Siamo tutti “stressati”, chi più e chi meno. Ma il “più” e il “meno” fanno la differenza tra la patologia e la salute. Quella differenza è peraltro spesso determinata non dall’entità degli stimoli esterni ma dalla nostra capacità di sostenerli. Ebbene, tale capacità, secondo quanto dimostrato da una ricerca anglo-americana, dimora tutta nel cervello.
La ricerca, pubblicata sull’elvetica “Frontiers in Neural Circuits”, è stata condotta su modelli animali (topi), messi appunto sotto eguale pressione, monitorandone le attività cerebrali. Sono emersi due aspetti, entrambi in misura piuttosto eclatante.
Il primo è che gli animali che “si arrendono” sono quelli che riducono in modo consistente l’attività cerebrale allo stimolo dello stress. Sotto pressione “ si pensa di meno”. Si azzera il cervello, incluse le facoltà di apprendimento e memoria, anziché attivarlo, e lo si fa ad apparente scopo difensivo. Il secondo è che tali topini “perdenti” tendono a palesare un comportamento uniforme, stereotipato benché “anormale”, simile a quello degli altri. Ci si chiude a riccio, con modalità del tutto analoghe. I “vincenti” sono invece quelli che riescono a elaborare risposte più “originali”, alla ricerca di risposte creative allo stress.
Tali esiti possono suonarci quasi scontati, ma la realtà è che le sindromi depressive abbisognano di tali approfondimenti per migliorare le possibilità di cura, psicologiche e farmacologiche, sia nella comprensione delle nostre reazioni nei diversi settori cerebrali che nei possibili rimedi.
Non è un tema da poco, in ambito medico e non solo. Il trattamento della depressione costa agli americani circa 300 miliardi di dollari l’anno. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon l’ha definita l’anno scorso una “crisi globale”. In Italia il consumo di antidepressivi è aumentato di quasi il 5% negli ultimi dieci anni, coinvolgendo oltre 7 milioni di persone. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la principale causa globale di disabilità. Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha un costo stimato al 4% del Pil. E’ tempo di occuparcene, seriamente, partendo dalla nostra testa.
I macro-dati sono essenziali, ma i “piccoli” casi specifici a volte spiegano meglio. Lo ha fatto una ricerca pubblicata il mese scorso sullo statunitense Journal of the National Cancer Institute (edito da Oxford University Press) con la supervisione di scienziati europei, fornendo dati salvifici per le nostre tasche. Su una patologia grave e costosa.
La sostanza è questa: esiste un farmaco antitumorale il cui brevetto è scaduto in gennaio. Ebbene, il suo equivalente, ora autorizzato dalla scadenza della licenza, consentirà a ciascun paziente un risparmio da centomila dollari nell’arco di cinque anni. Questo per i cittadini. Per gli assicuratori sanitari americani andrà ancor meglio, con una cifra stimata sui nove milioni di dollari.
La malattia focalizzata è la leucemia mieloide cronica. Ha origine nelle cellule del midollo osseo, precursori di quelle del sangue, che in questo caso non riescono a completare la trasformazione adeguata entrando in circolo nell’organismo. In quanto “cronica” ha una progressione lenta e spesso asintomatica, ma può innescare nel tempo una crescita incontrollata delle cellule tumorali.
Va da sé che l’indagine condotta nell’Illinois neppure contemplava l’ipotesi che il passaggio dal farmaco di marca al generico potesse accompagnarsi a un sacrificio di qualità della cura. Il dibattito su questo è semplicemente estinto negli Stati Uniti, il paese a più alto consumo di equivalenti: per legge, oltreoceano, e in modo ancor più rigoroso in Europa, le norme e i controlli blindano i “generici” alla completa equivalenza sotto il profilo dei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica.
Il tema dunque non c’è. E’ solo commerciale, una questione di brevetti e relativi costi: la loro scadenza comporta un risparmio per il consumatore, qui stimata dagli analisti fino al 90% del prezzo del medicinale di marca. Una proporzione che per tantissimi fa la differenza tra il potersi curare o meno.
Imprenditori e sindacalisti lo sanno bene. Firmare un contratto collettivo in tempi di crescita a volte può esser perfino più complicato che in tempi di crisi, in quanto l’asticella delle richieste naturalmente tende a elevarsi. Nonostante ciò, la scorsa settimana è stata apposta la firma definitiva al nuovo contratto di lavoro del settore chimico-farmaceutico, con reciproca soddisfazione delle parti. E l’annuncio è avvenuto a poche ore di distanza dalla presentazione degli ultimi dati sulla produzione farmaceutica italiana, che sono molto incoraggianti.
Nel 2015 il suo valore ha superato la soglia dei 30 miliardi di euro, quasi quanto la produzione in Germania, e ben di più rispetto a tutti gli altri paesi europei, incluse Francia (23 miliardi) e Regno Unito (18), segnando un balzo del 5% rispetto all’anno precedente, nonché un incremento delle esportazioni del 4%. I benefici rimbalzano sul lavoro, con un aumento dell’1% dell’occupazione, che coinvolge più di 65mila addetti. E la ricaduta è anche sulla ricerca, con l’incremento delle domande di brevetto e degli studi clinici, pari oramai al 18% di quelli che si svolgono nell’intera Unione Europea.
“L’eccellenza italiana”, sintetizza Il Sole 24 Ore: da tempo l’Istat mette l’ambito farmaceutico al primo posto sulla competitività e, di recente, Bankitalia lo ha promosso quale l’unico ad aver aumentato la capacità produttiva. I dati sono, infatti, in palese controtendenza rispetto al resto del settore manifatturiero: nell’insieme, la produzione nazionale è scesa del 7% nell’ultimo quinquennio, mentre la farmaceutica è aumentata del 10%.
I margini sono potenzialmente ancor più rosei, notano gli osservatori internazionali, in vista di un aumento della quota di farmaci generici, ancora inferiore rispetto ad altri paesi europei. Con ovvi benefici, in questo caso, anche per le tasche dei consumatori e quindi per le possibilità e qualità delle terapie, oltre che, come dimostrano anzitutto gli Stati Uniti (al vertice mondiale nell’uso degli equivalenti), per liberare ulteriori risorse per la ricerca.
