Tra i problemi più seri della cura dei tumori c’è quello di una diagnosi tardiva. Colpa spesso dei pazienti stessi, bloccati da freni psicologici. E tra questi c’è la poca voglia, tempo e denaro da dedicare a controlli ed esami. Qualcosa però sta cambiando e, a sentire i ricercatori di Los Angeles, il cambiamento si annuncia rapido, proprio sul fronte della rapidità e degli stessi costi.
La novità è annunciata da un team di ricercatori dell’Università della California. Alcuni risultati erano già stati resi pubblici un anno fa, ora sono stati sviluppati e specificati al celebrato convegno annuale dell’American Association for the Advancement of Science. In breve, anzi brevissimo, quel che è emerso è che bastano dieci minuti per una diagnosi non invasiva, tramite una “biopsia liquida” dal sangue, o anche solo dalla saliva. La tecnica, annunciata con un’accuratezza del 100%, consentirebbe inoltre il monitoraggio della progressione della malattia durante i trattamenti terapeutici. Di più, può costare pochissimo, i ricercatori la stimano a meno di 20 euro.
Tecnicamente, il dispositivo sperimentato dispone di recettori che captano il contenuto di uno specifico materiale genetico stimolando il rilascio degli “esosomi” (agglomerati molecolari rilasciati dalle cellule) funzionali alla comunicazione cellulare, e quindi il loro bio-riconoscimento.
La novità era stata presentata in precedenza come promettente per una pluralità di diagnosi, incluso il diabete. I test ne hanno ora documentato la precisione con particolare riferimento al tumore ai polmoni, e quest’anno dovrebbero entrare in piena sperimentazione clinica in Cina, che ha collaborato alle ricerche. L’approdo sul mercato occidentale, tra un trial e l’altro, è previsto nell’arco di quattro anni.
Molto si muove su questo anche in Italia. Esiste un progetto dell’Istituto Oncologico Veneto orientato a evitare la biopsia facendo leva sulle sole analisi del sangue. A Padova i ricercatori hanno poi identificato un’alterazione genetica che permette di diagnosticare il rabdomiosarcoma infantile in tempi brevi. I tempi sono comunque maturi, la strada è segnata.
Le Asl, e i relativi uffici stampa, si tengono accuratamente alla larga dal dibattito pubblico. Non intervengono, men che meno dibattono, evitano perfino di “precisare” se esce una notizia inesatta. Sono istituzioni, vocate per giunta al tema cruciale e collettivo della Salute, e dipendono da autorità politiche regionali oltre che, in ultima istanza, dal Ministero. Se eccezionalmente lo fanno è solo quando si va su una rotta diametralmente sbagliata, specie se c’è l’aggravante che la rotta venga attribuita alle Asl stesse. Ebbene, l’eccezione si è consumata, e guarda caso proprio sul generico.
È successo a Bergamo, il cui quotidiano, L’Eco, ha lanciato un titolo del tutto fuorviante: “Troppi farmaci generici peggiorano l’aderenza alla terapia”. Il tema è serissimo, l’aderenza terapeutica è l’abc di ogni trattamento. E l’articolo riporta alcune cifre relative all’abbandono della terapia nel passaggio da un farmaco all’altro, il cosiddetto “switch”, con un’incidenza del 28%. Il dato è preoccupante, ma messo da solo contiene una disinformazione. Il difetto dell’aderenza è un problema che coinvolge la totalità dei trattamenti farmacologici e soprattutto dei loro cambiamenti, come documentato dall’Agenzia Italiana del Farmaco. L’equivalente in sé non c’entra nulla. Al contrario.
Di qui la precisazione, correttamente pubblicata da L’Eco di Bergamo. Non solo i generici non sono il problema, ma anzi risultano una soluzione allo stesso, spiega l’Asl, allegando al comunicato l’esito di una ricerca di altre cinque Asl lombarde. Risulta (oltre a, di nuovo, l’identica efficacia terapeutica) che “i pazienti che assumono il farmaco generico hanno una persistenza al trattamento maggiore rispetto ai pazienti che assumono il farmaco di “marca”, con una differenza media di 49 giorni a favore del generico”. Va meglio, non peggio.
Morale: “Scegliere il farmaco generico pare, dunque, una scelta eticamente irrinunciabile, oltre che sicura dal punto di vista terapeutico”, dicono anche a Bergamo. Questione di etica, dunque, e di corretta informazione.
Più coordinamento tra medici di base, ospedalieri e farmacisti. E maggior ricorso ai farmaci equivalenti. La ricetta per la Sanità del futuro, quella che si vorrebbe “territorializzata”, più rapida e vicina al paziente, capace di assisterlo anche nelle sue esigenze di efficacia e costo terapeutico, ha fatto ingresso al Senato, in una conferenza che ha avuto l’anomalo esito dell’unanimità.
“Appropriatezza, continuità ospedale-territorio, equivalenza terapeutica, aderenza alla terapia e umanizzazione delle cure sono tutte facce della stessa medaglia”, ha spiegato a Palazzo Madama il professor Francesco Saverio Mennini, Research Director del CEIS – Centre for Economic Evaluation and HTA (EEHTA), Università di Roma ‘Tor Vergata’. Quello era il titolo e lo svolgimento. Un miglior coordinamento sarebbe cruciale per i pazienti, sul profilo della qualità dell’assistenza e su quello del risparmio. E, per entrambi, la spinta dell’equivalente risulta cruciale.
Il nodo non è nei massimi sistemi. Il problema drammatico è, tra gli altri, quello di una quantità crescente di italiani che rinunciano alle spese mediche a causa della crisi. Sono il 25%, secondo uno studio del 2015 di Confindustria. Il 71% le taglia, secondo i dati Istat 2013.
