AssoGenerici comprende le preoccupazioni rappresentate da Federanziani a proposito del cosiddetto zapping farmaceutico, vale a dire la possibilità data al farmacista di sostituire un farmaco prescritto dal medico con uno equivalente se disponibile, ma non condivide la proposta di modificare le norme sulla sostituibilità. “Le diverse norme oggi in vigore disegnano un quadro molto chiaro” dice Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici.
“Se il medico appone la dicitura “non sostituibile” il farmacista non può dispensare un farmaco differente da quello prescritto, mentre se non c’è questa indicazione può sostituire il farmaco solo se ne esiste in commercio un altro equivalente a un prezzo più basso. Se il medico indica un preciso farmaco equivalente – indicando molecola e produttore – il farmacista non ha alcun motivo o possibilità di consegnare un altro medicinale, in quanto i generici hanno di norma il medesimo prezzo. Infine, se si indica soltanto la molecola, il farmacista può consegnare il generico di cui dispone.
Mantenere la possibilità di indicare il solo principio attivo” prosegue il presidente di AssoGenerici “appare come una misura razionale, nel momento per esempio in cui si prescrive un farmaco per condizioni acute o quando si instaura una nuova terapia, nel qual caso la cosa più importante è avviare subito l’assunzione del medicinale. Siamo certi che il farmacista non abbia difficoltà a consegnare il medesimo medicinale anche alle successive prescrizioni, soprattutto considerando che in Italia, in particolare tra la popolazione anziana, è fortunatamente diffusa la figura del “farmacista di fiducia”.
In merito alla decisione del comitato per i medicinali per uso umano dell’EMA (CHMP) di raccomandare la sospensione dal commercio di alcuni medicinali, AssoGenerici ritiene doveroso fare presente che tale decisione non comporta alcun disagio o rischio per i cittadini italiani. La decisione, che rimanda agli enti regolatori nazionali la scelta di sospendere o meno la commercializzazione, è stata presa a seguito del riscontro di irregolarità nella condotta degli studi da parte di una CRO, la GVK Bio, cui si erano affidati svariati produttori europei ed extraeuropei non solo di farmaci equivalenti ma anche di farmaci brand.
Di molti di questi medicinali erano disponibili presso l’EMA anche documentazioni basate su studi condotti da altre organizzazioni, ragion per cui non è stato necessario suggerire alcun provvedimento, mentre per altri 300 si è scelto di procedere nel modo indicato. “La misura suggerita dal Comitato dell’EMA è improntata doverosamente alla massima cautela, ma non vi sono elementi che suggeriscano la presenza di pericoli per i pazienti, come ha già avuto modo di comunicare l’Agenzia Italiana del Farmaco. Nel caso dell’Italia, i prodotti interessati riguardano 9 principi attivi per un totale di una ventina di medicinali, alcuni dei quali, peraltro, non sono attualmente neanche in commercio. Inoltre si tratta di medicinali che rappresentano percentuali irrisorie delle vendite complessive di tutti medicinali a base di quel determinato principio attivo e quel dosaggio” dice il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann.
“Per tutti questi medicinali sono disponibili in Italia svariate alternative e, quindi, è impossibile che la sospensione cautelare possa generare difficoltà alle persone in trattamento. Voglio peraltro sottolineare che gli accertamenti sulla CRO GVK Bio sono anche il risultato della politica di assoluta severità nel controllo del rispetto delle buone regole di laboratorio e di produzione che ha da sempre il massimo supporto delle associazioni dei produttori di farmaci, a cominciare dalla European Generic Medicines Association. A seguito del parere del CHMP, i membri dell’EGA e le rispettive aziende che appartengono alle associazioni nazionali agiranno sulle raccomandazioni provenienti dall’EMA in collaborazione con le autorità nazionali”.
Un avocado al giorno per combattere il colesterolo in eccesso.
Uno studio della Pennsylvania State University, pubblicato sul Journal of the American Heart Association, ha infatti scoperto che questo frutto tropicale riduce i livelli nel sangue del colesterolo “cattivo” o LDL, abbassando così il rischio di avere un attacco cardiaco. Nello studio sono stati coinvolti 45 pazienti sani, in sovrappeso o obesi di età compresa tra i 21 e i 70 anni. I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di seguire per un periodo di due settimane la tipica dieta di un americano medio, cioè con il 34 per cento di calorie provenienti da grassi, il 51 per cento da carboidrati e il 16 per cento da proteine
In seguito, i partecipanti sono stati suddivisi in modo da far seguire loro tre diete diverse per abbassare il colesterolo. In particolare, un gruppo ha seguito una dieta a basso contenuto di grassi che non prevedeva il consumo di avocado; un secondo gruppo ha seguito una dieta a moderato contenuto di grassi senza avocado; e un terzo gruppo una dieta a moderato contenuto di grassi con il consumo di un avocado al giorno.
