Chi soffre di asma o rinite allergica potrebbe trarre beneficio dal non rifare il letto la mattina. Lasciare scoperto il letto, magari in una stanza arieggiata, secondo una ricerca condotta dalla Kingston University di Londra, eviterebbe, infatti, la formazione di umidità e l’aumento di temperatura, creando un ambiente ostile per gli acari.
La formazione di questi animaletti, che sono stati tra i primi colonizzatori del pianeta terra circa 290 milioni di fa, è accentuata soprattutto in ambienti umidi, qui riescono a nutrirsi di acqua favorendo la loro riproduzione. Stephen Pretlove ed il suo team, hanno creato un modello al computer per monitorare le zone in casa che sono maggiormente esposte alla prolificazione degli acari. Il letto è l’ambiente più favorevole alla crescita di questi parassiti. I risultati di questi esperimenti potrebbero aiutare i progettisti edili nella creazione di case sempre più sane per prevenire allergie domestiche.
Gli acari riescono a sopravvivere ricavando l’acqua necessaria direttamente dall’atmosfera.
Dopo la simulazione al computer gli studiosi inglesi effettueranno degli esperimenti sottoponendo a campione decine di famiglie, se l’esperimento sarà confermato dalla teoria, ci saranno sicuramente risvolti in ambito tecnologico.
Per chi non volesse tenere in disordine la propria camera da letto per troppo tempo, può scegliere una soluzione alternativa, lasciare accesso un condizionatore, per seccare l’aria e diminuire l’umidità nella stanza. Inutile dire che si consiglia sempre di cambiare il letto con lenzuola pulite facendo attenzione a farle asciugare completamente. Va poi da sé che accanto a queste misure di “contenimento” delle possibili manifestazioni allergiche sia necessaria una terapia che può giovarsi efficacemente di preparati contro le allergie ampiamente disponibili in farmacia come farmaci equivalenti, capaci di unire efficacia terapeutica a convenienza economica nella massima sicurezza.
La depressione cronica può raddoppiare il rischio di ictus negli anziani. E il rischio rimane alto anche quando migliora la salute mentale. È quanto emerge da uno studio condotto dalla Harvard School of Public Health di Boston, che ha passato in rassegna i dati provenienti da interviste somministrate – nell’arco di 12 anni – a oltre sedicimila ultracinquantenni statunitensi.
Il team di ricerca, coordinato da Paola Gilsanz, ha somministrato le interviste ogni due anni, allo scopo di monitorare la relazione tra ictus e cambiamenti della salute mentale. L’età media dei partecipanti era di 66 anni e la maggior parte di essi, alla partenza dello studio, mostrava pochi sintomi di depressione o addirittura nessuno. Subito dopo aver sviluppato la depressione, i partecipanti mostravano un rischio di ictus leggermente più alto.
Nel corso del periodo di osservazione si sono verificati 1.192 casi di ictus. Ma se la depressione persisteva oltre quattro anni, il rischio di ictus per i due anni successivi era più che doppio, se comparato a quello delle persone che non avevano manifestato sintomi di depressione. Inoltre, nel campione che mostrava un miglioramento dell’umore, il rischio di ictus rimaneva simile per due anni a quello di chi è depresso cronicamente. “Lo studio non dimostra che la depressione causa l’ictus – afferma Paola Gilsanz – ma è possibile che la depressione spinga chi ne è affetto a fumare, bere eccessivamente, a mangiare poco , a non fare attività fisica; comportamenti che potenzialmente possono contribuire ad aumentare il rischio di ictus”.
“È possibile che la depressione produca cambiamenti nel sistema nervoso che conducano attraverso il rilascio di ormoni dello stress a un restringimento dei vasi sanguigni e a un aumento della pressione del sangue”, aggiunge Olajide Williams, direttore dell’Acute stroke service al Columbia University Medical Center di New York. Le conclusioni dello studio sono che è dunque estremamente importante controllare il disturbo psichiatrico. E oggi questo è possibile farlo in modo sicuro anche grazie a farmaci generici, di provata efficacia e convenienza.
Basta agli sprechi ambientali, sanitari e alimentari. Parte da Spoleto l’esortazione a dire no allo sperpero di risorse che ogni anno si perpetua nel nostro paese in ambiti cruciali della vita di tutti i giorni. La città umbra sarà infatti sede, dal 5 al 7 giugno, di “SpreK.O. 2015”, seconda edizione della festa nazionale per la lotta agli sprechi, iniziativa promossa da Cittadinanzattiva.
Lo scopo dell’evento è quello di dare un nuovo valore alle nostre risorse, in modo da preservarle e poterle tramandare ai nostri figli. I temi di discussione spazieranno dalla necessità di riqualificare il territorio, evitando anche gli scempi commessi concausa di disastri ambientali, all’importanza di promuovere una migliore aderenza alle terapie per migliorare lo stato di salute ed evitare inutili dissipazioni economiche, fino a una gestione intelligente delle risorse alimentari. Il parterre degli invitati è di primo livello, dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, on. Stefania Giannini, al Viceministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, on. Andrea Olivero, al Sottosegretario al Ministero della Salute, on. Vito De Filippo, al Presidente dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Vincenzo Spadafora, al direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Luca Pani, al direttore generale di Assogenerici Michele Uda, al Presidente Federazione Ordini Farmacisti Italiani, Fofi, Andrea Mandelli, al Presidente Federfarma, Annarosa Racca, a quello della Società italiana di medicina generale Claudio Cricelli, al presidente della Società italiana di farmacologia, Francesco Rossi, oltre ai presidenti di associazioni di pazienti, associazioni di categoria e rappresentanti di onlus e aziende.
AssoGenerici, in particolare, sarà presente con un info-point a cui i cittadini potranno rivolgersi per informazioni sul mondo del farmaco equivalente e dei biosimilari, preziose risorse per una sanità che unisca efficacia delle cure al risparmio economico.
SpreK.O. 2015 costituisce, quindi, un’occasione per portare all'attenzione di tutti, istituzioni, cittadini, associazioni, quanto è necessario fare per una lotta agli sprechi veramente attuabile ed efficace che non resti solo un inutile elenco di buoni propositi.
Quasi tutti gli Italiani (97%) hanno sperimentato lo stress almeno una volta nella propria vita e per ben 8 italiani su 10 lo stress è presente frequentemente al punto da causare disturbi di salute. I più diffusi sono il mal di testa (44%), l'insonnia (37%) e il mal di stomaco (35%), ma non manca chi manifesta dolori muscolari (20%), herpes labiale (14%) e acne (9%). I dati arrivano da una ricerca di ASSOSALUTE, l'Associazione nazionale farmaci di automedicazione.
