La correlazione tra l'inquinamento e i rischi di alcune allergie è oramai un fatto consolidato, e gli ultimi rilevamenti dalla cosiddetta “emergenza smog” rilanciano drammaticamente le preoccupazioni, con particolare riferimento ai più piccoli. Il danno per loro è grave, con ricadute valutate ora perfino sul piano psicologico.
Infatti è più che triplicata la percentuale dei bambini italiani allergici negli ultimi vent'anni, passando dal 7% al 25% - la stima rivelata nei giorni scorsi a Roma nella conferenza stampa di presentazione di un congresso internazionale sul tema, promosso dall'Organizzazione Mondiale per le Allergie con l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Eloquente anche la statistica sulle patologie più diffuse, in quanto afferiscono alle vie aeree, anzitutto la rinite allergica, che colpisce in particolare gli adolescenti (oltre un terzo dei ragazzi tra i 13 e 14 anni), seguita dall'asma.
A tali dati si incrocia l'allarme sempre più elevato sull'inquinamento urbano in queste settimane di siccità e il suo impatto sulla salute dei minori. “ I Pronto Soccorso pediatrici, specie nelle grandi città, hanno registrato un aumento di almeno il 25% degli accessi negli ultimi due mesi per emergenze respiratorie ”, denuncia il presidente della Società Italiana di Pediatria Giovanni Corsello, citando in particolare i casi di “ iper-reattività delle mucose respiratorie agli inquinanti dell'aria”.
E tra gli effetti collaterali prende ora corpo anche l'ipotesi del danno psicologico. Uno studio dell'Università del Michigan su 546 bimbi tra i 4 e i 7 anni, pubblicato sulla rivista americana Pediatrics, ha identificato uno stretto parallelismo tra l'aumento delle allergie (e in particolare proprio la rinite allergica) e i disturbi di tipo emotivo e comportamentale, tra tendenze involutive e di isolamento, ansia e depressione. Rimane da esplorare la natura specifica e i rimedi più appropriati a tale correlazione, ma la sua sussistenza emerge palese.
Economia e salute, un binomio che ad alcuni può suonare male. Agli antipodi, un po’ come il “dindolò” dei bimbi, se sale uno scende l’altro. Che la percezione sia però fuori luogo è oramai un'evidenza globale, e non solo perché la riflessione sui costi sanitari crescenti è imposta con urgenza da una popolazione che cresce e invecchia. Ma soprattutto perché i due ambiti possono andare a braccetto. Curarsi meglio, spendendo meno è possibile, e lo è anche dinanzi a una delle più gravi emergenze degli ultimi anni, l’Hiv.
Il fatto è emerso chiaro e unanime a Milano nell’ultimo “Workshop di Economia e Farmaci” dedicato al virus. Sul piano dell’efficacia, tra gli altri, Adriano Lazzarin, primario della Divisione di malattie infettive dell’ospedale milanese San Raffaele, ha annunciato il buon esito dello “switch” da originari a generici di alcuni trattamenti (efavirenz, lamivudina e lamivudina+zidovudina). Identico riscontro, anche sulla sicurezza terapeutica, da uno studio presentato dal direttore della Clinica malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma Roberto Cauda, che ha rilevato l'assenza di differenze nei decorsi tra pazienti “switchers” (da branded a generico) e “non-switchers”.
Gli economisti rilanciano, vedendo nel passaggio all’equivalente il presupposto di nuove risorse per la ricerca. “Serve una presa di posizione netta e decisa da parte dei decisori”, incalza Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria all'Università capitolina di Tor Vergata, evocando norme e prassi che facilitino la disponibilità e l’uso di tali farmaci anche in ospedale. In piena sintonia la Lega Italiana per la Lotta all’Aids. L’uso degli equivalenti è “un’opportunità che ne apre altre”, sottolinea il presidente della Lila Massimo Oldrini.
Il Workshop è nato nel 2011 sotto la responsabilità scientifica di due titolati ordinari dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma, il gastroenterologo Antonio Gasbarrini e l’economista Americo Cicchetti. E’ un progetto di ricerca e formazione permanente che riunisce l’insieme degli attori del settore, pazienti inclusi. Fa riferimento all’estesa rete multisciplinare dell’Health Technology Assessment, cui afferiscono esperti di una settantina di paesi sui temi dell’innovazione e dell’organizzazione sanitaria.
Il concetto è che non sempre ci sono “costi e benefici” in materia. Qui emergono solo i secondi. “ I generici sono il futuro, amplieranno la cura dell’Hiv”, scrisse già nel 2012 la rivista Nature.
“Ministro, guardi, il Pronto Soccorso oggi è vuoto, sta giocando il Napoli”. Il paradosso raccontato l’anno scorso in un’intervista televisiva da Beatrice Lorenzin, in merito a una sua visita sorpresa al Cardarelli, è multiplo ma convergente. La tempistica dei “momenti di tregua” al pronto soccorso rivela il medesimo problema cronico della tendenza al sovraffollamento: quello dell’abuso da parte di alcuni che, per scarsa urgenza ed entità del loro malanno, avrebbero il diritto e dovere di trovare altri spazi per curarsi.
Gli ultimi dati delle strutture regionali aggravano il concetto. Nel Trentino, ad esempio, si stima che circa 40mila pazienti si rivolgono ogni anno al pronto soccorso pur non avendone bisogno. I “codici bianchi” (che secondo il protocollo non hanno problemi urgenti e non sono in pericolo) sono quasi un terzo. Sommati ai “codici verdi” (che pur avendo qualche problema in più potrebbero comunque rivolgersi al proprio medico curante), la proporzione sale addirittura all’83% (dati riferiti al 2014).