“Ciò non è accettabile, perché questo ipotetico risparmio di oggi sarà il dramma del domani”, avverte Marcella Marletta, Direttore Generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del Ministero della Salute, nel rilanciare l’orizzonte del generico: “garantisce la qualità cura e al contempo un forte risparmio”.
La strada è quella, e le associazioni dei consumatori sono in prima linea, come Cittadinanzattiva in procinto di lanciare una nuova campagna per l'equivalente. Tutti d’accordo, dunque, eppure manca ancora qualcosa, che relega l’Italia agli ultimi posti Ocse. Permane un “vuoto nell’informazione medico-scientifica” sul generico, a danno di pazienti e perfino medici: se colmato, permetterebbe una miglior cura e risparmi per nuove terapie innovative, si è detto all’unisono in Senato.
“È una svolta”. Sono anzitutto i medici a congratularsi con l’arrivo in Italia, annunciato nei giorni scorsi, della prima insulina biosimilare. I malati di diabete sono stimati nel mondo a crescere a oltre il mezzo miliardo entro il 2030 (oggi sono quasi 400 milioni) e in Italia l’incidenza è addirittura dell’8%. “Il Servizio Sanitario Nazionale deve porsi il problema dei costi, e la nuova possibilità di utilizzare farmaci altrettanto efficaci”, incalza il presidente dell'Associazione Medici diabetologi Antonio Ceriello.
La “svolta” in questo caso si compone di più dimensioni e, prima ancora del risparmio (stimato a circa il 25%) e del conseguente allargamento della platea dei pazienti, il nodo è la qualità. La glargine biosimilare è la prima nel suo genere a essere stata approvata in Europa e ad approdare nel nostro paese. L’arrivo è stato pertanto preceduto da quella notevole mole di procedure, studi preclinici e trial che la legge specificamente impone ai biosimilari (un test di bioequivalenza è ritenuto non sufficiente) per certificarne l’assenza di differenze in termini di efficacia, sicurezza e immunogenicità rispetto all’originator. Di più, l’esito positivo è stato riscontrato sia sui pazienti di tipo 1 che di tipo 2.
E c’è dell’altro. La somministrazione sarà facilitata da una nuova penna iniettiva più semplice nell’utilizzo e più accurata nel dosaggio, tramite uno strumento pre-riempito. La facilitazione, e l’informazione connessa, è tutt’altro che un fattore secondario. Il diabete è tuttora circondato da barriere psicologiche che spesso inibiscono il paziente e ne ritardano drammaticamente la cura.
Ulteriore soddisfazione a margine, si tratta di una produzione made in Italy, che scaturisce dall'alleanza tra Eli Lilly e Boehringer Ingelheim e avrà luogo in un sito di Sesto Fiorentino. “Ora che anche altre due grandi case farmaceutiche hanno assunto questa linea è auspicabile che si crei un'atmosfera più propizia per assicurare al biosimilare il ruolo che gli spetta nel mercato e nella sanità italiana", sottolinea il coordinatore dell'Italian Biosimilar Group Stefano Collatina.
“La troppa informazione sul web è talvolta un rischio, non sempre è corretta, e magari confonde il paziente” – è giustamente emerso in un convegno scientifico dello scorso 14 novembre per la Giornata Mondiale del Diabete. Qui, invece, c’è una notizia, ed è importante.
“Mens sana in corpore sano”, scriveva Giovenale quasi duemila anni fa. Per la verità, spiegano i latinisti, il poeta non intendeva esattamente quel che interpretiamo oggi, ossia che la salute mentale e quella fisica si alimentino a vicenda. Voleva solo dire che la salute è la sola cosa che conti davvero, in entrambe le declinazioni. Quella è comunque l’interpretazione attuale, e trova ora un’interessante conferma scientifica. Che dovrebbe far riflettere, agli individui ma anche ai decisori politici.
L’ultima novità in proposito arriva da una ricerca finlandese sui topi. Documenta come un sostenuto esercizio fisico aerobico incrementi la neurogenesi cerebrale. In altre parole, secondo una squadra di psichiatri e biologi dell’Università di Jyväskylä, la corsa alimenterebbe la riserva di neuroni dell’ippocampo, che è precondizione cruciale alle nostre capacità di apprendimento spaziale e temporale. Inoltre – ma questo è presentato solo a titolo di ipotesi da approfondire – sembrerebbero prodursi anche delle variazioni genetiche, con ricadute e suggestioni sulla cosiddetta “memoria cellulare” che si riprodurrebbe ed evolverebbe nelle generazioni, il cui studio è ancora agli albori.
Tecnicamente, si è visto che i topi “atletici” generano una produzione neuronale quasi tripla rispetto ai sedentari, e si suppone che lo stesso avvenga per gli umani. Attenzione, perché i test precisano un concetto: la differenza si produce solo nelle “corse a lunga distanza”, non nelle sgambate occasionali. Il beneficio è nell’esercizio aerobico serio, non nella partitella settimanale di calcetto.
Il tema è rilevante, specie in un paese dove tanti fanno sport ma latitano le strutture e gli spazi, a cominciare dalla scuola, il che è grave – come sporadicamente denuncia la stampa italiana - considerando che l’effetto qui accertato è proprio sull’apprendimento.