“ Scricchiolii sinistri di un pezzo del nostro welfare che continuiamo a chiamare universalistico ma che è già diventato selettivo. A discapito dei più deboli ”. Così sentenzia La Stampa, rilanciando (con pochi altri) l’allarme suonato nei giorni scorsi dalla Corte dei Conti sui bilanci sanitari. Quelli pubblici come quelli delle famiglie. Quei conti non tornano, perché il rosso tinge ambedue le sfere, e al contempo le strutture si rivelano sempre meno capaci di aggiornare le proprie dotazioni tecniche.
Secondo l’ultimo rapporto in proposito di Assobiomedica, in Italia sono addirittura 6400 le apparecchiature diagnostiche obsolete e il 76% dei sistemi radiografici risultano datati più di dieci anni. Le ragioni sono molteplici, altrettante le ricette dibattute per porne rimedio, ma il dato di base è che, allo stato, mancano i denari, oggi più che mai, con l’aggravante di una popolazione che invecchia e incrementa la domanda sanitaria.
La Corte documenta infatti per il 2015 un rosso nei conti sanitari da un miliardo di euro, dopo anni di tenuta. Ancor più severo il monito dell’Agenzia Italiana del Farmaco, che stima a un miliardo e 700 milioni lo sforamento della spesa farmaceutica ospedaliera.
E’ dunque il farmaco la variabile che emerge a principale determinante. I ticket sono costati globalmente 2857 milioni alle famiglie. La cifra è considerevole, ma non rappresenta un incremento rispetto al 2014 per quel che riguarda le prestazioni specialistiche e di pronto soccorso, che hanno anzi segnato un calo del 3,1%. Ad aumentare, dell’1,3%, sono stati proprio i ticket per l’acquisto di medicinali.
Il dato può rivelare alcuni aspetti positivi, quali una sanità più “territorializzata” e gradualmente meno vincolata alle strutture, ma segnala comunque l’urgenza di una maggior efficienza nella spesa farmaceutica: “Risparmiare ricorrendo ai farmaci generici”, suggerisce La Stampa, sulla scia del resto delle sempre più assidue raccomandazioni dell’Aifa – anzitutto agli ospedali. Se non si agisce in fretta si compromette la Sanità, avverte la magistratura contabile, favorendo “ lo spostamento dal Servizio Sanitario Nazionale verso strutture sanitarie private, minando la stessa possibilità di garantire livelli di assistenza adeguati ”.
“Mi ricordo di quanto non vorrei: non posso dimenticare quello che vorrei”, diceva Cicerone, e tanti altri dopo di lui. Tuttavia qualche antropologo ha poi notato che saper dimenticare è una capacità intrinseca alle nostre stesse doti mnemoniche. Tale nesso in apparenza paradossale trova ora conferma nella ricerca scientifica, con potenziali risvolti terapeutici.
L’indagine, pubblicata sulla rivista Nature Communications, è stata condotta a Siviglia, all’Università Pablo Olavide, in collaborazione col Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (Embl) di Heidelberg. E’ stata condotta su topolini, con riferimento all’attività del loro ippocampo, sede cerebrale cruciale nei processi di apprendimento. Esso includerebbe tre “canali”: uno, il principale, è consacrato alla costruzione del ricordo, il secondo al suo richiamo, il terzo all’oblio.
L’apprendimento è anzitutto un processo associativo. Impariamo una cosa se la leghiamo a qualcos’altro. La memoria si cementa così, stabilendo connessioni tra neuroni. Ebbene, i ricercatori hanno notato che se si blocca il canale principale i topi non sono più capaci di elaborare una risposta “pavloviana”, quel riflesso condizionato che associa ad esempio un rumore a un comportamento capace di anticiparne le conseguenze. Se però tale connessione era stata in precedenza interiorizzata (coinvolgendo il secondo canale, quello capace di rinnovare il ricordo), il blocco si rivela insufficiente, e la memoria tende a ripristinarsi.
L’aspetto più interessante è speculare a tutto questo: l’utilizzo del primo canale provoca viceversa un indebolimento del secondo. In altre parole, la spinta all’oblio avviene essenzialmente nelle situazioni di apprendimento. “Abbiamo uno spazio non infinito nel cervello, quando si impara bisogna allentare alcune connessioni per lasciare spazio ad altre”, spiegano i ricercatori. In altre parole, “quando si imparano cose nuove bisogna dimenticarne altre apprese in precedenza”.
Gli esperimenti sono stati condotti tramite modifiche genetiche sui topi. Gli scienziati dell’Embl declamano però la possibilità di generare la pozione dell’oblio per semplice via farmacologica. Preziosa per superare eventi traumatici del passato, dicono. Più di Cicerone è allora cruciare il contemporaneo Milan Kundera: “ L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi […] Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli ”, scrive in “La lentezza”.
Sono gli stessi pazienti a sostenerlo. Scrivere è ritenuto una forma di terapia per l’81% delle persone colpite da un tumore, secondo un’indagine presentata nei giorni scorsi al Ministero della Salute dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica. Il tema del sondaggio, fondato su un campione di 150 persone, era peraltro ben più ampio. E’ l’intero processo di comunicazione a essere chiamato in causa, per il suo riconosciuto potenziale in crescita esponenziale, ma anche per qualche suo perdurante limite.
Il dato di base rimane l’entità del dramma. Ogni giorno mille italiani si ammalano di cancro (dati del 2015) e, se l’83% si dice ottimista in ragione dei recenti miglioramenti terapeutici (la sopravvivenza a 5 anni è aumentata nel nostro paese dal 45% al 60% nel solo lasso tra il 1990 e il 2007), tuttavia il danno è avvertito come grave non solo per la salute, ma anche, sostengono due pazienti su tre, per la discriminazione sociale, dalle relazioni umane all’ambito lavorativo.