Tra le principali cause all'origine dello stress ci sono secondo gli italiani i problemi economici (30%), le preoccupazioni di lavoro (23%) e la sensazione di non avere abbastanza tempo per fare tutto e bene (22%): “Nel mondo occidentale lo stress deriva non tanto da reali situazioni di pericolo, quanto dalla distanza che esiste tra il nostro ritmo di vita e quello che la nostra fisiologia richiederebbe, che rappresenta un vero e proprio social jet lag - afferma Piero Barbanti, Primario Neurologo dell’Istituto Scientifico San Raffaele Pisana di Roma -. In realtà il nostro cervello è una macchina più lenta di quello che pensiamo, come è lento il ragionamento che ci permette di comprendere e metabolizzare gli eventi, consentendoci di neutralizzarli e proteggendoci dallo stress”.
Ma sappiamo cos’è realmente lo stress e come riconoscerlo? “Lo stress è una risposta che l’organismo attiva di fronte a situazioni nuove e improvvise per ripristinare un nuovo equilibrio - continua Barbanti -. Quando lo stress è breve, come accade fisiologicamente nelle piccole vicende quotidiane, è ’sano‘, ma quando diventa cronico può essere nocivo per la salute ed essere causa di una miriade di disturbi”. Problemi che richiedono spesso il ricorso a terapie, acquistabili anche come principi attivi generici, efficaci e poco costosi.
Una persona su sette di età compresa tra 18 e 35 anni soffre di pressione alta del sangue o ipertesione. Non sono rassicuranti questi primi dati dello studio I-GAME che sta portando avanti il gruppo dei Giovani Ricercatori della Società Italiana Ipertensione Arteriosa.
Nell’indagine, 2000 giovani, tra i 18 ed i 35 anni, scelti a caso dalle liste dei medici di famiglia, sono stati esaminati approfonditamente con test sofisticati per verificare lo stato della loro pressione. Risultato: Il 14% soffre di ipertensione arteriosa sistolica isolata, cioè un valore della pressione massima superiore a 140 mmHg. Il professor Francesco Prati, Presidente della Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto”, ha lanciato un allarme, rivolto alle mamme che gestiscono la salute dei propri figli. “Attenzione all’alimentazione e al movimento - avverte Prati - L’ipertensione cresce nei giovani di tutto il mondo così come in Italia”.
E nei giovani è un problema ancora maggiore rispetto agli adulti, perché l’ipertensione ha più tempo per danneggiare arterie e cuore, predisponendo a importanti eventi, dall’infarto all’ictus. Senza contare l’impatto sul fisico degli “alleati” dell’ipertensione, dal fumo di sigaretta ai superalcolici, dalla sedentarietà al sovrappeso corporeo. “Sul fronte dello stile di vita e dell’attività fisica continuativa i nuovi dati dello studio NAVIGATOR – spiega il professor Luigi Temporelli, Divisione di Cardiologia Riabilitativa della Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS, Istituto Scientifico – hanno dimostrato per la prima volta in modo scientifico che attività fisica, continuativa, oggettivamente misurata, e stile di vita hanno un effetto più potente dei farmaci nella riduzione significativa di diabete ed eventi cardiovascolari quali infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, rivascolarizzazione arteriosa, o ospedalizzazione per angina instabile, in pazienti con intolleranza glucidica e documentata patologia cardiovascolare, o almeno 1 fattore di rischio cardiovascolare”.
Questo studio ha seguito gli oltre 9000 partecipanti in media per 6 anni e ha valutato la loro attività motoria con pedometro a 12 mesi di distanza. I risultati di questa analisi dimostrano che una relativamente modesta attività motoria (a partire da 2000 passi al giorno) e le sue variazioni in aumento nel corso di 1 anno sono in grado di ridurre del 10% la probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare (ovvero morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico non fatale e ictus non fatale). Resta comunque il fatto che in caso di pressione elevata nonostante un cambiamento dello stile di vita sia necessario ricorrere a terapie farmacologiche, fortunatamente disponibili anche come farmaci equivalenti per i quali non è necessario pagare ticket. Un risparmio non indifferente considerando che la terapia va assunta quotidianamente.
Vivono all’interno dell’impenetrabile giungla amazzonica. Fanno parte del gruppo etnico degli Yanomami, e sono una tribù di cacciatori e raccoglitori che fino al 2009 non aveva praticamente avuto alcun contatto con il resto della civiltà umana. Eppure hanno batteri resistenti agli antibiotici. Lo ha scoperto un gruppo di scienziati della New York University School of Medicine che ha avuto la possibilità di studiare gli individui di questa popolazione così particolare, mai esposti a medicine, stile di vita e dieta occidentali. L’analisi ha svelato, inaspettatamente, che i batteri del microbiota (i microrganismi che vivono nell’intestino umano) dei membri della tribù avevano già sviluppato diversi geni resistenti agli antibiotici. La scoperta è particolarmente preoccupante perché gli Yanomami non hanno mai assunto antibiotici né sono mai venuti in contatto con animali cui erano stati somministrati tali farmaci. I batteri, dunque, potrebbero avere capacità di combattimento e adattamento molto più forti di quanto non si ritenesse finora.
Come spiegano i ricercatori su Science Advances lo studio è iniziato cinque anni fa, subito dopo la scoperta della tribù. “Abbiamo subito cercato di analizzare il loro microbiota”, racconta Maria Dominguez-Bello, una degli autori del lavoro, “per raccogliere informazioni sui batteri che lo popolavano. Dovevamo farlo presto, prima di eventuali ‘contaminazioni’”. In particolare, sono state analizzate le feci di 34 individui (in tutto la tribù è composta da 54 persone). Gli scienziati hanno prescritto medicinali ad alcuni bambini in pericolo di vita, e non hanno divulgato il nome del villaggio per evitare ulteriori contatti con altri esseri umani. Studiando il genoma dei batteri del microbiota degli Yanomami, e comparando i risultati con quelli relativi a batteri “comuni”, i ricercatori hanno scoperto diverse differenze significative, legate alla presenza di microbi assenti (o presenti in quantità molto ridotte) nella flora intestinale degli occidentali.