Le diete sono state seguite per 5 settimane. Durante tutto il periodo di studio i ricercatori hanno effettuato esami del sangue a campione sui soggetti. Dai risultati è emerso che, nonostante la dieta a basso contenuto di grassi avesse un minor apporto calorico rispetto agli altri due a medio contenuto (24 per cento di calorie da grassi contro il 34 per cento), le analisi del sangue hanno rivelato che alla fine della dieta che comprendeva gli avocado il livello di colesterolo LDL era calato di 13 punti e mezzo in confronto al valore medio (13,5 milligrammi per decilitro in meno).
Addirittura il doppio se comparato con il valore riscontrato dopo la dieta a basso contenuto di grassi (7,4 mg/dl in meno).
“Questo dimostra che l’apporto di acidi grassi monoinsaturi fornito dagli avocado riesce a far calare drasticamente il colesterolo cattivo“, ha detto Penny M. Kris-Etherton, presidente dell’American Heart Association’s Nutrition Committee e coordinatore dello studio.
Quando i livelli di colesterolo più pericoloso o LDL sono particolarmente elevati e non controllabili con misure non farmacologiche restano tuttavia un pilastro alcuni medicinali come le statine disponibili come farmaci equivalenti, di provata efficacia e basso costo.
Non solo cura dell’osteoporosi: i bisfosfonati, farmaci che riducono il riassorbimento dell’osso e oggi disponibili anche come equivalenti, potrebbero contribuire alla prevenzione del tumore del polmone, del seno, del colon e dell’endometrio. Lo sostengono due studi da poco comparsi sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), i cui esiti appaiono molto promettenti, sebbene preliminari perché per ora condotti soltanto in laboratorio e non ancora su uomini. I bisfosfonati erano già stati associati, in studi precedenti, ad un rallentamento della crescita di alcune forme di cancro in determinati pazienti e non in altri, ma il meccanismo e le ragioni per cui questo avvenisse non erano chiari. In queste due nuove ricerche, un team di ricercatori internazionale guidato da studiosi della Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York ha dimostrato che questi farmaci bloccano la crescita anormale di cellule dovuta a un malfunzionamento di alcuni recettori, ben noti per essere associati allo sviluppo di alcuni tumori (e alla loro resistenza ad alcune terapie), quelli della famiglia del fattore di crescita epidermico noto come EGFR o HER.
«I bisfosfonati potrebbero avere un ruolo importante nella prevenzione e nel trattamento di forme di cancro molto diffuse - spiega Mone Zaidi, autore principale delle ricerche -. Si tratta di farmaci già approvati, disponibili, sicuri e in uso da anni, il che è un chiaro vantaggio sia per i pazienti che per la sostenibilità economica a carico del sistema. Ora dobbiamo soltanto verificare su persone sane e pazienti ciò che abbiamo scoperto e confermato su cavie di laboratorio».
Molte allergie alla penicillina sono più una convinzione che non un dato reale.
Secondo una serie di dati presentati ad Atlanta (Usa) al convegno annuale dell'American College of Allergy, Asthma an Immunology (Acaai) molti dei presunti allergici a questo antibiotico in realtà non hanno mai ricevuto una conferma della diagnosi da parte di test allergologici specifici. Uno studio coordinato da Thanai Pongdee, allergologo della Mayo Clinic, di Cleveland (Ohio) ha rilevato che ben il 94% delle persone convinte di essere allergiche alla penicillina può risultare negativo ai test allergologici.
“Una gran parte degli individui coinvolti nel nostro studio che aveva una storia di allergia alla penicillina in realtà non era allergica – ha raccontato l'allergologo – Queste persone potrebbero aver avuto una risposta sfavorevole alla penicillina in qualche momento nel passato, come un'orticaria, ma ora non hanno mostrato nessun segno di allergia alla penicillina”. In un altro studio i test cutanei hanno smentito la presenza delle presunte allergie alla penicillina in 29 dei 38 pazienti coinvolti, permettendo di modificare la terapia farmacologica e, essendo la penicillina in varie formulazioni disponibile come farmaco equivalente, di ridurne così i costi, perché si può evitare il ricorso a farmaci più impegnativi economicamente, sempre che il quadro microbiologico delle resistenze batteriche lo consenta. “Quando ci viene detto che siamo allergici a qualcosa è importante essere visitati e testati da un allergologo, che ha la preparazione specializzata necessaria per una diagnosi e un trattamento accurati – ha sottolineato James Sublett, presidente eletto dell'Acaai – Se si è davvero allergici a un farmaco l'allergologo saprà fornire consigli su un'alternativa appropriata”.
Non solo difficoltà esistenziali e perdita di interesse verso la vita: la depressione comporta anche un altro problema, quello dell'invecchiamento biologico precoce. A sostenerlo è una ricerca olandese condotta dalla Vu University Medical Centre di Amsterdam e pubblicata sulla rivista specialistica Molecular Psychiatry.
Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato 2.400 volontari (sia sani sia depressi) studiandone in modo specifico i telomeri, vale a dire la regione terminale dei cromosomi.