E qui emerge il ruolo cruciale della comunicazione. L’ambito primario è ancora quello del rapporto col medico. Il dialogo con l’oncologo è valutato positivamente dal 78% degli intervistati, e il 68% dice di averne tratto più consapevolezza su terapie e gestione dei disturbi, anche psicologici.
Tale ambito è ora amplificato dal web, che moltiplica gli spazi di informazione e confronto. Portali web, blog, forum, perfino pagine facebook. Ci sono punte d’eccellenza, come il sito di consulti Medicitalia.it o il portale dell’Ansa, inclusa appunto una nuova sezione di “medicina narrativa”. La scrittura è dunque “terapeutica” non solo perché aiuta a elaborare timori e pregiudizi, ma anche perché alimenta le possibilità di scambio di nozioni ed esperienze, sia con i professionisti che con gli altri pazienti.
Il nodo, rilevato anche dall’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano, è che relativamente pochi, per il momento, si fidano della rete, anche se la fiducia tende a crescere tra le nuove generazioni. Problema ulteriore: i pazienti a volte hanno ragione a diffidare. Perfino l’autorevole rivista “Science” è stata ultimamente costretta a rettificare un articolo che attribuiva il tumore alla “sfortuna”, citando una ricerca che diceva ben altro. L’informazione web è responsabilità di tutti, se fatta male sulla salute il danno è imperdonabile.
“ Siamo richiamati al lavoro durante i giorni di riposo per coprire i turni che all’improvviso rimangono senza personale […] per non mettere in difficoltà le colleghe finiamo per andare a dare una mano. Ma l’azienda è costretta a pagarci una marea di straordinari: sarebbe più conveniente assumere nuove persone. Senza contare il fatto che i pagamenti avvengono in ritardo e temiamo che non ci saranno […] L’emergenza è tale che ci hanno chiesto di rinunciare alle ferie ”.
La testimonianza, l’ennesima, di una “situazione al collasso” è di un’ostetrica, rilasciata a un quotidiano nazionale. Orari massacranti, che talora si prolungano di decine di ore, l’impossibilità di fatto a obiettare alla chiamata o alla proroga del turno, specie se si è precari. Lavorare nella Sanità è un onore e una responsabilità, ma il dispendio è spesso drammatico, specie per chi sta in prima linea, a iniziare da infermieri e medici. Con ricadute anche sulla qualità della cura.
In proposito è arrivato l’esito illuminante di un’estesa ricerca britannica, curata dal National Institute for Health Research Collaboration for Leadership in Applied Health Research and Care. Ha incrociato dei dati amministrativi, sul rapporto numerico tra pazienti e personale sanitario in 137 ospedali nazionali, con un’indagine apposita su un campione i circa tremila infermieri, analizzando le risultanze sulla salute degli utenti. Il risultato è impressionante, con la stima di una riduzione del 20% della mortalità per effetto del semplice abbassamento da 10 a 6 del numero medio dei pazienti affidati a ogni infermiere.
Lavorare meno è dunque condizione essenziale del benessere non solo degli operatori ma anche dei pazienti. Dalla fine dell’anno scorso è entrata in vigore una legge che pur tardivamente recepisce l’ultima direttiva europea in materia, risalente al 2003. Non mancano le polemiche su di essa, ma stabilisce comunque alcuni paletti, quali il tetto di tredici ore lavorative di fila e un riposo di almeno undici ore tra un turno e l’altro.
Il problema è rispettare quei tetti. Non è una mera esigenza “sindacale”. Lo reclama anzitutto la salute.
Quando l’attesa è troppo lunga il risultato ultimo è che la cura non c’è, men che meno la prevenzione. Un sondaggio di Repubblica ha rilanciato nei giorni scorsi l’allarme, peraltro ben noto ai pazienti. Dietro alla piaga ci sono nodi organizzativi e finanziari e, come denuncia Cittadinanzattiva, parecchi sprechi. In essi c’è al contempo la chiave virtuale della soluzione, su cui i generici potrebbero fornire un contributo decisivo.
I dati sono questi: quasi la metà degli italiani rinuncia alla prestazione sanitaria pubblica a causa delle lungaggini, oppure si rivolge ai privati moltiplicando le proprie spese, secondo una recente indagine del Censis. Ci vogliono mediamente due mesi per una mammografia, un mese e mezzo per un’estrazione dentaria urgente, altrettanto per una visita ginecologica, ancor di più per una visita ortopedica.
Queste sono però solo le medie, che nascondono situazioni e tempi ben più drammatici. Si arriva ai 478 giorni per le mammografie asintomatiche al Cardarelli di Napoli, 441 alle Molinette di Torino. Per una risonanza alla colonna vertebrale ci vogliono 289 giorni al Galliera di Genova. A Lecce bisogna aspettare quasi un anno per una tac addominale, altrettanto per operarsi alle tonsille agli Spedali Civili di Brescia. Addirittura due anni per una day surgery proctologica al San Camillo di Roma.
Sono dati incresciosi, che fanno moltiplicare i convegni e le tavole rotonde alla ricerca di una soluzione. In questi giorni, tra l’altro, un vertice ad Arezzo tra sindaci della provincia, una conferenza della Cisl nel Lazio. Soprattutto, un rapporto di Cittadinanzattiva-Tribunale per i Diritti del Malato ha evidenziato un’enormità di sprechi, per la metà attribuiti al mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali. “ I tagli al Servizio Sanitario Nazionale cumulati tra il 2011 e il 2015 – incalza il coordinatore Tonino Aceti - sono stati di 54 miliardi, praticamente mezzo fondo sanitario. Nessuno però ha spiegato se e quanti sono stati gli effettivi risparmi prodotti e come sarebbero stati reinvestiti ”.
