Lo abbiamo già raccontato e documentato, quanto la salute sia purtroppo ancora un tema che si declini a seconda dello status sociale della persona, perfino in un paese avanzato come l’Italia. Lo si è detto a sottolineatura di alcune conquiste storiche (come il Servizio Sanitario Nazionale siglato dalla compianta ministra Anselmi, che fino a soli 40 anni fa neppure esisteva, pur con i suoi difetti), così come sull’urgenza di far leva su alcuni fattori di risparmio, come i farmaci equivalenti, che consentono a molte più persone di curarsi, con identica efficacia e sicurezza terapeutica.
Dagli Stati Uniti arriva una novità che allarga il perimetro della vicenda. Il “basso status” fa male alla salute non solo perché rende più difficile l’accesso alla terapia per limiti materiali (e anche in quanto, sostengono alcuni, favorirebbe comportamenti poco salubri come il ricorso al fumo o all’alcol), ma anche per alcune variabili psicologiche “debilitanti”. C’è il problema di “sentirsi ultimi”, è un problema che può concretamente innescare conseguenze per la salute.
Lo si legge sulla prestigiosa rivista Science, da uno studio della Duke University, avvalorato da verifiche successive di ricercatori europei. Emerge anzitutto una differenza nella speranza di vita tra ricchi e poveri di oltre 10 anni (addirittura 15 tra gli uomini). Ed emerge inoltre il contributo di alcuni fattori di natura strettamente psicologico-sociale.
Gli scienziati hanno dunque analizzato 45 macachi, dividendoli in cinque gruppi, e i più deboli, quelli “in fondo alla gerarchia sociale”, meno dotati di potere e più esposti a molestie, diventavano “cronicamente stressati”, con accertate conseguenze sanitarie. In particolare, questi hanno manifestato differenze in ben 1600 attività genetiche, e in particolare livelli superiori di “citochine infiammatorie”, foriere di diverse patologie, a iniziare da quelle cardiache.
La “somatizzazione” del disagio psichico è un tema serio quanto acclarato, e adesso si apprende inoltre quanto incidano non solamente gli aspetti “materiali” delle diseguaglianze. Conta anche, e forse anzitutto, l’ambito sociologico, quello definito dall’autostima, dal sentirsi esposti alle vessazioni e alle ingiustizie. Non è più solo un tema politico-economico. E’ una questione di salute. Lo ha raccontato, e preso atto, perfino il New York Times.
C’è chi dorme bene e chi no. Si tratta di un “dono” spesso congenito, o all’opposto di un nodo apparentemente di difficile soluzione, tanto che si stima che almeno un quinto degli adulti abbia cercato prima o poi ristoro in un farmaco. Detto questo, c’è però dell’altro. Ci sono cioè una serie di accorgimenti semplici, quanto spesso dimenticati o sottovalutati, che possono dare a molti una mano decisiva. Li ha ricordati in questi giorni la Fondazione per la Ricerca e la Cura dei Disturbi del Sonno, tramite un vero e proprio “decalogo”.
Sull’entità del problema, i dati anche italiani sono preoccupanti, tra stime di insonnia “cronica” che superano il 10% della popolazione nazionale, mentre quella “occasionale” sfiora la proporzione di un terzo. Di più, è emerso che quasi la metà della popolazione che si rivolge al medico di base soffre di disturbi al sonno. E le conseguenze sono serie, dall'esposizione al diabete al sovrappeso, dai rischi cardiovascolari a quelli psichiatrici, senza contare l’impatto generale sulla qualità della vita e perfino sulla produttività lavorativa, oltre che all’esposizione alla totalità delle malattie per l’abbassamento delle difese immunitarie.
Da tutto questo emerge l’importanza del decalogo siglato dal presidente della Fondazione Francesco Peverini. Evitare le temperature ambientali troppo calde (non oltre i 18-20 gradi), i materassi datati (oltre la soglia di circa otto anni), lenzuola, coperte, piumoni e pigiami di scarsa qualità (con rischi allergici), le luci accese, perfino quelle piccole che tengono in carica i telefonini.
E’ bene naturalmente anche evitare i rumori, che disturbano anche quando non ce ne ricordiamo al risveglio, e fare attenzione addirittura agli odori, alcuni dei quali sono comunque benefici, com’è il caso esemplare della lavanda, che agevola il rilassamento diminuendo la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Poi l’igiene, meglio una stanza pulita e ordinata, per quel che consegue sulla qualità del respiro e della psiche. Su quest’ultima, bene “chiudere tutto” in anticipo, ben prima di coricarsi, evitando che i pensieri sul da farsi al risveglio debilitino il riposo. E questo riguarda anche l’alimentazione: male i pasti in eccesso, male anche pasteggiare subito prima del sonno, rinunciando a un paio d’ore di avvio digestivo.
L’orizzonte è quello della qualità della salute notturna, foriera di energie all’indomani, o di gravi impedimenti in sua assenza. Poi c’è il nodo della “quantità necessaria.” Ed è anch’esso un tema individuale, su cui non mancano le differenze. Qualche “dritta” di fondo comunque c’è, ed è quella di circa otto ore di sonno per gli adulti. Essa può variare tra i singoli, ma non di molto. Dormire poco fa assai male, ma – ha recentemente documentato l’American Heart Association – anche dormire troppo non va bene. Quando si tratta di riposo (come di altro), l’imperativo è quello di tenersi alla larga dagli eccessi, ovunque essi siano.
Copenhagen chiama Roma. La capitale italiana è stata scelta a sede per il 2017 del programma Cities Changing Diabetes, mobilitato da anni dal danese Steno Diabetes Center in collaborazione con l’University College di Londra. Un bell’appuntamento, che muove dalla presa d’atto di quanto il vissuto nelle metropoli alimenti tuttora il rischio di contrarre la malattia. Ed è un tema che chiama tutti, dai decisori sanitari e politici ai singoli individui, a qualche seria quanto salvifica correzione di rotta.
Il problema è che le città innescano per loro natura situazioni insalubri, dall’inquinamento ai fattori di stress alle cattive abitudini alimentari, tutte foriere di un aumento di rischio di ammalarsi di diabete (oltre a tumori, patologie cardiovascolari e disturbi broncopolmonari) per documentate ragioni scientifiche. Solo che, nota l’ambasciatore danese Erik Vilstrup Lorenzen, “nel 1960 un terzo della popolazione mondiale viveva nelle città; oggi si tratta di più della metà e nel 2050 sarà il 70 per cento”.
Considerando poi che due diabetici su tre vivono nelle città (per la cronaca, il primato è di Tokyo con 37 milioni di abitanti, anche se le statistiche divergono a seconda delle fonti e dell’inclusione o meno dei loro circondari), questo dà il passo dell’estensione del problema e delle preoccupazioni per il futuro. Insomma, una vera e propria emergenza, tanto da mettere a rischio perfino “la sostenibilità dei sistemi sanitari”, come è emerso nei giorni scorsi in un convegno a Roma.
