Ancora prevenzione, e ancora sul cibo, e sull’imprescindibile imperativo dell’igiene. Dagli Stati Uniti arriva un aggiornamento interessante, che interviene sui nostri comportamenti quotidiani. Il tema è quello della contaminazione batterica quando ci cade qualcosa per terra. A volte si esagera negli allarmismi (dopotutto siamo in un mondo strapieno di batteri, alcuni pure “buoni”, non siamo fatti per vivere nell’ambiente asettico di un ospedale), ma in questo caso, anziché abbassare il tiro, lo si alza.
La ricerca è della Rutgers University, nello Stato orientale del New Jersey, ed è pubblicata su Applied and Environmental Microbiology, la rivista dell’omonima società scientifica americana. Tra i suoi esiti, c’è quello di smentire “la regola dei cinque secondi ”, secondo la quale, al di sotto di tale lasso, i batteri non avrebbero il tempo per contaminare il cibo caduto.
“E’ un luogo comune, benché molto diffuso, basato su una semplificazione di ciò che accade nella realtà – spiega il professor Donald Schaffner, coordinatore dello studio - ma ora sappiamo che i batteri possono contaminare istantaneamente”. E in qualche caso, il trasferimento, per la verità, può anche essere più lento.
Tecnicamente, è stato esaminato un batterio foriero della salmonella, l’enterobacter aerogenes, con sperimentazioni condotte su diverse superfici – l’acciaio inossidabile, le piastrelle di ceramica, il legno e la moquette – altrettanti alimenti – il cocomero, il pane, il pane e burro e le caramelle gommose – e tempi di contatto – meno di un secondo, 5, 30 e 300 secondi – per un totale di 128 differenti scenari.
Dalle rilevazioni è emerso che il cibo in cui il trasferimento è più rapido è il cocomero, tra le superfici il primato è condiviso da piastrelle e acciaio. Nell’interpretazione degli studiosi, la chiave è quella dell’umidità. “I batteri non hanno gambe, si muovono con l’umidità: più ce n’è maggiore è il rischio di trasferimento, agevolato inoltre da superfici lisce ”, con punte di velocità istantanea, sotto il secondo. Non c’è quindi una “regola” fissa, se non quella del buon senso, nutrito ora di qualche conoscenza scientifica in più.
Col ritorno a scuola si rinnova il rito dei consigli “cibo-sanitari” a studenti e famiglie, richiesti o non richiesti. Questi sono per la verità soprattutto una tradizione dei paesi nordici, per la banale ragione che lassù emerge solitamente qualche problema alimentare in più rispetto alla celebrata dieta mediterranea. Nondimeno, alcuni suggerimenti sono importantissimi per il bene dei nostri figli, e le prime a riconoscerne l'importanza sono proprio le madri.
Che una corretta colazione abbia un impatto positivo sul rendimento scolastico è infatti una convinzione condivisa da 9 mamme italiane su 10, secondo un'indagine dell'Osservatorio Doxa-Aidepi realizzata in occasione dell'avvio dell'anno scolastico. Quasi tutti i bambini (il 93%) fanno colazione a casa prima di andare a scuola, e l'85% dei genitori cerca di variarne il menù, quantomeno in base alla stagione. Plaude e rilancia il nutrizionista Luca Piretta, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, ricordando una “trilogia di principi fondamentali”: una quantità nutritiva adeguata, solo cibi di stagione e, non ultimo, il rispetto dei gusti del piccolo.
I riscontri scientifici arrivano soprattutto, per l'appunto, dalle università nordiche. Un recente studio dell'Università di Cardiff – su ben cinquemila ragazzi di oltre cento scuole, tra i 9 e gli 11 anni - ha associato la qualità della colazione con i voti a scuola, che premierebbero selettivamente il doppio rispetto ai bimbi che la saltano. Un'altra, precedente, ricerca inglese, a Oxford, ha identificato la priorità nel consumo di pesci come il salmone, rilevando notevoli benefici di alti livelli di omega-3 sia sulla capacità di memoria sia quale antidoto a problemi comportamentali.
Ancora, uno studio finlandese su 161 allievi tra i 6 e gli 8 anni di età, seguiti per diversi anni, ha accertato la pertinenza delle linee guida nazionali sull'alimentazione infantile, che assegnano priorità a frutta e verdura, pesce, cereali e grassi non saturi, limitando zuccheri e carne rossa.
Le ricette possono variare, anche in funzione delle diverse esigenze fisiologiche legate alla latitudine. Ci sono però un paio di aspetti che non variano affatto. Anzitutto, perfino in Finlandia i capisaldi del cibo ritenuto salubre, a ben vedere, rimandano a quelli della dieta mediterranea. In secondo luogo, la colazione è riconosciuta ovunque come l'aspetto primario, e non solo in ordine cronologico, per restituire quotidianamente energia, forza e salute al nostro stato psico-fisico. A iniziare naturalmente dall'infanzia.
E’ colpa di tanti e di tante cose, ma un po’ è anche colpa di ognuno e ognuna di noi. Sulla salute della donna, tra fertilità e menopausa, permane ancora una catena di falsi miti, e la prima vittima è ancora una volta la donna stessa. Sul piano psicologico, culturale, ma anche su quello fisiologico e medico, perché alla disinformazione seguono anche scelte terapeutiche e preventive che vanno talora nella direzione opposta a quella richiesta dal nostro corpo.