Il nodo è largamente qui, l’investimento. “Abbiamo stanziato 10 milioni per assumere 150 professionisti nei settori in difficoltà”, ha spiegato al quotidiano il governatore della regione più virtuosa nella riduzione dei tempi d’attesa, l’Emilia Romagna. Dove trovare le risorse? “Gli ospedali colmino il ritardo nel ricorso ai meno costosi farmaci generici”, ripetono da mesi come un mantra i vertici dell’Agenzia Italiana del Farmaco.
Quasi due secoli fa il giovane Louis Braille escogitò quel sofisticato sistema che ha consentito ai non vedenti come lui di rompere le barriere con il mondo, a iniziare dalla lettura. Oggi la ricerca estende il concetto, dimostrando come l'uso di tale sistema alfabetico abbia il potenziale di allargare le capacità mentali di tutti, inclusi i vedenti, per la medesima qualità di “rompere le barriere” tra i meccanismi cerebrali.
Lo sappiamo un po' tutti, il nostro cervello è organizzato in aree, diversificate per funzione. Siamo in parte “scollegati”, non solo tra corpo e mente (secondo la visione aristotelica che ha segnato la civiltà occidentale), ma anche tra scompartimenti cerebrali. Una ricerca dell'Università Jagiellonian di Varsavia, pubblicata sulla rivista scientifica eLife, svela nuovi potenziali dell'irrobustimento della loro connessione.
29 volontari vedenti si sono prestati a un esperimento per nove mesi. Consisteva proprio nell'apprendimento dell'alfabeto Braille. Hanno raggiunto il buon esito di imparare a leggere fino a 17 parole al minuto. Al contempo, all'inizio e alla fine del corso, sono stati sottoposti a una particolare risonanza magnetica mirata a valutare l'eventuale impatto sulle diverse aree cerebrali. L'esito si è rivelato convincente, sul piano appunto delle “connessioni” attivate, in particolare tra la corteccia visiva e quella tattile.
La notevole capacità adattiva del cervello dinanzi a traumi o deprivazioni sensoriali, quali la cecità, è cosa già nota tra gli addetti ai lavori. I ricercatori polacchi rivendicano però di aver dimostrato come tale capacità interconnettiva possa efficacemente attivarsi anche in assenza di tali disturbi. “Basta allenarla in modo adeguato”, dicono. E sarebbe proprio in tale “flessibilità” che il cervello umano si qualifica rispetto a quello degli animali.
A margine, il mese scorso si è celebrata la “Giornata del Braille”, istituita dall'Unesco nel 2007. Tante le iniziative in tutta Italia, perfino una piazza di Cagliari dedicata allo studioso francese. Con alcune buone notizie, quali l'avanzare delle nuove tecnologie a sostegno dei non vedenti, incluso un apposito tablet in preparazione dall'Università del Michigan. Utile potenzialmente a tutti, a quanto emerge.
La storia è affascinante non solo perché ci fa viaggiare nel passato, ma perché ci dice da dove veniamo e ci può insegnare qualcosa su dove dovremmo andare, anche sul piano della nostra salute. Un’importante suggestione in proposito arriva da una ricerca medica italiana sui Cavalieri Templari. Ebbene, vivevano il doppio dell’aspettativa media di vita del periodo, e forse oggi sappiamo perché.
L’indagine, pubblicata sulla rivista scientifica Digestive and Liver Disease, è stata condotta su documenti storici dell’epoca. Si chiama “ La dieta di Cavalieri Templari: il loro segreto di longevità?” Il dato di base è che centinaia di Templari vissero fino ai 70 anni e più, mentre la media dell’epoca – il Basso Medioevo, a partire da un millennio fa – non superava mediamente i 30.
Ora, a prima vista, si potrebbe banalmente pensare che dietro a quell’enorme scarto incidesse una differenza di ceto: i Cavalieri erano curati meglio della plebaglia medievale. Forse un po’ è così, ma solo in minima parte, per la semplice ragione che le classi agiate avevano abitudini tutt’altro che salubri. Non disdegnavano l’obesità, simbolo appunto di ricchezza, ed eccedevano nel consumi di carne e grassi, con conseguenze ad esempio sul dilagare della gotta, colesterolo alto e diabete mellito.
La realtà, invece, è che erano semplicemente più attenti a mangiare meglio. La loro dieta era calibrata, assomigliando parecchio all’odierna Mediterranea e “mirava a combattere proprio quelle patologie”, nota il coordinatore della ricerca Francesco Francesci, Direttore di Medicina d’urgenza al Policlinico Gemelli di Roma: un consumo moderato di carne (due volte a settimana), tanti legumi, potenti probiotici (tre volte a settimana), molto pesce e frutti di mare, olio d’oliva e agrumi (antibatterici) in gran quantità. Alla dieta si accompagnava una serie di comportamenti militarmente obbligati, a cominciare dall’igiene delle mani e dei refettori dove mangiavano, per finire con il bando della caccia a fini alimentari, mentre era invece incoraggiata la pesca e il relativo allevamento.
“L’elisir di lunga vita” è una leggenda antica con primogeniture rivendicate da varie civiltà. Quasi tutte riconducono però a terreni mediorientali, frequentati dai Templari. La mitologia, come sanno gli storici, dice la verità, o almeno la evoca. Anche per il nostro vivere nell’oggi.
I grandi dati aggregati a volte possono confondere. E a volte giustamente, perché lasciano in chi legge il sospetto che riflettano chissà quali altre variabili nascoste. Gli esempi più piccoli risultano allora spesso più chiari, senza quelle paventate controindicazioni. Sul ruolo del farmaco generico nel contenimento della spesa sanitaria è eloquente, ad esempio, il caso dell’Asl di Olbia, notato anche dalla stampa regionale.
Il dato secco è che aumentano le ricette mentre diminuisce la “spesa farmaceutica territoriale”, ovvero la spesa convenzionata dei pazienti in farmacia. Com’è possibile questo “miracolo? Ebbene, nota anche “La Nuova Sardegna”, il dato si spiega tutto nel ricorso al generico. Nella citata Asl la spesa territoriale è passata “ dai 28 milioni 81 mila euro del 2009 (per 1.400.806 ricette) ai 24 milioni 397 mila del 2015 (con 1.648.905 ricette). Oltre 3 milioni e mezzo di euro di risparmi di spesa per una riduzione della spesa netta per l’acquisto dei farmaci in ambito territoriale che supera il 13%, a fronte di un incremento del 17% delle ricette ”.
