“E' un dato assodato che i soggetti allergici sono in aumento a livello mondiale e l’Italia non fa eccezione”. Lo sostiene il dottor Antonio Meriggi Responsabile Sezione di Allergologia e Immunologia Clinica, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, di Pavia. “I dati epidemiologici variano secondo la tipologia di allergia, le modalità di rilevazione e le nazioni studiate: si ritiene comunque che globalmente il 20-30% della popolazione mondiale possa essere affetta da allergie - dice Meriggi -. In Italia i dati epidemiologici riportano la prevalenza del 25 % di rinite e del 5% di asma in una popolazione di età compresa tra 18 e 45 anni”. Ma perché questo aumento?
“Le cause possibili sono diverse”, spiega lo specialista. “Il minor contatto con agenti infettivi induce il sistema immunitario, meno coinvolto nella difesa verso batteri e virus, a comportarsi in modo “anomalo”, inducendo allergie (la cosiddetta teoria “igienica”). Ma bisogna anche ricordare lo stile di vita occidentale con case ben coibentate e quindi più favorevoli alla proliferazione degli acari, e un’alimentazione con più additivi o coloranti non naturali, entrambi potenti allergeni. Dulcis in fundo, non vanno tralasciati l’inquinamento atmosferico e l'aumento della temperatura planetaria che inducono da un lato l’incremento della quantità e del potere allergizzante degli allergeni ambientali, e dall'altro l'irritazione delle vie aeree che favorisce la penetrazione degli allergeni nell'albero bronchiale”. Quali sono le più frequenti allergie? “La patologia da pollini costituisce la più frequente allergia da inalanti ed è responsabile di sintomi oculorinitici ed asmatici stagionali, mentre la sensibilizzazione nei confronti degli acari rappresenta la più rilevante forma di allergia non stagionale”, chiarisce Meriggi. “ Accanto alle classiche allergie a graminacee (erba dei prati) e parietaria (erba muraiola, più rilevante nel Sud Italia), negli ultimi decenni si è assistito alla comparsa di allergia verso alberi (Betulla e Nocciolo più frequentemente), caratterizzata da sintomi respiratori molto precoci (febbraio-marzo, spesso confusi con forme infettive), e verso Ambrosia, responsabile di sintomi tardo estivi (agosto-settembre)”. E’ da rimarcare la caratteristica comparsa di queste allergie in età adulta, mentre le sensibilizzazioni a graminacee, parietaria ed acari della polveri di casa insorgono usualmente in età giovanile.
“Per quanto concerne la terapia, non dobbiamo dimenticare che l'unico trattamento rivolto a normalizzare il “comportamento anomalo” del sistema immunitario, è costituito dall'immunoterapia (cosiddetto impropriamente vaccino)”, sottolinea lo specialista pavese. L'impostazione dell'immunoterapia segue però delle indicazioni ben precise che devono essere attentamente valutate in ambito specialistico. “La terapia antistaminica e steroidea inalatoria – attuabile anche ricorrendo a farmaci generici - costituisce un trattamento sintomatico, seppure usualmente efficace”, conclude Meriggi.
Paura degli effetti collaterali, scarsa fiducia nei farmaci, troppo poco tempo passato con il medico a discutere le cure. Sono solo alcuni dei tanti motivi che allontanano dalle terapie gli oltre 7.5 milioni di italiani con malattie respiratorie croniche come asma o broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) curabili con farmaci equivalenti: oltre 3.5 milioni non si curano per più di sei mesi in un anno, rinunciando del tutto ai farmaci per inalazione che consentono di tenere sotto controllo i sintomi nel lungo periodo o assumendoli poco e male. La scarsa adesione alle terapie diventa una ”epidemia” fra i bambini, gli adolescenti e gli anziani: sette under 14 su dieci dopo un anno hanno abbandonato i farmaci, il 60% degli adolescenti snobba le cure, oltre il 60% degli over 65 le segue per appena due mesi in tutto l'anno. Le conseguenze non si fanno attendere: una ricaduta grave su quattro e sei ricoveri su dieci sono imputabili proprio alla mancata o inadeguata aderenza alla terapia, con costi evitabili che arrivano quasi a 10 miliardi di euro l'anno.
“La mancata o inadeguata aderenza alle terapie ha molti motivi –osserva Walter G. Canonica, Direttore della Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell'Università di Genova e Presidente della Società Italiana di Allergologia Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC) – I più comuni sono la dimenticanza, le variazioni nello schema terapeutico, uno stile di vita troppo attivo: tanti seguono la terapia dal lunedì al venerdì, poi nel fine settimana o in vacanza non riescono a farlo adeguatamente. Altri pazienti modificano deliberatamente la terapia, perché pensano di non averne bisogno nei periodi in cui hanno meno sintomi, perché temono gli effetti collaterali o perché lo schema terapeutico interferisce molto con la loro vita quotidiana. Altri ancora non comprendono bene le istruzioni del medico”.
Consapevolezza della malattia, correttezza e costanza nell’assunzione del farmaco sono i pilastri per migliorare l’aderenza alla cura.