Andando avanti nell’analisi, però, gli scienziati hanno scoperto che i batteri avevano circa 60 geni unici in grado di disattivare antibiotici sintetici e naturali. “È una scoperta piuttosto allarmante”, ha commentato Gautam Dantas, un microbiologo della Washington University che ha partecipato allo studio, “perché finora ritenevamo che ai batteri servisse più tempo per sviluppare resistenza agli antibiotici artificiali che non si trovano comunemente in natura”. Una ragione in più per ricordarci di assumere gli antibiotici, largamente disponibili come farmaci generici, sempre con la massima cautela.
“Col passare dei giorni il conto che si presenta alla farmaceutica sembra salire ulteriormente e dai 300 milioni paventati pochi giorni fa si è passati a oltre 500, perché accanto alla riduzione dei livelli di spesa programmati ora ci sono altri 285 milioni che dovrebbero venire da misure di varia natura: dall’istituzione di prezzi di rimborso per classi terapeutiche alla revisione dei prezzi dei medicinali sottoposti a rimborso condizionato. A questo punto, paradossalmente, c’è da augurarsi una rapida approvazione della Legge, prima che le cifre salgano ulteriormente” dice Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici.
Sembra invece mancare ancora una vera visione di riforma del settore, che incida realmente sui meccanismi di governance della spesa. “Ha poco senso occuparsi in prospettiva della determinazione del prezzo dei biosimilari se poi non ci sono misure a supporto del loro impiego, o anzi pensare di introdurre misure che annullerebbero ogni incentivo alla concorrenza come quelle relative alla riduzione di prezzo dei farmaci biologici originatori quando scade il brevetto, che ci sia o meno un concorrente sul mercato. Né ha senso continuare a spingere sui sistemi di acquisto centralizzati quando manca una reale previsione dei fabbisogni e, di conseguenza, la fissazione di tetti di spesa realistici. In questo modo si fa pagare alle aziende il costo dell’aumento della cronicità, oltretutto senza distinguere tra chi produce farmaci coperti da brevetto, più costosi, e chi invece contribuisce a generare risparmi come il nostro comparto. Temo che alla fine” prosegue Häusermann “saranno i cittadini a sopportare i risultati di tanta schizofrenia, visto che molte delle misure di cui si discute scaricano proprio su di loro una fetta importante di spesa. Questo paese soffre di un male, il “mal di concorrenza” e per curarlo le uniche ricette che per ora si propongono ricadono sempre sui soliti noti. Mi chiedo a questo punto quale senso abbia che la filiera del farmaco si sieda al tavolo del Ministero dello Sviluppo Economico che il Viceministro De Vincenti aveva annunciato essere il luogo deputato a riscrivere le regole del settore”.
Conclude Häusermann “Il presidente Chiamparino ha dichiarato che un taglio alla spesa regionale non potrebbe essere replicato l’anno prossimo. A nostro avviso è impraticabile già quello di quest’anno”.
“Nella questione sollevata in Puglia sull’impiego dei biosimilari, e sulle iniziative regionali volte a responsabilizzare direttamente il medico sulla prescrizione di farmaci off patent, ci pare che le argomentazioni più significative siano venute dalla rappresentante dei pazienti reumatici, Antonella Celano. La cosa fondamentale è che il servizio sanitario possa garantire qualità ed efficacia dei farmaci impiegati e che questo, alla fine sia quello che conta, tanto ai fini della fiducia del medico quanto, soprattutto, di quella dei pazienti” dice il coordinatore dell’Italian Biosimilar Group, Francesco Colantuoni.
Oggi la Puglia è al penultimo posto in Italia per penetrazione dei biosimilari – poco più del 10% contro il 50% e più di Regioni come Toscana e Trentino o il 40% di Piemonte e Veneto – e considerando le difficoltà economiche della Puglia questo significa ridurre il numero dei pazienti che possono essere avviati alle terapie allo stato dell’arte. “Mi sembra quindi corretto, e inevitabile, che la Regione abbia deciso di promuovere il ricorso al biosimilare non soltanto per rispondere alle necessità di bilancio” conclude Colantuoni “ma anche per garantire le cure migliori al maggior numero di pazienti, potendo contare su medicinali efficaci e sicuri”.
AssoGenerici ha aderito, assieme ad altri protagonisti del comparto farmaceutico, a Fakeshare II, l’iniziativa europea promossa dall’Agenzia Italiana del Farmaco per sviluppare e condividere tutte le conoscenze sul fenomeno della contraffazione farmaceutica. Dal 2013, anno di esordio, Fakeshare ha dato un importante contributo alla lotta contro questa forma di criminalità che, grazie ai lauti guadagni che consente, aumenta costantemente la sua sfera d’azione. “E’ importante che l’Europa e l’Italia preservino come è avvenuto finora la sicurezza della sua filiera del farmaco, e l’arma più importante contro la contraffazione è aumentare la consapevolezza di tutti gli stakeholder e promuovere la più ampia circolazione delle informazioni” dice il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann. “Le aziende produttrici di farmaci equivalenti da sempre pongono la salute dei cittadini al primo posto, e collaborare a questa attività significa innanzitutto collaborare alla tutela della salute pubblica”.
Il fenomeno della contraffazione farmaceutica, intendendo per contraffatto "un farmaco la cui etichettatura è stata deliberatamente preparata con informazioni ingannevoli in relazione al contenuto e alla fonte" (definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (1992), presenta oggi un trend in forte crescita, non più circoscritto ai soli paesi in via di sviluppo ma che riguarda anche i paesi industrializzati.
La contraffazione coinvolge farmaci di marca e farmaci generici, medicinali salvavita e "life style saving". È possibile distinguere diverse tipologie di contraffazione poiché un medicinale contraffatto può contenere le medesime sostanze di quello originale o sostanze/dosaggi diversi, può non contenere alcun principio attivo o addirittura può essere composto da ingredienti contaminati e pericolosi. Le diverse tipologie hanno tuttavia un comune denominatore nella scarsa qualità in quanto la produzione, anche laddove realizzata con ingredienti non tossici, non avviene secondo le norme di buona fabbricazione e distribuzione stabilite a livello mondiale.
Trattandosi di un’attività "sotterranea" i dati relativi al fenomeno sono da considerarsi indicativi: secondo le stime ritenute più attendibili la percentuale di medicinali contraffatti sul mercato globale si attesterebbe intorno al 7 %, con punte significative che raggiungerebbero addirittura il 50% in alcuni paesi in Africa e in Asia.
Le statistiche dell’Unione Europea indicano un incremento pari al 384% di falsi medicinali sequestrati nel 2006 rispetto a quanto avvenuto nel 2005 e, ancora, sempre secondo quanto riportato dall’UE, negli ultimi 5 anni sarebbero stati segnalati 27 casi di contraffazione nella catena legale e ben 170 nella rete illegale.