La tendenza si riflette comunque anche a livello nazionale. “Nel periodo Gennaio–Dicembre 2015 – ha rilevato l’ultimo rapporto in proposito di Assogenerici – quasi tutte le regioni fanno segnare una diminuzione della spesa territoriale netta verso lo stesso periodo del 2014”. Dov’è allora il problema? Perché invece si susseguono sistematicamente le notizie sullo sforamento dei tetti regionali di spesa farmaceutica?
La stessa Asl di Olbia chiarisce la risposta. Se i cittadini sono “virtuosi” in farmacia, scegliendo sempre più il generico, lo stesso ancora non vale per molti degli ospedali. “ La spesa per i farmaci acquistati per le strutture sanitarie pubbliche segue invece un trend di crescita, passando dai 12 milioni e 70 mila euro del 2012 ai 16 milioni e 169 mila del 2015 ”. La spiegazione è appunto uguale e contraria. “Negli ospedali si erogano terapie farmacologiche ad alto costo”, con minor ricorso ai generici.
Semplice, lapalissiano, e lo è anche per l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). “ Promuovere anche negli ospedali l’utilizzo dei medicinali generici e biosimilari”, ripete da mesi il presidente Mario Melazzini, dalle colonne del Corriere della Sera a, nei giorni scorsi, dalle pagine dei portali specializzati.
La carta stampata non sta bene e non è solo “colpa della crisi”. Prova ne è che anche dagli Stati Uniti, in cui in questi anni si è assistito a una discreta ripresa, arrivano notizie a ripetizione di cali di tiratura, chiusure e licenziamenti. Il problema è primariamente lo stravolgimento delle tecnologie di informazione, a iniziare dal web e dai suoi epigoni “social”. Eppure c’è chi resiste, e questo si riscontra anche e soprattutto in ambito sanitario. Con ricadute spesso salvifiche per la qualità dell’informazione.
Un ottimo esempio è il mensile “Come Stai” che, fondato ormai vent’anni fa a Milano, vende 12mila copie al mese: non male per una rivista di nicchia. Nell’edizione di aprile la rivista dedica un notevole spazio ai farmaci equivalenti. Quattro pagine scritte benissimo, a spiegarli con parole tanto semplici e precise da sembrare uscire dall’abile penna di un “comunicatore professionista” e invece a firma di un esperto medico di base, la dottoressa Geltrude Consalvo. S’intitola “Curarsi risparmiando”. Sottotitolo: “ Compreso che questi farmaci sono efficaci come quelli di marca, l’unica differenza è che costano meno. Una guida al loro uso per chi ha ancora qualche diffidenza ”.
È vero che la rete è uno strumento prezioso d’informazione (anche noi siamo qui) con la sua mole infinita di nozioni accessibili e di spazi preziosi di confronto tra medici, pazienti e associazioni ma, come sanno i “guru” del settore, il web si presta perlopiù a testi di estrema sintesi. Per gli approfondimenti, a farla da padrone è ancora il cartaceo.
Da quella rivista esce un articolato chiarimento sul generico: “ stesso principio attivo, stesso dosaggio, stessa formulazione e identico numero di unità posologiche”, rispetto al farmaco di marca. Cambia solo il nome e il prezzo, dati i diversi costi di ricerca richiesti dagli originator. Non sono “confezionati in fabbriche del Terzo Mondo”, almeno se “comprati in una farmacia o in una parafarmacia” (e non importati privatamente tramite qualche sito web). Sono sottoposti a norme e controlli rigidissimi sulla piena “bioequivalenza” rispetto all’originator, al punto che “anche le materie prime e il prodotto finito devono soddisfare le specifiche della Farmacopea europea” […]senza dimenticare che sono soggetti anche alla cosiddetta ‘sorveglianza’ post marketing che offre ulteriori garanzie. E poi: “ favoriscono l’aderenza terapeutica, per vari motivi. Il primo, molto importante, è il prezzo più basso”.
E avanti così, pagine e pagine a chiarire quei concetti di base. Lunga vita ai giornali di carta.
C’è uno spartiacque sul nodo dei conti pubblici e sull’intera economia europea: il 2008, l’autunno della grande crisi. Esiste un prima e un dopo e, se c’è un settore che più di ogni altro fotografa quello stravolgimento, è proprio quello della Sanità. Lo ha analizzato efficacemente Il Sole 24 Ore, identificando sulla base dei dati nazionali e internazionali le variabili che hanno condotto a un’escalation dei costi negli anni precedenti, e a una drastica compressione in quelli successivi.
La crescita della spesa sanitaria pubblica in Eurolandia tra il 2000 e il 2008 è stata del +5,2% annuo: notevole, seppur inferiore al +8,2% degli Stati Uniti. Altrettanto impressionante è la discrepanza territoriale. L’impennata maggiore è stata rilevata soprattutto in paesi poi incorsi in gravi problemi finanziari, a iniziare da Grecia e Irlanda, con balzi superiori al 9%. Oltre la media anche l’Italia che si attestava oltre il 6%. La più parsimoniosa di tutti era stata la Germania con il suo incremento contenuto sotto il 3%.
L'invecchiamento della popolazione non basta a giustificare tali balzi, e neppure l'apparizione di costosi medicinali di marca visto che l'incremento della spesa farmaceutica è stato inferiore a tale media. Lo stesso vale per i redditi da lavoro, cresciuti in diversi paesi, ma globalmente di meno. Il vero balzo è stato sui consumi intermedi e soprattutto, si noti, sui “servizi non sanitari”, quali pulizia, forniture energetiche e pasti.