Le “Giornate”, specie quelle “Mondiali”, si compongono perlopiù di convegni, eventi pubblici e campagne di comunicazione. Sono ricorrenze, orientate a sensibilizzare su un tema o l’altro. Decisamente ben diverso il caso della Giornata della Raccolta del Farmaco che, tra professionisti, aziende, istituzioni e associazioni, ha silenziosamente mobilitato un’impressionante e concreta macchina di solidarietà.
In un giorno, il 13 febbraio, nella sua sedicesima edizione, sono stati donati ai cittadini bisognosi oltre 350mila medicinali. Le farmacie che si sono prestate alla raccolta sono state ben 3681 in 1200 municipi di 97 province, con l’ausilio di 14mila volontari. “Ancora una volta gli italiani - sottolinea Paolo Gradnik, presidente dell’Onlus Banco Farmaceutico - hanno dimostrato di avere un grande cuore e una sensibilità unica nei confronti di chi si trova in difficoltà e non si può curare”.
La solidarietà non si esaurisce nella Giornata. Si può donare sempre, e lo si può fare anche con un’app scaricabile dal sito della Fondazione. Il Banco coordina la raccolta per una rete di ben 1638 enti caritativi che cercano quotidianamente di assistere centinaia di migliaia di indigenti, il cui fabbisogno è stimato negli ultimi anni in costante crescita in relazione alla crisi e all’invecchiamento della popolazione.
Donare nell’ambito della salute è per definizione il più nobile dei gesti. “L’accesso ai farmaci è un diritto umano”, titolava un evento organizzato dal Ministero della Salute e l’Agenzia Italiana del Farmaco per un’altra Giornata, quella dedicata il mese scorso a migranti e rifugiati per potenziarne la cura nonché la loro informazione, anche tramite un’apposita sezione in inglese presso il sito dell’Aifa.
Alla povertà sanitaria si accompagna infatti anche la difficoltà a informarsi, oltre a gravi lacune nell’appropriatezza e nell’aderenza del percorso terapeutico. Il nodo dei costi è dunque cruciale. Le recenti campagne lanciate dalle stesse istituzioni in favore dell’equivalente sono parte della soluzione.
Troppi zuccheri fanno male, lo sappiamo. Ma probabilmente non sappiamo “quanto” possano far male. Di più, rimaniamo spesso un po’ confusi su alcuni concetti di base. Un blog informativo del New York Times fa ulteriore chiarezza su un quesito fondamentale: ma se gli zuccheri sono così insidiosi, perché non vale anche per la frutta che ne è piena?
Non a caso il quesito è ricorrente nella stampa americana. Né è un paradosso che gli Stati Uniti siano ai vertici della piaga dell’obesità mentre i supermercati sono zeppi di alimenti con scritto “poco zucchero”. La contraddizione non c’è, perché la verità è che quell’etichetta dice assai poco di rilevante. Non è prioritario il “quanto” ce n'è, la cosa fondamentale è “con cosa” viene mangiato, il contesto alimentare nel suo insieme.
Ora, il consumo di zucchero, o di alimenti che spingono l’apparato digestivo ad alimentarlo, induce il pancreas a produrre insulina per assorbire il glucosio. Se si esagera, la resistenza si allenta alimentando il rischio, tra l’altro, di alcuni tipi di diabete. Ebbene, la frutta contiene molta fibra, che facilita tale metabolismo. È racchiusa lì dentro, ma lì deve rimanere. Quando una mela viene spezzata, elaborata industrialmente o anche solo spremuta, qualcosa perde. Lo zucchero, se associato a tale parete difensiva, è innocuo. Altrimenti fa male. Tutto qua, e qua c’è tutto.
La prevenzione alimentare è essenziale, tant'è che si moltiplicano in tutto il mondo le ricerche sugli effetti negativi di diete squilibrate per la salute. Non è solo un problema di linea, di indebolimento generale del corpo e di esposizione a svariate patologie. Il danno dell'eccesso di zuccheri è perfino al cervello: una ricerca effettuata a Roma dall'Università Cattolica del Sacro Cuore ha ad esempio rilevato danni innescati alla capacità autoriproduttiva delle cellule staminali, cruciali all'integrità neuronale dell'ippocampo.
Insomma è vero che “una mela al giorno leva il medico di torno”, ma solo se consumata intera.
Sembra ieri ma son passati 35 anni. L’8 febbraio scorso il Nasdaq ha festeggiato il proprio compleanno, e lo ha fatto scommettendo sull’ultimo “cambiamento rivoluzionario” dei nostri tempi, ossia l’avanzata dei farmaci generici.
In mezzo agli stravolgimenti, bolle, truffe e periodiche crisi che hanno investito la finanzia globale, a partire da quella americana, il Nasdaq ha consolidato una posizione di autorevolezza, documentata da un incremento del volume di affari che nell’arco di tutta la sua storia sfiora il 10% annuo. Sicché il primo mercato elettronico al mondo è diventato rapidamente anche il più esteso per capitali mobilitati, secondo solo a Wall Street. Di più, essendo il principale punto di riferimento dei “tecnologici”, quel che fa e scrive sul proprio sito è letto con prioritaria attenzione da chiunque guardi avanti e cerchi di capire dove va il mondo.
È da quel pulpito che si sottolinea la “rivoluzione”, a colpi di cifre, grafici, proiezioni, addirittura l’elaborazione di un indice specifico, l’Indxx Global Generics & New Pharma Index. In breve, si nota questo: solo negli Stati Uniti, gli equivalenti ammontano già all’88% di tutte le prescrizioni, con una stima a salire al 92% entro quattro anni. Nel periodo 2013-2018 si prevede che il settore contribuirà al 52% della crescita della spesa farmaceutica globale, rispetto al 35% degli originator, che in più devono scontare per loro natura più alti investimenti iniziali. Nel decennio in corso, i farmaci che perdono i diritti di “patent” sono stimati a un valore di vendita annuale pari a 200 miliardi di dollari e, quando scade la licenza, cedono agli equivalenti mediamente il 90% del mercato.