I telomeri svolgono un ruolo fondamentale per far sì che ad ogni duplicazione dei cromosomi non vi sia perdita di informazioni. In altre parole, se il telomero non esistesse ad ogni replicazione del DNA una parte delle istruzioni genetiche verrebbe perso.
Diverse ricerche hanno riscontrato che ad ogni ciclo replicativo della cellula si verifica un progressivo accorciamento dei telomeri, e questo fenomeno è stato messo in relazione con l'invecchiamento cellulare.
Nella loro ricerca gli studiosi olandesi hanno verificato che nelle persone colpite da depressione i telomeri risultavano più corti del normale, se confrontati con quelli dei volontari che non ne avevano mai sofferto.
Secondo i dati dello studio, un soggetto sano perde normalmente tra le 14 e le 29 coppie di basi del Dna (il parametro che ne misura la lunghezza).
I soggetti affetti da depressione, invece, fanno registrare una perdita di 83-84 coppie di basi. Un dato che, secondo i ricercatori, corrisponderebbe a una maggiore anzianità delle cellule di 6-8 anni.
La coordinatrice dello studio, Josine Verhoeven, ha spiegato che "La nostra ricerca fornisce prove convincenti che la depressione si associa a un invecchiamento biologico rilevante".
Tuttavia, secondo la scienziata, non è ancora stato accertato il tipo di danno prodotto da questo tipo di invecchiamento e, soprattutto, se questo processo può essere invertito.
Quello che è certo è che la depressione non deve essere trascurata e va trattata con diversi approcci, da quello psicoterapico a quello farmacologico, che può giovarsi di medicinali equivalenti di basso costo ma di grande efficacia.
L'assunzione di omega 3, disponibili oggi come farmaci equivalenti, facili da reperire e di basso costo, riduce il desiderio di nicotina e il numero di sigarette fumate al giorno. E' quanto emerge da uno studio dell'Università di Haifa, in Israele, pubblicato sulla rivista Journal of Psychopharmacology.
Gli studiosi hanno esaminato 48 fumatori di età compresa tra i 18 e i 45 anni che fumavano in media 14 sigarette al giorno, dividendoli in due gruppi: al primo è stato chiesto di assumere cinque capsule al giorno di integratori di omega 3 per trenta giorni, al secondo è stato invece somministrato un placebo. In nessun momento dello studio è stato chiesto ai partecipanti di smettere di fumare. A distanza di un mese dalla somministrazione, in chi aveva assunto gli i omega 3 il desiderio di nicotina, misurato all'inizio secondo una serie di parametri prestabiliti, risultava significativamente più basso. Così come il numero di sigarette giornaliere fumate, diminuito in media di due (pari all'11%).
"Le sostanze e farmaci utilizzati attualmente per aiutare le persone a ridurre e smettere di fumare non sono sempre efficaci e causano effetti avversi spesso non facili da affrontare - spiega Sharon Rabinovitz Shenkar, autore della ricerca - i risultati di questo studio hanno invece indicato che gli omega 3, poco costosi, facilmente disponibili e quasi senza effetti collaterali, riducono il fumo in modo significativo".
Un effetto positivo, dunque, che va ad aggiungersi alle diverse azioni benefiche degli omega-3, dalla riduzione del colesterolo “cattivo” o Ldl e dei trigliceridi, alla diminuzione della pressione arteriosa, alla riduzione della rigidità delle articolazioni in chi soffre di artriti a una migliore salute delle ossa e persino alla riduzione della tendenza a sviluppare depressione. Insomma, un toccasana per la salute dell’intero organismo, che però per esplicare al meglio le sue virtù deve essere assunto a dosaggi congrui come quelli presenti nei farmaci equivalenti disponibili oggi in farmacia.
“Nella vicenda di Foggia mi pare emergano diverse contraddizioni, probabilmente frutto di una scarsa conoscenza della materia”.
Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici e coordinatore del Biosimilar Italian Group si esprime così in merito al caso del gruppo di genitori che si sarebbero opposti alla scelta della Regione Puglia di promuovere l’impiego del biosimilare dell’ormone della crescita (GH) anziché del farmaco originatore per la cura dei loro figli affetti da bassa statura.