In altre parole, la Sanità ha contribuito all'aggravamento dei costi pubblici per colpe primariamente non sue. Il nodo è perlopiù organizzativo e il quotidiano punta il dito anche su uno degli aspetti meno contestati della struttura contemporanea: il “decentramento” che, specie in Italia e Spagna, “produrrebbe un eccesso di capacità produttiva e favorirebbe la diffusione di comportamenti poco virtuosi” come riporta l’autore dell’articolo citando uno studio dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico).
Poi è arrivato il trauma del 2008. Alcuni paesi, Germania in primis, hanno reagito aumentando la spesa sanitaria. Altri sono stati drammaticamente costretti a tagliare: -0,5% annuo in Italia tra il 2009 e il 2013, addirittura -13,1% in Grecia. L'abbattimento ha riguardato soprattutto le spese per la prevenzione che, tuttavia, è risaputo essere fondamentale per la riduzione dei costi sanitari aggiuntivi per il futuro.
Ma a essere decisivo per il contenimento dei deficit sanitari è stato anzitutto un altro fattore, nota il giornale: “ la promozione dei farmaci generici”. In Italia ha consentito di mantenere i livelli di servizio, e nella virtuosa Germania e in altri paesi dove gli equivalenti sono prescritti più massicciamente, di ampliarlo.
Per approfondire l'argomento:
http://ec.europa.eu/health/reports/docs/health_glance_2014_en.pdf
http://www.oecd.org/publications/fiscal-sustainability-of-health-systems-9789264233386-en.htm
Avete mai sentito parlare di “virus del secolo”? Di certo sì, e più volte. Ebbene, ai fatti tale locuzione è in tutti i casi una sciocchezza, perché i virus sono sempre esistiti, anche quelli peggiori. La ricerca odierna si spinge sempre più indietro nel tempo e apre al contempo spiragli per la comprensione degli scenari patologici futuri.
L’ultima scoperta è del Boston College, in uno studio pubblicato sulla rivista eLife, che ha identificato virus risalenti a oltre 30 milioni di anni fa. Sono stati battezzati ERV-Fc, colpivano gli antenati dei moderni mammiferi e appartengono alla famiglia dei cosiddetti “retrovirus”, la stessa dell’Hiv e delle cellule leucemiche.
''I virus esistono ovunque si trovi la vita e hanno avuto un impatto significativo sull'evoluzione di tutti gli organismi, dai batteri agli esseri umani'' , spiega Welkin Johnson, tra i coordinatori della ricerca. Il problema è che non lasciano “fossili”, sicché è difficile rintracciarne l’origine e l’evoluzione. Il soccorso arriva dalla genetica contemporanea, in grado di trovarne tracce nel Dna.
Nell'analizzare le banche dati esistenti sui mammiferi, è stato dunque identificato il retrovirus. Di più, in base alle sequenze emerse, non solo è stata stimata la sua origine – in un'epoca di drammatici cambiamenti climatici segnati dal raffreddamento che condusse all'era glaciale - ma è stato anche accertato il suo passaggio e le sue mutazioni su 28 diverse famiglie di animali in tutti i continenti, eccetto Australia e Antartide.
La scoperta non è di mero interesse storico. “Questo metodo – auspicano i ricercatori – ci permetterà di capire meglio quando e perché emergono nuovi virus e come impatterà nel lungo termine negli organismi colpiti”.
Siamo attenti, alcuni di noi attentissimi, ai grassi e ai cibi dannosi. E facciamo bene, perché una dieta equilibrata è il fondamento della salute e della “linea”. Da una ricerca australiana emerge, però, un’aggiornata gerarchia tra gli ingredienti “colpevoli”. Se, per esempio, mangiamo una patatina fritta, specie quelle in sacchetto, e sentiamo quell’irresistibile stimolo, quasi la dipendenza, a mangiarne cento, la colpa primaria non sta in oscure alchimie. C’è un indiziato numero uno, ed è banalmente il sale.
I ricercatori dell’Università di Deakin hanno convocato 48 adulti di ambedue i sessi, proponendo loro il medesimo pasto dopo la medesima colazione. Sono state prese in considerazione molte variabili, ma solo una è emersa come determinante. Chi mangiava cibi più salati, a parità di altre condizioni, è risultato aver bisogno di assumere l’11% del cibo in più. Il mistero sarebbe tutto qui: chi mangia più salato ha bisogno di altre calorie aggiuntive e questo, nella quotidianità, fa una differenza cospicua.
Anche nel nostro paese la ricerca ha rilanciato recentemente i rischi di una dieta ricca di sale. Secondo la Società Italiana di Nutrizione Umana, il nostro consumo medio tra gli adulti è stimato in 9 grammi al giorno, contro il tetto massimo dei 5 grammi raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I maggiori picchi si registrano al Sud, tra prodotti da forno, formaggi, salumi e tutti i prodotti confezionati con i loro livelli salini “nascosti”. Le conseguenze? L’aumento del rischio di ictus e malattie cardiache.
Nei giorni scorsi, in occasione della Giornata Mondiale del Rene, il tema è stato rilanciato, a partire dall’infanzia, con tanto di allarme sul fatto che il 7% degli italiani soffre di malattia renale cronica. Di nuovo, in cima al “decalogo” della prevenzione, quando si tratta di alimenti, l’imperativo è la riduzione del sale.
In tutto questo, c’è una curiosità. Nelle sintesi giornalistiche anglosassoni e italiane della ricerca australiana, si fa riferimento al “pacchetto di patatine”. La realtà, che ci coinvolge ancor più da vicino, è che, in realtà, lo studio è stato condotto sulla pasta e su quanto sale ci mettiamo.
“Sui generici c’è una tonnellata di opportunità”. L’agenzia internazionale Market Realist – sede centrale a New York – nei giorni scorsi ha alzato ulteriormente l’asticella delle già rosee aspettative mondiale sul settore. E lo ha fatto incrociando non solo i dati dei “guru” in materia, in particolare quelli diffusi a fine anno scorso dall’Institute for Heatlhcare Informatics (Ims), ma anche quelli delle autorità e delle associazioni sanitarie americane, europee e asiatiche, nonché le proiezioni dei principali analisti finanziari.