Ridurre il rischio di depressione rafforzando la presenza di batteri amici del nostro intestino grazie al consumo di alcuni probiotici.
E' quanto scaturisce da uno studio dell'Università di Leiden, in Olanda, pubblicato sulla rivista Brain, Behaviour and Immunity. Nello studio, i ricercatori hanno reclutato 40 uomini e donne sani, dividendoli in maniera casuale in due gruppi di 20. Al primo gruppo sono state date bustine contenenti Lactobacillus, Lactococcus e ceppi di Bifidobacterium da prendere ogni giorno per quattro settimane, mentre agli altri sono state date delle bustine contenenti placebo, identico per colore, gusto e odore al contenuto delle bustine del primo gruppo. All'inizio dello studio e al termine delle quattro settimane tutti hanno compilato un questionario dettagliato che gli psicologi utilizzano di routine per valutare la suscettibilità di una persona alla depressione.
Dall’analisi dei questionari emerge che quanti avevano assunto probiotici avevano una ridotta forma di pensiero ossessivo, detta ruminazione mentale, che può trasformarsi in depressione, e meno pensieri aggressivi. Anche se questo studio non approfondisce specifici meccanismi biologici che potrebbero essere alla base degli effetti probiotici sul cervello, una ricerca precedente ha scoperto che i batteri intestinali possono influenzare i livelli di triptofano, un aminoacido che l'organismo utilizza per la produzione di serotonina. Si ritiene che uno squilibrio di serotonina possa contribuire alla depressione. Ed è proprio sulla serotonina che vanno ad agire i principali farmaci antidepressivi, da tempo disponibili in farmacia come farmaci generici, per i quali non è necessario il pagamento del ticket.
Il mal di schiena? Potrebbe essere colpa dell'evoluzione, che ci ha portato a camminare su due piedi, e di una similitudine accentuata con i nostri 'antenati' per eccellenza, gli scimpanzé. Le colonne vertebrali di alcune persone sembrerebbero infatti meno adatte a camminare erette e in particolare quelle di quanti soffrono di alcune malattie come l'ernia del disco tendono ad essere più simili nella forma a quelle degli scimpanzé, che per lo più si muovono a quattro zampe. E' quanto emerge da uno studio scozzese, canadese e islandese pubblicato su BMC Evolutionary Biology.
Gli studiosi hanno confrontato 141 vertebre umane, 56 vertebre di scimpanzé e 27 vertebre di orangotanghi, trovando significative differenze nella forma. Dalla loro osservazione però è emerso che tra le vertebre umane ve ne erano 54 con protuberanze, dette nodi di Schmorl, spie di ernia del disco, più vicine nella forma a quelle degli scimpanzé, piuttosto che a quelle umane senza protuberanze. "Le nostre vertebre sono cambiate mano a mano che ci siamo evoluti, utilizzando per muoverci due gambe piuttosto che quattro - spiega Mark Collard, della Aberdeen University - tuttavia, l'evoluzione non è perfetta e alcune caratteristiche vertebrali, come quelle che abbiamo identificato simili agli scimpanzé, potrebbero essere rimaste: il risultato èche alcune persone hanno vertebre che sono meno in grado di sopportare la pressione di camminare su due piedi".
Che derivi da motivi evoluzionistici o meno è certo che il mal di schiena interessa una nutrita fetta della popolazione che spesso per controllarne i sintomi deve ricorrere a farmaci antidolorifici e antinfiammatori disponibili con ampia possibilità di scelta come preparati equivalenti efficaci e accessibili.
Per il 35% degli italiani la copertura pubblica per i farmaci è insufficiente, mentre per il 79% sono troppi i medicinali per patologie gravi a carico dei pazienti. E quando si scopre un nuovo principio attivo, mediamente dopo 15 anni di ricerca, servono in media 427 giorni dopo l'approvazione a livello comunitario per arrivare all'uso effettivo (solo 109 nel Regno Unito). Sono solo alcuni dei dati che emergono dal Monitor Biomedico 2015, l'indagine condotta periodicamente dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) nell'ambito del Forum per la Ricerca Biomedica.
L'indagine sottolinea che negli ultimi trent'anni l'aspettativa di vita è aumentata di 6,5 anni per le donne e di 8 anni per gli uomini, raggiungendo rispettivamente 85 e 80 anni in media. Nel tempo la sopravvivenza a molte patologie, sia acute che croniche, è migliorata significativamente, comportando una crescita continua nella domanda di cure sempre più efficaci. Secondo il 35,2% degli italiani, però, la disponibilità di farmaci garantiti dal Servizio sanitario nazionale è giudicata "insufficiente" (la percentuale sale al 53,8% tra le persone meno istruite); il 78,8% ritiene che sono troppi i farmaci necessari per patologie gravi a carico dei pazienti; l'83% pensa che il ticket penalizzi le persone malate; il 58% dichiara di aver subito un aumento della spesa di tasca propria per la sanità negli ultimi anni e il 65% indica proprio i farmaci come voce di spesa in aumento a carico delle famiglie. Questi dati sono in linea con il rapporto sul consumo dei medicinali in Italia nel 2014. Secondo questo rapporto farmaci a brevetto scaduto rappresentano oramai oltre la metà (51,1%) della spesa farmaceutica convenzionata, in crescita rispetto al 2013 del +6,6%, e il 70,4% delle dosi giornaliere di farmaco totali, in crescita rispetto al 2013 del +11,9%. La percentuale di spesa per i farmaci equivalenti è stata pari al 28,8% del totale dei farmaci a brevetto scaduto e si è registrato un significativo aumento della spesa per compartecipazioni (ticket) nell’acquisto di medicinali (+4,4%) che è stata pari a 1 miliardo e 120 milioni di euro. I dati di questi due rapporti mettono in evidenza una specie di contraddizione che caratterizza il nostro paese. Se da una parte, infatti, ci si lamenta di una insufficiente copertura pubblica per i farmaci dall’altro non si mettono in atto comportamenti come il preferire i farmaci generici, che permetterebbero di curarsi efficacemente senza spendere di tasca propria. Basterebbe andare sulla sezione “famiglia equivalente” di questo sito per rendersi conto in tempo reale quanto ogni singolo cittadino e ogni nucleo familiare potrebbero risparmiare se solo scegliessero di curarsi con i generici al posto dei farmaci originatori.