“E’ evidente che vada tutelato il diritto del paziente a essere curato con farmaci efficaci e sicuri, anzi con le migliori cure possibili, e che debba essere il medico a scegliere in scienza e coscienza quale medicinale usare – prosegue il vicepresidente di Assogenerici -. Ma è quello che pare essere effettivamente successo: un medico ha scelto uno dei biosimilari del GH che sono farmaci efficaci e sicuri, impiegati con successo da diversi anni in Europa”. Una vicenda che fa emergere l’importanza di una maggiore diffusione di conoscenze su opportunità terapeutiche di grande impatto per la tutela della salute dei cittadini e per le possibilità di risparmi per le casse dello stato. “Al di là del modo un po’ confuso con cui è stata divulgata la notizia, sarebbe più utile parlare di biosimilare non solo come di un medicinale a minor costo ma come di un farmaco frutto di una tecnologia più recente – commenta Colantuoni-. Perché di questo si tratta: il biosimilare è prodotto che facendo tesoro dei progressi registrati nelle biotecnologie, presenta alcune caratteristiche migliorative e ha dimostrato sui pazienti di essere altrettanto efficace del farmaco originatore e in più costa meno. E questo avviene per diverse ragioni, perché i costi di ricerca sono inferiori, perché le stesse tecnologie, nel tempo, migliorano pur costando meno. Si pensi a un esempio chiaro a tutti: un PC degli anni novanta costava l’equivalente dello stipendio di un impiegato, oggi un prodotto analogo costa un decimo e ha prestazioni anche 1000 volte superiori. E nessuno, credo, vorrebbe comprare oggi un personal computer degli anni novanta…” conclude Francesco Colantuoni.
“I farmaci biosimilari consentiranno ai pazienti europei un migliore accesso ai prodotti biologici ritenuti essenziali per molte terapie ormai divenute gold standard, offrendo nel contempo risparmi a lungo termine indispensabili per rendere sostenibili i Servizi Sanitari Europei, compreso quello italiano”. Lo sostiene il Presidente di AssoGenerici Enrique Hausermann a commento del rapporto Factors Supporting a Sustainable European Biosimilar Medicines Market”, commissionato all’istituto di ricerche tedesco GfK dal Gruppo Biosimilari (EBG) della European Generic Medicines Association (EGA). L’indagine è stata condotta su un campione di responsabili delle politiche sanitarie, medici, associazioni di pazienti, rappresentanti dell’industria di sette paesi europei (Francia, Germania, Ungheria, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito).”Lo studio, come illustrato da Chris Teale, Vicepresidente GfK, “ha raccolto i punti di vista di tutti i soggetti potenzialmente interessati all’uso dei farmaci biosimilari identificando ciò che deve accadere perché il settore dei farmaci biosimilari possa portare benefici significativi a tutta la comunità ".
I punti principali identificati nel rapporto come condizioni necessarie per lo sviluppo del biosimilari sono i seguenti:
•Informare in modo imparziale tutti i soggetti interessati - medici, pazienti, professionisti sanitari ed autorità governative che sovraintendono alla politica sanitaria;
•Promuovere e mantenere la concorrenza nel mercato farmaceutico incentivando un adeguato uso precoce dei farmaci biosimilari in combinazione con politiche di prezzi sostenibili;
•Promuovere l'innovazione e garantire un'equa remunerazione del capitale investito;
•Raccogliere e pubblicare dati clinici basati sull’evidenza dimostrata nelle reali condizioni d’impiego (Real World Evidence - RWE) per rafforzare la fiducia verso la sicurezza e l'efficacia dei farmaci biosimilari;
•Realizzare procedure di acquisto trasparenti e condivise tra Payers , Medici, Pazienti;
•Perseguire processi decisionali chiari ed efficienti che non ritardino la disponibilità dei farmaci biosimilari sul mercato.
“Lo studio suona a conferma della linea tenuta finora da AssoGenerici” sottolinea il vicepresidente dell’Associazione, Francesco Colantuoni. “Il nostro impegno nel favorire la discussione sui biosimilari nella comunità scientifica è costante, così come il lavoro per garantire al pubblico un’informazione corretta. Resta comunque la necessità di creare un coinvolgimento ancora maggiore di tutti gli stakeholder”.
Per meglio articolare questa azione, è stato costituito l’Italian Biosimilar Group (IBG), il gruppo interno ad AssoGenerici che raccoglie le aziende leader del settore, che hanno introdotto la concorrenza nel mercato del farmaco biotecnologico, favorendo così l’accesso ai trattamenti più innovativi da parte di una platea più vasta di pazienti italiani e contribuendo alla sostenibilità della tutela della salute. Da oggi il gruppo IBG”, prosegue Colantuoni, “potrà essere il punto di riferimento per tutta l’industria”.
L’integrazione quotidiana di vitaminaD potrebbe migliorare la dermatite atopica che peggiora in inverno nei bambini.
Lo hanno scoperto i ricercatori dell’università di Harvard dopo avere studiato 107 bambini affetti da questa malattia cutanea. La dermatite atopica è una malattia infiammatoria cronica della pelle, con intenso prurito e secchezza cutanea. Interessa il 5-20% dei bambini e l’1-3% degli adulti, con notevoli effetti negativi sulla qualità della vita di chi ne soffre e delle loro famiglie. D’inverno, per cause fino a oggi non chiare, questo disturbo tende a peggiorare. Un trattamento comune per la dermatite atopica grave è quello con luce ultravioletta che favorisce la sintesi di vitamina D. Partendo da questa osservazione i ricercatori statunitensi hanno supposto che una carenza di vitamina D possa essere alla base del peggioramento osservato nella stagione invernale.