Il problema non è solo italiano. Un approfondimento, coordinato dalla Plymouth University e pubblicato in questi giorni sulla rivista Health Services and Delivery Research, nota che le ammissioni nelle strutture d’emergenza britanniche sono aumentate del 47% in 15 anni, con un’accelerazione negli ultimi. Si tratta inoltre di una stima solo parziale della pressione sulle sale di pronto soccorso in quanto non conteggia i pazienti che, come consentito dalle norme oltremanica, possono essere “non ammessi”.
Il dibattito è aperto e urgente, su scala globale. La strada è naturalmente quella di un potenziamento delle alternative sanitarie. Al di là dei nodi normativi (ticket, assunzioni di personale), il tema è anche la prassi organizzativa. C’è chi suggerisce ai medici di “uscire dall’ospedale”, chi invece incalza quelli di famiglia a una più stretta cooperazione con gli ospedali stessi. Un aspetto interessante comunque suggerito dalla ricerca inglese – che compara le prassi in 4 diverse strutture – è l’assenza di una “ricetta universale”. Nella logica di un’assistenza territoriale diffusa, è il contesto locale a fare la differenza.
Le donne soffrono di patologie cardiache più degli uomini, e i sintomi sono spesso ben diversi. Tali realtà suonano sorprendenti a molti, ma la sorpresa è essa stessa parte del problema, perché rivela come non sia sempre adeguatamente affrontata e curata, e più in generale come ancora non venga riconosciuta la differenza di genere nelle diagnosi quanto nei trattamenti.
Il dato di base è questo: sin dal 1984, la mortalità per motivi cardiaci è risultata superiore tra le donne rispetto agli uomini, anche se, nota l’ American Heart Association, in una recente ricerca seguita da una campagna stampa statunitense, emergono miglioramenti nell’ultimo decennio dovuti a una parziale presa di coscienza e a cure migliorate. Il problema però persiste. “Per loro il quadro è peggiore”, spiega la coordinatrice dell’indagine Laxmi Metha, dell’Università dell’Ohio, notando la sottovalutazione dei sintomi “inusuali” che per loro sono invece tipici, quali il respiro corto, nausea, vomito, alta pressione, dolori alla schiena. E l’esito finale è che “ alle donne succede più spesso di essere ricoverate una seconda volta, per infarto o morte”.
Insomma la realtà è che gli allarmi femminili tendono ancora a sottovalutarsi per il persistere di preconcetti, alimentati da dati che sembrano confermarli e invece dicono il contrario. Se le italiane vivono in media fino a 85 anni e gli uomini fino a meno di 80, mentre le aspettative sulla buona salute sono pressoché identiche, significa che si prospetta per le prime più anni di vita malata. E se le donne stesse temono molto meno gli infarti di altre patologie significa che sono anch’esse poco informate.
Da un ventennio la “medicina di genere” ha un riconoscimento globale, anche in sede di Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma esso fa leva su aspetti sociologici, quali le “discriminazioni”, più che sulla differenza biologica. Su questa arrivano molte ricerche dagli Stati Uniti, che documentano il diverso impatto tra i sessi di molte patologie, ma poca elaborazione complessiva.
In Italia il problema è speculare. Tra l’Osservatorio di Bari, corsi universitari a Roma, Padova, Torino e altrove, è passato il concetto che uomini e donne sono fatti diversamente e richiedono trattamenti differenti, ma si reclama più ricerca.
Gli americani si fidano degli equivalenti, anzi li preferiscono ai farmaci di marca con percentuali quasi da plebiscito. Il dato incrocia del resto da tempo le indicazioni delle autorità sanitarie d'oltreoceano, medici di base inclusi, e contiene anche implicazioni sulla qualità del trattamento farmacologico.
La recente analisi in proposito dell'agenzia The Harris Poll ha fatto leva su un sondaggio dello scorso agosto su oltre 2200 pazienti adulti. Più di un terzo dichiara di preferire i farmaci generici rispetto ai brand, e il 30% dice di volerli scegliere “in tutti i casi”, indipendentemente dal settore, patologia e costo. Tra gli altri dati interessanti emerge che il gradimento per gli equivalenti sale ulteriormente in relazione all'età: i più favorevoli sono proprio i consumatori più esperti.
Il crescente successo del generico negli Stati Uniti si accompagna a una sempre più netta presa di coscienza tra tutti gli stakeholders del settore, praticamente senza eccezioni. Di recente perfino l'American College of Physicians, la più corposa associazione americana di medici specialisti, ha lanciato un appello ai colleghi a “prescrivere gli equivalenti ogni volta che è possibile”, riconoscendone l'identica efficacia e sicurezza terapeutica, oltre che il rilevante risparmio.
Quest'ultimo aspetto si rivela a sua volta cruciale per determinare la qualità del trattamento. Un’estesa ricerca della fondazione Commonwealth Fund ha confrontato gli aspetti assicurativi della sanità americana con la qualità delle cure. L’analisi è complessa, con dettagli finanziari che a noi dicono poco, per il funzionamento ben distante della copertura sanitaria italiana. Il dato di fondo vale comunque anche qui: il nodo dei costi risulta determinante sulle scelte terapeutiche individuali. Ad alti costi tende a seguire una scarsa aderenza alle prescrizioni farmacologiche, con tutto quel che ne consegue per la salute.
