, solo il 5% è informato correttamente sulle malattie che possono essere trasmesse”, spiega Di Stefano. Questo nonostante il fatto che “il 27% del campione ha dichiarato di avere almeno un piercing, il 20% sfoggia un tatuaggio e sono ancora di più gli aspiranti: un ulteriore 20% degli intervistati ha dichiarato l’intenzione di farsi un piercing e il 32% di ornare la pelle con un tatuaggio”.
Per quanto riguarda il rischio di contrarre l’epatite C, "il dato scientificamente più interessante sta nei tempi di sopravvivenza del virus rilevati negli aghi e nell’inchiostro, che arrivano anche a un mese", commenta Di Stefano. Bisogna ricordare che l’Italia detiene la maglia nera rispetto alla media europea, nella presenza dell’epatite C che si aggira tra lo 0,1 e l’1% della popolazione, con un tasso d’incidenza variabile tra il 2-3% e 1 milione 200mila persone affette dal virus in forma cronica. “L’epatite virale - spiega l’esperta - è un’infiammazione del fegato causata dall’infezione, silente o sintomatica, da parte di alcuni virus tipici del tessuto epatico. Nella forma acuta, la malattia si manifesta con disturbi di tipo influenzale, spesso asintomatico, mentre nella sua forma cronica l’infiammazione permanente del tessuto epatico è dovuta all’incapacità del sistema immunitario di eliminare il virus epatitico. Nella metà circa dei pazienti l’infezione cronica causa lesioni progressive del fegato e una parte di questi pazienti può sviluppare la cirrosi, che nel nostro Paese è la quinta causa di morte con circa quindicimila decessi l’anno e oltre seimila sono i pazienti che muoiono per carcinoma del fegato”.
Quello del rischio di una trasmissione del virus mediante aghi infetti è un problema più volte evidenziato in Italia fin dagli anni Novanta, ma recentemente è stato stimato che nel nostro Paese una quota di casi di epatite C acuta superiore al 10% è attribuibile ai trattamenti estetici. Per i ricercatori italiani, è indispensabile incoraggiare l’utilizzo di materiale monouso e una corretta sterilizzazione degli strumenti, aumentandone il monitoraggio. Ma è anche importante informare con continuità che il far ricorso a strutture temporanee, come quelle che compaiono durante i mesi estivi nelle località balneari, aumenta il rischio di contagio perché si tratta di situazioni svincolate dai normali controlli. Insomma, la partita si gioca prima di tutto sul terreno della corretta informazione, a cominciare già dai banchi di scuola.
Si chiama Sindrome Metabolica e indica una serie di alterazioni che, se presenti contemporaneamente, possono essere molto rischiose per la salute. Non si tratta di una vera e propria malattia ma piuttosto di uno stadio di pre-malattia che, se trascurato, può condurre all'insorgenza di gravi conseguenze cardiovascolari, al diabete e ad altre disfunzioni del metabolismo. Per questo motivo, spiegano gli specialisti dell’Associazione Nazionale dei Medici Cardiologi Ospedalieri (Anmco), riconoscere per tempo la Sindrome Metabolica significa a tutti gli effetti prevenire le malattie del cuore e del metabolismo.
Negli ultimi anni le persone colpite da patologie cardiovascolari sono aumentate nel nostro Paese e in generale in tutto il mondo occidentale. Le cause di questa aumentata incidenza, quando non sia presente una predisposizione genetica, sono spesso da ricercare in un errato stile di vita caratterizzato da un'eccessiva sedentarietà, da un'alimentazione scorretta e poco equilibrata, dall'abuso di alcolici e dal fumo.
La Sindrome Metabolica interessa circa 14 milioni di italiani, di entrambi i sessi, con età compresa principalmente tra i 30 e i 60 anni: per tutte queste persone il rischio di andare incontro all'infarto o all'ictus è fino a cinque volte maggiore rispetto alle persone sane.
Le ricerche svolte hanno portato all’identificazione di cinque fattori di rischio che aumentano la possibilità di sviluppare le malattie cardiovascolari e il diabete e che sono le condizioni per le quali oggi si parla di Sindrome Metabolica.
In un soggetto a rischio, almeno tre dei seguenti valori presentano un’alterazione:
L'alimentazione e l'attività fisica giocano quindi un ruolo fondamentale nella prevenzione della Sindrome Metabolica: aumentare l'attività fisica regolare e ridurre il peso corporeo, associando agli esercizi una dieta regolare, povera di grassi e ricca di frutta e verdura, è un’ottima ricetta per evitarla.
È inoltre utile programmare visite di controllo, verificare la pressione sanguigna, il colesterolo e i livelli della glicemia a intervalli regolari. Nei casi in cui sia necessario, si dovrà ricorrere a farmaci che per il controllo di queste condizioni sono disponibili anche come equivalenti. Alla loro documentata efficacia e sicurezza si unisce la convenienza economica, aspetto non secondario nelle terapie croniche.
Dalla bigiotteria, ai detersivi o a materiali in gomma. I potenziali nemici della pelle si nascondono in molte sostanze. Alcune persone sono infatti esposte al rischio di sviluppare una dermatite allergica da contatto, “una malattia infiammatoria della pelle causata dal contatto prolungato con diverse sostanze chimiche e quindi è più frequente in alcune categorie professionali come parrucchieri, muratori, ma anche tra le casalinghe”, spiega Mauro Giani, direttore di Allergologia IDI - IRCCS Roma. Oggetti in metallo, in gomma, profumi, cosmetici, tinture per capelli, detergenti, tessuti, possono indurre la comparsa di questa malattia allergica nelle persone predisposte.