I 107 bambini studiati sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi: uno ha ricevuto per un mese 1000 unita al giorno di vitamina D, l’altro del placebo. Alla fine del mese di terapia, i ricercatori hanno osservato che i bambini trattati con vitamina D avevano migliorato la gravità della dermatite in modo nettamente superiore (30% rispetto a 15%) ai bambini che avevano assunto il placebo.
La supplementazione con vitamina D, disponibile anche come farmaco equivalente, può secondo gli scienziati americani migliorare la gravità della dermatite atopica soprattutto nei bambini che abbiano una quantità minore di questa vitamina nel loro organismo.
Il “winter blues”? Tutta colpa di una regolazione alterata della serotonina, l’ormone delle “coccole”. Uno studio dei ricercatori dell’Università di Copenhagen ha scoperto che un difetto nella proteina deputata al trasporto della serotonina (Sert) è alla base del winter blues, o depressione stagionale nota anche come “seasonal affective disorder” (Sad). Lo studio, presentato al Congresso dell’European College of Neuropsychopharmacology (Ecnp) appena tenutosi a Berlino, contribuisce a chiarire un fenomeno che inizia a manifestarsi in autunno, quando i livelli di luce diurna si riducono. Chi vive nei paesi del Nord Europa, infatti, ha una probabilità maggiore di soffrire di depressione stagionale, tanto è vero che una persona su sei la sviluppa. I ricercatori danesi hanno studiato, mediante una metodica sofisticata, cioè la tomografia a emissione di positroni (Pet), 11 persone con depressione stagionale e 23 soggetti sani di controllo. La Pet ha permesso di individuare le differenze nei livelli della proteina Sert (trasportatrice di serotonina) in estate e in inverno. In particolare, le vittime di depressione invernale avevano livelli più alti di Sert nei mesi freddi, cosa che porta a una maggior rimozione dal circolo sanguigno di serotonina in inverno. Poiché la serotonina rappresenta una componente importante per il buonumore, meno ormone c’è in circolo, maggiore è la probabilità di sviluppare una sindrome depressiva.
“Abbiamo riscontrato che in media, i pazienti con disordine stagionale dell’umore hanno il livelli di Sert più alti del 5% in inverno rispetto all’estate, mentre nei soggetti sani non ci sono differenze significative”, spiega Brenda MacMahon, responsabile della ricerca. “Crediamo quindi di avere scoperto l’interruttore che il cervello utilizza per regolare i livelli di serotonina nelle diverse stagioni”.
La terapia della depressione stagionale si basa su farmaci che agiscono aumentando i livelli di serotonina e che sono disponibili oggi come equivalenti, quindi efficaci e accessibili.
I portafogli italiani sempre più leggeri anche per l’acquisto dei farmaci.
La spesa a carico dei cittadini italiani per i medicinali di classe A, quelli cioè eleggibili a rimborso dal sistema sanitario, è aumentata dal 2003 al 2013 del 69,4%. Lo denuncia il 10° Rapporto Sanità dell'Università Tor Vergata di Roma, elaborato dai ricercatori del Consorzio per la ricerca economica applicata in sanità (Crea), appena presentato nell'Aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati.
I dati rilevati dagli esperti dell’università di Tor Vergata dimostrano che la compartecipazione alla spesa per i farmaci incidono molto più nel meridione che nel settentrione (7,7% sulla spesa farmaceutica della Regione Sicilia, contro il 2,2% della P.A. di Bolzano). Una dimostrazione, quindi, di iniquità in Sanità con differenze regionali nella spesa out of pocket notevoli, superiori anche al 40%. "In campo farmaceutico - spiegano gli esperti del Consorzio - le spese dirette 'sgravano', ormai in misura rilevante, il sistema pubblico da oneri, aiutando di fatto a mantenerne la sostenibilità".
E il ministro Beatrice Lorenzin, in una nota inviata alla presentazione del Rapporto dice che “è necessario aumentare le capacità del sistema sanitario di convertire le risorse in valore, tenendo presente che l'investimento in salute è il presupposto per la crescita e lo sviluppo di un paese”.
“La pubblicazione, da parte dell’AIFA, del documento di consenso della Commissione Europea dedicato ai farmaci biologici e biosimilari è un contributo importante a chiarire ulteriormente il ruolo fondamentale di questi farmaci non tanto e non solo nella ricerca del contenimento dei costi, ma quanto per perseguire la miglior e più equa assistenza possibile” dice il vicepresidente di AssoGenerici Francesco Colantuoni. “Eppure ancora oggi c’è chi chiede ulteriori studi sui biosimilari dopo la loro approvazione da parte dell’agenzia europea dei prodotti medicinali (EMA), dimostrando così di non riuscire a cogliere la differenza tra il percorso regolatorio e produttivo di un farmaco biotecnologico e quello di un farmaco di sintesi.
Quando un biosimilare ottiene l’autorizzazione all'immissione in commercio da parte di EMA è perché ha dimostrato - nel paziente e nel confronto con il farmaco originatore - efficacia, sicurezza e qualità”.