Qualità degli equivalenti, bassi costi, appropriatezza terapeutica: la correlazione, negli Stati Uniti, è oramai riconosciuta come fatto consolidato.
Come spesso accade, sono i governi a raccomandare misure di precauzione prima ancora dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I primi avvertono la responsabilità politica, la seconda è vocata perlopiù al coordinamento. Dal Ministero della Salute è quindi partito dalla scorsa settimana un “consiglio” al “differimento di viaggi” nei paesi latinoamericani dov’è diffuso il virus Zika alle “donne in gravidanza, e a quelle che stanno cercando una gravidanza”, nonché “ai soggetti affetti da malattie del sistema immunitario o con gravi patologie croniche”, mentre l’Oms ha preferito inizialmente scoraggiare “restrizioni inappropriate”, nonostante ammetta una diffusione “esplosiva”.
C’è chi ben va oltre, e in particolare in Colombia dove il governo ha sconsigliato alle donne di restare incinta per i prossimi sei mesi. La realtà è che il virus non è grave, ma si teme possa avere un impatto sui feti. Va quindi chiarito bene di che si tratta. Fu identificato già nel 1947 in alcune scimmie in Uganda durante un monitoraggio sulla febbre gialla. Il vettore è il medesimo, la zanzara Aedes Aegypti, lo stesso anche della dengue, ma ha una differenza fondamentale, è sostanzialmente innocuo, con sintomi lievi, perlopiù assimilabili a una normale influenza che dura tuttalpiù una settimana.
Qualcosa è però successo nell’ultimo anno. Dopo Asia e Africa, il virus ha assunto una valenza formalmente “epidemica” in Brasile (con rapida diffusione in altri paesi americani), e nel contesto dell’epidemia sono poi emersi dati preoccupanti sui nascituri, con un incremento nei casi di microcefalia.
In ogni caso la correlazione, seppur “fortemente ipotizzata”, non è per ora dimostrata, e lo stesso riguarda l'ipotesi che possa trasmettersi anche per via sessuale. Questa è la realtà, i timori sono per ora legati a sospetti e a possibili mutazioni virali, nonché all'assenza di un vaccino e cure specifiche. Sono perciò già in atto sperimentazioni biotecnologiche di “prevenzione”, alcune controverse, quali l'immissione di zanzare “geneticamente modificate” nell'ambiente di alcuni quartieri brasiliani.
La realtà unanimemente perorata è che serve più ricerca, oltre naturalmente a un'informazione equilibrata.
La spesa farmaceutica aumenta, i consumi poco. Gli ultimi dati dell'Osservatorio sull'Impiego dei Medicinali (OsMed), riferiti ai primi nove mesi del 2015, vanno letti con attenzione, scorporando tra settore farmacologico e contesti regionali, e rilanciano l'urgenza di un ricorso più esteso a generici e biosimilari.
Il rapporto rileva una spesa totale di 21,3 miliardi di euro, per oltre tre quarti rimborsato dal Servizio Sanitario. La spesa farmaceutica pubblica ha sfiorato i 10 miliardi (quasi 160 euro pro capite), con un incremento del 9,6% rispetto allo stesso periodo del 2014. Il Direttore Generale dell'Aifa Luca Pani sottolinea “l’impatto che i medicinali innovativi ad alto costo immessi sul mercato lo scorso anno”, in particolare “sulla spesa ospedaliera”. Decisiva è infatti la crescita della spesa per medicinali di classe A, addirittura del 37,4%. Quella farmaceutica convenzionata segna invece un lieve calo, a fronte di consumi in leggero aumento (+0,5%) corrispondenti alle “esigenze di cura di una popolazione che tende a invecchiare”.
L'impennata andrà probabilmente a ridimensionarsi nell'ultimo trimestre dell'anno, dato che l'osservatorio internazionale di Ims Health stima per quel periodo un rallentamento dei prezzi per alcune specialità. Il nodo dei costi del farmaco è in ogni caso centrale, con implicazioni anche sull'aderenza terapeutica dei pazienti, segnalata in difetto specie per (addirittura sotto il 50%) il trattamento con gli ipolipemizzanti.
Decisivo in proposito è l'utilizzo dei farmaci a brevetto scaduto: rappresentano il 53,7% della spesa convenzionata ma solo il 2,2% di quella per i farmaci acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche. Se poi si va a guardare il ben diverso andamento tra le regioni, salta di nuovo agli occhi come le più “virtuose” nel contenimento della spesa siano generalmente quelle dove negli ultimi anni è cresciuto di più il ricorso agli equivalenti.
Come hanno sottolineato gli studiosi dell'Aifa, “i generici e i biosimilari rappresentano un'opportunità essenziale per ottimizzare l'efficienza dei sistemi sanitari, rispondendo alla crescente domanda di cura in termini di efficacia terapeutica, personalizzazione, sicurezza e contenimento dei costi”, si legge sul Journal of Generic Medicines.
Tra salti culturali e problemi di lavoro, c’è un cambiamento epocale in famiglia, col papà a casa. Non accadeva dai tempi pre-industriali e forse, argomentano molti, non è mai accaduto in questa misura. Sul “mammo” si scatenano le varie scienze umane, perlopiù plaudendo al fenomeno. Attenzione però, perché l’allargata partecipazione domestica e la nuova presenza in sala parto andrebbero accompagnate a un’altra consapevolezza, primaria e clinica: il partner può aiutare, e molto, ma altrettanto può far male, se sta “depresso”, sin dal concepimento.
Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Obstetrics and Gynaecology, è stato condotto in Svezia su una platea molto estesa, 350mila nascite “premature” tra il 2007 e il 2012, ossia entro la 36ma settimana. Lo stato “depressivo” del genitore è stato definito dalla sussistenza di un trattamento farmacologico o di una consultazione ospedaliera nell’anno prima del concepimento fino al secondo semestre di gravidanza.
Ebbene, il riscontro sorprendente è che l’incidenza della depressione del genitore sul rischio di un parto prematuro – che è causa principale di morte dei neonati in larga parte del mondo, nota l’Organizzazione Mondiale della Sanità – non solo è molto alta, con percentuali che arrivano al 40%, ma, e questa è la vera novità, rivela analogie tra i due genitori. Sui rischi della madre “depressa” si sapeva, su quelli del padre no. Il problema riguarda soprattutto i “nuovi” depressi, quelli che non avevano riscontrato patologie prima di tale periodo (forse per la positiva incidenza dei trattamenti avviati dai “vecchi” malati): i papà che vengono a trovarsi in tale categoria incrementano la probabilità del parto prematuro di addirittura il 38%.
Il dato è impressionante e meriterà un approfondimento scientifico. A detta degli stessi ricercatori, non è chiaro se la causa sia primariamente “ psicologica” (lo stress trasmesso dal partner alla donna incinta) o “fisiologica” (l’impatto della depressione sulla qualità dello sperma, con effetti possibili sul Dna del bambino e sulla placenta). Quel che è comunque evidente è che lo “star bene durante la gravidanza” non è più solo un diritto e dovere materno, vale anche per il padre. Con l’imperativo a superare la virile riluttanza a curarsi, se del caso.
Ridere fa bene, alla salute, alla forma e al peso. Non è una novità assoluta, ma c’è qualcuno che ha fatto un po’ di calcoli che allargano il concetto. Una ricerca semi-seriamente scientifica condotta oltremanica dice qualcosa in proposito e fa pensare. Il principio è che la prevenzione e il benessere dipendano meno dai dettagli della dieta alimentare o da faticose ginnastiche che dall’umore con cui affrontiamo il mondo.
I pregressi della ricerca in materia non mancano, con benefici accertati sulla risata in varie università su molti fronti, in primis quello cardiaco. Qui però si tenta una qualificazione e una quantificazione. L’“urlatore” può bruciare fino a 120 calorie all’ora; la risata “che piega la pancia” ne consuma 100; la “risatina” arriva a 33; il “ridacchiare” ne distrugge 20; il più compresso “ ghigno” ne debella comunque 10. Al conteggio seguono poi calcoli sui minuti necessari a un atteggiamento e all’altro, il conteggio comparato su quel che le diverse risate possono compensare rispetto a una dietra o l’altra e ulteriori conclusioni sulla tonicità muscolare, a iniziare naturalmente dagli addominali.
Intendiamoci, dietro al Comedy Research Project che sta impazzando in questi giorni sul tema, sia sulle riviste scientifiche che su quelle pop di mezzo mondo, non c’è moltissimo. Non ci sono campus, riviste accademiche o simili. Se ne parla da quasi quindici anni (intorno al termine “ gelotologia”, la cosiddetta “scienza della risata”) nel Regno Unito e altrove, perfino in consessi universitari, eppure, a ben vedere, le persone fisiche che lo animano sono perlopiù personaggi televisivi, comici e comunicatori scientifici. Il fatto è che tra questi c’è chi conosce la ricerca e la sa fare. È il caso, in particolare, della neuro-scienziata Helen Pilcher, che tra l’altro collabora per la celebrata rivista Nature e ha diretto quest’ultimo progetto.
Siccome poi lo studio è stato commissionato da una televisione, i risultati sono stati correlati alla visione di sit-com e altri programmi comici. Va da sé, come ben sanno gli autori, che le risate più grasse e salutari si producono lontano dallo schermo, nelle più banali serate tra amici. Sono importanti, da non omettere, per la cura della propria salute, dicono dunque gli studiosi.
“Gli Stati poveri dell’Africa ottengono l’estensione all’accesso ai meno costosi farmaci generici”. Titolava così lo scorso 19 dicembre scorso il keniano East African e, a ruota, i principali portali del “Continente Nero”. Il trionfalismo era assai motivato per i paesi in via di sviluppo. In ballo al vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) a Nairobi era la proroga delle concessioni per le importazioni di equivalenti oltre la scadenza prevista nel 2016, ed è stata ottenuta.
La decisione è compressa in quattro righe, senza clamori né comunicati stampa. Si fa riferimento al “Trips”, l’ Accordo sugli Aspetti Commerciali dei Diritti di Proprietà Intellettuale” siglato in Uruguay nel 1994 e alle successive deroghe in materia, l’ultima nel 2013. La proroga è stata ora estesa al vertice dell’anno prossimo ma di fatto, spiega correttamente la stampa locale, è a tempo indeterminato, finché non si opporranno almeno due terzi dei paesi membri dell’Organizzazione. Fino ad allora, si stabilisce, “ non saranno ammesse cause giudiziarie in ambito Trips”.
Il tema della “proprietà intellettuale” è esteso e complesso, con angolature e implicazioni ben diverse tra un settore e l’altro. Il farmaceutico è però quello commercialmente e umanamente più rilevante, specie per i paesi meno abbienti, dove, viene sottolineato, “ si vive con meno di un dollaro al giorno e si è al contempo molto più esposti a virus gravi, quali l’Hiv e la malaria, che nei paesi ricchi”.