L’istantanea globale è quella di un boom in corso, ma le prospettive puntano all’escalation. Il dato di base è la crescita del settore farmaceutico nel suo insieme. La spesa globale in medicinali è stimata per il 2020 intorno alla cifra iperbolica di 1,4 milioni di miliardi di dollari, con un incremento (a prezzi costanti) di circa il 30% rispetto al 2015. L’ulteriore impennata è motivata da diversi fattori, dall’aumento della popolazione al suo invecchiamento, dall’estensione dei mercati emergenti (in particolare l’India) all’espansione di alcuni settori quali la terapia del dolore, dall’incremento atteso nelle percentuali delle persone curate – più di metà della popolazione vivrà in paesi in cui l’uso dei farmaci eccede mediamente una dose al giorno, nel 2005 era solo il 31% - all’immissione di nuovi e costosi farmaci originator.
Ed è proprio da tale generale premessa di fatto che scaturisce la pressione crescente sugli equivalenti. La salute costa troppo e costerà sempre di più, sicché sarà assolutamente vitale il ricorso ai generici, che hanno già consentito un risparmio mondiale di ben 1,68 milioni di miliardi di dollari tra il 2005 e il 2014. Negli Stati Uniti, ad esempio, dove già rappresentano l’88% dei farmaci prescritti – ma solo, si noti, il 28% dei costi – nel 2020 la percentuale sfonderà abbondantemente quota 90. Su scala mondiale, il consumo di generici è aumentato del 7% nel 2014, ma si prevede che il suo contributo alla crescita del mercato farmaceutico globale in questo decennio sarà addirittura del 52%.
Sull’Italia c’è una cautela legata al fatto che le scadenze brevettuali sui brand sono lievemente in calo. Ma il nostro paese ha un grosso vantaggio comparato, ed è quello di un rilevante margine di recupero rispetto alle medie degli altri paesi di pari reddito.
Il fatto è che prevenire è davvero semplice, e quasi sempre risolutivo. Il messaggio di fondo della scorsa “Settimana mondiale del glaucoma” promossa dall’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità (Iapb) è sostanzialmente questo. Sembra una banalità, ma in tale settore è più che mai la chiave di volta tra la patologia e il benessere.
La mobilitazione è stata massiccia, anche in Italia, dove ne soffre un milione di persone, ma solo la metà ne è consapevole e fa qualcosa, senza sapere che si tratta della causa principale della cecità. Una settantina di città italiane ha ospitato nei giorni scorsi visite di controllo gratuite alla vista e alla pressione oculare, grazie alle centinaia di postazioni mobili oftalmiche allestite dall’Iapb e all’adesione di molti studi oculistici, con il corredato di opuscoli informativi.
Nel pianeta, i ciechi sono 39 milioni, gli ipovedenti addirittura 246 milioni, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che sottolinea come risultino selettivamente colpiti i paesi in via di sviluppo. Il 90% dei disabili visivi vive lì. La causa prima, il glaucoma, colpisce circa 55 milioni di persone ed è distribuito più equamente. La grande discriminante non è dunque nella patologia ma nella possibilità di curarla e, soprattutto, prevenirla. L’80% dei casi di disabilità sono evitabili, documenta ancora l’Oms.
La “Settimana” è quella passata, ma il messaggio ovviamente rimane, forte e chiaro: passati i 40 anni è cruciale sottoporsi a controlli frequenti. All’insorgere della presbiopia, la visione sfocata da vicino tipica dell’avanzare dell’età, la risposta non è correre dall’oculista per acquistare gli occhiali. I migliori specialisti, infatti, spesso lo sconsigliano per evitare che le lenti, se messe prima del necessario, possano “impigrire” l’occhio.
Il da farsi è piuttosto una visita oftalmologica completa che accerti il livello di pressione oculare che, se eccessiva, può danneggiare il nervo ottico fino al manifestarsi del glaucoma. Questo lo si vede benissimo: la prevenzione è la miglior cura. Con un “occhio” anche alle patologie incorse ai propri avi, in quanto la genetica, in questo ambito, sembra contare parecchio.
“ Nei miei confronti continua una guerriglia di bassa intensità: di me si parla abbastanza spesso (faccio risparmiare montagne di euri) ma raramente in termini lusinghieri come meriterei ”. Scrive così, in prima persona, Andrea Gazzaniga, ordinario alla Facoltà di Scienze del Farmaco all’Università di Milano. La prima persona è però una metafora, in quanto il soggetto è il Farmaco Generico, al quale dedica nell’edizione cartacea del Notiziario Chimico Farmaceutico (Ncf) un caloroso “ Buon Compleanno”, con un’ampia e colorita ricostruzione dei suoi vent’anni di vita in Italia, tra speranze, conquiste e cospicui risparmi per i pazienti, tuttavia limitati da “resistenze anzitutto culturali”, come ha ricordato nei giorni scorsi al Tg2 il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann.
Ci sono ancora “ leggende metropolitane legate, per esempio, al fatto che potessi contenere meno principio attivo rispetto al Medicinale Originatore a cui devo necessariamente far riferimento ”, nota Gazzaniga, puntando il dito anche verso “ un'informazione non particolarmente curata, talvolta accompagnata da una ben orchestrata disinformazione”. In effetti, negli archivi dei giornali “mainstream” ci sono decine di titoli che raccontano un “flop” del mercato del settore, notando ad esempio come la percentuale dei generici sia ancora solo al 20%, ai livelli della Romania, ben lontano dal 60% rilevato in altri paesi europei quali Germania e Regno Unito. Sotto quei titoli, va detto, gli articoli non mancano di ricordare, oltre agli enormi risparmi, la piena e monitorata equivalenza nell’efficacia e sicurezza terapeutica non senza riportare, però, un commento che rilancia spesso il seme di immotivati “dubbi”.