Caratteristiche che sono riportate come d’obbligo nella scheda tecnica e nel foglietto illustrativo del medicinale, per il quale quindi non ha senso richiedere etichettature speciali o ulteriori sistemi di tracciabilità, come se non bastassero quelli già esistenti che hanno ulteriormente migliorato la farmacovigilanza. Mentre ancora si avanzano richieste immotivate di questo tenore, si stima uno sfondamento della spesa farmaceutica ospedaliera di 1,5 miliardi e si assiste a un andamento irrazionale della diffusione dei biosimilari, con un impiego che varia dal 5% al 60% a seconda delle Regioni. “Si paventa la riduzione di servizi e l’inasprimento dei ticket quando un adeguato impiego dei farmaci biosimilari potrebbe contribuire alla sostenibilità del SSN, come avviene in altri Paesi moderni e tecnologicamente avanzati. E’ imprescindibile” conclude Colantuoni “che dal Ministero della Salute e dall’AIFA vengano indicazioni univoche sul ruolo del biosimilare, le stesse delineate nel documento di consenso europeo che si richiama esplicitamente, fin dal titolo, all’equità nell’accesso ai medicinali.Ci auguriamo che il Ministero della Salute possa e voglia presenziare alla presentazione della ricerca condotta da GFK sul biosimilare commissionata dal Gruppo Europeo Biosimilari, parte della nostra associazione europea (EGA), che si svolgerà a Roma il prossimo 4 novembre: siamo certi che in quell’occasione potremo presentare elementi senz’altro utili a una completa ricognizione del tema”.
La menopausa preoccupa ancora il gentil sesso. Un recente sondaggio dell’Osservatorio nazionale della salute della donna (Onda) condotto su 600 donne di età compresa tra 45 e 65 anni, presentato in occasione della Giornata mondiale della menopausa, mostra alcune incertezze, paure e talvolta reticenze che aleggiano ancora intorno a questo periodo della vita.
Gli effetti più temuti sono l'osteoporosi (60%), le vampate (58%) e l'aumento di peso (50%), mentre tra i problemi più frequenti vi sono le difficoltà nella vita intima, legate prevalentemente al calo del desiderio (38%) e a problematiche vaginali quali secchezza o irritazioni (28%).
Le più preoccupate sono le donne che stanno entrando in questa nuova fase della vita: una su due vorrebbe essere più seguita e più informata. Va detto che buona parte del campione intervistato ha riconosciuto come utili alcuni comportamenti, tra cui una corretta alimentazione (46%), controlli regolari (46%), una regolare attività fisica (41%), assumere integratori specifici (35%). Di fatto, però, solo una parte di questi accorgimenti viene messa in pratica e solo il 25% delle donne (vale a dire una su quattro) afferma di non fare/avere fatto nulla di tutto ciò, per prepararsi ad affrontare meglio la menopausa. Un dato è particolarmente significativo. “Il 75% delle donne (tre su quattro) dichiara di avere avuto problemi della sfera sessuale, ma ben il 30% di loro non ne ha parlato con nessuno e altrettante, a causa di tali difficoltà, sono state costrette a rinunciare o limitare molto la vita sessuale”, dice Francesca Merzagora, Presidente di Onda. Il fai da te, comunque, non è consigliato. "Il ginecologo è la figura più indicata a discutere i temi della sessualità, che spesso vengono taciuti per imbarazzo o per rassegnazione – afferma Rossella Nappi dell’Ircss San Matteo di Pavia. - E', infatti, più facile parlare delle vampate di calore, dell'aumento di peso o del rischio di osteoporosi. Arrivare preparate alla menopausa sembra fondamentale, per avere un atteggiamento attivo". Nel caso sarà questo specialista a prescrivere terapie, come ad esempio quelle ormonali, disponibili come farmaci equivalenti, quindi di sicura efficacia e convenienza.
“L’operazione zero ticket sui farmaci fuori brevetto allineati al prezzo di riferimento attuata dalla Regione Lombardia ha messo in evidenza come le resistenze all’uso dei farmaci equivalenti pesino economicamente sui cittadini e non poco: a livello nazionale circa 850 milioni l’anno stando agli ultimi rilevamenti”.
Lo spiega il presidente di AssoGenerici, Enrique Häusermann. “Oggi in Lombardia i cittadini appartenenti alle fasce esenti hanno la possibilità di ottenere i farmaci prescritti senza versare alcun contributo se si tratta di equivalenti e questo a nostro avviso è fondamentale per incentivare i comportamenti virtuosi e allineare le dinamiche dell’assistenza farmaceutica italiana a quelle prevalenti in Europa”.