E su questo l’interesse non era solo dei “paesi poveri” ma anche di quelli “emergenti”, a iniziare dall’India. Nel dopoguerra, dopo l’Indipendenza da Londra, introdusse norme per promuovere l’industria locale, che prevedevano criteri ben più lassisti rispetto ai 20 anni imposti dal Trips e ai 10 di solito riconosciuti ai farmaci “di marca”, con l’esito ultimo di portare la produzione nazionale al quarto posto nel mondo, con esiti formidabili sulla costruzione di un’assistenza sanitaria accessibile in patria quanto in Africa.
Tali norme sono state poi emendate per venire incontro alle esigenze dei trattati commerciali mondiali, ma hanno conservato dei paletti a tutela del generico. Alcuni governi africani si son detti “spaventati” circa la loro possibile rimozione, in India e in sede internazionale. Il pericolo, per ora, è stato scongiurato.
Siamo più vecchi, e lo saremo sempre di più. Questo riguarda anche e soprattutto un paese come l’Italia, dove nel 1963 solo uno su dieci superava i 65 anni, mentre mezzo secolo dopo la proporzione è raddoppiata, uno su cinque. Ma è il mondo a invecchiare, quasi ovunque, perfino in molti dei paesi poveri, tra decrementi nella natalità e incrementi nella speranza di vita. Un rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, “ Ageing: Debate the Issue”, rilancia l’allarme per il futuro prossimo, stimando per il 2050 oltre 2 miliardi di anziani, il 21% della popolazione, mentre oggi sono “solo” il 12%.
Naturalmente ci sono i rovesci della medaglia. Gli anziani di oggi stanno meglio di ieri, e sperabilmente quelli di domani meglio di oggi. Più produttivi, dunque, dal lavoro al volontariato, e perfino in famiglia. Già oggi sono spesso non “fonte di problemi”, ma “soluzione”, considerando che, nota l’Istat, il rischio di povertà tra le famiglie con pensionati sia più basso delle altre (nel 2013 il 16% contro il 22,1%).
In ogni caso le ripercussioni sono evidenti e crescenti, sul piano sociale, economico, previdenziale. Cambia drasticamente la popolazione, deve cambiare anche il welfare, perfino dove oggi funziona. “I sistemi sanitari non sono pronti”, dice l’Ocse. La ricetta dell’Organizzazione – condivisa almeno a parole da molti addetti ai lavori – è quella di spostare la priorità da una Sanità fondata sugli ospedali (da specializzare sui casi più delicati e gravi) a un sistema di assistenza territoriale diffusa. E questo richiede il contributo di tutti, inclusa la disponibilità degli operatori a “fare rete”, sia sul piano organizzativo che su quello tecnologico, anzitutto nella condivisione delle informazioni mediche.
Ma oltre alle alchimie strutturali ci sono le soluzioni di immediato risparmio e piena efficacia a portata di mano. L’adozione dei farmaci equivalenti, ad esempio, che in Italia cresce ma rimane ancora inferiore alla media Ocse. Gli appelli in tal senso si moltiplicano, col passo dell’urgenza. Dall’Aifa alle associazioni di medici, dalle più note Ong mondiali a, ovviamente, Assogenerici (come documentato da molti giornali italiani negli ultimi giorni): “ Diffondere la cultura del generico”, l’obiettivo condiviso.
La sentenza emessa a inizio anno dal Consiglio di Stato ha una valenza storica in materia di prescrizioni farmaceutiche, con un impatto destinato a protrarsi ben al di là dell'ambito territoriale dal quale è stato sollecitato, ossia la Regione Puglia.
Il supremo organo amministrativo ha sancito una volta per tutte che il medico, nel valutare tra farmaci di riconosciuta pari efficacia terapeutica e sicurezza, deve preferire quello meno costoso. In sostanza, se vale uguale e costa meno va scelto. Il principio, ispirato a una politica di contenimento della spesa sanitaria, era stato stabilito da una delibera regionale firmata a Bari il 26 febbraio di due anni fa, e poi era stato fatto proprio anche dal Tar. Nel respingere l’ulteriore ricorso di tre aziende farmaceutiche, lo ha reso un principio applicabile in qualsiasi angolo del paese.
In discussione (accesa) erano in particolare i farmaci “biosimilari”, che prospettano un risparmio fino al 60 per cento della spesa. L’imperativo dei giudici si applica ai pazienti “naive”, che devono entrare in terapia, altrimenti viene riconosciuta la discrezione del medico nell’atto di prescrivere i farmaci onde non rischiare di inficiare il principio della continuità di trattamento.
Con la sentenza, in più, la magistratura ora decreta la punibilità del professionista che non si adegui al principio: “ Non può censurarsi nemmeno la previsione di una procedura aggravata e di una possibile sanzione per i medici che risultino inadempienti", e cioè pagare di tasca propria il “rimborso della prescrizione” inutilmente onerosa. Di più, riconoscendo la sostanza scientifica e al contempo economica del principio, i giudici impegnano i direttori sanitari ad applicarlo, tra gli “obiettivi prioritari”, fino a “ considerare la loro attuazione oggetto di valutazione ai fini della conferma o della revoca dell'incarico".
La sentenza estende e generalizza alla collettività di cittadini e operatori un concetto già evocato in recenti pronunce dello stesso Consiglio su appalti e direttive dirigenziali di spesa in altre regioni, quali Umbria e Toscana.