“Sono più a rischio di terapie inadeguate e “intermittenti” i bambini, nei quali l'adesione alle cure dipende molto dai genitori: in alcune famiglie ad esempio si fa l'errore di aspettarsi che il bambino impari molto presto a gestire in maniera autonoma la malattia, ma non sempre è possibile" interviene Francesco Blasi, Ordinario di Malattie Respiratorie dell'Università Statale di Milano e presidente eletto della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMER). Altra categoria a rischio, gli adolescenti: spesso per ribellione evitano deliberatamente i farmaci, negando la malattia e rendendo la terapia un mezzo per vincere la propria personale guerra verso l'indipendenza. Infine hanno una scarsa aderenza alle cure gli anziani, che dimenticano più spesso i medicinali e non di rado devono essere curati per più di una patologia, ritrovandosi a dover affrontare regimi terapeutici complessi e gravosi nei quali inevitabilmente finiscono per tralasciare qualcosa.
Migliorare l’aderenza alle cure però si può. “E’ indispensabile che medici e farmacisti forniscano ai pazienti più informazioni - osserva Canonica -. Semplicemente consigliare di tenere i farmaci sempre in uno stesso posto accresce del 44% l'aderenza, favorire una routine specifica per l'assunzione della dose quotidiana associandola a un'altra attività consueta la aumenta del 33%. Serve inoltre semplificare per quanto possibile il regime terapeutico: oltre il 60% dei pazienti preferisce un regime che preveda una sola somministrazione giornaliera”.
La nutrizione può rappresentare un fattore di protezione contro l’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale. Grazie alla Società Italiana di Neurologia scopriamo in che modo gli alimenti possono fare la differenza per il nostro cervello, anche quando è già malato, ricordando come una dieta possa risultare un valido aiuto alle terapie per le malattie neurodegenerative che possono giovarsi anche di efficaci farmaci equivalenti.
Un’alimentazione povera di colesterolo e ricca di fibre, vitamine ed antiossidanti presenti in frutta e verdura e di grassi insaturi contenuti nell’olio di oliva (la cosiddetta dieta mediterranea) riduce l’incidenza anche della malattia di Alzheimer come dimostrato in studi di popolazione su ampie casistiche. Alcune carenze vitaminiche, in particolare di acido folico e vitamina B12, possono facilitare l’insorgenza di demenza, e questo appare mediato da un aumento di omocisteina, una sostanza che risulta tossica per i vasi e le cellule nervose (neuroni). Gli antiossidanti presenti nella dieta ricca di frutta e verdura (come le vitamine C ed E, il licopene e le antocianine) contrastano l’accumulo di “radicali liberi” che producono danni a livello cerebrale. Anche un moderato consumo di caffè e di vino rosso, con le numerose sostanze antiossidanti contenute in queste bevande, sembrerebbero avere un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo della demenza. Oltre ad una dieta sana, un ulteriore meccanismo naturale di protezione è il sonno, che, come recentemente scoperto, faciliterebbe la rimozione di proteine tossiche dal cervello riducendo l’accumulo di beta-amiloide, la proteina alterata che provoca i danni tipici della malattia. .
Benché il beneficio di una dieta a basso contenuto di calorie (ipocalorica) nella prevenzione della Sclerosi Multipla, ipotizzato in passato senza solide basi scientifiche, sia stato smentito, sembra ormai dimostrato come una dieta ricca di grassi insaturi sia in grado di modulare e diminuire l’attività infiammatoria legata a questa patologia, svolgendo una funzione protettiva. Inoltre, se si considera che uno dei meccanismi implicati nella SM è il danno ossidativo, appare fondamentale prediligere una dieta ricca di alimenti con proprietà anti-ossidanti, contenenti vitamina A, E, C, e acido lipoico. Un ruolo di particolare importanza nella SM è svolto dalla vitamina D, con le sue importanti funzioni che modulano l’attività del sistema immunitario: la patologia sembra infatti più frequente in aree geografiche a minore esposizione ai raggi solari. A questo proposito, sono in corso studi per rispondere al quesito sul possibile effetto benefico della integrazione di vitamina D nella dieta. Va comunque sottolineato che in genere le persone con SM soffrono di osteoporosi, per la immobilità, la frequente terapia con steroidi e la scarsa esposizione ai raggi solari, per cui una terapia con vitamina D e calcio può trovare, in alcuni casi, una sua giustificazione come terapia preventiva del rischio di fratture.
Un’alimentazione ispirata alla dieta mediterranea e con un basso contenuto di sodio è un elemento cardine della prevenzione primaria dell’ictus, dato sottolineato da tutte le più recenti linee guida. Se da un lato vi sono nutrienti da consumare moderatamente, quali sodio, alcol e grassi saturi, che si associano a un maggiore rischio vascolare, per altri cibi è stato riscontrato un effetto protettivo: Omega -3, fibre, Vitamina B6 e B12, così come l’assunzione di calcio e potassio sembrano contribuire a ridurre il rischio di ictus cerebrale.
La carenza di determinati macronutrienti e micronutrienti, tra cui soprattutto vitamine del gruppo B e proteine, può provocare danni a carico delle strutture nervose. Basti pensare al caso dell’epidemia di neurite ottica che colpì la popolazione cubana agli inizi degli anni Novanta, quando, dopo le restrizioni alimentari legate all’embargo statunitense, fu impossibile assumere livelli adeguati di proteine, vitamine e minerali. Ma è quanto si può verificare anche nel caso di un regime alimentare vegetariano seguito da quasi 4 milioni di italiani, che se da un lato si è dimostrato in grado di prevenire patologie cardiovascolari o diabete, dall’altro rischia, soprattutto nella sua declinazione vegana (400.000 persone in tutta Italia), di determinare serie carenze di alcuni nutrienti essenziali. In particolare, la carenza di vitamina B12 determina sia un aumento dei livelli plasmatici di omocisteina, sostanza associata all’incremento del rischio di demenza e di malattie cerebro-vascolari, sia un aumento dei livelli di un’altra sostanza, la S-adenosil-metionina, che favorisce l’insorgenza di disturbi a carico delle strutture nervose.