A tutto questo si aggiunge – nota ancora il Nasdaq – il combinato tra i rilevanti risparmi per i consumatori, le esigenze sanitarie crescenti di una popolazione che invecchia e l’aumentata consapevolezza di governi e pazienti circa la completa equivalenza nell’efficacia e sicurezza terapeutica. La “rivoluzione” è qui, scrisse anche un anno fa lo stesso portale americano. E’ proprio così, le “bolle” sono tutte altrove, ha voluto ora ribadire nel proprio anniversario.
Conoscenza, trasparenza, vigilanza. È cruciale in ambito sanitario districarsi nella mole di indicazioni, controindicazioni, verità presunte e preconcetti. Per i pazienti, e le associazioni che le rappresentano, è la massima priorità per la loro tutela e per l’appropriatezza della cura.
Un decisivo impulso in tal senso arriva dalla “Cassetta degli Attrezzi” costruita da Eupati. Quest’ultima è la sigla dell’“Accademia dei Pazienti Europei”, che riunisce 33 organizzazioni di 12 paesi tra cui l’Italia, incluse associazioni civiche, università e case farmaceutiche, oltre a rappresentanze istituzionali. Due anni fa lanciò un progetto formativo continentale, il 27 gennaio scorso è stato presentato il suo naturale sviluppo, una “cassetta” appunto, piena di “attrezzi” informativi alla portata di chiunque.
L’indirizzo è eupati.eu/it, raggruppa un enorme glossario medico e circa 3000 schede illustrative su un centinaio di argomenti diversi, con l’arricchimento di video e presentazioni grafiche che consentono di facilitare la consultazione, modularla e personalizzarla a seconda delle esigenze specifiche, scaricare materiali off-line e diffonderli agevolmente come strumenti a disposizione di chi, in particolare, si occupa di tutela dei pazienti.
La sezione italiana di Eupati è stata avviata nel 2013 su impulso soprattutto di alcune associazioni (quali Parent Project Duchenne, Associazione dei malati di Tumore della Tiroide ed Associati, Associazione Medici Endocrinologi), raccogliendo poi il sostegno, tra gli altri, di Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco, Federazione Ordini Farmacisti Italiani. In sintesi, gli obiettivi di fondo sono due. Potenziare il coinvolgimento dei pazienti, anche nei comitati bioetici e nei tavoli istituzionali per la registrazione dei farmaci. Il secondo è l’“aderenza terapeutica”: gli errori e le omissioni nell’attuazione di un trattamento farmacologico sono in cima alle cause di fallimento della cura. Sapere è fondamentale, specie nel fondamentale ambito della salute.
Sulla salute la prudenza non è mai troppa, salvo evitare la cattiva informazione e i luoghi comuni. Bene dunque cautelarsi e prendere sul serio i consigli circa i possibili rischi. Ma bene anche valutare la loro fonte e sostanza scientifica. Ebbene, da un’equipe di ricercatori americani sembra emergere che i timori circa l’effetto cancerogeno dei raggi X siano del tutto privi di tale base.
Lo sforzo degli oncologi del Loyola University Medical Center, alle porte di Chicago, è stato quello di una revisione sistematica dell’intera letteratura scientifica in materia negli ultimi 70 anni, ossia dall’orrore dei bombardamenti atomici. La conclusione è che le preoccupazioni di alcuni pazienti (e pochi medici) dinanzi a una radiografia o una Tac si basano su “ipotesi solo teoriche, che non hanno mai trovato il riscontro di alcuna prova”. Alla conclusione segue un alert, quello sulle “spese eccessive per misure di sicurezza azzardate quanto inutili e costose”.
L’assenza di presupposti scientifici adeguati era già stata tardivamente riscontrata in altre ricerche degli ultimi anni, e gli stessi portali ministeriali dei paesi avanzati evitano il tema o tuttalpiù lo segnalano a titolo solo ipotetico limitandosi a sconsigliare “esagerazioni” sull'uso di tali esami.
In questo caso si va oltre, “decostruendo” anche i capisaldi teorici di questa cautela. Essi si basano ancora sul modello elaborato negli anni ’40, il cosiddetto LNT (Linear No-Threshold), “lineare senza soglia”. In sostanza, si prendevano in considerazione i casi più gravi, quelli delle persone esposte alle radiazioni dell’ordigno nucleare, e si graduava la valutazione del rischio cancerogeno a tutti in modo appunto “lineare” rispetto all’intensità dell’esposizione.
Un modello fallace, dunque, considerando che le radiazioni sono ovunque, anche in natura, sicché le modeste entità sono facilmente assorbibili dal corpo. La differenza è qualitativa, non quantitativa. “Basta allarmismi, è tempo di sapere, educare – dicono da Chicago - e costruire un nuovo modello scientifico”. Che, curiosamente, 70 anni dopo ancora non c’è.
Il mercato del farmaco è in discreta salute, con tendenze al lieve aumento. In due parole i primi dati sull’intero 2015 mostrano questo. Il nodo è però che non si può dire “in due parole”. Il settore è talmente complesso e in evoluzione, tanto nell’offerta quanto negli orientamenti dei consumatori, da rendere impossibile l’aggregazione. Alcuni segmenti arrancano, altri segnano un mini-boom con prospettive stimate all’escalation. E questo è il caso in particolare degli equivalenti.