C’è però un grande “ma”, che rovescia in positivo l’intero quadro. Le città non sono solo la sede dei vizi e dell’aria poco respirabile, ma anche il luogo dove si “fa rete” per eccellenza. E’ per questo che in tanti la scelgono, non solo per ragioni economiche ma anche sociali. Il diabete è la tipica malattia che chiama a un approccio multidisciplinare, a un’attenzione complessiva, che va dalla prevenzione alla cura, dagli aspetti alimentari a quelli comportamentali e sociali.
In questo stanno le difficoltà, quanto dunque le speranze. “Un diabetico su due si sente abbandonato dal Servizio Sanitario Nazionale, e un paziente su tre si sente depresso”, nota Gianni Lamenza, presidente dell’Associazione Diabete Italia. Nella depressione o nell’incuranza, poi, molti non aderiscono alle cure. “L’accesso alla terapia è un diritto ma anche un dovere, se non lo si fa si reca un danno incommensurabile a se stessi e alla propria famiglia”, nota ancora il Diabete Forum. Terapia che oggi è a portata di mano molto più di ieri. “Le nuove terapie hanno migliorato la qualità della vita dei pazienti, e i pazienti collaborano di più”, sottolinea l’ordinario Paolo Pozzilli, dell’Università Campus Biomedico di Roma. E insomma molto si muove e molto si è già mosso. Le città, teatro principale della malattia, possono essere ben altro, dal punto di vista non solo medico, ma anche ecologico e aggregativo. Per volontà di noi tutti insieme, e di ognuno di noi.
“I grassi fanno male”, dicono, e molti media la raccontano proprio così. Sembra, insomma, la “scoperta dell’acqua calda” e, se a documentarla sono gli americani, può a maggior ragione suscitare ilarità, viste le devianze alimentari di molti di loro, con i relativi effetti. Nondimeno, la ricerca è seria ed estesa, tanto che arriva dalla prestigiosa Università di Harvard, fornendo qualche dettaglio non scontato sulle correzioni di rotta da prendere per una salutare prassi a tavola e oltre.
Come si legge sul British Medical Journal, l’indagine ha preso in esame ben 115mila persone, per due terzi donne, tutti operatori sanitari, seguendoli mediamente per oltre 25 anni, al fine di valutare l’effetto degli acidi grassi saturi sui rischi cardiovascolari, quali l’infarto miocardico e l’ischemia coronarica. Tutti erano privi di problemi rilevanti e cronici di salute e l’analisi è stata condotta “isolando” statisticamente i fattori comportamentali (quali il consumo o l’alcol), che potevano influirne gli esiti.
E questi sono eclatanti, mai come prima. Si stima che una riduzione solo dell’1% del consumo di grassi saturi faccia crollare l’esposizione alle malattie coronariche addirittura dell’8%. I “grassi saturi” sono presenti nella quasi totalità dei tessuti animali, in alcuni vegetali (come l’olio di cocco e di palma) oltre che, estesamente (e deleteriamente, per il loro isolamento dal prodotto naturale di base), in burro, margarina, merendine e altri prodotti industriali. I più innocui “insaturi” si ritrovano invece, e anzitutto, negli altri oli vegetali, cereali e legumi.
Tuttavia, a leggere l’indagine stessa, l’imperativo che segue non è semplicemente quello di “abolire” tali grassi. Il tema è più complesso, e suggerisce risposte più variegate e consapevoli. “Qui viene superata la vecchia idea di sostituire i grassi saturi con un unico nutriente, per esempio i carboidrati”, spiega al Corriere della Sera Stefano Erzegovesi, responsabile del Centro dei disturbi alimentari dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Meglio invece rimpiazzarli con diversi tipi di alimenti. Il problema non è tanto “trovare il principale colpevole”, quanto differenziare per bene, limitando il consumo dei cibi più insidiosi a non più di una volta o due la settimana.
Accertato il danno, la prevenzione è dunque una sfida di ragionevolezza, non necessariamente di sacrifici drastici. Ognuno di noi ha esigenze diverse, in base anche al clima (i grassi risultano necessari specie a chi vive in temperature molto fredde), all’età (i bimbi, per crescere, hanno bisogno di molto latte, seppur depositario di grassi saturi) e anche al tipo di alimento (il parmigiano li contiene, ma è anche ricco di calcio e fosforo). E questo riguarda perfino il delicato nodo della carne rossa. “Non tutte sono uguali – spiega Erzegovesi - la carne degli animali liberi al pascolo (a differenza di quelli cresciuti in allevamenti intensivi) contiene, oltre ai grassi saturi, anche acidi grassi insaturi, ennesima dimostrazione che la natura è più intelligente dei calcoli umani”. La “dieta” è un tema importante, ma non serve, quindi, ricorrere a tabù e rigori imprescindibili. Più importante, bene dar retta un po’ di più alla natura, alla nostra e anche a quella che mangiamo.
Ci sono fanatismi e mode, ma il tema è serio. La chiave di volta per il benessere psicofisico, dinanzi all’insieme dei disturbi e patologie riconducibili alla depressione, è anzitutto nella buona alimentazione. Tra gli appassionati e gli addetti ai lavori – si legga qualsiasi “decalogo” divulgativo in proposito – appare sempre, e quasi sempre in cima, quale alimento “virtuoso” per eccellenza. Si tratta, banalmente, delle noci, da alcuni già definite come “il cibo del cervello”, tanto da assomigliargli nella loro conformazione. Un’accademia americana ha ora ritenuto di effettuare alcune verifiche, traendone qualche netta conferma e, al contempo, alcuni interrogativi altrettanto eclatanti.
Come si legge sulla rivista internazionale Nutrients, i ricercatori dell’Università del New Mexico hanno preso in esame 64 giovani, tra i 18 e i 25 anni, sottoponendoli a una sperimentazione succulenta. Nel dettaglio, hanno loro somministrato tre fette al giorno di “plum-cake”, un dolce anglosassone a base di banana, per sedici settimane. E per otto settimane sono state aggiunte all’impasto delle noci, ben tritate al punto che non incidessero sul gusto e sull’aspetto.
Per consolidare la differenza, in tali ultime settimane gli studenti hanno aggiunto al loro menu quotidiano una dose di mezza tazza di noci. Infine è stato misurato il loro “umore”, sulla base di un test globalmente riconosciuto. Si chiama “Profiles of Mood States”, e fa leva su sei variabili: tensione, depressione, rabbia, stanchezza, energia e confusione.
L’esito del periodo di consumo delle noci è stato eclatante, col significativo miglioramento del 28% dello “stato d’animo” tra i giovani. Il segreto di tale alimento starebbe, secondo i ricercatori, nella presenza di vari nutrienti quali l'acido alfa-linolenico, la vitamina E, l'acido folico, i polofenoli e la melatonina. E’ poi c’è il selenio, la cui carenza è associata anche a stati d’ansia e stanchezza. A detta degli scienziati, è comunque probabile che la “ricetta” salvifica sia costituita proprio dalla combinazione di tali sostanze.