La settimana mondiale del cervello quest’anno è stata dedicata alla nutrizione come fattore di protezione contro l’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale. Gli esperti della Società Italiana di Neurologia (SIN) hanno spiegato in che modo gli alimenti possono fare la differenza per il nostro cervello, anche quando è già malato.
In particolari i neurologi della SIN hanno analizzato il ruolo dell’alimentazione nel facilitare la terapie del morbo di Parkinson, incentrata su un farmaco come la levodopa, disponibile da tempo come generico. I pasti, specie se ricchi di proteine, possono interferire sia con l’assorbimento della levodopa, sia con il suo ingresso nel cervello contribuendo alla diminuita efficacia del farmaco. Vi sono numerose ragioni per ritenere importante l’uso di una dieta prevalentemente vegetariana a basso contenuto proteico nella Malattia di Parkinson.
La ragione più importante è quella di facilitare l’assorbimento della levodopa contrastando così la diminuita efficacia post-prandiale che si osserva specie nelle fasi avanzate della malattia, causa di disabilità e rischio di cadute. I prodotti vegetali, inoltre, garantiscono un ricco apporto di fibre e l’elevato contenuto di carboidrati tipico di questo regime alimentare contrasta la perdita di peso corporeo che spesso affligge i pazienti con MP a causa dell’effetto combinato dei movimenti involontari e della difficoltà nella deglutizione. I cibi vegetali sono inoltre più facili da masticare, caratteristica fondamentale per pazienti nello stadio medio-avanzato del parkinsonismo, che presentano problemi di deglutizione. Infine, i minerali e le vitamine di cui i cibi vegetali sono ricchi, sono fondamentali per soddisfare il maggior fabbisogno di tali micronutrienti (soprattutto Vitamina C, D, E, ferro, calcio e magnesio) dei pazienti con MP. Da queste considerazioni nascono alcune indicazioni dietetiche per migliorare la motilità dei malati parkinsoniani in terapia con levodopa seguendo una dieta bilanciata e caloricamente adeguata al mantenimento del “peso salute”.
Al primo posto ci sono i disturbi d'ansia (14%), seguiti da insonnia (7%) e depressione maggiore (6,9%), poi i disturbi cosiddetti "somatoformi" (ovvero caratterizzati da sintomi fisici che indurrebbero a pensare a una malattia somatica (6,3%), quindi il disturbo da iperattività e deficit dell'attenzione-Adhd (5% dei giovani), la dipendenza da alcol e droghe (4%) e infine la demenza (dall'1% nella fascia compresa tra i 60 e i 65 anni al 30% fra gli 80enni). E’ la classifica dei disturbi mentali più diffusi nella popolazione europea, stilata in occasione del 23° Congresso dell'Associazione europea di psichiatria (Epa) che ha visto riuniti a Vienna (Austria) i principali esperti a livello mondiale su queste patologie.
Attualmente, secondo i dati snocciolati dagli esperti, in Europa le persone colpite da disturbi mentali di vario tipo sono quasi 165 milioni (su una popolazione di 514 milioni di abitanti, con una percentuale pari quindi al 38%) con un impatto economico stimato in 798 miliardi di euro, ma solo un malato su tre si cura e arriva a rivolgersi a uno specialista.
Le statistiche europee parlano quindi di oltre 61 milioni di malati d'ansia (8 milioni solo in Italia), 29 milioni di insonni e quasi altrettanti depressi (3,9 milioni nel nostro Paese), oltre a 6 milioni di persone affette da demenza, e mettono in evidenza che tutti questi numeri sembrano destinati a crescere nel prossimo futuro. Quanto al nostro Paese, i soggetti con queste patologie si stima siano, in tutto, circa 17 milioni.
I disturbi mentali contribuiscono al 26,6% della disabilità totale (anni persi per mortalità precoce o vissuti in malattia): quelle con un impatto maggiore sono la depressione (7,2%) e l'Alzheimer (7,3%), e i problemi legati all'abuso di alcol (3,4%).
Un problema, quello legato alla salute mentale, che sta assumendo sempre di più i contorni di una questione di sanità pubblica: entro il 2030, avvertono gli esperti, le patologie psichiatriche saranno infatti le malattie più frequenti a livello mondiale. Tra le cause dell'aumento è stata indicata anche la crisi economica.
Sul versante delle cure bisogna ricordare che questi disturbi possono giovarsi di terapie farmacologiche efficaci, attuabili anche con farmaci generici di grande sicurezza, qualità ed economicità.
Un paziente con colon irritabile su dieci soffre di depressione a e quattro su dieci sono colpiti da ansia. Lo mostrano i primi dati di uno studio dell'Associazione Italiana dei Gastroenterologi ed endoscopisti digestivi Ospedalieri (Aigo) su oltre 500 pazienti affetti da questa sindrome e in cura presso 26 centri Aigo. Si conferma, quindi, quanto questa malattia abbia gravi ripercussioni sulla qualità di vita delle persone affette.