“Un problema non trascurabile, dato che in Europa soffrono di questa dermatite circa il 10-15% dei ragazzi sotto i 16 anni e circa il 20% degli adulti. Nei centri specializzati come il nostro eseguiamo un test allergologico chiamato Patch-test o test epicutaneo, per arrivare ad una diagnosi”, prosegue il dermatologo, che aggiunge: “La dermatite da contatto si manifesta con lesioni eczematose (un insieme di piccole macchie rosse, oppure come gruppi di foruncoli infiammati o anche come placche umide e rilevate) nelle zone che appunto vengano a contatto con la sostanza responsabile. Per fare un esempio, il lobo degli orecchi dopo il contatto con orecchini di bigiotteria, oppure il cuoio capelluto dopo tintura per capelli, il dorso del piede dopo aver calzato una scarpa a contatto diretto con la pelle”.
Un aspetto da tenere a mente è che questa malattia può comparire improvvisamente a qualunque età, perché più aumenta l'esposizione con le sostanze chimiche e più aumenta il rischio di sviluppare una dermatite allergica da contatto. “Le dermatiti allergiche sono reazioni di tipo ritardato, ovvero i sintomi compaiono dopo ore o giorni dal contatto con la sostanza chimica responsabile, un aspetto che le differenzia ad esempio da altre allergie, come quelle ai pollini che sono invece di tipo immediato”, sottolinea Giani.
Che cosa fare se si soffre di una dermatite da contatto? “Il primo suggerimento è, se possibile, di evitare il contatto con la sostanza responsabile della dermatite” consiglia lo specialista. “La terapia si basa sull'utilizzo di prodotti per uso locale: creme barriera, idratanti, pomate cortisoniche. Nelle forme associate a prurito intenso si possono utilizzare antistaminici per via orale e, raramente, nelle forme più gravi e diffuse, anche cortisonici per via orale o immunosoppressori, come la azatioprina o la ciclosporina”. Tutti farmaci disponibili anche come equivalenti, preparati sicuri, efficaci ed accessibili. “Esiste un vaccino per l’allergia al Nickel, ma non c'è ancora un consenso unanime sul suo utilizzo: alcuni centri specializzati lo prescrivono, solo in casi selezionati, a pazienti con forme sistemiche di dermatite allergica”, conclude il professore.
E’ un fastidioso “compagno di viaggio” per le donne, ma anche per gli uomini. La candidosi è un’infezione che colpisce molte donne ed è causata da un fungo, la Candida albicans, normalmente presente nella vagina. Quando il normale ecosistema vaginale viene alterato il fungo può crescere in maniera aggressiva provocando prurito, irritazione e gonfiore in tutta l’area vulvo-vaginale e perdite di colore biancastro dall’aspetto caseoso simile a ricotta.
Una delle cause è rappresentata dagli sbalzi ormonali che si verificano durante il ciclo mestruale o più precisamente la settimana che precede le mestruazioni, con la tendenza a peggiorare indossando indumenti attillati e/o sintetici. L’infezione è accompagnata anche da altri sintomi, quali: dolore durante i rapporti sessuali (dispareunia) e emissione difficoltoso dell’urina (disuria).
Durante il ciclo mestruale è bene non usare assorbenti interni, ma solo assorbenti esterni e rigorosamente di cotone ipoallergenico (no profumati), da cambiare con una certa frequenza in modo che non si crei l’ambiente caldo-umido ideale per la crescita della Candida. È consigliabile anche seguire un ciclo di fermenti lattici (Lattobacilli) per proteggere la microflora vaginale.
La Candida albicans, in ogni caso, va trattata adeguatamente con gli antimicotici, ma anche rivedendo la propria dieta e regolarizzando l’intestino.
Fino alla scomparsa dei sintomi e al completamento della cura è buona norma evitare di avere rapporti sessuali che aumentano il pH vaginale (o utilizzare il preservativo), per evitare di trasmettere l'infezione al proprio partner. Il contagio, generalmente, si manifesta con maggiore frequenza soprattutto da donna a uomo.
Secondo gli esperti della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) non è sempre necessario trattare anche il partner, tuttavia è bene intervenire in caso di comparsa di infiammazioni ai genitali maschili utilizzano creme attive contro la Candida (es. farmaci azolici antimicotici) da applicare localmente per circa 10 giorni. In alcuni casi, la terapia topica deve essere accompagnata da una terapia sistemica. Il medico, infatti, può suggerire l’uso di medicinali per bocca ad azione antimicotica, da assumere per 7-14 giorni.
In caso di vaginite da Candida, soprattutto in fase acuta, è importante seguire alcune norme igieniche tra cui quella di non andare in piscina finché l’infezione non è guarita. Questo soprattutto perché il cloro, usato come disinfettante e antibatterico, altera pericolosamente la normale acidità dell’ambiente vaginale (indicato da un parametro che si chiama pH il cui valore normale oscilla tra 3,5 e4,5), favorendo la proliferazione del fungo e aumentando la possibilità che diventi patogeno nella vagina. Il mare, pur non essendo sconsigliato in caso di vaginite da Candida, non è d'aiuto a causa dell’elevata concentrazione di sale, che contribuisce ad irritare le mucose genitali. Inoltre, il costume bagnato mantiene la zona costantemente umida e a contatto con il sale.