All’interrogativo se ne aggiunge un altro, ancor più “succoso”. La sperimentazione spalanca una differenza di genere. I miglioramenti riscontrati riguardano solo i maschi, mentre non emergono affatto nel gentil sesso. “Non sappiamo il perché”, ammettono schiettamente gli scienziati. Sappiamo però, e da questa indagine arriva l’ennesima conferma, che uomini e donne sono fatti diversamente, e richiedono diagnosi e terapie calibrate. La chiamano “medicina di genere”, e la sua importanza è segnalata perfino dalle noci.
Negli archivi video di tante famiglie le prime immagini del bebè sono oramai quelle che addirittura precedono la nascita. E sono immagini struggenti, commoventi, a volte buffe, che sembrano tra l’altro anticipare non solo i tratti somatici, ma (quantomeno “col senno di poi”) perfino alcuni segnali della sua impronta caratteriale.
Solo che quelle ecografie risultano talora problematiche. Mentre i genitori si emozionano e i medici spalancano gli occhi alla ricerca di ogni dettaglio, il nascituro a volte sembra ribellarsi a quella specie di “Grande Fratello” che vorrebbe violare la nuda privacy di quell’esistenza magica e placida nel grembo materno. Sicché si gira, si agita, si addormenta, e insomma si nasconde, e pur senza ancora conoscere il problema del “pudore”, magari cela anche le parti intime. Sono ancora tante le gestanti che escono deluse dal monitoraggio perché esso non è riuscito neppure ad accertare il sesso del nascituro, e ci sono ancora perfino casi in cui l’esito annunciato viene clamorosamente smentito dopo il parto.
Che il piccolo abbia o meno ragione a sottrarsi agli sguardi indiscreti è comunque un proposito che sembra avere i giorni contati. Le avveniristiche tecnologie dell’immagine a tre dimensioni entreranno nei monitor degli specialisti. La fotografia bidimensionale permette di nascondersi, la terza dimensione permetterà di vedere tutto, perfino, recita l’annuncio, “gli organi interni”.
E’ dal Brasile che arriva la novità, presentata dagli studiosi della Clinica di Diagnostica per Immagini di Rio de Janeiro al Congresso della Società di Radiologia del Nord America. Il progetto è avvalorato dal fatto che non è solo roba “tecnologica”, bensì segna un’utile collaborazione tra medici e specialisti dell’immagine. Ed è duplice anche la tecnologia, combinando le immagini rilevate tramite la risonanza magnetica con la realtà virtuale elaborata da un apposito visore, chiamato “Oculus Rift”.
“Può migliorare la nostra comprensione delle strutture anatomiche del feto”, spiegano gli scienziati, sottolineando l’accresciuta possibilità di riscontrare eventuali anomalie per aiutare a prendere decisioni su eventuali cure da affrontare prima o subito dopo la nascita. In ogni caso, promettono, è “un’esperienza meravigliosa”, che permette di vedere il corpo della vita che nasce, e non solo una goffa immagine schiacciata. E c’è da giurarci che anche il bebè, “col senno di poi”, ne sarà lusingato, anche per le possibilità di prevenzione e cura che si aprono con l’ausilio di quel che si può già vedere.
L’adolescenza è un limbo, e spesso poco piacevole. Scagli la prima pietra chi non ha attraversato qualche serio disagio, quantomeno psicologico, nell’ampia e critica forbice che separa l’infanzia dall’età adulta. Il problema è che quel “limbo” è anche sanitario. I ragazzi vanno poco dal medico, e l’assistenza per loro è di fatto scarna, proprio in una fase psico-fisica così delicata che richiederebbe viceversa un’altissima attenzione.
Ed è per questo che la Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza (Sima) ora scende in campo lanciando pubblicamente la proposta di veri e propri “Voucher della Salute” da consegnare ai giovani fino ai 22 anni e da utilizzare per visite specialistiche in strutture convenzionate del Servizio Sanitario Nazionale al termine dell’età pediatrica. Il momento del passaggio dal pediatra al medico di medicina generale è fissato a 14 anni, ma in casi speciali è consentito un prolungamento fino ai 16. Ed è un passaggio assai delicato, per giunta privo di “linee guida” ufficiali – come più volte segnalato dalla Società Italiana Cure Primarie – sicché la transizione (con tutto quel che richiede sul piano anche della consegna delle informazioni cliniche), è lasciata essenzialmente alla sensibilità del singolo operatore.
I numeri della “domanda di cure”, seppur perlopiù silente, sono impressionanti. I pazienti tra i 15 e i 17 anni che soffrono di qualche patologia cronica sarebbero oltre 300mila, secondo le cifre ufficiali dell’Istat, ossia circa un quinto dei giovani, e se si allarga la fascia di osservazione fino ai 22 anni si sfiora il milione. Si tratta in larghissima parte di patologie allergiche, ma nel 10% dei casi il nodo è quello di accertati disturbi nervosi.
Accertati, dunque, ma poco curati. “Ci siamo accorti con stupore che esiste una larga fascia di ragazzi per i quali il Sistema Sanitario Nazionale non prevede visite mediche - spiega il presidente della Sima Piernicola Garofalo – e ispirandoci ai recenti Voucher della Cultura, li abbiamo pensati per la salute e la prevenzione”. E’ ancora solo una proposta, indirizzata al Ministero della Salute e ai decisori regionali, con importi e tempistica da calibrare in funzione delle esigenze di bilancio e delle necessità individuali di cura.
L’idea di fondo è comunque quella di sensibilizzare gli addetti ai lavori sulle necessità sanitarie dell’adolescenza, ma anche di responsabilizzare ed educare i giovani alla prevenzione e una gestione autonoma della propria salute. Un caso limite è quello delle adolescenti dopo i primi cicli mestruali: da un’indagine italiana del 2013, emerge che solo una su quattro si è mai recata dal medico. E allora, che siano i prospettati “voucher” o altro, la sfida è quella di far uscire da quel limbo non solo i ragazzi, bensì anzitutto l’attenzione pubblica che meritano, anche quando non la chiedono.
Hanno ragione gli storici contemporanei, quando spiegano che per capire da dove viene e dove va il nostro mondo bisogna entrare in fabbrica: è lì dentro che tutto si costruisce, ben al di là dei singoli prodotti. Ci stanno le nostre conquiste, le fatiche, la genesi tecnologica e materiale, il cuore dei nostri rapporti socio-economici, e ci furono perfino - dicono i più critici riferendosi al passato ottocentesco – i sistemi organizzativi “militareschi” che avrebbero fatto addirittura da preludio ai conflitti mondiali del secolo scorso. Tutto, nel bene e nel male, nasce lì dentro.
“Entrare in fabbrica” è allora un’esperienza storica, una presa di coscienza di noi stessi e del mondo, e quando le sfide dei nostri giorni si giocano nel contesto di serie difficoltà economiche e produttive quel mondo salta agli occhi come un’epica lanciata da un’isola felice. E se l’oggetto della “produzione” è la nostra salute, con l’aggiunta non secondaria del nostro risparmio a dispetto di tante resistenze e interessi, la visita è tecnicamente salutare, oltre che profondamente istruttiva.