Così AssoGenerici commenta l’intervista rilasciata dal Consigliere regionale Stefano Carugo a Il Giornale, nella quale rispondeva alle critiche rivolte alla Giunta lombarda, accusata di non aver ridotto la spesa a carico del cittadino. “Il consigliere Carugo ha toccato anche un altro punto fondamentale, e cioè la scarsa informazione fornita ai cittadini sul fatto – fondamentale – che gli equivalenti costituiscono una grande occasione di risparmio anche quando il paziente acquista farmaci di fascia C, cioè non rimborsati dal Servizio sanitario, si tratti di medicinali da banco o di farmaci soggetti a prescrizione sulla cosiddetta ricetta bianca.
Questo, se vogliamo, è un fatto ancora più grave sul quale sta diventando sempre più urgente intervenire
La pubblicazione dei dati di ripiano della spesa farmaceutica ospedaliera 2013 ripropone tutta l’irrazionalità del meccanismo del payback applicato ai produttori di farmaci equivalenti.
“Un meccanismo, introdotto dalla Legge 135/2012 che penalizza in modo insopportabile il comparto dei farmaci a brevetto scaduto” dice Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici. “I generici vengono acquistati esclusivamente attraverso il meccanismo delle gare che, come spesso si dimentica, si basano sul criterio del minor prezzo, stabilito non da chi vende, ma da chi compra. Nel momento in cui i produttori di questi farmaci si aggiudicano una gara hanno quindi già fatto risparmiare il Servizio Sanitario Nazionale. Se la spesa complessiva supera il tetto, come nel 2013, anche il comparto fuori brevetto è chiamato alla restituzione attraverso il pay back nonostante gli acquisti di equivalenti abbiano contribuito in maniera determinate al contenimento di questa parte della spesa rispetto al 2012. Ma non basta: ci troviamo ogni anno a restituire somme che ancora non abbiamo incassato, visti i cronici ritardi nei pagamenti”. In alcune regioni, a nove mesi dalla chiusura del 2013 le forniture non sono state saldate. “Se si aggiunge che la Legge stabilisce che non è possibile interrompere le forniture alle strutture ospedaliere in vigenza di contratto anche a fronte della più ostinata morosità, c’è da domandarsi se la vendita di generici in ospedale in Italia sia un modello di attività proponibile” prosegue Colantuoni.
Per le aziende di AssoGenerici resta fondamentale che i farmaci fuori brevetto vengano esclusi dal meccanismo del payback sulla spesa ospedaliera, e intendono mettere in atto tutte le possibili azioni per contrastare una norma che nel tempo potrebbe portare, come di fatto in alcuni casi già accade, alla scomparsa della concorrenza con il ritorno del monopolio. Un intervento del legislatore nel caso specifico sarebbe quanto mai auspicabile.
La quota di farmaci generici di fascia C a carico del cittadino è mediamente molto più bassa di quella dei generici in fascia A, a carico dello Stato.
«Insomma - conferma sulle pagine del quotidiano Libero Gualtiero Pasquarelli, AD di DOC Generici - a 13 anni dall'entrata in commercio in Italia, è una situazione paradossale; eppure sui prodotti a carico del consumatore, secondo logica, la quota dovrebbe essere maggiore che non su quelli a carico del Servizio Sanitario, visto che sui primi il risparmio è diretto per le tasche del cittadino. E anche l'introduzione della prescrizione per principio attivo non ha di fatto avuto alcun impatto né modificato questo trend». I cittadini in pratica continuano a pagare di tasca propria una cifra più alta, senza motivo. «O meglio - precisa Pasquarelli - il motivo c'è ed è molto chiaro: perché il pubblico non ne è informato, non sa che può risparmiare e quanto, a causa di una legge sulla pubblicità, nata ben prima del generico, che nei fatti impedisce il diritto del cittadino all'informazione».
Emblematico al proposito il caso del sildenafil generico - prodotto per la disfunzione erettile –che ha avuto, una volta immesso sul mercato, un tale battage informativo da parte della stampa tale per cui i cittadini hanno saputo da subito che si trattava di un risparmio importante per un prodotto equivalente. «Questa situazione ha avuto due importanti ricadute: abbattimento degli acquisti per vie 'illegali' tipo internet e passaggio al generico di quasi il 60 percento del consumo in pochissimo tempo», sottolinea Pasquarelli. Il sildenafil ha avuto un trattamento informativo di cui non godono gli altri prodotti di fascia C, nonostante quasi il 90 per cento abbia un equivalente generico a costo minore.
«Non si spiega altrimenti, è solo una mancanza d'informazione - insiste l'AD di DOC Generici - perché la legge impedisce di informare il cittadino dell'esistenza di un farmaco equivalente e a prezzo minore per i prodotti soggetti a prescrizione medica. La qual cosa può essere comprensibile per i prodotti di fascia A, visto che medico e farmacista svolgono un ruolo attivo nell'informazione, ma non di certo per quelli a carico del cittadino sui quali l'informazione è carente a tutti i livelli. Insomma, equiparare l'informativa sul differenziale di prezzo ad una pubblicità equivale ad impedire al cittadino di sapere che può spendere meno per un prodotto al 100 per cento identico, ledendo un diritto essenziale soprattutto nel momento in cui paga di tasca propria».