Inoltre, emerge come ad ammalarsi di sindrome di colon irritabile siano in prevalenza donne, il 73 per cento, con un'età media di circa 40 anni. "Lo studio Aigo - ha spiegato Marco Soncini, coordinatore dello studio e consigliere nazionale dell'associazione - analizza la situazione sia dei pazienti appena diagnosticati (49,9 per cento dei casi osservati) sia di quelli in cura già da tempo (51,1 per cento). Si dovrebbe presumere che chi è già in terapia dovrebbe avere una qualità di vita migliore ma purtroppo non è così: infatti non emergono tra queste due categorie differenze di rilievo circa il modo in cui ogni paziente valuta la sua situazione. Ciò indica che le terapie oggi disponibili non sono soddisfacenti perché non riescono a ridurre le loro difficoltà, controllando i sintomi della malattia".
Nello studio oltre la metà dei pazienti segnala che la sindrome li condiziona obbligandoli a cambiamenti di abitudini sia nella vita privata sia in quella lavorativa e relazionale. Per cercare di misurare l'intensità dei sintomi, i ricercatori hanno chiesto ai pazienti di indicare le difficoltà che provano utilizzando una scala visuale, cioè di indicare graficamente il livello del loro disagio riempiendo una porzione più o meno ampia di una barra lunga 10 centimetri. L'estremo a sinistra della retta rappresenta l'assenza del sintomo mentre l'altra estremità indica il massimo livello percepito. Dai risultati è emerso quanto la patologia sia grave poiché in media i pazienti hanno valutato il livello del loro dolore con una intensità pari a circa 5/10 ed una percezione del gonfiore intestinale di poco superiore (5.5/10). Risulta quindi tutt’altro che infrequente la necessità nella cura dell’intestino irritabile di ricorrere a farmaci che contrastino i disturbi dell’umore come ansia e depressione, disponibili da tempo come medicinali equivalenti.
Gufi più a rischio di alterazioni del metabolismo rispetto alle allodole. Non si tratta di malattie riguardanti il mondo ornitologico. I "gufi", ovvero chi tende a fare le ore piccole e a svegliarsi tardi la mattina, sarebbero più a rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, la sindrome metabolica e la sarcopenia, rispetto alle "allodole", cioè le persone mattiniere, nonostante dormano per lo stesso numero di ore.
Lo ha scoperto uno studio della Korea University College of Medicine di Ansan, Korea, pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Secondo i ricercatori, il maggior rischio dei "gufi" di sviluppare il diabete di tipo 2 (cioè non insulino dipendente) sarebbe dovuto alla carenza di sonno, alla scarsa qualità del sonno e all'alimentazione inadeguata, fattori che potrebbero portare alla fine a problematici cambiamenti metabolici. Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato le abitudini riguardanti il sonno e il metabolismo di 1.620 persone di età compresa tra i 47 e i 59 anni, che hanno preso parte al Korean Genome Epidemiology Study (KoGES).
Gli scienziati hanno inoltre misurato il grasso corporeo totale, la massa magra e il grasso viscerale addominale. Sulla base dei risultati dei questionari a cui sono stati sottoposti, 480 partecipanti sono stati classificati come "allodole" e 95 come "gufi". I restanti sono stati invece classificati a metà tra gufi e allodole. Ebbene, i nottambuli tendevano a essere più giovani, avevano livelli più elevati di grasso corporeo e di trigliceridi rispetto ai mattinieri. I gufi sono risultati anche più a rischio di sarcopenia, una condizione in cui il corpo perde gradualmente massa muscolare. Gli uomini "gufi" hanno anche avuto più probabilità di sviluppare diabete e sarcopenia. Tra le donne, invece le nottambule tendevano ad avere più grasso localizzato a livello addominale e un rischio significativamente più elevato di sindrome metabolica, un insieme di fattori di rischio che aumentano le probabilità di sviluppare malattie cardiache, ictus e diabete. Lo studio aggiunge così un nuovo fattore di rischio per il diabete dell’adulto o di tipo 2, malattia del metabolismo del glucosio per il cui trattamento si ricorre in prima battuta a farmaci generici di provata efficacia e di costo contenuto.
In un futuro molto vicino basterà scrivere sulla tastiera del pc per avere una diagnosi precoce di Parkinson. Un gruppo di ricercatori americani e spagnoli del Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha messo a punto un algoritmo capace di rilevare micro cambiamenti nelle modalità di battere le dita sulla tastiera. Un primo passo importante, si legge sulla rivista 'Nature', verso la possibilità di individuare la malattia dal semplice modo di scrivere.
Infatti il modo in cui si preme sui tasti può fornire molte informazioni sullo stato fisico e sull'affaticamento, secondo le osservazioni dei ricercatori che, sulla base degli schemi di battitura, hanno realizzato l'algoritmo. In una prima fase dello studio, infatti, sono state analizzate una ventina di persone che lavoravano al pc in un contesto normale e durante il giorno. Un altro gruppo è stato osservato di notte e con deprivazione di sonno. La stanchezza altera leggermente il modo di battere sui tasti. E i tempi di reazione, come noto, si allungano.
Le conclusioni dello studio suggeriscono la possibilità di usare l'algoritmo, basato sulla durata di pressione del tasto, per individuare precocemente la malattia di Parkinson, patologia neurodegenerativa che comincia da 5 a 10 anni prima dell'apparizione dei primi sintomi. E le prime manifestazioni sono proprio legate al rallentamento dei movimenti.
Una diagnosi precoce consente di avviare tempestivamente terapie basate su farmaci disponibili anche come equivalenti, che si sono dimostrate capaci di rallentare l’evoluzione della malattia.