In questo c’è il cuore della bella iniziativa di Assogenerici di spalancare i propri stabilimenti, “Fabbriche Aperte”, a testimonianza di un mondo che suda al servizio di un orizzonte eticamente alto, dal suo impatto per il lavoro alla sua ricaduta per la salute. Un’allegra brigata di circa diecimila occupati (quasi tutti a tempo indeterminato) capace di una produzione – i farmaci equivalenti – che riproduce, a prezzo inferiore, gli identici principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica.
E così, dopo Sandrigo, nel vicentino (Zeta Farmaceutici), e Ivrea, nel torinese (Abc Farmaceutici), nei giorni scorsi l’operazione ha coinvolto la sede Mipharm di Milano e la Lachifarma di Zollino, in provincia di Lecce, con incontri a notevole impatto mediatico. “Apriamo le porte affinché il mondo istituzionale, i medici, i pazienti e i cittadini possano conoscere il livello di avanguardia tecnologica e gli standard qualitativi che ci sono dietro la produzione dei farmaci generici equivalenti”, ha spiegato Enrique Häusermann, presidente di Assogenerici.
Tutti dentro, dunque, a vedere con i propri occhi i sistemi produttivi e la straordinaria interazione tra ricerca, innovazione e qualità. Significativo è, infatti, il dato sul personale addetto alla “qualità”: il 33%, con punte che sfiorano la metà in alcune realtà medio-piccole. Qui sta l’importanza della “corretta informazione sulla qualità dei farmaci equivalenti nei confronti dei quali, a vent’anni dall’introduzione in Italia, c’è ancora diffidenza”, nota ancora Häusermann, descrivendo uno scenario in crescita ma ancora lontano dai livelli raggiunti dai principali paesi europei. Diffidenze senza ragion d’essere, come ripetutamente sottolineato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, e come inoltre documentato dal fatto stesso – nota Luciano Villanova - Qualified Person di Lachifarma – che “nel medesimo stabilimento si producono farmaci generici equivalenti e farmaci etici”.
La sfida etica è dunque quella di “una profonda opera di diffusione della conoscenza, necessaria perché c’è ancora molta gente che vede il farmaco generico equivalente come qualcosa di seconda scelta”, incalza Giuseppe G. Miglio, fondatore e presidente di Mipharm, invocando una migliore “intesa tra la classe medica e la classe produttiva”. E i pazienti concordano. “Serve una sinergia”, echeggia Anna Maria De Filippi, coordinatrice provinciale del Tribunale diritti del malato di Cittadinanza Attiva, ricordando anche la campagna “Io Equivalgo”, condotta da mesi dalla principale rete associativa italiana a sostegno dei generici equivalenti.
Addirittura una “crociata culturale”, nelle parole del senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri, membro della Commissione Sanità, che ha sottolineato come “gli equivalenti abbiano consentito di mettere in sicurezza il Servizio Sanitario consentendo risparmi sul bene-farmaco in condizioni di assoluta efficacia e sicurezza terapeutica”. Un risparmio che per tantissimi fa la differenza nella scelta di potersi curare o meno. E se ancora persistessero scetticismi, si sappia: le fabbriche del comparto dei farmaci generici equivalenti sono aperte!
L'ultima “rumorosa” novità nella ricerca sull'Alzheimer arriva dall'identificazione, in Australia, di una proteina che avrebbe il potenziale di ripristinare parte delle abilità cognitive smarrite. E poi ce ne sono altre, che sembrano spostare l’orizzonte della ricerca verso nuovi fronti sorprendenti. Il fatto comunque è che, tra un annuncio e l'altro, la conoscenza scientifica avanza, tanto che, stando alle ultime cifre, la patologia sembra finalmente segnare il passo.
Ma andiamo per ordine: è stata anzitutto identificata la “proteina della memoria” - sostengono gli studiosi dell’Università del New South Wales. E lo dicono al seguito di un’estesa sperimentazione sui topi, seguita alla sua identificazione post-mortem su umani ultranovantenni di notevole lucidità, in due regioni del cervello, ossia l’ippocampo e la corteccia prefrontale, il primo coinvolto nella memoria, la seconda nella cognizione.
La proteina, chiamata p38y (a volte i nomi scientifici sono bizzarri, fino ad assomigliare a quelli delle armi), è un enzima capace di modulare l’attività proteica aggiungendo molecole di fosfato organico, proprio quelle che tendono a perdersi con la progressione della malattia. E il successivo test, con la sua reintroduzione nel cervello degli animali, ha avuto esito positivo, proteggendoli dal deficit di memoria. “Potremmo essere capaci di ritardare o addirittura arrestare l’avanzare dell’Alzheimer”, dicono gli scienziati.
Serviranno riscontri e approfondimenti, ma il passo avanti sembra esserci, anche nella metodica, che presenta analogie con quelle suggerite da un altro studio recente, negli Stati Uniti. Non si tratterebbe di concentrarsi solo sull’eliminazione delle “placche beta-amiloidi” e dei “grovigli neurofibrillari” solitamente associati alla patologia, ma identificare altri fattori “di protezione”. La conclusione della Northwestern University di Chicago segue una scoperta a sorpresa: quella rivelata dall’analisi post-mortem di un altro gruppo di anziani di eccellente memoria. Ebbene, la loro qualità è stata riscontrata nonostante una notevole presenza di tali placche e grovigli, pari a quella dei malati. La differenza sembra spiegarsi nel maggior numero di neuroni nei cervelli sani, come se qualcos’altro li avesse protetti dall’effetto nocivo degli altri materiali.
Segnali incoraggianti e convergenti, ancora largamente da finalizzare in ambito terapeutico. Sta di fatto, che tra un progresso e l’altro, emergono finalmente cifre positive sull’evoluzione della malattia. Da un’indagine dell’Università del Michigan su oltre ventimila ultra-65enni spunta la stima di una diminuzione delle persone affette dal morbo, tra il 2000 e il 2012, di addirittura il 24%. Molto si muove, dunque, e quel che si muove comincia ad avere serio riscontro nella realtà.
Ci sono le parole, a volte qualche legittimo quesito, e periodiche obiezioni fondate perlopiù sulla “fantascienza”. Tra una parola è l’altra permane comunque una realtà, ossia che i vaccini rappresentano una storia di splendide notizie per l’umanità, che hanno rivoluzionato la scienza moderna e soprattutto continuano a salvare milioni di vite. Lo ricorda in questi giorni un rapporto dell’Unicef insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità e ad altri enti internazionali indipendenti, focalizzato sul morbillo negli ultimi quindici anni.
La realtà secca è che le vaccinazioni per tale patologia infettiva hanno salvato dal 2000 circa 20 milioni di bambini, riducendo del 79% la mortalità. E tuttavia la battaglia non è vinta, tant’è che ogni giorno ben 400 bambini ancora muoiono di morbillo (stima sull’anno scorso).
“Eradicarlo definitivamente non è una missione impossibile, perché abbiamo gli strumenti ed è una malattia facile ed economica da prevenire – incalza Robin Nandy, responsabile immunizzazioni dell’Unicef – ma manca la volontà politica di raggiungere ogni bambino, indipendentemente da dove viva”. E sono addirittura 20 milioni i bimbi nel mondo che non hanno ricevuto le vaccinazioni nel 2015, specie in Asia e in Africa, proprio nell’anno in cui il continente americano è stato dichiarato “libero” dalla malattia.