Le cifre, fornite da New Line Ricerche di Mercato documentano globalmente un incremento del mercato della farmacia dell’1,5% in valore, dell’1% a pezzi, sostanzialmente in linea con le stime pregresse dell’osservatorio internazionale di Ims Health, per un fatturato complessivo di oltre 25 miliardi di euro. Ma i dati vanno appunto scorporati.
Alcuni notano una differenza “merceologica”, sottolineando il balzo del 3,6% del fatturato (+2% a pezzi) di tutto ciò che viene venduto in farmacia senza obbligo di ricetta, in linea con gli anni precedenti. Ma anche qui bisogna distinguere, specie sui volumi. Su questi la crescita risulta addirittura piatta per i farmaci da banco (gli OTC e i “non pubblicizzabili” SOP), sicché l’aumento è perlopiù trainato da una parte dei parafarmaci, in alcuni segmenti specifici (dietetici, fitoterapici e veterinari).
La variabile più rilevante è di tipo farmacologico in senso stretto, e riguarda proprio il confronto tra originator ed equivalenti. I primi segnano il passo, con un calo dello 0,8% a valori e dello 0,9% a volumi. Il segno più appare per loro solo sul fatturato dei farmaci non mutuabili (fascia C), dovuto però solo all’aumento dei prezzi, in quanto le quantità vendute segnano anche qui una flessione del 2,2%. Di tutt’altro segno emergono i generici, positivi ovunque, in ogni fascia, con incrementi medi del 6,6% in valore e del 4,9% in volumi.
Sono dati importanti, che partono da lontano e porteranno ancor più lontano. L’alto potenziale del nostro paese, per le stime internazionali di settore, è motivato dal relativo ritardo segnalato dall’Ocse rispetto ad altri paesi avanzati, e al contempo dalla progressiva consapevolezza anche in Italia circa la pari efficacia e sicurezza del “generico” rispetto alla “marca”.
La correlazione tra l'inquinamento e i rischi di alcune allergie è oramai un fatto consolidato, e gli ultimi rilevamenti dalla cosiddetta “emergenza smog” rilanciano drammaticamente le preoccupazioni, con particolare riferimento ai più piccoli. Il danno per loro è grave, con ricadute valutate ora perfino sul piano psicologico.
Infatti è più che triplicata la percentuale dei bambini italiani allergici negli ultimi vent'anni, passando dal 7% al 25% - la stima rivelata nei giorni scorsi a Roma nella conferenza stampa di presentazione di un congresso internazionale sul tema, promosso dall'Organizzazione Mondiale per le Allergie con l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Eloquente anche la statistica sulle patologie più diffuse, in quanto afferiscono alle vie aeree, anzitutto la rinite allergica, che colpisce in particolare gli adolescenti (oltre un terzo dei ragazzi tra i 13 e 14 anni), seguita dall'asma.
A tali dati si incrocia l'allarme sempre più elevato sull'inquinamento urbano in queste settimane di siccità e il suo impatto sulla salute dei minori. “ I Pronto Soccorso pediatrici, specie nelle grandi città, hanno registrato un aumento di almeno il 25% degli accessi negli ultimi due mesi per emergenze respiratorie ”, denuncia il presidente della Società Italiana di Pediatria Giovanni Corsello, citando in particolare i casi di “ iper-reattività delle mucose respiratorie agli inquinanti dell'aria”.
E tra gli effetti collaterali prende ora corpo anche l'ipotesi del danno psicologico. Uno studio dell'Università del Michigan su 546 bimbi tra i 4 e i 7 anni, pubblicato sulla rivista americana Pediatrics, ha identificato uno stretto parallelismo tra l'aumento delle allergie (e in particolare proprio la rinite allergica) e i disturbi di tipo emotivo e comportamentale, tra tendenze involutive e di isolamento, ansia e depressione. Rimane da esplorare la natura specifica e i rimedi più appropriati a tale correlazione, ma la sua sussistenza emerge palese.
Economia e salute, un binomio che ad alcuni può suonare male. Agli antipodi, un po’ come il “dindolò” dei bimbi, se sale uno scende l’altro. Che la percezione sia però fuori luogo è oramai un'evidenza globale, e non solo perché la riflessione sui costi sanitari crescenti è imposta con urgenza da una popolazione che cresce e invecchia. Ma soprattutto perché i due ambiti possono andare a braccetto. Curarsi meglio, spendendo meno è possibile, e lo è anche dinanzi a una delle più gravi emergenze degli ultimi anni, l’Hiv.
Il fatto è emerso chiaro e unanime a Milano nell’ultimo “Workshop di Economia e Farmaci” dedicato al virus. Sul piano dell’efficacia, tra gli altri, Adriano Lazzarin, primario della Divisione di malattie infettive dell’ospedale milanese San Raffaele, ha annunciato il buon esito dello “switch” da originari a generici di alcuni trattamenti (efavirenz, lamivudina e lamivudina+zidovudina). Identico riscontro, anche sulla sicurezza terapeutica, da uno studio presentato dal direttore della Clinica malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma Roberto Cauda, che ha rilevato l'assenza di differenze nei decorsi tra pazienti “switchers” (da branded a generico) e “non-switchers”.
Gli economisti rilanciano, vedendo nel passaggio all’equivalente il presupposto di nuove risorse per la ricerca. “Serve una presa di posizione netta e decisa da parte dei decisori”, incalza Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria all'Università capitolina di Tor Vergata, evocando norme e prassi che facilitino la disponibilità e l’uso di tali farmaci anche in ospedale. In piena sintonia la Lega Italiana per la Lotta all’Aids. L’uso degli equivalenti è “un’opportunità che ne apre altre”, sottolinea il presidente della Lila Massimo Oldrini.