Uomini e donne, adulti e bambini. La trombosi colpisce ogni anno 600.000 italiani, causando morte o grave invalidità. Tra loro, 8 mila sono giovani, adolescenti, e bambini ma anche neonati. Come spiega in occasione della 4a Giornata Nazionale per la Lotta alla Trombosi, Lidia Rota Vender presidente di ALT – Associazione per la Lotta alla Trombosi e alle malattie cardiovascolari - Onlus: “La prevenzione della trombosi non si delega agli esami, si fa concretamente guardandosi allo specchio, diventando consapevoli del rischio che potremmo correre e del pericolo che possiamo evitare”.
La trombosi, cioè la formazione di trombo in un’arteria o in una vena è facilitata da vari fattori di rischio come difetti della coagulazione, alterazioni della quantità di grassi nel sangue, pressione troppo alta del sangue, diabete e fumo di sigaretta. Le manifestazioni della trombosi comprendono l’infarto del miocardio, l’ictus e le arteriopatie delle gambe quando è colpito il sistema arterioso e trombosi venosa profonda, tromboflebite o embolia polmonare quando il trombo si localizza nelle vene.
Tenere sotto controllo i fattori di rischio con uno stile di vita corretto e quando necessario con farmaci, oggi disponibili come equivalenti quindi alla portata di tutti, riduce enormemente i casi di trombosi. "Sono troppi coloro che ancora oggi ignorano quanta differenza fa lo scegliere consapevolmente, giorno dopo giorno, uno stile di vita intelligente, che non richiede denaro, né fatica, solo volontà, per proteggere il nostro cuore, il nostro cervello, il nostro corpo dalle malattie cardiovascolari da trombosi. Ictus,embolia, infarto”, afferma la dottoressa Rota Vender.
Insomma, con un po’ di attenzione si può scongiurare un nemico pericoloso per la vita.
E' diffusa tra i bambini ma perché si arrivi a una diagnosi corretta trascorre spesso molto tempo, perché si passa da specialisti sbagliati o si fanno analisi che non portano a un risultato conclusivo. L'emicrania colpisce il 9% dei bambini al di sotto di 12 anni secondo alcuni studi scientifici, ma prima che venga diagnosticata passano in media due anni e qualche volta tre.
Il ruolo di prime "vedette" è affidato ai genitori, che devono osservare il bambino, ma poi tocca al pediatra con adeguata formazione dare risposte efficaci e sicure. Se ne è discusso alla scuola di pediatria organizzata a Capri da Paidòss, l'Osservatorio Nazionale sulla salute dell'infanzia e dell'adolescenza.
"Il genitore dovrebbe iniziare a preoccuparsi innanzitutto se anche lui soffre di emicrania - sottolinea Bruno Colombo, responsabile del centro per la cura e la diagnosi delle cefalee dell'età pediatrica ed adulta dell'università Vita-salute, ospedale San Raffaele di Milano - la familiarità, infatti, aumenta del 40% il rischio, e del 70% se a soffrirne sono entrambi i genitori. Poi si deve osservare il comportamento del bambino. Un bimbo che soffre di emicrania, che ha spesso anche sintomi come vomito e nausea, si ritira dalle attività sociali, evita lo sforzo fisico e ha dei comportamenti che devono essere presi sul serio. Il pediatra, poi, con poche domande mirate può confermare il sospetto".
Una volta ottenuta una diagnosi certa il consiglio è di tenere un diario delle crisi. "Se si supera il limite di 4 attacchi al mese interveniamo con le terapie - aggiunge - stiamo ottenendo buoni risultati con la Ginkgolide B insieme a coenzima Q10, vitamina B12 e magnesio, tutte sostanze naturali, mentre in casi più gravi si possono usare antidolorifici a minore impatto”, disponibili come farmaci equivalenti. Anche l'eliminazione di alcuni cibi, del tutto soggettiva, può aiutare. L'importante è non affidarsi al 'fai da te', come fanno certe mamme che danno al figlio i loro stessi farmaci, ma rivolgersi sempre al medico specialista.
In Italia il 6% della popolazione soffre di asma. “Questo significa che nel nostro paese sono più di tre milioni e mezzo le persone, tra adulti e bambini, colpiti da questa malattia respiratoria”, ha affermato a Bologna in occasione del 28° Congresso Nazionale della SIAAIC, Società Italiana Allergologia, Asma ed Immunologia Clinica, il professor Walter G. Canonica, Neopresidente SIAAIC e Direttore Clinica Malattie Respiratorie e Allergologia dell'Università di Genova. “L’asma è una delle malattie respiratorie croniche più diffuse nel mondo, presente in tutti i paesi anche se con livelli molto variabili. Rappresenta quindi un consistente problema di sanità pubblica, anche perché la sua prevalenza è in aumento a causa della convergenza di diversi fattori”, sottolinea il professore.
Si tratta di una malattia complessa che si manifesta attraverso una infiammazione cronica delle vie aeree. L’infiammazione genera un aumento della responsività bronchiale che, a sua volta, causa episodi ricorrenti (i cosiddetti ‘attacchi d’asma’) di crisi respiratorie, respiro sibilante, senso di costrizione toracica e tosse. Durante gli attacchi, che possono essere improvvisi o graduali, peggiorano i sintomi e la funzionalità respiratoria. Se non trattati in modo adeguato, gli attacchi possono essere anche molto gravi e addirittura fatali. Aver individuato nell’infiammazione cronica il punto chiave della definizione della patologia, come avvenuto in anni recenti, ha avuto importanti ricadute sia a livello diagnostico che di trattamento dell’asma. E’ l’infiammazione che determina il livello di gravità dell’asma ed è anche il fattore che meglio risponde alla terapia con farmaci antinfiammatori somministrati per via inalatoria, anche in assenza di altri sintomi. La broncoostruzione causata da contrazione del muscolo cardiaco può essere trattata con inalazione di farmaci broncodilatatori. La terapia di questa malattia può giovarsi efficacemente di farmaci equivalenti, di basso costo e di elevata qualità.