La dimensione del risparmio potenziale per i cittadini è, nell’istantanea aggiornata mensilmente dal “Salvadanaio” di Assogenerici, impressionante, con tutto quel che dovrebbe suggerire dinanzi ai crescenti costi sanitari, pubblici e privati. Se tutti passassimo all’equivalente, risparmieremmo ogni giorno oltre due milioni e mezzo di euro, con proiezioni sull’anno che sfiorano il miliardo. Più realisticamente, da uno studio realizzato lo scorso anno da Nomisma, tale cifra potrebbe raggiungersi e superarsi nell’arco di cinque anni se solo ci allineassimo alle medie europee.
E allora, perché questi numeri in Italia? Il nodo è che qui da noi, sottolinea ancora Häusermann, “ non si sono mai adottati meccanismi incentivanti per far prescrivere e dispensare il generico al medico e al farmacista, come successo ad esempio in Germania già negli anni 80 ”. E, a proposito di resistenze culturali, solo un dato: i farmaci equivalenti venduti in Italia sono gli stessi che vengono venduti nei paesi in cui fanno i grandi numeri. E su questo Häusermann è chiaro: “ se il dottore non prescrive e non ha fiducia in questi prodotti è difficile che poi il paziente li vada a chiedere al farmacista”.
L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) si è chiaramente espressa a sostegno dei generici, anche con una chiara “guida”, aggiornata lo scorso dicembre, che certifica la loro assoluta bioequivalenza. Ma, come ha rimarcato nei giorni scorsi ai microfoni di Radio3 Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri “sesi dissemina l'idea che questi farmaci possano essere meno attivi degli altri, è chiaro che si scoraggiano i pazienti”. È un fenomeno tipicamente italiano, negli altri paesi europei la propaganda non regge”.
Abbiamo spesso paura del buio, e non solo da bambini. La verità è che dovremmo invece assecondare quell’assenza di luce. Se violiamo quell’incanto notturno facciamo male, anche a noi stessi. Il concetto di “inquinamento luminoso” ci suona ancora un po’ astratto. La pagina italiana di Wikipedia, per esempio, cita danni “ambientali, culturali ed economici”. Poco o nulla sulla salute.
L’impressione è insomma è che l’eccesso di luce artificiale notturna, oltre a consumare energia, sia di disturbo perlopiù all’estetica. Dalle città vediamo poco le stelle, e non è solo perché siamo più in basso rispetto alle montagne o perché l’aria sia intrisa di polveri industriali. Sono proprio le lucine domestiche e i lampioni stradali che, messi insieme, ci creano uno schermo dinanzi alla bellezza dell’infinito che ci circonda. Nel 1994 si creò il panico a Los Angeles, in quanto, durante un black-out, apparve un’inspiegabile “nuvola gigantesca”. Era solo la via lattea, solitamente oscurata agli abitanti delle città.
Il danno va tuttavia ben al di là della contemplazione. L’inquinamento luminoso provoca un danno al sonno, che coinvolge almeno un terzo della nostra esistenza, con tutto quel che consegue. Ad aggiornare il quadro è ora una ricerca statunitense, che sarà discussa il mese prossimo al 68mo Congresso della Società Americana di Neurologia a Vancouver, nel sud-ovest del Canada.
Sono state intervistate quasi 16mila persone, nell’arco di otto anni. Quasi un terzo di quelle che vivono in zone illuminate si è detto insoddisfatto della qualità del sonno, col 6% in più di probabilità di dormire meno di 6 ore, rispetto agli altri, quelli che vivono in centri con meno di mezzo milione di abitanti. Serie differenze sono state riscontrate anche nell’insonnia cronica, in altri disagi notturni e nei livelli di fatica al risveglio.
Non è roba di poco conto. La scienza ha già accertato conseguenze dei disturbi del sonno sulle patologie cardiovascolari, diabete, depressione, problemi articolari, perfino obesità. Dormire è fondamentale. “Spegnere la luce” non è una metafora. Ce lo chiede il corpo, non solo lo spirito.
Ovvio, banale, l’acqua è vitale, a ognuno di noi e al mondo, dal sostentamento alla prevenzione sanitaria, fino alla cura. Tanto da diventare un “business”, con enormi costi pubblici di raccolta e trasporto, assecondati dalla nostra scelta (quasi sempre immotivata, in Italia) della “bottiglietta” rispetto a quella che arriva ai nostri rubinetti. Talmente banale che nella quotidianità ce ne dimentichiamo. Da una ricerca americana emerge quanto l’acqua sia essenziale, non solo a tutto il resto, ma anche ai più elementari obiettivi dietetici, alla “linea”, insomma.
L’indagine, su dati raccolti dal 2005 fino a quasi i giorni nostri, è stata coordinata da un docente dell’Università dell’Illinois in “chinesiologia”, una branca fisioterapica dello studio del movimento umano. Ha coinvolto oltre 18mila americani adulti, riscontrando come un lieve incremento nel loro consumo idrico abbia l’automatico effetto di ridurre l’assunzione quotidiana di calorie (dell’1 per cento), coinvolgendo diminuzioni nei grassi saturati, zucchero, sodio e colesterolo.
Tecnicamente, chi aumenta il consumo d’acqua di un paio di bicchieri al giorno fa calare la domanda biologica di almeno un centinaio di calorie, fino a 235 milligrammi di sodio, con cali riscontrati nella produzione di colesterolo pari a circa una ventina di milligrammi al giorno.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala che il consumo di acqua, pulita, salverebbe annualmente la vita a oltre un milione di bambini e a mezzo milione di malati di malaria. E sono solo un paio di esempi. Per scendere su terreni più “borghesi”, un maggiore consumo idrico è consigliato anche a chi cerca di smettere o ridurre l’assunzione di fumo e alcol.
Ma c’è dell’altro ancora. La scienza dimostra che l’acqua è l’ingrediente fondamentale per chi vuole perdere peso. Ci sono mille alchimie, ricette, diete, faticosi percorsi. La realtà è che basta “perdersi in un bicchier d’acqua”. Permette al nostro corpo di consumare meno calorie, e di chiederne di meno.