E il problema non affranca l’Europa. Ampi focolai sono stati rilevati in Germania, perfino tra gli anziani. L’Italia non sta messa meglio, anzi le tendenze degli ultimi mesi segnalano un preoccupante aumento: 584 i casi segnalati solo nello scorso settembre e, da un approfondimento della Regione Veneto, emerge chiaramente il nesso col calo delle vaccinazioni. Alcuni genitori non le fanno fare ai figli.
Il tema coinvolge altre malattie, incluse quelle scomparse da tempo dal nostro paese. Nei giorni scorsi l’Istituto Superiore di Sanità ha rivelato un primo caso di difterite. “Bisogna anche attendersi, purtroppo, anche il ritorno della poliomelite”, avverte il presidente Walter Ricciardi. Puntando il dito, di nuovo sulla diminuzione delle immunizzazioni. Le conquiste della medicina non sono scontate. E sono a portata di mano, come dimostrano quei venti milioni di piccoli tratti in salvo.
Viene spesso chiamata “male oscuro”, ma è una locuzione che nasconde qualche insidia, a iniziare dalla sottovalutazione. La depressione non è un generico malessere, ma una patologia che tende alla cronicità, affligge milioni di italiani (circa 15% della popolazione prima o poi vi incorrerebbe) e si traduce nella sensazione di assoluta incapacità a trovare risorse per affrontare una vita relazionale e lavorativa normale.
Problema non solo psicologico, ma fisico, perché quella debolezza è reale, e può esporre il paziente a sbalzi di peso, dolore, nonché a rischi di contrarre altre malattie per l'abbassarsi delle difese immunitarie. Tema anche farmacologico, dunque, ma anzitutto di prevenzione, tanto che la Società Italiana di Psichiatria ha presentato nei giorni scorsi in un convegno a Milano un vero e proprio “decalogo”. Dedicato ai pazienti, ma anche, ed espressamente, a familiari e medici.
A questi ultimi viene primariamente raccomandato di accorciare i tempi della diagnosi, oggi mediamente stimata a due anni, che si aggiungono agli altrettanti che intercorrono prima che il paziente si fosse rivolto al medico. Serve un salto in avanti nella formazione, che coinvolga non solo gli specialisti ma anche, e soprattutto, gli altri operatori sanitari, inclusi i medici di medicina generale e i pediatri, per potenziarne le capacità di cura, e anche di informazione ai pazienti.
E a loro (e, con essi, amici e familiari) viene consigliato anzitutto di prestare attenzione ai “campanelli d’allarme”, dalla perdita di interesse o di piacere per le cose quotidiane (inclusa la vita di relazione) agli aspetti cognitivi, quali il calo di concentrazione o l’incapacità di prendere decisioni. Poi ci sono le raccomandazioni comportamentali, fondamentali in sede di prevenzione quanto di terapia, quali un’alimentazione sana, stretti limiti al consumo di alcol, fumo e altre droghe, la cura del sonno, stili di vita sani a partire da una buona dose di attività fisica. Non ultimo, seguire bene le cure, “aderendo” alle modalità suggerite dal medico, senza decisioni solitarie di interruzione.
E qui c’è la chiave forse più importante di tutte. Quella della solitudine. Guai a chiudersi, rinunciando a confrontarsi con i cari sui propri problemi, oltreché con gli specialisti. Il messaggio va recepito e interiorizzato per bene: nessuno esce dalla depressione da solo. Tutt’al più ci entra.
“Problemi al cuore in famiglia, genitori, zii, nonni?” Lo chiedono sempre i medici, per fotografare il passato del paziente e i suoi connessi rischi sanitari, a iniziare dal rischio numero uno, quello relativo ai problemi cardiovascolari. Il quesito è fondato, perché è accertata l’influenza della genetica sull’esposizione ad alcune patologie. Tuttavia, circa il quesito se conti “più la genetica o gli stili di vita”, arriva da una ricerca americana una risposta che fa “vincere” i secondi. E con un secco 4 a 0.
Lo si legge sul New England Journal of Medicine, grazie a un maxi-studio presentato dagli scienziati del Massachusetts General Hospital al Congresso dell’American Heart Association, tenutosi nei giorni scorsi a New Orleans. Hanno riesaminato i dati, insieme genetici e clinici, di oltre 55mila partecipanti, al fine di verificare appunto se una “vita sana” possa ridurre l’esposizione ad attacchi al cuore anche in persone geneticamente predisposte (considerando una cinquantina di varianti ereditarie ritenute associate all’alto rischio).
Sono stati quindi valutati gli effetti di quattro fattori indicativi di stili di vita corretti: non fumare, non essere obesi, esercizio fisico almeno una volta alla settimana, e una dieta sana. La loro qualità è stata ritenuta globalmente “favorevole” se almeno tre di tali variabili venivano rispettate dal singolo. Ebbene, è emerso che, per chi le seguiva, il rischio di attacchi cardiaci risultava addirittura dimezzato, perfino tra le persone a più alto rischio genetico. Insomma, nelle parole di Sekar Kathieresan, genetista e direttore del centro di ricerca del Massachussets, “il Dna non è un destino”.
E quindi non è una condanna. Il concetto, con tutto quel che rivela circa l’importanza della prevenzione, è stato ribadito la scorsa settimana anche in Italia, e nell’ambito di un Festival. Si chiama “Life Break”, e si è tenuto per la seconda volta a Bari, con una catena di conferenze, documentari, dibattiti scientifici pubblici, cene, documentari e presentazioni di prodotti e diete sane. Dedicato stavolta alla chef Isa Cipriani, organizzatrice del Festival, venuta a mancare poche settimane fa.
Tra un evento e l’altro, su alimentazione, tecniche di meditazione, percorsi integrati di prevenzione, approfondimenti sul ruolo e le modalità delle attività motorie, emerge chiaramente un “filo rosso”: la ricerca della qualità nei nostri stili di vita non è un “fenomeno di tendenza”, ma una vitale necessità. Ce lo chiede anzitutto il cuore.
Il primo problema delle “malattie rare” è che dovremmo smetterla di chiamarle in tal modo. Le patologie così chiamate sono migliaia, e le persone affette solo in Italia sono centinaia di migliaia, se non milioni. Il fatto è che tra diagnosi non ancora accertate e limiti di copertura del Servizio Sanitario Nazionale, la “rarità” si concreta talora nel difetto di assistenza. Qualcosa però si sta muovendo, e il 2016 potrebbe essere l’anno di una benefica svolta.
Secondo la rete Orphanet Italia, sarebbero addirittura due milioni le persone affette nel nostro paese, e il 70% in età pediatrica. E la maggioranza non sono adeguatamente seguite. L’ultimo elenco stilato dall’Istituto Superiore della Sanità include 583 patologie esenti-ticket, ma sarebbero meno di un decimo di quelle esistenti, stimate per giunta in considerevole aumento negli ultimi anni.