Un milione e mezzo di bambini e ragazzi con allergie nasali e pollinosi, almeno 1.000.000 i giovani sotto i 18 anni affetti da asma. In Italia il fenomeno allergie, tra marzo e aprile - quando cipressi, mimose, ulivi, parietarie e graminacee rilasciano i loro pollini in grande quantità - subisce un'impennata e diventa un problema per milioni di persone, adulti e bambini.
"Le allergie - sottolinea Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma - si combattono efficacemente con la iposensibilizzazione specifica, disponibile sia nella tradizionale somministrazione sottocutanea che per via sublinguale”. I pollini sono minuscoli granellini che permettono alla pianta di riprodursi e vengono trasportati dal vento, dagli insetti e dall'acqua nel periodo dell'impollinazione. Da marzo a luglio la loro concentrazione cresce soprattutto nelle giornate calde, assolate e ventose (sono leggerissimi e facilmente trasportabili nell'aria). Maggiore è la prossimità alle piante e alle erbe che li producono, maggiore è la quantità di pollini che può causare un aumento dei disturbi alle persone allergiche. Quando i sintomi come raffreddore, prurito, bruciore e lacrimazione degli occhi, rinorrea (naso che cola) sono particolarmente fastidiosi si può ricorrere a farmaci antistaminici, disponibili come equivalenti, quindi di provata efficacia e basso costo per i cittadini.
Un farmaco, comunemente usato come anticolesterolo, avrebbe in realtà una duplice funzione: oltre ad abbassare la concentrazione nel sangue di trigliceridi e di colesterolo LDL (una forma di colesterolo dannosa), e aumentare la concentrazione del colesterolo HDL (una forma di colesterolo utile), il fenofibrato sembra in grado di stimolare gli stessi recettori che vengono interessati dal Tetraidrocannabinolo (Thc) il principio attivo della cannabis. A scoprirlo un gruppo di ricercatori della School of Life Sciences della University of Nottingham Medical School nel Regno Unito che hanno pubblicato i risultati delle loro ricerche nella rivista The Faseb Journal.
Secondo i ricercatori, proprio questa sua caratteristica lo può rendere come il padre di una nuova classe di farmaci utili a contrastare diverse patologie, come il dolore, l’anoressia, la nausea, e diverse condizioni psichiatriche e neurologiche.
''Il nostro studio - spiega uno dei principali autori della ricerca, Richard Priestley - mira a fornire le basi per la ricerca di nuovi farmaci adatti a questi recettori''. Il fenofibrato, disponibile come equivalente, è normalmente impiegato per ridurre la concentrazione di grassi nel sangue, quando la dieta a basso contenuto in grassi e colesterolo, proseguita per almeno 3 mesi, non sia risultata efficace, e prevenire così danni al cuore e ad altri organi.
E’ un esercito di circa 500.000 persone, di cui circa 125.000 con forme resistenti alla terapia farmacologica. Stiamo parlando di quanti soffrono di epilessia in Italia. Eppure, nonostante questi numeri, secondo la Federazione italiana epilessie (Fie), che riunisce 23 associazioni in diverse regioni italiane, l’epilessia resta “un problema sommerso a causa di irragionevoli pregiudizi”. Così, in occasione della Giornata internazionale, la Fie ha posto l’accento sul fenomeno della resistenza alle terapie e sulle difficoltà di accesso alle cure da parte di molti pazienti. Sebbene esistano numerosi farmaci – molti dei quali disponibili come equivalenti - che controllano le crisi, consentendo a chi ne fa uso di condurre una vita normale “il 30% delle persone con epilessia non risponde alle terapie attualmente disponibili, con gravi ricadute sulla loro qualità di vita”, si legge in una nota della Federazione. “Tutto ciò fa dell’epilessia una vera e propria emergenza sanitaria e sociale”.
Secondo la Fie è necessaria una programmazioni di interventi volti al:
a) potenziamento del numero dei centri/strutture specializzate per la diagnosi e cura dell’epilessia che rispondano a standard previsti dalle Linee guida internazionali e delle Società scientifiche nazionali, con competenze multidisciplinari: neurofisiologia clinica, farmacologia, genetica, neuroradiologia, neuropsicologia e servizi di counseling;
b) potenziamento dei centri per il trattamento neurochirurgico dell’epilessia;
c) predisposizione di Linee guida per il rilascio della patente di guida ai pazienti affetti da epilessia.
“La nostra organizzazione – spiega Rosa Cervellione, presidente della Fie – ha l’obiettivo di restituire alle persone con epilessia la speranza di poter vivere pienamente la propria vita. Gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di questa possibilità sono molteplici, ma siamo sicuri che la società civile saprà dare risposte adeguate ai bisogni espressi dalle molte migliaia di persone che in Italia soffrono di epilessia”.
Sono circa 250.000 le persone che in Italia soffrono di schizofrenia, malattia cronica grave che conduce a una drastica diminuzione dell’aspettativa di vita. Una condizione che in Europa riguarda circa 3,5 milioni di persone e che a livello mondiale colpisce, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, approssimativamente 24 milioni di persone.