Far conoscere al consumatore il differenziale di prezzo tra due prodotti equivalenti non dovrebbe essere considerato 'pubblicità' ma 'informazione' a tutti gli effetti
“I tre farmaci biosimilari disponibili già oggi potrebbero fare risparmiare ben oltre il 25% rispetto alla spesa attuale” dice Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici, a margine di un convegno romano dedicato ai farmaci biotecnologici a brevetto scaduto. “Invece la situazione italiana continua a mostrare elementi illogici. Certamente se paragoniamo il dato complessivo del nostro Paese rispetto a quello dei sistemi sanitari europei possiamo concludere che stiamo riallineandoci al dato generale: in Italia i biosimilari rappresentano circa il 30% del mercato di riferimento, contro il quasi 50% della Germania e il 40% circa di Francia, Spagna e Gran Bretagna. Tuttavia non si può non sottolineare come preoccupante la constatazione di una grande variabilità regionale e, addirittura, tra una ASL e l’altra nell’impiego dei biosimilari” prosegue Colantuoni. Le alternative ai farmaci biotecnologici originatori non sono copie a basso prezzo, ma farmaci frutto della ricerca e dell’innovazione con le stesse caratteristiche terapeutiche. Eppure stentano ancora ad affermarsi da noi.
“E’ un dato che non trova alcuna giustificazione sul piano clinico e scientifico: ormai da quasi un decennio sono disponibili le prove che il farmaco biosimilare è efficace e sicuro, perché lo dimostrano gli studi clinici necessari alla registrazione così come la sorveglianza post-marketing, che monitora l’uso quotidiano in corsia”, sottolinea Colantuoni.
Le Regioni devono essere sostenute nel raccogliere e mettere a disposizione dei clinici e del decisore sanitario tutte queste evidenze. “Spesso si sente dire che alla base della diffidenza nei confronti del biosimilare ci sia un principio di cautela nei confronti del paziente, ma si trascura di dire che questa diffidenza non c’è nel momento in cui il clinico decide di passare da un farmaco biotecnologico a quello “innovativo” appena registrato. Ma questi nuovi farmaci sono supportati dalle stesse prove di efficacia e sicurezza che può esibire anche il biosimilare, che è anch’esso un farmaco “nuovo”. Bisogna creare le condizioni perché il medico possa acquisire confidenza con l'uso del biosimilare, considerando anche la necessità di poter continuare a offrire le migliori cure possibili senza mettere a rischio i bilanci e, anzi, allargando l’impiego a una più vasta platea di pazienti”.
Aumentano i consumi dei farmaci a brevetto scaduto, sia dei cosiddetti originator o di marca, sia degli equivalenti (che contengono gli stessi principi attivi), ma per questi ultimi siamo ancora lontani dalla diffusione osservata in altri Paesi europei.
«I prezzi degli originator a brevetto scaduto sono ormai bassi, qualche volta superiori solo di pochi centesimi rispetto agli equivalenti - spiega Federico Spandonaro, professore aggregato di economia dell'Università di Tor Vergata a Roma -. In termini di risparmio per il Servizio sanitario, tuttavia, non cambia nulla, perché la differenza è totalmente a carico del cittadino». Una differenza non trascurabile: solo nel 2013, gli italiani hanno speso 861 milioni di euro per pagare la differenza tra un ex griffato a brevetto scaduto e un generico "puro", come evidenziano i dati di Assogenerici, l'associazione che raggruppa i produttori di #farmaci #equivalenti e #biosimilari (simili ai biotecnologici in commercio di cui è scaduto il brevetto).
Molte Regioni hanno scelto di incentivare l'uso degli originator a brevetto scaduto e degli equivalenti per contenere la spesa di farmaci di fascia A. «Se tutte raggiungessero i risultati delle Regioni più virtuose – dice il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann - i risparmi sarebbero di 767 milioni di euro l'anno per 18 categorie terapeutiche, come segnala il documento dell'Aifa "Indicatori di programmazione e controllo dell'assistenza farmaceutica convenzionata"».
Per quanto riguarda i biosimilari, in analogia a quanto avviene per gli equivalenti, il loro impiego è limitato rispetto ad altri Paesi europei, ma sta crescendo. Il Rapporto dell’Osservatorio sul consumo dei medicinali (OsMed) relativo all’anno 2013, mostra che, per i soli biosimilari a base di epoetina, il miglioramento degli indicatori di appropriatezza ha fatto risparmiare al Servizio sanitario circa 8 milioni di euro.
Nel 2015 scadranno i brevetti di altri medicinali di ampio utilizzo per diverse malattie e quindi è prevedibile un ulteriore risparmio per il Sistema sanitario nazionale. Tutto bene quindi? Non proprio. Sulle modalità di prescrizione dei biosimilari, infatti, secondo il recente rapporto sul "Federalismo in sanità" di Cittadinanzattiva, si registrano importanti difformità di interventi e interpretazioni da Regione a Regione. A scapito prima di tutto dei cittadini.