Un passo è stato raccontato proprio su queste pagine sei mesi fa, nell’abbraccio tra Assogenerici e la Fondazione Hopen, che riunisce medici, docenti universitari, imprenditori e altri cittadini accomunati da esperienze a contatto con “ l’incubo dell’isolamento, dell’abbandono, del non sapere che cosa c’è che non va”, e quindi in prima linea nel sostegno alle famiglie alla sensibilizzazione e alla formazione degli operatori pubblici. Di qui il gesto dell’associazione dei farmaci generici di ospitare la Fondazione, nell’ottica del “circolo virtuoso che va dalla ricerca fino alla genericazione”, nelle parole del presidente Häusermann.
L’auspicato passo ulteriore ora si è concretato, con la costruzione di una rete inter-ospedaliera, chiamata “Simi-Imagine”, promossa dalla Società Italiana di Medicina Interna, a Congresso nei giorni scorsi a Roma. Per potenziare le possibilità di diagnosi e cura, migliorando lo scambio di informazioni coi pazienti e tra addetti ai lavoro, anche perché tali patologie richiedono un approccio unitario e, al contempo, multidisciplinare. Alla “ Doctor House”, nella sintesi fornita dai media.
“Evitare il ritardo diagnostico di mesi o anni”, l’obiettivo primario fissato dal network, che perciò mira a stabilire finalmente una collaborazione istituzionale tra gli addetti ai lavori, anche per potenziare la gestione delle patologie. “ Sono spesso croniche e fortemente invalidanti, richiedono specifiche esigenze assistenziali”, ricorda il presidente del Simi Franco Particone. Una formale presa d’atto che suona come un cambio di rotta per le milioni di anime che lo attendono.
I più feroci nemici degli alimenti di qualsiasi origine animale dissentiranno. E qui non ci “schieriamo” affatto, ma dopo aver segnalato più volte i potenziali proteici e gli effetti di prevenzione di una dieta vegetariana, non omettiamo di segnalare l’esito di un’estesa ricerca scientifica che rilancia i benefici di un nutrimento semplice, poco costoso e altamente nutritivo: l’uovo. Consumato con moderazione, esso emerge come un prezioso alleato, dinanzi perfino ad alcune malattie cardiovascolari.
La fonte è uno studio americano, pubblicato sul Journal of the American College of Nutrition, fondato su una revisione sistematica della letteratura scientifica prodotta in materia dal 1982 al 2015, coinvolgendo nell’insieme centinaia di migliaia di pazienti.
Il risultato è che un uovo al giorno, anziché recare danni, porterebbe alla riduzione dell’incidenza dell’ictus addirittura dell’12%, senza al contempo gravare sulla salute delle coronarie, che rappresenta solitamente la prima delle controindicazioni suggerite. Oltre a tale frequenza di consumo i conti non tornano, ma entro tale limite i dati sono quelli.
Si tratta di una rivalutazione destinata a far rumore, e sembra muoversi in linea con le ultime “Linee guida dietetiche” del governo americano, che a sorpresa tra l’altro omettono una variabile ritenuta di rilievo, il colesterolo, su cui sono in effetti emersi recentemente segnali ambivalenti dalla ricerca. Beninteso, gli americani non sono certo il faro della civiltà in materia di alimentazione, ma le “Guidelines” sono scritte da scienziati, che infatti non omettono comunque di porre paletti ben precisi sul consumo di grassi.
Quell’omissione “sdogana” però l’uovo. Senza esagerare, naturalmente. Ma uno al giorno (non di più, e senza aggiunte di pancetta e altri fritti) sembra far bene, e parecchio, per il suo contributo proteico, così come il pollame, i legumi, le noci e i derivati della soia. “ Le uova sono un alimento ricco di sostanze nutritive e a basso costo”, dicono i ricercatori, elencando, a fianco delle proteine, i suoi attributi di vitamine, minerali e antiossidanti. E allora buon appetito. Con una nota a margine: i vegetariani rifiutano la carne, e per motivi molto sensati, ma (a differenza dei più radicali vegani) qualche frittata non la disdegnano affatto.
"Andate avanti, perché il mondo ha bisogno di scienza e ragione". Il portale della Fondazione Umberto Veronesi lo ricorda così, guardando appunto avanti, e insieme rievocando quell’iniezione di forza che c’è dietro. Perché dietro a quella frase così semplice non ci sono solo le conquiste scientifiche e le migliaia di persone salvate da un gigante della medicina contemporanea. C’è un universo ideale, un moto etico, una specie di giuramento di Ippocrate aggiornato ai nostri tempi di conflitti e di difficoltà economiche.
“Un visionario che ha saputo intuire nuovi orizzonti per la medicina, additando sempre l’uomo, la persona umana, come paradigma e misura di ogni progresso scientifico ”, ricorda il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann, tanto che l’oncologo milanese fu “tra i primi fautori del lungo cammino di affermazione del farmaco generico in Italia”. Nelle parole dello stesso Veronesi, sul libro che cinque anni fa raccontava il primo decennio di farmaci equivalenti in Italia, “ la sanità della nostra epoca, con la continua e tumultuosa introduzione di alte tecnologie e di farmaci dalla ricerca costosissima, rischia di essere sempre in deficit. Per questo ogni possibilità di risparmio è strategica per continuare a corrispondere a tutti le cure essenziali ”.
Umberto Veronesi avrebbe compiuto 91 anni nei prossimi giorni. Al culmine, ma già al cuore della sua ineguagliabile carriera, ha associato il suo impegno medico con mobilitazioni civiche, alimentando negli anni ’60 la costruzione dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, poi la Scuola Europea di Oncologia, e ancora l’Istituto Europeo di Oncologia – di cui è stato direttore scientifico – nonché la sua stessa Fondazione. A margine, è stato anche ministro e senatore. In tutto questo non ha mai evitato di esporsi nel dibattito pubblico anche sui temi più controversi (dal nucleare agli inceneritori, dal “non-diritto” allo sciopero dei medici all’eutanasia), aprendo dibattiti e ricevendo legittime obiezioni. Come tutti quelli che appunto si espongono, a sostegno dei proprio ideali.
Quegli ideali sono in fondo l’architrave della sua attività medica. Già negli anni ’60 concepì la “quadrantectomia”, tra lo scetticismo dei colleghi, limitando l’invasività dell’intervento di rimozione del tumore al seno rispetto alla mastectomia, ossia all’asportazione totale. Poi arrivò anche al “nipple sparing”, ossia a una tecnica di radioterapia intra-operatoria capace, già durante l’intervento, di sollevare la paziente dal successivo calvario di problemi fisici e psicologici. Dietro a tutto questo e altro c’è competenza, razionalità, ricerca, ma anche filosofia. Nella sua formula, la “ricerca del minimo intervento efficace”, rispetto al “massimo trattamento tollerabile dal paziente''.