Questi dati confermano l’importanza del confronto tra esperti sulla pratica clinica, alla luce di un nuovo approccio che pone al centro il benessere del paziente psichiatrico e le strategie opportune da mettere in atto per migliorare la loro qualità di vita. Del tema si è discusso all’interno del 19esimo congresso della Società italiana di psicopatologia (Sopsi).
“La schizofrenia è tra le prime 10 patologie a più alto impatto di disabilità sociale – sottolinea Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze all’ospedale Fatebenefratelli di Milano – Insorge frequentemente nell’adolescenza, tra i 16 e 18 anni, ed è caratterizzata da vulnerabilità genetica ai fattori ambientali quali abuso di stupefacenti e alcol, disagio sociale e immigrazione. Nelle aree urbane la prevalenza dei disturbi psicotici è aumentata. Nascere e vivere fino a 13 anni in ambienti metropolitani aumenta infatti il rischio di schizofrenia – avverte lo specialista – Intercorre ancora troppo tempo tra la comparsa dei sintomi e la possibilità di ricevere cure e si corre il rischio di arrivare troppo tardi. Fondamentali sono quindi il riconoscimento precoce e i trattamenti pedagogico, psicoterapico e farmacologico, in modo da monitorare sia l’evoluzione della persona sia l’evoluzione della malattia. Perché agendo subito si minimizzano le conseguenze”.
Il trattamento della schizofrenia può contare su farmaci equivalenti, di provata efficacia e convenienti per i cittadini.
Con l’entrata in commercio del primo biosimilare di un anticorpo monoclonale (infliximab) approvato dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema), il dibattito sull’impiego di questi farmaci nel nostro Paese è entrato nel vivo, sia per la complessità delle molecole sia perché rappresentano una nuova generazione di biosimilari, dal punto di vista dell’impiego clinico e del maggior potenziale di controllo dei bilanci in sanità. Al convegno di Bergamo “Biosimilari. Prospettive future e strategie di gestione tra razionalizzazione della spesa e tutela dei pazienti” è stata presentata una recente analisi di budget impact sui risparmi generabili in Italia con l’impiego di infliximab biosimilare: fino a 48 milioni di euro nel quinquennio 2015-2019.
Infliximab e il suo biosimilare sono anticorpi monoclonali il cui impiego è approvato nelle malattie infiammatorie croniche immuno-mediate (Imid) come artrite reumatoide, spondilite anchilosante, malattia di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi e artrite psoriasica. I farmaci biologici, tra cui infliximab, hanno rivoluzionato lo scenario terapeutico di queste patologie, migliorandone in modo significativo la prognosi. Il costo elevato, tuttavia, ne ha finora limitato l’impiego. Oggi la disponibilità del primo biosimilare indicato per la cura delle Imid permette di liberare importanti risorse, che potrebbero essere destinate ad ampliare l’accesso dei pazienti al biotech.
Permangono, tuttavia, resistenze sull’utilizzo dei biosimilari, dovute al loro essere “simili ma non identici” all’originator, eppure sono farmaci sottoposti a uno stringente iter approvativo da parte di Ema. “Il biosimilare è sviluppato in modo da risultare sovrapponibile in termini di qualità, sicurezza, efficacia e immunogenicità al prodotto biotecnologico già autorizzato, il medicinale di riferimento”, spiega Armando Genazzani, professore di Farmacologia all’Università del Piemonte Orientale.
Tre milioni e mezzo di donne e un milione di uomini. Sono i numeri dell’osteoporosi in Italia secondo le stime emerse dal Congresso mondiale su osteoporosi, osteoartrite e disturbi dei muscoli e delle ossa tenutosi a Milano. L’evento, organizzato da Iof (International osteoporosis foundation) ed Esceo (European society for clinical and economic aspects of osteoporosis and osteoarthritis) ha riunito nel capoluogo lombardo 3 mila specialisti da tutto il mondo.
L’osteoporosi è una delle patologie muscolo-scheletriche che, secondo il Global Burden of Diseases Study, sono responsabili sempre più spesso di disabilità per i pazienti, con un tasso di crescita di conseguenze invalidanti del 45% negli ultimi vent’anni. In particolare, l’osteoporosi severa (complicata da fratture), se non trattata in modo efficace, è tra le cause più invalidanti e in grado di pregiudicare la qualità della vita. Inoltre, comporta enormi costi per le comunità e per i sistemi sanitari nazionali, con una crescita di spesa prevista di circa il 25% entro il 2025 solo in Europa.
“L’incidenza dell’osteoporosi è in aumento – spiega Giancarlo Isaia, presidente Siommms e direttore del Dipartimento di Geriatria e Malattie metaboliche dell’osso all’ospedale Molinette di Torino – e si stima che oggi ne siano affetti in Italia circa 3.5 milioni di donne e un milione di uomini, facendo emergere l’allarme per una grave pandemia silenziosa che va quindi trattata come una patologia di priorità sanitaria e sociale”. La terapia di questa malattia del metabolismo osseo può oggi contare anche su farmaci equivalenti di provata efficacia, di elevata qualità e costo vantaggioso.
Un farmaco molto usato per il diabete potrebbe rivelarsi utile anche nella lotta a molti tumori. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Genova ha infatti scoperto che la metformina è in grado di impedire alle cellule tumorali di assorbire zuccheri dal sangue, rallentandone la crescita. Si tratta di una scoperta importante che rafforza le speranze dell'utilizzo del farmaco in "cocktail" di terapie anti-cancro per potenziarne l'efficacia.