Il Workshop è nato nel 2011 sotto la responsabilità scientifica di due titolati ordinari dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma, il gastroenterologo Antonio Gasbarrini e l’economista Americo Cicchetti. E’ un progetto di ricerca e formazione permanente che riunisce l’insieme degli attori del settore, pazienti inclusi. Fa riferimento all’estesa rete multisciplinare dell’Health Technology Assessment, cui afferiscono esperti di una settantina di paesi sui temi dell’innovazione e dell’organizzazione sanitaria.
Il concetto è che non sempre ci sono “costi e benefici” in materia. Qui emergono solo i secondi. “ I generici sono il futuro, amplieranno la cura dell’Hiv”, scrisse già nel 2012 la rivista Nature.
“Ministro, guardi, il Pronto Soccorso oggi è vuoto, sta giocando il Napoli”. Il paradosso raccontato l’anno scorso in un’intervista televisiva da Beatrice Lorenzin, in merito a una sua visita sorpresa al Cardarelli, è multiplo ma convergente. La tempistica dei “momenti di tregua” al pronto soccorso rivela il medesimo problema cronico della tendenza al sovraffollamento: quello dell’abuso da parte di alcuni che, per scarsa urgenza ed entità del loro malanno, avrebbero il diritto e dovere di trovare altri spazi per curarsi.
Gli ultimi dati delle strutture regionali aggravano il concetto. Nel Trentino, ad esempio, si stima che circa 40mila pazienti si rivolgono ogni anno al pronto soccorso pur non avendone bisogno. I “codici bianchi” (che secondo il protocollo non hanno problemi urgenti e non sono in pericolo) sono quasi un terzo. Sommati ai “codici verdi” (che pur avendo qualche problema in più potrebbero comunque rivolgersi al proprio medico curante), la proporzione sale addirittura all’83% (dati riferiti al 2014).
Il problema non è solo italiano. Un approfondimento, coordinato dalla Plymouth University e pubblicato in questi giorni sulla rivista Health Services and Delivery Research, nota che le ammissioni nelle strutture d’emergenza britanniche sono aumentate del 47% in 15 anni, con un’accelerazione negli ultimi. Si tratta inoltre di una stima solo parziale della pressione sulle sale di pronto soccorso in quanto non conteggia i pazienti che, come consentito dalle norme oltremanica, possono essere “non ammessi”.
Il dibattito è aperto e urgente, su scala globale. La strada è naturalmente quella di un potenziamento delle alternative sanitarie. Al di là dei nodi normativi (ticket, assunzioni di personale), il tema è anche la prassi organizzativa. C’è chi suggerisce ai medici di “uscire dall’ospedale”, chi invece incalza quelli di famiglia a una più stretta cooperazione con gli ospedali stessi. Un aspetto interessante comunque suggerito dalla ricerca inglese – che compara le prassi in 4 diverse strutture – è l’assenza di una “ricetta universale”. Nella logica di un’assistenza territoriale diffusa, è il contesto locale a fare la differenza.
Le donne soffrono di patologie cardiache più degli uomini, e i sintomi sono spesso ben diversi. Tali realtà suonano sorprendenti a molti, ma la sorpresa è essa stessa parte del problema, perché rivela come non sia sempre adeguatamente affrontata e curata, e più in generale come ancora non venga riconosciuta la differenza di genere nelle diagnosi quanto nei trattamenti.
Il dato di base è questo: sin dal 1984, la mortalità per motivi cardiaci è risultata superiore tra le donne rispetto agli uomini, anche se, nota l’ American Heart Association, in una recente ricerca seguita da una campagna stampa statunitense, emergono miglioramenti nell’ultimo decennio dovuti a una parziale presa di coscienza e a cure migliorate. Il problema però persiste. “Per loro il quadro è peggiore”, spiega la coordinatrice dell’indagine Laxmi Metha, dell’Università dell’Ohio, notando la sottovalutazione dei sintomi “inusuali” che per loro sono invece tipici, quali il respiro corto, nausea, vomito, alta pressione, dolori alla schiena. E l’esito finale è che “ alle donne succede più spesso di essere ricoverate una seconda volta, per infarto o morte”.
Insomma la realtà è che gli allarmi femminili tendono ancora a sottovalutarsi per il persistere di preconcetti, alimentati da dati che sembrano confermarli e invece dicono il contrario. Se le italiane vivono in media fino a 85 anni e gli uomini fino a meno di 80, mentre le aspettative sulla buona salute sono pressoché identiche, significa che si prospetta per le prime più anni di vita malata. E se le donne stesse temono molto meno gli infarti di altre patologie significa che sono anch’esse poco informate.
Da un ventennio la “medicina di genere” ha un riconoscimento globale, anche in sede di Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma esso fa leva su aspetti sociologici, quali le “discriminazioni”, più che sulla differenza biologica. Su questa arrivano molte ricerche dagli Stati Uniti, che documentano il diverso impatto tra i sessi di molte patologie, ma poca elaborazione complessiva.
In Italia il problema è speculare. Tra l’Osservatorio di Bari, corsi universitari a Roma, Padova, Torino e altrove, è passato il concetto che uomini e donne sono fatti diversamente e richiedono trattamenti differenti, ma si reclama più ricerca.
Gli americani si fidano degli equivalenti, anzi li preferiscono ai farmaci di marca con percentuali quasi da plebiscito. Il dato incrocia del resto da tempo le indicazioni delle autorità sanitarie d'oltreoceano, medici di base inclusi, e contiene anche implicazioni sulla qualità del trattamento farmacologico.