Una rivoluzione “chirurgica” che scaturisce da una rivoluzione culturale. Quella di chi crede anzitutto nella logica “pacifista” di interventi “non-violenti”, e sa che “ la scienza ha smentito l'antico e insensato pregiudizio che vuole l'uomo aggressivo per natura. Genetisti, antropologi, biologi, psicologi, etologi e neuroscienziati hanno negato le presunte radici biologiche della violenza organizzata nell'uomo ”. In altre parole, “la violenza è quasi sempre reazione ad altra violenza e dunque è quasi sempre evitabile”. La violenza come la malattia, dunque, e la pace (con interventi tutt’al più “chirurgici”, non invasivi) come unica cura razionalmente plausibile, e se proprio succede che non lo è si va al male minore, si agisce contro il dolore. Veronesi era un medico, e quindi un uomo di pace. “Un visionario”, nel ricordo di Häusermann Lo testimoniano ogni giorno i suoi tanti colleghi in prima linea tra guerre e profughi. Il mestiere è quello. Sapere che molto si può fare, con concretezza e razionalità. E farlo.
Gli eccessi non vanno bene in gravidanza, ma questo riguarda anche i consigli. Alcuni ginecologi, specie tra i più giovani, coltivano una legittima preoccupazione quando vedono il peso delle loro pazienti crescere troppo. Il sovrappeso di certo non va bene, per la loro salute come per quella dei nascituri. C’è però un margine, legato alle esigenze fisiologiche della gestante – specie se piuttosto magra in partenza – e c’è poi qualcos’altro: vale anche e soprattutto il contrario. Le donne incinta hanno bisogno di nutrirsi, e se non lo fanno abbastanza rischiano di recare danno al bebè in arrivo.
Lo documenta uno studio multidisciplinare americano, condotto dalle Università del Texas e del Wyoming e pubblicato sul Journal of Physiology, incentrato soprattutto sulle possibili conseguenze cardiovascolari delle carenze nutritive.
E’ stato esaminato, tramite risonanza magnetica, il cuore dei babbuini, quel che imita più da vicino l’assetto umano, esaminando in particolare quelli le cui madri avevano mangiato il 30% in meno rispetto alla media. Ebbene, costoro mostravano con evidenza segni di quella ridotta funzione cardiaca che solitamente si riscontra in età avanzata. All’età di cinque anni, che corrispondono ai vent’anni degli umani, la struttura e funzione cardiaca risultavano già compromesse, con valori che oltretutto sono solitamente forieri di altre patologie come il diabete e l’ipertensione.
Di questi giorni anche la pubblicazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità circa le nuove “raccomandazioni” da seguire per le gestanti. Addirittura 49 punti, aggiornati rispetto ai consigli precedenti in risposta al numero eccessivo di tragedie nel mondo. Oltre 300mila i decessi delle donne l’anno a causa della gravidanza, oltre 5 milioni i bimbi nati morti o deceduti nel primo mese di vita.
Dall’Oms si auspica l’incremento delle visite mediche, raddoppiando il minimo ad almeno otto. E poi ci sono mille altri consigli, anche sull’alimentazione. L’indicazione di fondo è però, a ben vedere, abbastanza generica, incentrata su una dieta sana e variegata e sull’imperativo del ferro e dell’acido folico. Il resto, anche per i vertici sanitari mondiali, si riduce in una semplice frase: le donne, e le vite che portano in grembo, hanno bisogno di nutrirsi, e per bene, senza troppi paletti.
Crediti immagine: Giornata Mondiale contro il diabete
Una giornata come le altre, ma diversa per tantissimi motivi. Oggi ricorre la “Giornata Mondiale contro il diabete”, e segue una settimana densissima di iniziative ed eventi in tutta Italia, a segnalare qualcosa di bello e importante, con tanto di patrocinio di Ministeri, Coni, Croce Rossa e altri enti di rilievo. Non è il consolatorio “mal comune mezzo gaudio”, è piuttosto quel salto in avanti, oramai compiuto, nella consapevolezza collettiva sull’estensione del problema e sulle possibilità di affrontarlo. Ed è una presa di coscienza destinata a far concretamente bene a molti.
Le cifre per la verità sono impressionanti. Gli italiani affetti da diabete di tipo 2 (che si manifesta in età adulta, perlopiù dopo i 40 anni, specie – ma non solo – in persone in sovrappeso) sono stimati a tre milioni. Un altro milione ne soffrirebbe senza una diagnosi. E altri due milioni e mezzo hanno la glicemia fuori norma, il che fa impennare i rischi di ammalarsi. Morale, un italiano su dieci ha la glicemia “sballata”, tant’è che si stima che i malati saliranno a cinque milioni entro il 2030, anche per la progressiva sedentarizzazione, i difetti di alimentazione e l’avanzare dell’età media. Cause che definiscono anche l’aggettivo e l’obiettivo: una malattia “largamente evitabile”.
Diverso il caso de diabete 1, che colpisce essenzialmente i bambini, che non hanno per definizione colpe, tanto più che la contraggono a volte già alla nascita, per una reazione autoimmunitaria che distrugge le betacellule del pancreas, sede produttiva dell’insulina. Ce ne sono ufficialmente circa 250mila, ma è solo una sottostima.
Per tutti, la settimana uscente ha consacrato oltre mille eventi (conferenze, incontri, attività culturali e sportive) in mezzo migliaio di città italiane, in collaborazione con associazioni e operatori sanitari, e anche ambulatori e medici di famiglia, disponibili a consulti gratuiti e senza ricetta, nonché, grazie all’associazione Diabete Italia Onlus, l’attivazione di un test sul web per calcolare i propri livelli di rischio.
La ricorrenza annuale ha stavolta coinvolto inoltre cani e gatti, con iniziative di sensibilizzazione e incontri formativi su come comprenderne i sintomi, in collaborazione con le associazioni di categoria dei veterinari. Il problema riguarda anche loro, tanto che ne risulterebbero affetti almeno uno su cento. Per loro, così come per gli umani, il messaggio prioritario, oltre all'importanza della prevenzione (anche nei comportamenti alimentari), riguarda le possibilità crescenti di cura, ovvero di tener sotto controllo la patologia e poter condurre una vita del tutto normale. E questo riguarda anche il lavoro. Significativa ad esempio la recente apertura della Società Italiana di Diabetologia per rimuovere lo stop imposto ai piloti affetti dal diabete. Con un adeguato trattamento e monitoraggio il rischio non sussiste - documenta uno studio britannico - né per loro né per i passeggeri.
Alcuni parlano di “moda”, e a volte hanno ragione. Solo che hanno spesso ragione all’incontrario. Il tema dell’“intolleranza al glutine” è spesso affrontato dalle persone come fosse una banale “iper-sensibilità”, ma “non celiaca”, mentre invece di tratta in molti casi di celiaci veri, e come tali andrebbero seguiti da uno specialista.
L’allerta è lanciata proprio dalla Società Italiana di Gastroenterologia (Sige), ed è motivata non solo dalle difficoltà e dai confini labili di una “auto-diagnosi”, ma anche dal fatto che sembra allargarsi l’elenco delle proteine riconosciute colpevoli di quella sindrome all’intestino, foriera di gonfiori, dolori addominali e gravi problemi intestinali, specie tra le donne, con effetti che si allargano a cefalee, dolori articolari ed eczemi.