Quanto alla ricerca per lo sviluppo di nuovi medicinali, il rapporto del Censis evidenzia come l'Italia appaia indietro rispetto ad altri Paesi europei come Francia, Regno Unito e Germania: gli investimenti in ricerca e sviluppo promossi dall'industria farmaceutica in Italia ammontano infatti a 1,2 miliardi di euro, pari al 4,2% degli investimenti totali effettuati in Europa, mentre il numero degli addetti impiegati in tali attività è pari a 5.950 (il 5,5% del totale): nei principali Paesi europei si investono più risorse (in Germania il 19,1% degli investimenti in ricerca e sviluppo europei, il 18,1% nel Regno Unito, il 15,3% Francia) e si impiega un numero di addetti superiore (il 21,2% nel Regno Unito, il 18,8% in Germania, il 18,7% in Francia). La burocrazia nostrana, poi, allunga i tempi di accesso ai nuovi farmaci dopo che sono stati approvati a livello comunitario: 427 giorni in media, contro i 364 della Francia, i 330 della Spagna, i 109 del Regno Unito.
Aglio, porro, vino e bile bovina. Sono questi gli ingredienti principali di un'antica ricetta medievale, risalente a oltre mille anni fa, che promette di contrastare uno dei problemi più grandi della sanità mondiale: quello dei "super batteri" resistenti agli antibiotici. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Nottingham ha infatti testato con successo le sorprendenti qualità di una mistura descritta in un manoscritto di medicina del X secolo, conservato presso la British Library.
I risultati della ricerca sono stati esposti in occasione della conferenza annuale della Society for General Microbiology. L'unguento descritto nel Bald's Leechbook è stato spalmato sulla pelle di cavie infettate dallo Staphylococcus aureus, resistente alla meticilina (Mrsa), riducendone la presenza del 90%. Un risultato sorprendente, analogo a quello che si ottiene con la vancomicina, l'antibiotico più usato. Ma col vantaggio di essere al 100% naturale.
La pozione "miracolosa" si ottiene mescolando insieme aglio, cipolla, porro, vino e bile di mucca, e il mix necessita di riposare in un recipiente di ottone per nove giorni alla temperatura di 4 gradi. Harrison e colleghi hanno cercato di seguire le istruzioni alla lettera, sebbene non fosse facile scovare ingredienti qualitativamente simili agli originali. Per l'alcol, ad esempio, hanno usato un vino biologico di vecchia annata, mentre le difficoltà nello sterilizzare il contenitore di ottone sono state aggirate immergendo dei sottili fogli metallici nella miscela. Gli ingredienti, spiegano gli autori, funzionano solo se mescolati tra loro seguendo la ricetta alla lettera. Una notizia quindi particolarmente interessante in un momento in cui il problema della resistenza dei batteri agli antibiotici sta allarmando il mondo.
Il fenomeno della resistenza agli antibiotici delinea in Italia un ''quadro preoccupante'', con un consumo di tali farmaci ''record e in aumento'' mentre ''sono stimati 5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni ospedaliere'' da germi multiresistenti, con un costo annuo superiore a 100 milioni di euro''. A sottolinearlo, dopo l'allarme lanciato dal governo inglese sulla pericolosità del fenomeno che potrebbe provocare secondo le stime britanniche 80 mila morti, è la Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali (Simit). Il fenomeno dell'antibioticoresistenza, avverte la Simit, ''ha carattere universale, ma in Italia il quadro è decisamente più preoccupante. Il consumo di antibiotici in ambito umano è uno dei più alti in Europa ed anche il consumo di antibiotici in ambito veterinario è fra i più elevati; il consumo di soluzioni idroalcoliche per l'igienizzazione delle mani, aspetto centrale della prevenzione della diffusione dei batteri antibioticoresistenti, è invece fra i più bassi in Europa; la diffusione di numerosi germi multiresistenti è un problema rilevante in molti ospedali, ma le multiresistenze si stanno rapidamente diffondendo anche al di fuori delle strutture sanitarie''. Nei Paesi Ue, circa 25.000 pazienti muoiono annualmente come conseguenza di infezioni da germi multiresistenti, con un costo associato di 1,5 mld di euro. Le cause che sono alla base dell'antibioticoresistenza sono molteplici, ma un ruolo particolare gioca l'uso inappropriato degli antibiotici che, afferma la Simit, ''rischia di disperdere una risorsa preziosa non immediatamente rinnovabile: negli ultimi anni l'industria farmaceutica ha infatti registrato un numero sempre più limitato di nuove molecole antibiotiche, per cui già oggi è difficile trattare efficacemente alcuni microrganismi multiresistenti agli antibiotici disponibili''.
Tuttavia, conclude il presidente Simit Massimo Andreoni, ''le infezioni ospedaliere sono, almeno in parte, prevenibili e l'adozione di pratiche assistenziali sicure comporta la riduzione del 35% almeno della frequenza di queste complicanze''.
Solo due donne su dieci sanno che le malattie cardiovascolari sono la loro prima causa di morte, e la maggioranza non sa che i segnali d'allarme possono essere differenti rispetto all'uomo. Lo afferma una ricerca su un campione di donne tra 40 e 60 anni presentata al convegno di lancio della campagna 'Vivi con il cuore'.
Per lo studio di Eikon Consulting il 68% delle donne ritiene che l'infarto sia un problema tipicamente maschile. Il sintomo cruciale dell'infarto, il dolore toracico, è correttamente indicato dal 71% delle intervistate ma la maggioranza delle donne non sa che i segnali di allarme possono essere diversi dall'uomo e meno della metà è in grado di riconoscere gli altri sintomi non specifici. Il risultato è che mediamente solo quattro donne su dieci si sono rivolte a un medico pur avendo accusato una serie di sintomi che potrebbero essere classificati come possibili segnali di allarme dell'infarto. ''La donna è un pianeta complesso anche per la sintomatologia - ha spiegato Sabina Gallina, cardiologa dell'università di Chieti - esiste il dolore ma nell'andare con gli anni la donna può non avere la tipica sintomatologia del dolore che si associa all'uomo. Le prime manifestazioni sono spesso soltanto un senso di affaticamento improvviso, esiste anche il dolore della donna ma è diverso da quello dell'uomo, spesso viene associato a nausea vomito, fiato corto ma anche dolore alle spalle e alla cosiddetta schiena. Questo è importante perché la donna aspetta sempre più dell'uomo per parlare con il medico o per andare in ospedale, pensa 'mi passa' mentre invece può essere un campanello d'allarme''.