La recente analisi in proposito dell'agenzia The Harris Poll ha fatto leva su un sondaggio dello scorso agosto su oltre 2200 pazienti adulti. Più di un terzo dichiara di preferire i farmaci generici rispetto ai brand, e il 30% dice di volerli scegliere “in tutti i casi”, indipendentemente dal settore, patologia e costo. Tra gli altri dati interessanti emerge che il gradimento per gli equivalenti sale ulteriormente in relazione all'età: i più favorevoli sono proprio i consumatori più esperti.
Il crescente successo del generico negli Stati Uniti si accompagna a una sempre più netta presa di coscienza tra tutti gli stakeholders del settore, praticamente senza eccezioni. Di recente perfino l'American College of Physicians, la più corposa associazione americana di medici specialisti, ha lanciato un appello ai colleghi a “prescrivere gli equivalenti ogni volta che è possibile”, riconoscendone l'identica efficacia e sicurezza terapeutica, oltre che il rilevante risparmio.
Quest'ultimo aspetto si rivela a sua volta cruciale per determinare la qualità del trattamento. Un’estesa ricerca della fondazione Commonwealth Fund ha confrontato gli aspetti assicurativi della sanità americana con la qualità delle cure. L’analisi è complessa, con dettagli finanziari che a noi dicono poco, per il funzionamento ben distante della copertura sanitaria italiana. Il dato di fondo vale comunque anche qui: il nodo dei costi risulta determinante sulle scelte terapeutiche individuali. Ad alti costi tende a seguire una scarsa aderenza alle prescrizioni farmacologiche, con tutto quel che ne consegue per la salute.
Qualità degli equivalenti, bassi costi, appropriatezza terapeutica: la correlazione, negli Stati Uniti, è oramai riconosciuta come fatto consolidato.
Come spesso accade, sono i governi a raccomandare misure di precauzione prima ancora dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I primi avvertono la responsabilità politica, la seconda è vocata perlopiù al coordinamento. Dal Ministero della Salute è quindi partito dalla scorsa settimana un “consiglio” al “differimento di viaggi” nei paesi latinoamericani dov’è diffuso il virus Zika alle “donne in gravidanza, e a quelle che stanno cercando una gravidanza”, nonché “ai soggetti affetti da malattie del sistema immunitario o con gravi patologie croniche”, mentre l’Oms ha preferito inizialmente scoraggiare “restrizioni inappropriate”, nonostante ammetta una diffusione “esplosiva”.
C’è chi ben va oltre, e in particolare in Colombia dove il governo ha sconsigliato alle donne di restare incinta per i prossimi sei mesi. La realtà è che il virus non è grave, ma si teme possa avere un impatto sui feti. Va quindi chiarito bene di che si tratta. Fu identificato già nel 1947 in alcune scimmie in Uganda durante un monitoraggio sulla febbre gialla. Il vettore è il medesimo, la zanzara Aedes Aegypti, lo stesso anche della dengue, ma ha una differenza fondamentale, è sostanzialmente innocuo, con sintomi lievi, perlopiù assimilabili a una normale influenza che dura tuttalpiù una settimana.
Qualcosa è però successo nell’ultimo anno. Dopo Asia e Africa, il virus ha assunto una valenza formalmente “epidemica” in Brasile (con rapida diffusione in altri paesi americani), e nel contesto dell’epidemia sono poi emersi dati preoccupanti sui nascituri, con un incremento nei casi di microcefalia.
In ogni caso la correlazione, seppur “fortemente ipotizzata”, non è per ora dimostrata, e lo stesso riguarda l'ipotesi che possa trasmettersi anche per via sessuale. Questa è la realtà, i timori sono per ora legati a sospetti e a possibili mutazioni virali, nonché all'assenza di un vaccino e cure specifiche. Sono perciò già in atto sperimentazioni biotecnologiche di “prevenzione”, alcune controverse, quali l'immissione di zanzare “geneticamente modificate” nell'ambiente di alcuni quartieri brasiliani.
La realtà unanimemente perorata è che serve più ricerca, oltre naturalmente a un'informazione equilibrata.
La spesa farmaceutica aumenta, i consumi poco. Gli ultimi dati dell'Osservatorio sull'Impiego dei Medicinali (OsMed), riferiti ai primi nove mesi del 2015, vanno letti con attenzione, scorporando tra settore farmacologico e contesti regionali, e rilanciano l'urgenza di un ricorso più esteso a generici e biosimilari.
Il rapporto rileva una spesa totale di 21,3 miliardi di euro, per oltre tre quarti rimborsato dal Servizio Sanitario. La spesa farmaceutica pubblica ha sfiorato i 10 miliardi (quasi 160 euro pro capite), con un incremento del 9,6% rispetto allo stesso periodo del 2014. Il Direttore Generale dell'Aifa Luca Pani sottolinea “l’impatto che i medicinali innovativi ad alto costo immessi sul mercato lo scorso anno”, in particolare “sulla spesa ospedaliera”. Decisiva è infatti la crescita della spesa per medicinali di classe A, addirittura del 37,4%. Quella farmaceutica convenzionata segna invece un lieve calo, a fronte di consumi in leggero aumento (+0,5%) corrispondenti alle “esigenze di cura di una popolazione che tende a invecchiare”.
L'impennata andrà probabilmente a ridimensionarsi nell'ultimo trimestre dell'anno, dato che l'osservatorio internazionale di Ims Health stima per quel periodo un rallentamento dei prezzi per alcune specialità. Il nodo dei costi del farmaco è in ogni caso centrale, con implicazioni anche sull'aderenza terapeutica dei pazienti, segnalata in difetto specie per (addirittura sotto il 50%) il trattamento con gli ipolipemizzanti.