La guerra fredda è alle spalle, ma Oltreoceano non cessa di scatenare i maestri hollywoodiani e perfino gli scienziati. E così, da un paper di tre ricercatori dell'Università del Vermont, è rispuntato lo spettro del “socialismo”. In ballo non sono però le caricature della storia, bensì i batteri, scoperti in azione comunitaria ben al di là delle loro “leggi di mercato”, ovvero delle “minacce esterne”.
Fuori dalle suggestioni socio-politiche, il tema è di concreto interesse per la scienza medica. Si documenta non solo come le cellule di una comunità batterica utilizzino le proteine per attivare meccanismi difensivi collettivi – fatto già accertato in precedenza - ma ora addirittura che lo facciano mentre non sono bersagliate dagli antibiotici, con l'esito ultimo di poter rigenerare l’infezione quand'anche ne sopravvivano pochissime.
La resistenza e le mutazioni dei batteri sono in cima agli incubi dei ricercatori, non senza qualche rischio di “procurato allarme” nell’opinione pubblica. Nelle scorse settimane è emerso ad esempio, in allevamenti maiali britannici oltre che in precedenza in Cina, un ceppo batterico resistente perfino alla colistina, tra gli antibiotici più potenti, inducendo poi diversi scienziati (e la rivista Nature) a minimizzare sui rischi per la salute pubblica. Altri biologi, nell’ottica della rassicurazione, hanno recentemente anche messo in discussione, rovesciandolo, l’assunto che il corpo umano abbia più batteri che cellule, tema che peraltro appare di scarsa ricaduta scientifica.
In ogni caso la novità qui non sta nella natura o nella quantità dei batteri, bensì nel loro comportamento “sociale”. L’identificazione di quel “ sistema socialista” di difesa sembra indicare nuove direzioni alla ricerca. In particolare, negli auspici degli scienziati del Vermont, il potenziale è nella comprensione di patologie fin qui senza guarigione, come la fibrosi cistica.
La morte di una donna per l’Ebola in Sierra Leone poche ore dopo l’annuncio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – “ L’Africa Occidentale è a zero” contagi – potrebbe far pensare a un macroscopico errore dell’agenzia dell’Onu dopo 68 anni di onorato servizio. Non è così, e per capire che l’avvenire possa ancora essere dietro le spalle basta un’occhiata al testo del comunicato.
“E’ probabile che emergano nuovi focolai”, si legge già nel titolo, seguito dall’impegno a uno “ sforzo massiccio per assicurare una solida prevenzione, sorveglianza e capacità di risposta” nell’area. I timori restano dunque alti, motivati dall’Oms con un esempio proprio sulla Liberia, l’ultimo dei tre paesi (dopo Sierra Leone e Guinea) a essere dichiarato “virus-free” (tecnicamente per il conteggio di 42 giorni trascorsi dal contagio alla guarigione dell’ultimo paziente accertato): ebbene, la stessa Liberia era stata dichiarata “libera” già lo scorso maggio, ma il contagio è poi riapparso per ben due volte.
In due anni Ebola ha infettato quasi 30mila persone uccidendone più di 11mila. L’epidemia più letale, da quando apparve per la prima volta il virus nel 1976, ha devastato la popolazione e l’economia di tre paesi, contagiando cittadini di altri 30, incluso un cooperante italiano. Mancano ancora certezze su terapia e vaccinazioni. Insomma, come spiega la rivista Nature, tra le “7 lezioni” impartite dalla tragedia, la più importante sta nel fatto che non è finita.
Le altre 6 riguardano l’adeguatezza della risposta internazionale all’emergenza, tra nodi organizzativi, farmacologici, perfino culturali. È la stessa Oms peraltro a indicare l’aspetto cruciale: servirebbe “una copertura sanitaria universale” per prevenire questa e altre pandemie, che agiscono selettivamente soprattutto nei paesi più poveri di risorse, strutture e cure.
Un imponente studio finanziato da diverse fondazioni americane fa i conti: affrontare le emergenze pandemiche può costare al mondo circa 60 miliardi di dollari all'anno: per evitarle – spiega - basterebbe investire meno di un decimo di tale cifra per realizzare ovunque un’adeguata prevenzione sanitaria.
“L’Istat invita alla cautela nelle analisi dei dati di mortalità”. Alla soglia di Capodanno l’Istituto di Statistica si è sentito costretto a intervenire su qualche commento allarmato alle proprie cifre. E ha fatto bene, perché qualche preoccupazione c’era e c’è. A dicembre è stato stimato un incremento dei decessi tendenziale (su base annua) di addirittura l’11,3%, pari a circa 68mila morti in più.
Sono dati aggregati, riferiti fino all’agosto scorso, sicché per la conferma delle percentuali e per un’analisi “disaggregata” sulle cause ci vorranno mesi, se non anni. Questo dice l’Istat e qualsiasi serio ricercatore. Sui grandi numeri valgono due regole fondamentali: la prima è che ci vuole tempo per sezionarli e capirli; la seconda è che, se sono davvero grandi, rivelano comunque qualche verità, non sono casualità.
Di qui le prime congetture, da tuttologi ma anche da demografi e medici, chi a tirare in ballo l’invecchiamento degli italiani, chi a ricordare lo “scandalo vaccini” che ha scoraggiato molti all’assunzione, chi a citare i rilevamenti sullo smog, chi a notare la tendenza generale al decremento della popolazione che ha segnato il passo nel 2015 in misura che non accadeva da un secolo. Tutti dati veri ma che non possono, almeno da soli, spiegare tutto.