Le donne dovrebbero in sostanza prestare più attenzione al loro cuore.
"I fattori di rischio sono in continuo aumento e l'incidenza dell'infarto miocardico acuto cresce con l'età - sottolinea Sergio Berti, presidente della Società Italiana di cardiologia invasiva - Per molto tempo si è pensato che l'infarto fosse una malattia di quasi esclusiva pertinenza degli uomini. Negli ultimi 15 anni, con l'aumentare dei fattori di rischio, obesità, ipertensione, stress, inattività fisica, si è assistito ad un progressivo aumento del numero di donne relativamente giovani, sotto i 60 anni, colpite da infarto miocardico”. In sostanza, gli uomini arrivano all'infarto in età più giovane, mentre le donne ne sono interessate circa 10 anni più tardi, ma l'incidenza al di sotto dei 60 anni sta rapidamente aumentando nel sesso femminile (dal 1995 al 2010, è passata dall’ 11.8% al 25.5%) “Con la menopausa le donne vanno incontro a cambiamenti importanti dei meccanismi di protezione contro la malattia coronarica" spiega Berti.
Per combattere, dunque, le malattie cardiovascolari anche nel gentil sesso grande attenzione bisogna riporre nel controllare i fattori di rischio che aumentano la probabilità di problemi al sistema cardiocircolatorio, molti dei quali, basti pensare a ipertensione, ipercolesterolemia o diabete per fare degli esempi, sono controllabili con efficaci terapie farmacologiche, disponibili come medicinali equivalenti, che uniscono una comprovata attività terapeutica a un costo accessibile a tutti.
“E' un dato assodato che i soggetti allergici sono in aumento a livello mondiale e l’Italia non fa eccezione”. Lo sostiene il dottor Antonio Meriggi Responsabile Sezione di Allergologia e Immunologia Clinica, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, di Pavia. “I dati epidemiologici variano secondo la tipologia di allergia, le modalità di rilevazione e le nazioni studiate: si ritiene comunque che globalmente il 20-30% della popolazione mondiale possa essere affetta da allergie - dice Meriggi -. In Italia i dati epidemiologici riportano la prevalenza del 25 % di rinite e del 5% di asma in una popolazione di età compresa tra 18 e 45 anni”. Ma perché questo aumento?
“Le cause possibili sono diverse”, spiega lo specialista. “Il minor contatto con agenti infettivi induce il sistema immunitario, meno coinvolto nella difesa verso batteri e virus, a comportarsi in modo “anomalo”, inducendo allergie (la cosiddetta teoria “igienica”). Ma bisogna anche ricordare lo stile di vita occidentale con case ben coibentate e quindi più favorevoli alla proliferazione degli acari, e un’alimentazione con più additivi o coloranti non naturali, entrambi potenti allergeni. Dulcis in fundo, non vanno tralasciati l’inquinamento atmosferico e l'aumento della temperatura planetaria che inducono da un lato l’incremento della quantità e del potere allergizzante degli allergeni ambientali, e dall'altro l'irritazione delle vie aeree che favorisce la penetrazione degli allergeni nell'albero bronchiale”. Quali sono le più frequenti allergie? “La patologia da pollini costituisce la più frequente allergia da inalanti ed è responsabile di sintomi oculorinitici ed asmatici stagionali, mentre la sensibilizzazione nei confronti degli acari rappresenta la più rilevante forma di allergia non stagionale”, chiarisce Meriggi. “ Accanto alle classiche allergie a graminacee (erba dei prati) e parietaria (erba muraiola, più rilevante nel Sud Italia), negli ultimi decenni si è assistito alla comparsa di allergia verso alberi (Betulla e Nocciolo più frequentemente), caratterizzata da sintomi respiratori molto precoci (febbraio-marzo, spesso confusi con forme infettive), e verso Ambrosia, responsabile di sintomi tardo estivi (agosto-settembre)”. E’ da rimarcare la caratteristica comparsa di queste allergie in età adulta, mentre le sensibilizzazioni a graminacee, parietaria ed acari della polveri di casa insorgono usualmente in età giovanile.
“Per quanto concerne la terapia, non dobbiamo dimenticare che l'unico trattamento rivolto a normalizzare il “comportamento anomalo” del sistema immunitario, è costituito dall'immunoterapia (cosiddetto impropriamente vaccino)”, sottolinea lo specialista pavese. L'impostazione dell'immunoterapia segue però delle indicazioni ben precise che devono essere attentamente valutate in ambito specialistico. “La terapia antistaminica e steroidea inalatoria – attuabile anche ricorrendo a farmaci generici - costituisce un trattamento sintomatico, seppure usualmente efficace”, conclude Meriggi.
Paura degli effetti collaterali, scarsa fiducia nei farmaci, troppo poco tempo passato con il medico a discutere le cure. Sono solo alcuni dei tanti motivi che allontanano dalle terapie gli oltre 7.5 milioni di italiani con malattie respiratorie croniche come asma o broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) curabili con farmaci equivalenti: oltre 3.5 milioni non si curano per più di sei mesi in un anno, rinunciando del tutto ai farmaci per inalazione che consentono di tenere sotto controllo i sintomi nel lungo periodo o assumendoli poco e male. La scarsa adesione alle terapie diventa una ”epidemia” fra i bambini, gli adolescenti e gli anziani: sette under 14 su dieci dopo un anno hanno abbandonato i farmaci, il 60% degli adolescenti snobba le cure, oltre il 60% degli over 65 le segue per appena due mesi in tutto l'anno. Le conseguenze non si fanno attendere: una ricaduta grave su quattro e sei ricoveri su dieci sono imputabili proprio alla mancata o inadeguata aderenza alla terapia, con costi evitabili che arrivano quasi a 10 miliardi di euro l'anno.
“La mancata o inadeguata aderenza alle terapie ha molti motivi –osserva Walter G. Canonica, Direttore della Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell'Università di Genova e Presidente della Società Italiana di Allergologia Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC) – I più comuni sono la dimenticanza, le variazioni nello schema terapeutico, uno stile di vita troppo attivo: tanti seguono la terapia dal lunedì al venerdì, poi nel fine settimana o in vacanza non riescono a farlo adeguatamente. Altri pazienti modificano deliberatamente la terapia, perché pensano di non averne bisogno nei periodi in cui hanno meno sintomi, perché temono gli effetti collaterali o perché lo schema terapeutico interferisce molto con la loro vita quotidiana. Altri ancora non comprendono bene le istruzioni del medico”.