Decisivo in proposito è l'utilizzo dei farmaci a brevetto scaduto: rappresentano il 53,7% della spesa convenzionata ma solo il 2,2% di quella per i farmaci acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche. Se poi si va a guardare il ben diverso andamento tra le regioni, salta di nuovo agli occhi come le più “virtuose” nel contenimento della spesa siano generalmente quelle dove negli ultimi anni è cresciuto di più il ricorso agli equivalenti.
Come hanno sottolineato gli studiosi dell'Aifa, “i generici e i biosimilari rappresentano un'opportunità essenziale per ottimizzare l'efficienza dei sistemi sanitari, rispondendo alla crescente domanda di cura in termini di efficacia terapeutica, personalizzazione, sicurezza e contenimento dei costi”, si legge sul Journal of Generic Medicines.
Tra salti culturali e problemi di lavoro, c’è un cambiamento epocale in famiglia, col papà a casa. Non accadeva dai tempi pre-industriali e forse, argomentano molti, non è mai accaduto in questa misura. Sul “mammo” si scatenano le varie scienze umane, perlopiù plaudendo al fenomeno. Attenzione però, perché l’allargata partecipazione domestica e la nuova presenza in sala parto andrebbero accompagnate a un’altra consapevolezza, primaria e clinica: il partner può aiutare, e molto, ma altrettanto può far male, se sta “depresso”, sin dal concepimento.
Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Obstetrics and Gynaecology, è stato condotto in Svezia su una platea molto estesa, 350mila nascite “premature” tra il 2007 e il 2012, ossia entro la 36ma settimana. Lo stato “depressivo” del genitore è stato definito dalla sussistenza di un trattamento farmacologico o di una consultazione ospedaliera nell’anno prima del concepimento fino al secondo semestre di gravidanza.
Ebbene, il riscontro sorprendente è che l’incidenza della depressione del genitore sul rischio di un parto prematuro – che è causa principale di morte dei neonati in larga parte del mondo, nota l’Organizzazione Mondiale della Sanità – non solo è molto alta, con percentuali che arrivano al 40%, ma, e questa è la vera novità, rivela analogie tra i due genitori. Sui rischi della madre “depressa” si sapeva, su quelli del padre no. Il problema riguarda soprattutto i “nuovi” depressi, quelli che non avevano riscontrato patologie prima di tale periodo (forse per la positiva incidenza dei trattamenti avviati dai “vecchi” malati): i papà che vengono a trovarsi in tale categoria incrementano la probabilità del parto prematuro di addirittura il 38%.
Il dato è impressionante e meriterà un approfondimento scientifico. A detta degli stessi ricercatori, non è chiaro se la causa sia primariamente “ psicologica” (lo stress trasmesso dal partner alla donna incinta) o “fisiologica” (l’impatto della depressione sulla qualità dello sperma, con effetti possibili sul Dna del bambino e sulla placenta). Quel che è comunque evidente è che lo “star bene durante la gravidanza” non è più solo un diritto e dovere materno, vale anche per il padre. Con l’imperativo a superare la virile riluttanza a curarsi, se del caso.
Ridere fa bene, alla salute, alla forma e al peso. Non è una novità assoluta, ma c’è qualcuno che ha fatto un po’ di calcoli che allargano il concetto. Una ricerca semi-seriamente scientifica condotta oltremanica dice qualcosa in proposito e fa pensare. Il principio è che la prevenzione e il benessere dipendano meno dai dettagli della dieta alimentare o da faticose ginnastiche che dall’umore con cui affrontiamo il mondo.
I pregressi della ricerca in materia non mancano, con benefici accertati sulla risata in varie università su molti fronti, in primis quello cardiaco. Qui però si tenta una qualificazione e una quantificazione. L’“urlatore” può bruciare fino a 120 calorie all’ora; la risata “che piega la pancia” ne consuma 100; la “risatina” arriva a 33; il “ridacchiare” ne distrugge 20; il più compresso “ ghigno” ne debella comunque 10. Al conteggio seguono poi calcoli sui minuti necessari a un atteggiamento e all’altro, il conteggio comparato su quel che le diverse risate possono compensare rispetto a una dietra o l’altra e ulteriori conclusioni sulla tonicità muscolare, a iniziare naturalmente dagli addominali.
Intendiamoci, dietro al Comedy Research Project che sta impazzando in questi giorni sul tema, sia sulle riviste scientifiche che su quelle pop di mezzo mondo, non c’è moltissimo. Non ci sono campus, riviste accademiche o simili. Se ne parla da quasi quindici anni (intorno al termine “ gelotologia”, la cosiddetta “scienza della risata”) nel Regno Unito e altrove, perfino in consessi universitari, eppure, a ben vedere, le persone fisiche che lo animano sono perlopiù personaggi televisivi, comici e comunicatori scientifici. Il fatto è che tra questi c’è chi conosce la ricerca e la sa fare. È il caso, in particolare, della neuro-scienziata Helen Pilcher, che tra l’altro collabora per la celebrata rivista Nature e ha diretto quest’ultimo progetto.
Siccome poi lo studio è stato commissionato da una televisione, i risultati sono stati correlati alla visione di sit-com e altri programmi comici. Va da sé, come ben sanno gli autori, che le risate più grasse e salutari si producono lontano dallo schermo, nelle più banali serate tra amici. Sono importanti, da non omettere, per la cura della propria salute, dicono dunque gli studiosi.