Se però di sceglie di andare al mare, è bene osservare alcune norme igieniche come cambiare il costume ogni volta che si fa il bagno, sciacquarsi con acqua corrente e usare un telo da bagno in cotone piuttosto che in spugna.
Attenzione ad esporsi al sole se si stanno assumendo farmaci. In alcune persone che stanno seguendo terapie farmacologiche, il sole, normalmente prezioso alleato per la salute quando “preso” con le dovute precauzioni, può scatenare delle reazioni che vanno da una maggiore sensibilizzazione ai raggi solari fino a vere e proprie manifestazioni allergiche.
“Alcune categorie di farmaci possono potenziare l’azione dei raggi ultravioletti sino a provocare i tipici sintomi di una scottatura solare, anche se siamo rimasti esposti al sole per periodi di tempo limitati”, spiega Carlo Pini, Direttore di Immunobiologia all'Istituto Superiore di Sanità. ”Sostanzialmente le reazioni associate con la presenza di esposizione solare si distinguono in reazioni fototossiche e fotoallergiche. Le categorie di farmaci potenzialmente coinvolti sono varie e vanno dai contraccettivi orali agli antinfiammatori (FANS), alcuni antibiotici, ed altri”.
L’assunzione di farmaci può comunque esporre alcune persone al rischio di una reazione allergica. “Tra i farmaci maggiormente associati su base epidemiologica a reazioni allergiche si devono segnalare gli antibiotici cosiddetti betalattamici quali le penicilline e le cefalosporine, ma possono dare reazioni anche gravi i FANS, i mezzi di contrasto, gli anestetici, ed altri”, prosegue Pini.
Ma come ci si accorge di un attacco allergico da farmaco? “La sintomatologia che si associa ad un evento allergico a farmaco e piuttosto varia anche in funzione del tipo del principio attivo che abbiamo assunto – chiarisce lo specialista -. Le manifestazioni possono essere lievi o severe e possono andare dall’orticaria, all’arrossamento della pelle fino alle bolle (angioedema), a un attacco di asma, ma può esserci persino lo shock anafilattico, l'evento più grave. In ogni caso l’attacco allergico può insorgere in maniera subdola, molto dipende dal livello di sensibilità dell’individuo in questione. Se l'evento è importante, la persona sta immediatamente male, occorre ovviamente andare al primo pronto soccorso, meglio se si porta la confezione del medicinale assunto. Nei casi di modesta entità, bisogna comunque contattare il proprio medico e seguirne le indicazioni. In ogni caso è fondamentale segnalare al proprio medico ogni reazione associata o potenzialmente associata ad un farmaco, in generale è bene leggere attentamente il foglietto illustrativo circa il potenziale rischio noto per quel certo farmaco di indurre una reazione allergica, prima di assumere qualunque medicina”.
Pini mette in guardia anche contro i rimedi della nonna, come bere latte o indursi il vomito. “In caso di reazione di scarsa entità oltre alla sospensione del farmaco che si ritiene essere responsabile della reazione allergica, occorre immediatamente informare il medico e investigare nel dettaglio la situazione per arrivare ad una diagnosi certa che consenta di prevenire al meglio e per quanto possibile future insorgenze di reazioni allergiche – suggerisce il direttore -. Ovviamente in caso di reazione grave il ricorso al Pronto Soccorso è raccomandato, dove sarà possibile prestare tutte le cure del caso al soggetto. In caso di reazioni gravi al punto da mettere in pericolo, come lo shock anafilattico, nell’immediato l’unico rimedio rimane la somministrazione di adrenalina, unico farmaco in grado di compensare in tempi brevissimi la criticità generalizzata che si accompagna allo shock”.
Un SMS per sapere come è stato utilizzato il proprio sangue donato. E’ l’iniziativa lanciata in Svezia dall’associazione dei donatori di sangue. «Siamo sempre alla ricerca di un modo per far capire ai donatori quanto sia importante il loro gesto, dare un feedback sul loro impegno» spiega Karolina Blom Wiberg, responsabile della comunicazione dei donatori di sangue di Stoccolma intervistata dal The Indipendent.
I messaggi, si è visto, incoraggiano i cittadini a donare di nuovo. Nel paese scandinavo tutti i donatori ricevono un sms di ringraziamento, ma quando il loro sangue arriva nelle vene di qualcun altro arriva un secondo messaggio. Un nuovo ringraziamento, proprio quando il loro gesto generoso ha concretamente salvato una vita o più semplicemente ha fatto star meglio una persona malata. L’innovativo servizio ha avuto un immediato successo sui social media, testimoniato dalle molte condivisioni: «È una bella sensazione sapere che con un gesto semplice come donare il sangue hai fatto la differenza e che forse hai salvato la vita a qualcuno» spiega Blom Wiberg. Ma l’efficienza scandinava va oltre.
I cittadini di Stoccolma, infatti, possono consultare il sito web del servizio locale della donazione di sangue e vedere, in tempo reale, quanto sangue è rimasto: «Le informazioni che abbiamo all’interno del centro trasfusioni le rendiamo pubbliche - chiarisce Blom Wiberg - e quando le scorte stanno per esaurirsi i cittadini vedono che c’è un problema e i donatori possono lanciare anche l’allarme sui social media».