Il problema non si limita infatti al glutine, sono anche altre le sostanze indiziate. Vi sono ad esempio, gli “ati”, ossia gli inibitori dell'amilasi-tripsina, che rappresentano il 4% delle proteine del frumento e innescherebbero risposte immunologiche, e sarebbero quindi in grado di accendere l'infiammazione a livello dell'intestino, innescando così danni ai reni, alla milza e perfino al cervello. “ Ci si sta orientando a parlare non più o non solo di 'intolleranza al glutine', ma di intolleranza al grano”, spiega la professoressa Carolina Ciacci, gastroenterologa della Sige.
Insomma, l’indicazione è duplice. E’ anzitutto fondamentale dar retta ai segnali dell’organismo, effettuare le diagnosi del caso e darne seguito nelle scelte alimentari. E guai a non farlo. La celiachia, secondo le stime, colpisce almeno l'1% degli italiani (proporzione analoga su scala globale), ma sono almeno il 30% quelli “a rischio”, in quanto predisposti geneticamente, il che è una variabile decisiva della patologia.
La seconda indicazione coinvolge invece coloro che risultano negativi ai test sulle intolleranze. Anche i non celiaci possono incorrere in alcuni problemi, con vaghi disturbi all'apparato digerente o anche alla testa. Per loro, come per tutti, l'indicazione è quella di un'alimentazione equilibrata. Senza però dover ricorrere al “gluten-free”, che a quel punto, sì, diventa solo un’inutile e poco nutritiva “moda”, pur seguita addirittura da un americano su quattro.
Sembra una sciocchezza, ma è uno dei problemi più urgenti della Sanità italiana e di quelle di tutto il mondo. Si chiama “aderenza terapeutica”, ed è quella variabile che, se viene a mancare, vanifica tutto, consulti, prescrizioni, acquisti – magari costosi – e soprattutto guarigioni. Per l’efficacia, e perfino per la sicurezza terapeutica, il farmaco va usato per bene, pena azzerarne i benefici e per giunta alimentarne gli effetti collaterali e quindi perfino i costi per i pazienti. Questo riguarda tutti, ma coinvolge in particolare gli anziani, per i quali l’autorità sanitaria americana ha appena aggiornato le proprie linee guida in materia.
“Per utilizzare i farmaci in sicurezza occorre prestare attenzione in ogni età della vita e in maniera particolare dal sesto decennio in poi”, il messaggio della “Food and Drug Administration”, l’ente regolatorio degli Stati Uniti, che aggiunge: “ Con l'invecchiamento aumentano le probabilità di un ricorso, ad esempio, alle medicine complementari che possono aumentare il rischio di interazioni con i farmaci e di insorgenza di effetti avversi. Analogamente, anche i cambiamenti fisici possono influenzare il modo in cui i farmaci vengono metabolizzati dall'organismo ”.
Tradotto dal linguaggio burocratico-scientifico, le quattro indicazioni fondamentali sono queste: primo assumere il farmaco se e solo se dietro ricetta medica, e poi proseguire senza interruzioni terapeutiche anticipate se non dopo aver consultato il medico stesso, guai a fidarsi del “fai-da-te” sulla scia di un miglioramento provvisorio; secondo, tenere una specie di “registro” dei medicinali assunti, incluse le eventuali modifiche all’uso, per comprendere le eventuali interazioni avverse sulla base dell’assunzione di altri medicinali, cibi o bevande.
Terzo: essere consapevoli e vigili su possibili interazioni farmacologiche avverse quando il farmaco è assunto in concomitanza di un altro, o di altre sostanze assunte, e questo lo si fa anche solo leggendo le indicazioni e controindicazioni del medicinale stesso. Quarto, è importante “revisionare” la terapia periodicamente col medico curante. “Almeno una volta all’anno”, scrivono i decisori americani, ed è un consiglio “minimo”, dinanzi a eventuali sviluppi, cattivi utilizzi, erronei dosaggi ed effetti collaterali.
Possono sembrare consigli scontati, ma i dati ufficiali documentano quanto il problema dell’aderenza e dell’appropriatezza terapeutica rappresenti una vera e propria emergenza per molte patologie. A volte si pensa che il problema della “pillola” sia solo quello dell’acquisto. Invece, spesso e a volte drammaticamente, il nodo è anzitutto nel suo cattivo utilizzo.
Crediti immagine: Tribuna di Treviso
Si è scritto tanto sulla compianta Tina Anselmi, eppure forse non abbastanza. La “cadetta partigiana” di Castelfranco Veneto, che seppe farsi largo tra i maschi del sindacato e del suo partito (la fu Democrazia Cristiana) tanto da diventare la prima donna ministro della Repubblica Italiana, fece una cosa, tra le altre, su cui i posteri la ricorderanno ancor più di quel che si fa adesso. Correva il 1976, e Giulio Andreotti le affidò l’incarico del Lavoro, ma l’esperienza le valse soprattutto due anni dopo, quando prese l’incarico della Sanità, su cui vent’anni prima non esisteva neppure un Ministero.
Erano tempi difficili, il cuore degli “anni di piombo”, culminati nel rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma proprio in quell’anno la stessa ministra (che allora non si coniugava ancora al femminile) firmò una delle “riforme” più importanti della storia repubblicana, anzi forse la più importante di tutte, la legge 833 del 23 dicembre 1978 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.
Oggi lo diamo quasi per scontato, pur tra uno scricchiolio e l’altro, e se lo ricordano oramai solo gli anziani, ma prima di soli 38 anni fa quel Servizio non esisteva. Chiamavamo “la mutua” quel po’ di assistenza precedente, e così abbiamo continuato a chiamarla per un bel po’ anche dopo il ’78. Era infatti un sistema “mutualistico”, nel quale diversi enti assicurativi coprivano le esigenze dei rispettivi settori lavorativi. Mancava dunque l’equità, e mancava soprattutto la copertura di coloro che non rientravano in tali settori, a iniziare dai disoccupati.
Se si pensa al nostro strampalato e giovane paese traboccante di storia e di storie eterogenee, si pensa all’epica di Garibaldi, alle scuole, alla radio e alla televisione che ci hanno coinvolto in una sola lingua ma, se è vero che “la salute è la prima cosa”, siamo diventati una comunità (se lo siamo diventati) solo in quell’anno. Prima eravamo una somma di corporazioni, lì abbiamo costruito un “sistema”. Non una panacea di tutti i mali, crisi e diseguaglianze, ma un approdo sanitario a disposizione di tutti è stato comunque creato.
Quell’approdo non è roba da poco, è stato un passo epocale anche in termini di qualità. A collocare il Servizio Sanitario italiano ai vertici mondiali non è qualche politico di turno ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questione di copertura della popolazione, e perfino di efficienza della spesa, come ha documentato anche di recente l’agenzia Bloomberg. Poi ci sono i problemi, le denunce e le sacrosante lamentele dei pazienti, i ticket, le discrepanze regionali, le nuove crisi, ma quell’“efficienza” rimane accertata, ed è un indicatore anche del sacrificio di molti che operano in ambito medico e farmaceutico. Molto si può e deve fare, incluso un maggior ricorso ai farmaci equivalenti, per quel che possono contribuire a estendere efficacemente la platea dei pazienti, ma la base c’è. Quella base ha un padre, anzi una madre, e si chiamava Tina Anselmi.