Consapevolezza della malattia, correttezza e costanza nell’assunzione del farmaco sono i pilastri per migliorare l’aderenza alla cura.
“Sono più a rischio di terapie inadeguate e “intermittenti” i bambini, nei quali l'adesione alle cure dipende molto dai genitori: in alcune famiglie ad esempio si fa l'errore di aspettarsi che il bambino impari molto presto a gestire in maniera autonoma la malattia, ma non sempre è possibile" interviene Francesco Blasi, Ordinario di Malattie Respiratorie dell'Università Statale di Milano e presidente eletto della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMER). Altra categoria a rischio, gli adolescenti: spesso per ribellione evitano deliberatamente i farmaci, negando la malattia e rendendo la terapia un mezzo per vincere la propria personale guerra verso l'indipendenza. Infine hanno una scarsa aderenza alle cure gli anziani, che dimenticano più spesso i medicinali e non di rado devono essere curati per più di una patologia, ritrovandosi a dover affrontare regimi terapeutici complessi e gravosi nei quali inevitabilmente finiscono per tralasciare qualcosa.
Migliorare l’aderenza alle cure però si può. “E’ indispensabile che medici e farmacisti forniscano ai pazienti più informazioni - osserva Canonica -. Semplicemente consigliare di tenere i farmaci sempre in uno stesso posto accresce del 44% l'aderenza, favorire una routine specifica per l'assunzione della dose quotidiana associandola a un'altra attività consueta la aumenta del 33%. Serve inoltre semplificare per quanto possibile il regime terapeutico: oltre il 60% dei pazienti preferisce un regime che preveda una sola somministrazione giornaliera”.
La nutrizione può rappresentare un fattore di protezione contro l’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale. Grazie alla Società Italiana di Neurologia scopriamo in che modo gli alimenti possono fare la differenza per il nostro cervello, anche quando è già malato, ricordando come una dieta possa risultare un valido aiuto alle terapie per le malattie neurodegenerative che possono giovarsi anche di efficaci farmaci equivalenti.
Un’alimentazione povera di colesterolo e ricca di fibre, vitamine ed antiossidanti presenti in frutta e verdura e di grassi insaturi contenuti nell’olio di oliva (la cosiddetta dieta mediterranea) riduce l’incidenza anche della malattia di Alzheimer come dimostrato in studi di popolazione su ampie casistiche. Alcune carenze vitaminiche, in particolare di acido folico e vitamina B12, possono facilitare l’insorgenza di demenza, e questo appare mediato da un aumento di omocisteina, una sostanza che risulta tossica per i vasi e le cellule nervose (neuroni). Gli antiossidanti presenti nella dieta ricca di frutta e verdura (come le vitamine C ed E, il licopene e le antocianine) contrastano l’accumulo di “radicali liberi” che producono danni a livello cerebrale. Anche un moderato consumo di caffè e di vino rosso, con le numerose sostanze antiossidanti contenute in queste bevande, sembrerebbero avere un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo della demenza. Oltre ad una dieta sana, un ulteriore meccanismo naturale di protezione è il sonno, che, come recentemente scoperto, faciliterebbe la rimozione di proteine tossiche dal cervello riducendo l’accumulo di beta-amiloide, la proteina alterata che provoca i danni tipici della malattia. .
Benché il beneficio di una dieta a basso contenuto di calorie (ipocalorica) nella prevenzione della Sclerosi Multipla, ipotizzato in passato senza solide basi scientifiche, sia stato smentito, sembra ormai dimostrato come una dieta ricca di grassi insaturi sia in grado di modulare e diminuire l’attività infiammatoria legata a questa patologia, svolgendo una funzione protettiva. Inoltre, se si considera che uno dei meccanismi implicati nella SM è il danno ossidativo, appare fondamentale prediligere una dieta ricca di alimenti con proprietà anti-ossidanti, contenenti vitamina A, E, C, e acido lipoico. Un ruolo di particolare importanza nella SM è svolto dalla vitamina D, con le sue importanti funzioni che modulano l’attività del sistema immunitario: la patologia sembra infatti più frequente in aree geografiche a minore esposizione ai raggi solari. A questo proposito, sono in corso studi per rispondere al quesito sul possibile effetto benefico della integrazione di vitamina D nella dieta. Va comunque sottolineato che in genere le persone con SM soffrono di osteoporosi, per la immobilità, la frequente terapia con steroidi e la scarsa esposizione ai raggi solari, per cui una terapia con vitamina D e calcio può trovare, in alcuni casi, una sua giustificazione come terapia preventiva del rischio di fratture.
Un’alimentazione ispirata alla dieta mediterranea e con un basso contenuto di sodio è un elemento cardine della prevenzione primaria dell’ictus, dato sottolineato da tutte le più recenti linee guida. Se da un lato vi sono nutrienti da consumare moderatamente, quali sodio, alcol e grassi saturi, che si associano a un maggiore rischio vascolare, per altri cibi è stato riscontrato un effetto protettivo: Omega -3, fibre, Vitamina B6 e B12, così come l’assunzione di calcio e potassio sembrano contribuire a ridurre il rischio di ictus cerebrale.
La carenza di determinati macronutrienti e micronutrienti, tra cui soprattutto vitamine del gruppo B e proteine, può provocare danni a carico delle strutture nervose. Basti pensare al caso dell’epidemia di neurite ottica che colpì la popolazione cubana agli inizi degli anni Novanta, quando, dopo le restrizioni alimentari legate all’embargo statunitense, fu impossibile assumere livelli adeguati di proteine, vitamine e minerali. Ma è quanto si può verificare anche nel caso di un regime alimentare vegetariano seguito da quasi 4 milioni di italiani, che se da un lato si è dimostrato in grado di prevenire patologie cardiovascolari o diabete, dall’altro rischia, soprattutto nella sua declinazione vegana (400.000 persone in tutta Italia), di determinare serie carenze di alcuni nutrienti essenziali. In particolare, la carenza di vitamina B12 determina sia un aumento dei livelli plasmatici di omocisteina, sostanza associata all’incremento del rischio di demenza e di malattie cerebro-vascolari, sia un aumento dei livelli di un’altra sostanza, la S-adenosil-metionina, che favorisce l’insorgenza di disturbi a carico delle strutture nervose.
La settimana mondiale del cervello quest’anno è stata dedicata alla nutrizione come fattore di protezione contro l’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale. Gli esperti della Società Italiana di Neurologia (SIN) hanno spiegato in che modo gli alimenti possono fare la differenza per il nostro cervello, anche quando è già malato.