Una vita sedentaria non nuocerebbe solo alla salute fisica ma anche a quella mentale. Uno studio australiano ha trovato un’associazione tra attività a basso dispendio energetico e un maggior rischio di soffrire di ansia, disturbo che si stima colpire circa 27 milioni di persone nel mondo. Oltre a influenzare il comportamento delle persone, spingendole a preoccuparsi troppo, interferendo nel normale svolgimento delle attività quotidiane, l’ansia provoca sintomi fisici: dal mal di testa, all’aumento del battito cardiaco alla tensione muscolare.
«L’idea di indagare sul possibile legame tra ansia e sedentarietà - spiega Megan Teychenne del Deakin University’s Centre for Physical Activity and Nutrition Research (C-PAN, Australia), a capo dello studio - nasce dall’osservazione che negli ultimi tempi, parallelamente a un aumento degli stili di vita moderni e sedentari si è osservato anche un aumento dei sintomi ansiosi».
Per capire se effettivamente un legame esistesse Teychenne e colleghi hanno passato al setaccio nove studi sul tema, relativi al tempo totale passato seduti e ai comportamenti ritenuti sedentari, come lavorare al PC, guardare la tv, usare l’auto o mezzi pubblici invece di andare a piedi. I risultati emersi dall’analisi hanno mostrato che i comportamenti sedentari erano associati a un maggior rischio di ansia. Degli studi presi in esame alcuni riguardavano anche i ragazzi e in un caso sembra che gli adolescenti che passano più di due ore davanti agli schermi (tv o PC) abbiano più probabilità di soffrire d’ansia rispetto ai coetanei meno video-dipendenti. Va detto però, come precisano gli autori, che le evidenze relative al legame tra ansia e comportamenti sedentari (o tempo passato seduti) sono moderate.
Si tratta infatti di indagini preliminari, ha spiegato Teychenne, aggiungendo come ci sia ancora bisogno di indagare meglio, ed eventualmente confermare, l’associazione suggerita dall’analisi. Ma farlo è di vitale importanza, ha precisato la ricercatrice, così da avere strumenti in grado di combattere gli stati ansiosi oltre ai farmaci, per altro nel nostro paese disponibili come equivalenti di sicura efficacia e convenienza.
Mal di testa? Colpisce una donna su cinque. E siccome ci sono anche componenti genetiche, nella stessa famiglia possono soffrirne mamma e figlia. Gli stili di vita sani aiutano a ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi, ma possono non essere sufficienti a eliminarli. Quando la cefalea interferisca con le attività quotidiane della donna, sarà il medico a scegliere gli interventi farmacologici più specifici, cominciando da quelli meno valutati.
Per esempio, quante donne che soffrono di cefalea hanno mai visto dosare i loro livelli di vitamina D, in particolare d’inverno? Il fatto che gli attacchi cefalalgici siano più frequenti e gravi in autunno/inverno e minori in estate non dipende solo dalle vacanze. Ricerche cliniche e studi di correlazione suggeriscono che la vitamina D possa avere un ruolo importante nel ridurre l’infiammazione associata alla cefalea. È quindi opportuno valutare i livelli di vitamina D, specie in autunno, e integrarla se inadeguati (25.000 Ui al mese sono ideali).
Il secondo fattore di protezione poco considerato è il ferro: molte adolescenti e donne cefalalgiche sono anemiche (anemia sideropenica), specie se hanno cicli abbondanti, e questo peggiora depressione e dolore. È necessario integrare bene il ferro, meglio se è associato a vitamina C, vitamina B12 e lattoferrina, per ridurre emicrania, anemia, astenia e sintomi associati. E se la donna dice “sono sempre stata anemica”? Ci potrebbe essere un ridotto assorbimento intestinale di ferro a causa di celiachia, ipersensibilità al glutine e/o al lattosio. La modifica della dieta è in tal caso indispensabile per ridurre l’infiammazione della parete intestinale, che peggiora la cefalea perché inonda il cervello di molecole infiammatorie, e per ottimizzare l’assunzione del ferro, componente principe nella sintesi di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori amici del buonumore e della salute. Terzo, merita integrare il magnesio, in chiave preventiva, perché riduce l’ipereccitabilità delle cellule nervose: ne è carente il 20 per cento delle donne italiane, e non è poco; 1200-1500 mg al giorno sono la dose raccomandata.
Quando tuttavia il cerchio alla testa non ne vuole sapere di passare è il caso di ricorrere ai farmaci sempre dietro suggerimento medico. La buona notizia è che le principali specialità contro la cefalea sono disponibili come farmaci equivalenti di grande efficacia, sicurezza e accessibilità.
Oltre un quinto (per l’esattezza il 22,9%) della popolazione in Sardegna è affetta da almeno due malattie croniche, il 42,1% ne ha almeno una e la quota di over 65 è passata dal 16,1% del 2002 al 21,6 del 2015. La spesa sanitaria della regione è salita da 2,2 miliardi di euro nel 2002 a quasi 3,2 mld nel 2013 (Ragioneria dello Stato) e 26,5 mln di euro è il costo sostenuto nel 2014 dai sardi per coprire la differenza tra il farmaco equivalente e quello di marca. Sono i dati emersi nel corso del convegno "I farmaci equivalenti tra tutela della salute pubblica e razionalizzazione della spesa sanitaria in Sardegna", sostenuto da Mylan, azienda di farmaci equivalenti, e promosso dal magazine AboutPharma, con il patrocinio di AssoGenerici.