I risultati della ricerca italiana sono stati pubblicati sulla rivista Cell Cycle. Lo studio è partito da una considerazione fondamentale: i tumori sono avidi "consumatori" di zucchero. L'alterazione del metabolismo del glucosio è infatti uno dei "marchi di fabbrica" del comportamento delle cellule tumorali, che utilizzano il glucosio come "carburante" per crescere.
Per assorbire quanto più zucchero possibile dal sangue i tumori sfruttano l'azione di una sostanza: il fattore di crescita insulino-simile IGF1, che attiva l'enzima tumorale PKM2. Questo a sua volta attiva meccanismi che favoriscono il "risucchio" degli zuccheri dal sangue da parte delle cellule malate. Gli esperti hanno studiato nel dettaglio il meccanismo con cui la metformina disturba la crescita dei tumori, osservando che il farmaco blocca l'azione di IGF1 e quindi ostacola l'ingresso preferenziale degli zuccheri nelle cellule tumorali. Secondo una nota diramata dalla Società Italiana di Diabetologia (SID), quella dell'Università di Genova rappresenta si tratta di una scoperta importante che permetterebbe di utilizzare il farmaco anti-diabete per potenziare l'azione di altre sostanze anti-tumorali oggi in uso.
Curarsi risparmiando si può. Come? Grazie ai farmaci equivalenti. Lo evidenziano chiaramente i dati che ogni giorno il Centro Studi Assogenerici elabora sul potenziale contenimento della spesa farmaceutica in ogni regione e globalmente in Italia qualora i cittadini preferissero ai medicinali di marca quelli generici, cioè quei farmaci per i quali è scaduta la copertura brevettuale e possono essere prodotti da diverse aziende oltre quella che ha inventato la molecola.
Per capire esattamente quanto sia elevato il risparmio potenziale vediamo alcuni esempi. Ogni giorno gli italiani potrebbero risparmiare 2,6 milioni di euro se scegliessero in farmacia i medicinali generici. Prendendo in esame il periodo dal primo di aprile ad oggi, se i cittadini avessero preferito il farmaco equivalente, nella sola regione Lazio avrebbero risparmiato 2.9 milioni di euro, in Lombardia 2.88.milioni, in Puglia 1.9, in Sicilia 2.
Il dato riferito all’Italia nel complesso indica un risparmio potenziale per i cittadini di 23,4 milioni di euro. Se consideriamo il periodo che va da gennaio a oggi il risparmio per gli italiani sarebbe stato di oltre 240 milioni di euro. A causa di questa diffidenza nei confronti dei farmaci equivalenti, l’anno scorso i cittadini Italiani hanno speso di tasca propria 924 milioni di euro per avere preferito i farmaci di marca ai generici. In tempi di ristrettezza economica come quelli che stiamo attraversando questi numeri dovrebbero fare riflettere. I farmaci equivalenti hanno la stessa efficacia terapeutica degli originali, sono prodotti di qualità, ma costano significativamente meno.
Sono medicinali capaci di fare risparmiare fino al 25% della spesa farmaceutica, soprattutto per alcune malattie importanti come il cancro, ma stentano ancora ad essere accettati pienamente dai medici e dagli stessi pazienti.
Si tratta dei biosimilari, medicinali "similari" al prodotto originale biotecnologico il cui brevetto è scaduto consentendo così alle aziende del settore di produrre una replica fedele al principio attivo e ai dosaggi. Perché questa diffidenza? Il problema sta principalmente in una mancanza di informazioni corrette. Se ne è discusso approfonditamente a Palermo in un convegno promosso dall’associazione Donne in Rete onlus, impegnata nella tutela della salute della donna, insieme all'associazione Amici, che riunisce pazienti affetti dalla malattia infiammatorie croniche intestinali (morbo di Crohn e colite ulcerosa).
Per una diffusione responsabile e attenta dei biosimilari le due associazioni hanno realizzato un "manifesto" con delle proposte concrete. Nel dettaglio viene suggerito che la politica Nazionale riguardo i farmaci: Informi in modo imparziale tutti i soggetti interessati - medici, pazienti, professionisti sanitari ed autorità governative che sovraintendono alla politica sanitaria - ; promuova e mantenga la concorrenza nel mercato farmaceutico incentivando un adeguato uso precoce dei farmaci biosimilari in combinazione con politiche di prezzi sostenibili; raccolga e pubblichi dati clinici basati sull’evidenza dimostrata nelle reali condizioni d’impiego per rafforzare la fiducia verso la sicurezza e l'efficacia; realizzi procedure di acquisto trasparenti e condivise tra Asl, medici, pazienti e persegua processi decisionali chiari ed efficienti che non ritardino la disponibilità dei farmaci biosimilari sul mercato. Inoltre, il manifesto propone l'istituzione di un "Fondo di premialità" per quei dipartimenti clinici autorizzati all'uso del biologico, generato dalla riduzione dei costi favorita dalla commercializzazione di farmaci biologici.
"In una fase in cui si tende a informarsi sempre di più tramite il web il pragmatismo suggerisce l'introduzione di un sistema che certifichi la qualità delle informazioni. E' proprio in quest'ottica che abbiamo ideato il portale 'Biosimilari Life', un luogo di confronto per mettere in rete i soggetti coinvolti nell'utilizzo dei biosimilari" ha spiegato Rosaria Iardino , Presidente di Associazione Donne in Rete onlus.