In particolari i neurologi della SIN hanno analizzato il ruolo dell’alimentazione nel facilitare la terapie del morbo di Parkinson, incentrata su un farmaco come la levodopa, disponibile da tempo come generico. I pasti, specie se ricchi di proteine, possono interferire sia con l’assorbimento della levodopa, sia con il suo ingresso nel cervello contribuendo alla diminuita efficacia del farmaco. Vi sono numerose ragioni per ritenere importante l’uso di una dieta prevalentemente vegetariana a basso contenuto proteico nella Malattia di Parkinson.
La ragione più importante è quella di facilitare l’assorbimento della levodopa contrastando così la diminuita efficacia post-prandiale che si osserva specie nelle fasi avanzate della malattia, causa di disabilità e rischio di cadute. I prodotti vegetali, inoltre, garantiscono un ricco apporto di fibre e l’elevato contenuto di carboidrati tipico di questo regime alimentare contrasta la perdita di peso corporeo che spesso affligge i pazienti con MP a causa dell’effetto combinato dei movimenti involontari e della difficoltà nella deglutizione. I cibi vegetali sono inoltre più facili da masticare, caratteristica fondamentale per pazienti nello stadio medio-avanzato del parkinsonismo, che presentano problemi di deglutizione. Infine, i minerali e le vitamine di cui i cibi vegetali sono ricchi, sono fondamentali per soddisfare il maggior fabbisogno di tali micronutrienti (soprattutto Vitamina C, D, E, ferro, calcio e magnesio) dei pazienti con MP. Da queste considerazioni nascono alcune indicazioni dietetiche per migliorare la motilità dei malati parkinsoniani in terapia con levodopa seguendo una dieta bilanciata e caloricamente adeguata al mantenimento del “peso salute”.
Al primo posto ci sono i disturbi d'ansia (14%), seguiti da insonnia (7%) e depressione maggiore (6,9%), poi i disturbi cosiddetti "somatoformi" (ovvero caratterizzati da sintomi fisici che indurrebbero a pensare a una malattia somatica (6,3%), quindi il disturbo da iperattività e deficit dell'attenzione-Adhd (5% dei giovani), la dipendenza da alcol e droghe (4%) e infine la demenza (dall'1% nella fascia compresa tra i 60 e i 65 anni al 30% fra gli 80enni). E’ la classifica dei disturbi mentali più diffusi nella popolazione europea, stilata in occasione del 23° Congresso dell'Associazione europea di psichiatria (Epa) che ha visto riuniti a Vienna (Austria) i principali esperti a livello mondiale su queste patologie.
Attualmente, secondo i dati snocciolati dagli esperti, in Europa le persone colpite da disturbi mentali di vario tipo sono quasi 165 milioni (su una popolazione di 514 milioni di abitanti, con una percentuale pari quindi al 38%) con un impatto economico stimato in 798 miliardi di euro, ma solo un malato su tre si cura e arriva a rivolgersi a uno specialista.
Le statistiche europee parlano quindi di oltre 61 milioni di malati d'ansia (8 milioni solo in Italia), 29 milioni di insonni e quasi altrettanti depressi (3,9 milioni nel nostro Paese), oltre a 6 milioni di persone affette da demenza, e mettono in evidenza che tutti questi numeri sembrano destinati a crescere nel prossimo futuro. Quanto al nostro Paese, i soggetti con queste patologie si stima siano, in tutto, circa 17 milioni.
I disturbi mentali contribuiscono al 26,6% della disabilità totale (anni persi per mortalità precoce o vissuti in malattia): quelle con un impatto maggiore sono la depressione (7,2%) e l'Alzheimer (7,3%), e i problemi legati all'abuso di alcol (3,4%).
Un problema, quello legato alla salute mentale, che sta assumendo sempre di più i contorni di una questione di sanità pubblica: entro il 2030, avvertono gli esperti, le patologie psichiatriche saranno infatti le malattie più frequenti a livello mondiale. Tra le cause dell'aumento è stata indicata anche la crisi economica.
Sul versante delle cure bisogna ricordare che questi disturbi possono giovarsi di terapie farmacologiche efficaci, attuabili anche con farmaci generici di grande sicurezza, qualità ed economicità.
Un paziente con colon irritabile su dieci soffre di depressione a e quattro su dieci sono colpiti da ansia. Lo mostrano i primi dati di uno studio dell'Associazione Italiana dei Gastroenterologi ed endoscopisti digestivi Ospedalieri (Aigo) su oltre 500 pazienti affetti da questa sindrome e in cura presso 26 centri Aigo. Si conferma, quindi, quanto questa malattia abbia gravi ripercussioni sulla qualità di vita delle persone affette.
Inoltre, emerge come ad ammalarsi di sindrome di colon irritabile siano in prevalenza donne, il 73 per cento, con un'età media di circa 40 anni. "Lo studio Aigo - ha spiegato Marco Soncini, coordinatore dello studio e consigliere nazionale dell'associazione - analizza la situazione sia dei pazienti appena diagnosticati (49,9 per cento dei casi osservati) sia di quelli in cura già da tempo (51,1 per cento). Si dovrebbe presumere che chi è già in terapia dovrebbe avere una qualità di vita migliore ma purtroppo non è così: infatti non emergono tra queste due categorie differenze di rilievo circa il modo in cui ogni paziente valuta la sua situazione. Ciò indica che le terapie oggi disponibili non sono soddisfacenti perché non riescono a ridurre le loro difficoltà, controllando i sintomi della malattia".
Nello studio oltre la metà dei pazienti segnala che la sindrome li condiziona obbligandoli a cambiamenti di abitudini sia nella vita privata sia in quella lavorativa e relazionale. Per cercare di misurare l'intensità dei sintomi, i ricercatori hanno chiesto ai pazienti di indicare le difficoltà che provano utilizzando una scala visuale, cioè di indicare graficamente il livello del loro disagio riempiendo una porzione più o meno ampia di una barra lunga 10 centimetri. L'estremo a sinistra della retta rappresenta l'assenza del sintomo mentre l'altra estremità indica il massimo livello percepito. Dai risultati è emerso quanto la patologia sia grave poiché in media i pazienti hanno valutato il livello del loro dolore con una intensità pari a circa 5/10 ed una percezione del gonfiore intestinale di poco superiore (5.5/10). Risulta quindi tutt’altro che infrequente la necessità nella cura dell’intestino irritabile di ricorrere a farmaci che contrastino i disturbi dell’umore come ansia e depressione, disponibili da tempo come medicinali equivalenti.