L'isola per l'utilizzo dei farmaci equivalenti è al 12° posto in Italia sia in termini di confezioni dispensate (22,9%), sia in termini di spesa (15,1%), al di sotto però della media italiana (25,4% in termini di confezioni, 16,5% la spesa). Nel 2014 il consumo di farmaci equivalenti è cresciuto dell'8%, con un conseguente calo della spesa dell'1,8% (Centro Studi Assogenerici su dati Ims Health). Nei primi nove mesi 2014 in Italia la spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) è stata pari a 19,9 mld di cui il 75,6% è stato rimborsato dal Ssn (Rapporto Osmed Gen-Set 2014).
"La disponibilità di medicinali equivalenti è stata fondamentale per la sostenibilità del sistema sanitario regionale consentendo, a parità di efficacia e sicurezza per il paziente, importanti risparmi nell'assistenza farmaceutica. Alla scadenza della copertura brevettuale e al conseguente inserimento del principio attivo nelle liste di trasparenza, lo stesso principio viene rimborsato in regime di assistenza farmaceutica convenzionata secondo il prezzo di riferimento, inferiore a almeno il 20% rispetto al farmaco marchiato - ha affermato l'assessore della Sanità, Luigi Arru -. Nel caso di acquisti da parte di strutture pubbliche l'inserimento nelle procedure di gara del principio attivo instaura un confronto concorrenziale importante, consentendo la fornitura dei medicinali necessari a prezzi ridotti. I risparmi ottenuti con l'utilizzo di farmaci equivalenti o a brevetto scaduto consentono di liberare risorse economiche, a parità di qualità di assistenza ai pazienti, che possono essere impegnate per l'acquisto di farmaci innovativi per la prevenzione e cura di patologie croniche di grande rilevanza sociale".
“Ho mal di testa, hai qualcosa da darmi..", una frase tanto diffusa quanto sbagliata. A lanciare l'allarme è l'Istituto Nazionale per la Salute e l'Eccellenza Clinica (Nice) del Regno Unito che ha preparato l’ultima versione delle "linee guida per il trattamento del mal di testa".
Il problema, dicono i ricercatori, è rappresentato dal tipo di mal di testa. Gli esperti ne hanno individuati ben 150, raggruppati però in 12 classi. In sintesi, gli studiosi - guidati da Martin Underwood, medico e docente della Warwick Medical School – dicono che gli antidolorifici perdono di efficacia se utilizzati per ridurre il mal di testa persistente o emicranie prolungate nel tempo.
I comuni prodotti da banco come l'aspirina, il paracetamolo e l'ibuprofene possono andare bene per mal di testa occasionali, ma il loro utilizzo per "più di 10 o 15 giorni al mese può causare cefalea da uso eccessivo di farmaci, malattia invalidante e prevenibile". Il rischio è che si instauri un circolo vizioso, per cui all'aumentare del dolore o del numero degli attacchi corrisponde un aumento del dosaggio.
Tra i soggetti che soffrono di mal di testa ricorrenti, uno su 50 potrebbe soffrirne proprio a causa di un uso esagerato di antidolorifici. E' quindi importante capire di che tipo di mal di testa si soffre, l'uso occasionale di un antidolorifico per attacchi occasionali non porta problemi, ma se il mal di testa è ricorrente, spiegano i ricercatori, è consigliabile rivolgersi ad un medico esperto con il quale individuare le alternative possibili.
"Speriamo che questo aiuterà medici e altri operatori sanitari – ha spiegato Underwood nel commentare le sue linee guida - a diagnosticare correttamente il tipo di disturbo del mal di testa e a riconoscere meglio i pazienti in cui il mal di testa può essere causato da una loro eccessiva dipendenza da farmaci".
L'accesso alla Sanità pubblica diventa per i cittadini sempre più difficile, tanto da configurare una vera ''emergenza'': cresce infatti la paura degli italiani per la copertura sanitaria nel futuro, si allungano le attese nel pubblico e si amplia il ricorso al privato, che ormai coinvolge anche i redditi bassi. Complessivamente, ammonta infatti a 33 miliardi di euro la spesa sanitaria a carico delle tasche degli italiani nel 2014, un miliardo in più in un anno. È quanto emerge da una ricerca Censis-Rbm Salute, in base alla quale la richiesta per un intervento rapido sulle liste di attesa è la priorità numero uno secondo le famiglie.
Secondo la ricerca Censis, il 63,4% degli italiani si dichiara insicuro rispetto alla copertura sanitaria futura (il 77,1% al Sud, il 74,3% delle famiglie monogenitoriali, il 67% delle coppie con figli). E il 54% degli italiani indica come priorità del welfare la riduzione delle liste di attesa (il 62,6% dei 29-44enni, il 59,1% dei residenti al Sud). Mentre cresce la paura, il Servizio sanitario pubblico è sempre più intasato. Nell'ultimo anno si sono allungate le liste di attesa: 20 giorni in più per una risonanza magnetica al ginocchio (da 45 a 65 giorni), 12 giorni in più per una ecografia dell'addome (da 58 a 71 giorni), 10 giorni in più per una colonscopia (da 69 a 79 giorni).
In quest’ottica un aiuto concreto per le famiglie italiane potrebbe essere quello di scegliere i farmaci equivalenti per curare le malattie. Per avere un’idea del risparmio possibile consultate la sezione famiglia Equivalente di questo sito. Vi sorprenderete di quanto sia possibile risparmiare curandosi con prodotti di elevata efficacia e qualità come sono i farmaci generici.