Molti attaccano poi i tagli alla Sanità. “Ci si ammala sempre più (per i motivi di cui sopra) e ci si cura sempre meno”, si dice. Tra loro l’associazione “Italia Aperta”, che con un blog ben documentato (e gestito in piena autonomia) sul Fatto Quotidiano, punta il dito proprio sulla variabile farmaceutica, con particolare riferimento agli equivalenti. “ La quota di mercato rappresentata da farmaci generici è quadruplicata dagli anni 2000, contribuendo alla riduzione dei prezzi e della spesa. Tuttavia – si legge ancora - la penetrazione dei farmaci generici resta relativamente bassa in Italia, e rappresenta il 19% del mercato farmaceutico totale in volume nel 2013 (rispetto a un media OCSE del 48%) e l’11% in valore (meno della metà della media OCSE, pari a 24%) ”.
Niente allarmismi sull’aumento della mortalità, dunque. Ma il dato c’è e qualcosa dice.
Sul quadretto di un “lui” stremato da una banale influenza come fosse travolto da un treno mentre “lei” risponde tuttalpiù rallentando il suo ordinario attivismo c’è molto folklore, stereotipo e letteratura, oltre a qualche lite di coppia. Solo che adesso la letteratura è anche scientifica. La donna reagisce meglio ai malanni di stagione, per le ragioni accertate da una ricercatrice della Johns Hopkins University di Baltimora.
L'annuncio calza a pennello con la stagione delle influenze e le relative previsioni. Quelle dell'Istituto Superiore di Sanità sono stavolta clementi. Si prospetta “un'annata a bassa intensità”, secondo il Direttore del Dipartimento Malattie Infettive Giovanni Rezza, specie in raffronto al picco dell'inverno scorso su cui incise anche il caos vaccini che, seppur poi rientrato, scoraggiò molti ad adottarli. Quest'anno fa meno freddo, almeno per ora (si prospettano però picchi a febbraio e possibili prolungamenti della stagione influenzale), e, rassicurazione ulteriore, nessuna mutazione è riscontrata nei virus, né emerge “alcun allarme” dal nuovo “EAH1N1” isolato in maiali in Cina.
Tutto sotto controllo, dunque, e questo vale soprattutto per le donne. Tecnicamente, il loro vantaggio, spiega la studiosa Sabra Klein, sta negli ormoni. Si è riscontrato cioè che le cellule nasali – le più esposte all'influenza – reagiscono diversamente nelle donne grazie agli estrogeni, i quali agiscono da recettori e riducono la riproduzione del virus, nel proprio corpo e anche verso terzi.
La scoperta rappresenta uno sviluppo di altre ricerche che hanno evidenziato le proprietà antivirali degli estrogeni dinanzi a patologie gravi quali l'Hiv, l'Ebola e l'epatite. Niente generalizzazioni sulla “lady di ferro”, naturalmente, pena cadere nell'opposto stereotipo: esistono patologie in cui è proprio il gentil sesso a risultare più esposto, quali alcune categorie di dolore cronico.
In ogni caso è ora accertato che le donne hanno quest'arma in più. Con quel che rivela per il loro benessere “stagionale”, oltre che per la ricerca, inclusa quella “di genere”.
È la stessa parola a rischiare l’equivoco, nota l’Aifa. “Generico” è il contrario linguistico di “specifico”, evocando minor pertinenza dinanzi al dettaglio del malanno diagnosticatoci dal medico. E siccome “la salute è la prima cosa”, si è pronti ad accettare la spesa di almeno il 20% in più per “la marca”, al remoto dubbio che sia motivata.
L’ultima campagna informativa dell’Agenzia Italiana del Farmaco parte da questo, dalla persistenza dell’equivoco nonostante lo stesso legislatore già dieci anni fa avesse mutato la denominazione del farmaco “generico” in “equivalente”. E nel prendere esplicitamente atto del fallimento delle campagne precedenti, rilancia con un opuscolo accessibile a tutti.
L’equivalenza nella sicurezza ed efficacia terapeutica del “generico” è del resto ribadita dagli organi di garanzia di tutto il mondo. Prima del manuale pubblicato in dicembre dall’Aifa, è stata la “Food and Drug Administration” ad aggiornare il concetto e a documentarlo, oltre che con decenni di ricerche scientifiche, anche con l’identico rigore nei controlli. Così è negli Stati Uniti, così nell’Unione Europea, Italia in primis.
In proposito l’Aifa sottolinea però qualcosa in più. La verifica dell’equivalente, spiega sin dalla prefazione il Direttore Generale Luca Pani, “ si arricchisce della grande quantità di dati aggiuntivi ottenuti dall’uso consolidato del medicinale di riferimento (brand) nel corso degli anni, consentendo di valutare il profilo rischio/beneficio in modo più definito e delineato di quanto sia possibile per qualsiasi nuovo medicinale ”. Dieci anni di sperimentazioni ed eventuali correzioni in più. “In più”, non “in meno”.
La verità ha il riscontro degli ottimi dati globali sul mercato del settore, ma avrebbe il potenziale della dirompenza, anche nel quadro del dibattito quotidiano sui costi pubblici e privati della salute in Italia. Una “sfida culturale epocale”, nelle parole del neopresidente dell’Aifa Mario Melazzini, che dal Corriere della Sera spalanca la breccia: “Promuovere anche negli ospedali l’utilizzo dei medicinali generici e biosimilari”.
Il colesterolo cattivo o LDL potrebbe essere sconfitto grazie a una vaccino specifico.