Il bambino con la febbre rappresenta sempre una preoccupazione per un genitore, ma è necessario tenere in considerazione che gli stati febbrili non sempre devono essere trattati con i farmaci antipiretici. È quanto suggeriscono le nuove linee guida pubblicate dal National Institute for Clinica Excellence (NICE) britannico, equivalente oltremanica del nostro Istituto Superiore di Sanità.
Per gli esperti britannici il termometro può essere un segnale di allarme che può condurre dal pediatra. Il NICE afferma infatti che "fino a tre mesi di età il segnale si accende per una temperatura di 38°C, in quelli fino a sei mesi per una temperatura di 39°C".
Gli esperti del NICE chiariscono che: "Oltre questa età, invece, il valore della temperatura, anche se è molto alto, da solo non basta a distinguere le situazioni da non sottovalutare: contano di più altri elementi, per esempio alterazioni dello stato di coscienza o delle interazioni del bambino con gli altri, anomalie gravi della respirazione o del colorito di pelle e mucose, rigidità del collo".
Alberto Tozzi, pediatra dell'Ospedale Bambino Gesù di Roma e Marina Picca, presidente della Società Italiana delle Cure Primarie Pediatriche, sostanzialmente concordano. "Se il piccolo ha 39°C di febbre ma è tranquillo e gioca senza lamentarsi, non occorre nessuna terapia", spiega Tozzi. Picca aggiunge che la "febbre va trattata solo quando rende il piccolo sofferente e irritabile, non lo lascia dormire o mangiare normalmente".
Secondo le nuove linee guida del NICE, un nuovo elemento che va tenuto presente è la frequenza cardiaca. Secondo gli esperti il rischio che il bambino abbia qualcosa di più serio di un banale raffreddore va considerato quando: la frequenza cardiaca è superiore ai 160 battiti al minuto per bambini con età inferiore ad un anno; 150 battiti al minuto tra uno e due anni; 140 battiti oltre i due anni.
Nei casi in cui non si riscontrino altri segnali di allarme, anche se la febbre è alta, è possibile che il bambino abbia contratto patologie benigne, come ad esempio la sesta malattia che in genere passa dopo tre giorni.
In merito ai farmaci antipiretici, quelli autorizzati per i bambini sotto i sei anni di età sono paracetamolo e ibuprofene, disponibili come farmaci equivalenti. Gli esperti del NICE sottolineano che "vanno usati per contrastare il malessere del bambino, e soltanto finché il malessere dura".
E' necessario comunque fare attenzione, avvisa Antonio Clavenna dell'Istituto Mario Negri di Milano, perché "anche attenendosi alle dosi consigliate è possibile superare nel corso della giornata la soglia di tossicità".
Il fai da te, in sostanza, è una pratica da sconsigliare. Sempre meglio contattare il pediatra per un consiglio.
Da alcune sostanze nel cioccolato amaro un aiuto contro l'ipertensione. La nutraceutica è in continua crescita e molte delle sostanze di origine naturale testate in recenti studi hanno ottenuto ottimi risultati sia in Italia che all'estero. "Cresce il numero di molecole che si rivelano efficaci in diverse patologie: prevediamo sviluppi sempre più interessanti di un settore in grande espansione" spiega il presidente Sinut (Societa' italiana di nutraceutica) Cesare Sirtori e la società scientifica per fare il punto sui traguardi raggiunti dalla nutraceutica negli ultimi anni, ha organizzato un workshop nell'ambito del suo V Congresso Nazionale, ospitato al Padiglione Italia dell'EXPO di Milano.
L'attenzione dei ricercatori si focalizza su alcuni prodotti, tra cui il cioccolato amaro. Da oltre 10 anni (vanno ricordati studi in particolare italiani) il cioccolato amaro è noto come un potente prodotto per la pressione alta. Il motivo è la presenza di molecole note come polifenoli. I polifenoli dilatano le arterie e riducono la pressione, come dimostrato dal prof. Howard Sesso di Harvard, coordinatore di un grande studio americano che per 4 anni ha seguito 18.000 persone ad altro rischio vascolare di entrambi i sessi. Lo studio ha mostrato che chi consumava cioccolato amaro aveva un minor rischio di incappare in malattie cardiovascolari.
E presto potrebbe arrivare sulle nostre tavole un 'super cioccolato', più salutare e gustoso di quello che siamo abituati a mangiare. Il segreto è in alcune modifiche del processo di lavorazione del cacao, tese a conservare molte delle sostanze antiossidanti che vengono perdute con la lavorazione tradizionale: lo ha scoperto l'Università del Ghana, che è riuscita ad ottenere semi di cacao 'potenziati', presentati al convegno della Società Americana di Chimica.
Oltre ai farmaci cardiovascolari, che nella stragrande maggioranza sono disponibili come preparati equivalenti e quindi efficaci e accessibili, la salute del cuore a rischio potrebbe passare anche da piacevoli abitudini alimentari.
Quando si compra un vestito nuovo, di solito si mette subito in lavatrice prima di indossarlo per la prima volta. Una buona abitudine, ma non per il motivo cui si pensa comunemente, ovvero che qualcuno prima di noi lo abbia indossato per provarlo.
Gli abiti nuovi vanno lavati perché è alto il rischio che siano presenti ancora le sostanze chimiche utilizzate in fase di produzione, che possono dar luogo a eruzioni cutanee, pruriti e reazioni allergiche. Per quanto controllabili con farmaci antistaminici e cortisonici, oggi ampiamente disponibili come farmaci equivalenti, queste reazioni possono essere eviate con semplici accorgimenti.
A dare il consiglio è il prof. Donald Belsito, dermatologo del Columbia University Medical Center di New York, in un articolo apparso sul Wall Street Journal.
Anche se il medico tiene in considerazione il pericolo di diffusione di batteri e microrganismi vari dovuto alle prove di altri clienti, il pericolo maggiore verrebbe però dalla formaldeide, sostanza applicata sui vestiti per ridurre la possibilità di muffa e per impedire le pieghe dei tessuti.
La formaldeide, tuttavia, può anche irritare la pelle e alcuni scienziati paventano una possibile associazione con l'insorgenza del cancro. Il rischio viene anche dai coloranti utilizzati, che possono rilasciare delle scorie in mancanza di un lavaggio adeguato. Alcuni coloranti come l'anilina possono causare reazioni cutanee gravi in chi è allergico.
In questo caso, il prof. Belsito suggerisce addirittura un doppio lavaggio, dal momento che un singolo passaggio in lavatrice potrebbe non essere sufficiente per eliminare ogni residuo chimico.
La “pillola dell'amore” potrebbe contrastare la malaria. A scoprirlo è un team di ricerca francese guidato da Catherine Lavazec dell'Institut Cochin di Parigi.
Il sildenafil, farmaco disponibile anche in versione generica, che migliora l'afflusso di sangue nei corpi cavernosi del pene rendendo possibile l’erezione, blocca la capacità del Plasmodiun falciparum, parassita responsabile della malaria, di deformarsi per nascondersi al sistema immunitario dell'ospite. In questo modo questo microrganismo può essere eliminato dal sistema di difesa.
Il parassita si nasconde nei globuli rossi dell'uomo quando si trovano ancora nell'organo che li produce, il midollo osseo. In questa fase il plasmodio acquisisce la capacità di deformarsi e di diffondersi a partire dal midollo osseo attraverso la circolazione sanguigna. Questa “malleabilità” gli consente anche di superare il sistema di controllo dell'organismo, che trattiene i globuli rossi vecchi o anormali allo scopo di purificare il sangue.
Una volta libero nel sangue, il parassita diventa accessibile alle zanzare che rappresentano i vettori della malattia. I ricercatori francesi hanno dimostrato in laboratorio che il sildenafil bloccando una molecola specifica (la fosfodiesterasi 5) “irrigidisce” la struttura esterna del parassita della malaria non consentendogli più di deformarsi e di sfuggire così alle cellule del sistema immunitario. Il team di ricerca transalpino ha fatto sapere di avere intenzione di condurre adesso uno studio su volontari. Se si confermeranno i risultati osservati in laboratorio si potrebbe aprire un nuovo capitolo nella lotta alla malaria, malattia che continua a mietere migliaia di vittime ogni anno nel mondo.
In Europa nei prossimi anni ci sarà una vera invasione di ambrosia, una pianta fortemente allergenica originaria degli Usa già presente anche da noi soprattutto al Nord. Lo afferma uno studio pubblicato da Nature Climate Change, secondo cui la concentrazione nell’aria dei pollini potrebbe quadruplicare da qui al 2050 per effetto dei cambiamenti climatici, con forti aumenti anche in Italia.
I ricercatori del Laboratoire des Sciences du Climat et de l'Environnement del Cnrs francese hanno utilizzato dei modelli matematici che tengono conto della dispersione dei pollini e della variazione nella quantità prodotta da una singola pianta, mettendo in relazione queste caratteristiche con le proiezioni sui cambiamenti climatici. Il risultato è stato una estensione dell'area interessata dal'ambrosia verso il nord e il centro Europa fino ad arrivare alla Gran Bretagna, dove ora è trascurabile. Le zone già interessate dalla crescita di questa pianta, pianura padana compresa, vedranno un aumento delle concentrazioni dei pollini nell’atmosfera che potrà arrivare a quattro volte quelli presenti oggi. "Circa un terzo di quest'aumento è dovuto alla dispersione naturale dei semi, ed è indipendente dai cambiamenti climatici - scrivono gli autori -. Il resto, però, è imputabile ai cambiamenti del clima e all'utilizzo dei terreni che estenderanno l'habitat della pianta verso nord ed est Europa, e aumenteranno la produzione di pollini nelle aree dove è già presente a causa dell'aumento della CO2".
Dato che è improbabile poter mutare i cambiamenti climatici, le persone allergiche faranno bene a premunirsi di farmaci, fortunatamente disponibili anche come generici, per controllare la sintomatologia legata a questa allergia.
Musica immortale contro le malattie del cuore. Le famose note di 'Va Pensiero' di Giuseppe Verdi, del 'Nessun Dorma' di Giacomo Puccini e della 'Nona Sinfonia' di Beethoven possono ridurre la frequenza cardiaca e migliorare la pressione sanguigna di chi le ascolta, tutelando la salute del cuore. Grazie ai ritmi più delicati e simili a quelli che regolano la pressione, queste note hanno in genere un effetto rilassante, la frequenza del battito cardiaco rallenta e la pressione arteriosa si abbassa, anche se di poco. Lo ha riscontrato uno studio dell'Università di Oxford presentato al congresso della British Cardiovascular Society di Manchester.