È quanto sostenuto da uno studio della University of New Mexico e dei National Institutes of Health statunitensi, pubblicato sulla rivista ‘Vaccine’. Gli scienziati - gli stessi che hanno messo a punto il vaccino anti-HPV - usando lo stesso metodo di ricerca, hanno rivelato che la nuova immunizzazione potrebbe ridurre in maniera significativa il colesterolo presente nell’organismo, grazie ad una semplice iniezione. Fino ad ora il vaccino è stato testato solo su topi e scimmie, ma i test hanno dimostrato che è in grado di ridurre il colesterolo cattivo fino al 55% rispetto al 30% delle statine, attualmente utilizzate per la cura della patologia.
Il vaccino, inoltre, può anche essere utilizzato per aumentare l’efficacia di questi farmaci di un ulteriore 40%. Il prossimo passo sarà quello di passare alla sperimentazione sull’uomo: il nostro organismo produce il colesterolo per creare la vitamina D, gli ormoni e alcune molecole necessarie alla digestione, ma se la quantità prodotta è eccessiva, questo oltre a diventare superfluo, ostruisce le arterie e può portare a malattie cardiache o ictus. Il nuovo vaccino agisce su una proteina specifica, la PCSK9, la quale, dato che il colesterolo ha comunque una sua funzione utile per l’organismo, non lo elimina completamente. Ebbene l’immunizzazione andrebbe ad agire proprio su questa proteina-bersaglio, permettendo di eliminare il colesterolo in eccesso. « Visti gli ottimi risultati immunologici avuti con il vaccino anti-Hpv – ha dichiarato Bryce Chackerian, uno degli autori dello studio – abbiamo pensato che potevamo usare la stessa strategia per attivare le difese immunitarie dell’organismo contro la proteina bersaglio PCSK9. Le scimmie hanno ricevuto il vaccino tre volte a intervalli di due settimane e poi un richiamo dopo sei mesi. Il vaccino – conclude – sembra essere efficace per circa 90 giorni».
La sfida per il Servizio Sanitario Nazionale diventa sempre più difficile: con l’allungamento della vita media continua a crescere la domanda di cure e di assistenza. Nel 2030 saranno più di 4 milioni le persone in cattivo stato di salute, e l'Italia si conferma un Paese diviso in due nell’accesso alle prestazioni socio-sanitarie. È la fotografia scatta dal Rapporto 2015 'Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali' di Censis e Unipol, al centro di un convegno domani a Roma. Negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2014, la spesa sanitaria pubblica è diminuita del 3,4% in termini reali. E oggi sono meno del 20% gli italiani che affermano di trovare nel welfare pubblico una piena risposta ai loro bisogni.
Più della metà delle famiglie di livello socio-economico basso - sottolinea il rapporto - è convinta che un eventuale aggravio dei costi per il welfare sarà incompatibile con i loro redditi disponibili. Nelle Regioni del Mezzogiorno l’82,8% della popolazione ritiene non adeguate le prestazioni offerte dal servizio regionale, mentre al Nord-Est e al Nord-Ovest la percentuale scende rispettivamente al 34,7% e al 29,7%.
In questo contesto la spesa privata in Italia è invece poco intermediata. La spesa sanitaria pubblica è pari al 6,8% del PIL del Paese, un valore più basso di quello di Francia (8,6%), Germania (8,4%) e Regno Unito (7,3%). La spesa sanitaria privata ammonta invece al 2% del PIL, un valore inferiore alla media dei Paesi Ocse (2,4%) e al dato di tutti i Paesi europei più avanzati. La quota di spesa privata intermediata da soggetti economici specializzati, come le compagnie assicurative, è pari oggi al 18% del totale della spesa sanitaria privata. Anche prescindendo dal confronto con gli Stati Uniti, che hanno un modello di welfare molto diverso dal nostro (in questo caso sale al 77,7% la quota di spesa intermediata), il dato italiano è molto più contenuto di quello di Francia (67,1%), Germania (44,4%) e Regno Unito (43,6%).
L’elisir di lunga vita potrebbe nascondersi in un vecchio farmaco antidiabetico, da anni disponibile come equivalente.
La metformina, infatti, sarebbe in grado di rallentare, o addirittura bloccare l'invecchiamento e potrebbe permetterci di vivere, mediamente, fino a 120 anni. Ma come è possibile? Grazie a questo farmaco “miracoloso”, utilizzata per trattare il diabete di tipo 2, che, come spiegato nello studio “Metformin improves healthspan and lifespan in mice” pubblicato su Nature Communications, ha effetti benefici su chi ne fa uso. La ricerca sugli animali, infatti, ha mostrato che i topi che la assumono vivono mediamente 8 anni più degli altri e che hanno il 30% di probabilità in meno di ammalarsi di cancro.
I topi sui quali è stato testato per ora il farmaco, con lo scopo di analizzarne le conseguenze sulla durata della vita, hanno vissuto il 40% degli anni in più rispetto ai topi ai quali non è stata somministrata la metformina. Secondo i ricercatori, un dato simile equivale, per noi umani, ad una durata delle vita pari appunto a 120 anni.
Visti i risultati ottenuti sugli animali, la Food and Drugs Administration ha concesso di iniziare i test sugli esseri umani. Il TAME (Targeting Ageing with Metformin ) coivolgerà circa 3.000 persone adulte che rischiano di sviluppare diverse patologie come cancro, problemi cardiaci o Alzheimer. Come previsto dallo studio, alcuni riceveranno il farmaco mentre altri il placebo. Per sapere se la metformina potrà farci vivere davvero fino a 120 anni dovremo però aspettare ancora un po' di tempo, circa 6 anni.