I cardiologi - riporta il 'Telegraph' - hanno esaminato i lavori scientifici che negli ultimi decenni hanno esplorato l'impatto dei diversi tipi di musica sulla pressione arteriosa e la frequenza cardiaca. Hanno quindi verificato varie ipotesi, che coinvolgono sei diversi tipi di musica, su un piccolo gruppo di studenti. Ebbene, quella classica che segue un particolare ritmo (10 secondi) ha avuto il maggiore impatto riducendo la pressione sanguigna. Mentre brani di musica classica con un ritmo più veloce, tra cui un estratto dalle 'Quattro Stagioni' di Vivaldi, non hanno avuto un effetto su cuore e sangue.
Secondo Peter Sleight, autore dello studio e cardiologo dell'Università di Oxford, "la musica si usa già come terapia rilassante, ma questo lavoro ha revisionato gli studi sull'argomento e controllato la loro efficacia. Abbiamo - aggiunge - fornito una migliore comprensione di come le note di brani classici molto famosi e soprattutto determinati ritmi possono avere precisi effetti sul cuore e sui vasi sanguigni. Ma sono necessari ulteriori studi - conclude - che potrebbero ridurre lo scetticismo, ancora imperante, sul ruolo terapeutico della musica". Ascoltare le sinfonie più note potrebbe quindi rappresentare un nuovo modo per controllare fattori di rischio per le malattie cardiovascolari. Nei casi in cui ciò non bastasse per fortuna sono a disposizioni armi terapeutiche efficaci, la maggior parte delle quali anche come farmaci equivalenti, alla portata di tutti.
L’Unione europea deve dotarsi di migliori strumenti per proteggere la proprietà intellettuale dell’UE nei Paesi terzi, ma nel contempo garantire l’accesso a prodotti di importanza cruciale per la collettività, come i farmaci generici.
E’ la mozione presentata alla Commissione Europea da una serie di deputati volta a proteggere dalle contraffazioni i prodotti, “made in UE”. Nella relazione di Maria Alessia Mosca (S&D, IT) approvata martedì con 521 voti favorevoli, 164 contrari e 17 astensioni, deputati rilevano che la “natura commerciale di numerose violazioni dei diritti alla proprietà intellettuale (DPI)” e il “crescente coinvolgimento della criminalità organizzata” rappresentano una minaccia seria alla creatività e all’innovazione, risorse comunitarie fondamentali nel mercato globale.
Per combattere le violazioni dei DPI, il documento chiede il coinvolgimento di tutti i soggetti coinvolti e di aiutare le piccole imprese affinché i loro DPI siano rispettati. Infine, si sottolinea la necessità di organizzare campagne di sensibilizzazione sulle conseguenze della violazione dei DPI sulla società nel suo complesso e sui singoli consumatori e cittadini. Nella relazione sulla protezione dei DPI comunitari all’estero, i deputati evidenziano inoltre l’importanza di bilanciare la protezione dei DPI con la necessità di garantire l’accesso ai farmaci generici a livello mondiale e la rilevanza di un approccio ai DPI nel settore farmaceutico che sia incentrato sul paziente.
Inoltre, i controlli alle frontiere per evitare l’ingresso dei medicinali contraffatti nel mercato UE non dovrebbero impedire quelli sui medicinali generici. La Commissione dovrebbe valutare l’opportunità di sostenere meccanismi innovativi quali i pool di brevetti per “incentivare la ricerca in parallelo alla produzione di generici”. Nel 2013, le autorità doganali dell’UE hanno confiscato quasi 36 milioni di articoli sospettati di essere contraffatti o in violazione dei diritti di proprietà intellettuale, per un valore di oltre 760 milioni di euro. Il 10% di questi articoli era rappresentato da farmaci.
Contrariamente a ciò che spesso si teme, i farmaci antipertensivi - ormai disponibili in tutte le diverse classi come equivalenti - non aumentano il rischio di cadute in anziani sani e residenti in comunità. E’ il risultato di uno studio, pubblicato online su Hypertension, che contraddice un articolo dello scorso anno (pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Internal Medicine) secondo cui esisteva un elevato rischio di gravi lesioni dovute a cadute negli anziani in terapia con farmaci per abbassare la pressione, soprattutto fra coloro che erano già caduti precedentemente.
Il nuovo studio, guidato da Lewis Lipsitz, direttore dell’Institute for Aging Research all’Hebrew Senior Life e professore di Medicina alla Harvard Medical School di Boston (USA), ha seguito per un anno 598 uomini e donne anziani che soffrivano di ipertensione. I partecipanti avevano un età compresa tra i 70 e i 97 anni.
Alla partenza dello studio, l’89,5% dei soggetti coinvolti assumeva antipertensivi, tra cui gli inibitori del recettore dell’angiotensina (o sartani) (12,8%), gli inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE-inibitori) (34,7%), gli alfa-bloccanti (7,1%), i beta-bloccanti (51,9%), i calcio-antagonisti (29,3%) e i diuretici (47,0%). Durante il follow-up, 267 partecipanti (44,7%) sono caduti 541 volte. Il numero di cadute a persona andava da 0 a 17. Non è stata tuttavia mostrata alcuna relazione rilevante tra l’uso generale di antipertensivi e il rischio di cadute. Anzi: i pazienti che assumevano calcio-antagonisti avevano il 38% in meno di rischio di cadere e il 43% in meno di farlo in uno spazio chiuso. I soggetti sotto l’effetto di ACE inibitori avevano il 38% in meno di possibilità di cadute dannose.