A rilanciare l’allarme sono state nei giorni scorsi la Società italiana di ginecologia (Sigo), la Società dei ginecologi universitari (Agui), quella dei ginecologi ospedalieri (Aogoi) e la Società di fertilità e sterilità e medicina della riproduzione (Sifes), riunitesi nei giorni scorsi al convegno “ Amore e ormoni nella vita delle donne”, nella bellissima cornice romana della Casa del Cinema di Villa Borghese.
“Molte giovani credono ancora negli effetti della coca-cola come anticoncezionale – racconta il presidente della Sigo Paolo Scollo –mentre l’informazione è fondamentale per vivere una sessualità consapevole”. Di qui una serie di campagne già avviate, da “ Menopausa, meno male”, a quella rivolta alle ragazze sulla contraccezione, “Love it”. Campagne importanti, anche perché nel contesto di un paese che è ancora fanalino di coda in ambito europeo, dove alcuni Stati avanzati (e, si noti, a più alti tassi di natalità più elevati) la proporzione di utilizzo di contraccezione ormonale supera il 40%, mentre qui siamo al 16,2%, con punte inferiori del 7,2% in Campania.
Il tema è anche è anzitutto medico, si diceva, e infatti sulla rivista internazionale Annals of Oncology è emersa un’indagine milanese che documenta (sul decennio 2002-2012) come la pillola non abbia aumentato i tumori all’ovaio (una delle false credenze che persistono), ma li abbia viceversa notevolmente ridotti, tant’è che il calo negli Stati Uniti è stato del 16%, mentre in Europa (dove mediamente l’utilizzo è inferiore), solo del 10%. “ In caso di carcinoma a carico dell’ovaio, come per quello endometriale, con l’uso di contraccettivi orali il rischio si riduce fino al 50% e l’effetto protettivo degli estroprogestinici persiste per più di 20 anni dopo la sospensione e nel corso della post menopausa ”, spiega la ginecologa Franca Fruzzetti, dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa.
Prevenzione e diagnosi precoce vanno poi a braccetto, così come l’informazione passa anzitutto attraverso un’adeguata formazione degli operatori. Nelle parole del presidente dell’Agui Nicola Colacursi, si tratta di “ promuovere un diverso concetto di formazione della classe medica che permetta di coniugare sapere accademico, pratica clinica e capacità relazionali ”. Con la donna al centro, per l’appunto dalla fertilità alla menopausa.
Facile dire “basta ciarlatani”. L’emergenza dei “cattivi maestri” si nutre di periodiche cronache di persone che seguono sotterfugi privi di cura, oltre che di sostanza scientifica tra chi li perora. Ma la realtà è che la ricerca di “altre strade” è comprensibile tra i pazienti quando le terapie sembrano non esserci. E’ importante anche per questo il significato della campagna mondiale in corso sui tumori al sangue. Perché i moniti a tenersi alla larga dagli “stregoni” resta solo sullo sfondo, mentre la sostanza del messaggio è un'altra: che da quei tumori si può guarire.
La campagna, che si protrarrà per tutto il mese, si chiama Make Blood Cancer Visible (“Rendi Visibile il Tumore al Sangue”), perché si tratta in effetti di una patologia di scarsa “visibilità”, sebbene coinvolga circa il 15% delle malattie tumorali, ossia ben 28mila nuovi casi accertati ogni anno solo in Italia. Nel nostro paese ha l’appoggio della Società Italiana di Ematologia (Sie) e della Federazione Italiana Malattie Rare Uniamo-Fimr, anche perché così viene talora trattata, come patologia “rara”, con quel che consegue sui difetti di tutela, a dispetto dei grandi numeri suddetti.
Al cuore del messaggio c’è un video, che rimanda alla boxe. Perché di questo si tratta, di una battaglia, che però può esser vinta, con l’attenzione dei pazienti e soprattutto degli operatori sanitari. Le speranze ci sono, alimentate dall’incedere quotidiano della ricerca.
Di questi giorni ad esempio la scoperta, proprio italiana, di una metodica basata sulle cellule staminali. Pubblicata sulla rivista Journal of Clinical Oncology, è centrata sulle sindromi “mielodisplastiche”, un eterogeneo gruppo di patologie del sangue che interessano il midollo osseo, specie tra gli anziani. Basata sull’identificazione di tre geni (TP53, RUNX1 e ASXL1), rivela il potenziale di predire l’esito del trapianto nell’arco di 48 ore.
E’ solo un esempio del tanto che si muove nel campo di tumori, i quali, parola del presidente del Sie Fabrizio Pane, “sono oggi più curabili grazie anche alle nuove conoscenze sulle alterazioni molecolari che sono presenti a livello genomico e che consentono di definire specifiche sottocategorie di malati, e grazie alla farmacogenomica che ha aiutato a definire la cura più adatta alla natura del tumore – con la conseguenza – di aprire la strada verso trattamenti 'cuciti su misura' per ogni paziente”. La prima arma comunque resta ancora la stessa – ricorda Pane e l’insieme degli studiosi – ed è quella di una diagnosi tempestiva.
Non sempre accade, ma quando accade la differenza si fa sentire. I principali decisori e operatori della Sanità hanno sottoscritto un documento congiunto che dichiara guerra al fenomeno inaccettabile dell'indisponibilità dei farmaci, che costringe talora i pazienti a vane peregrinazioni tra un distributore e l'altro alla ricerca dell'agognato medicinale prescritto.
L’accordo è stato sottoscritto dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), Ministero della Salute, Farmindustria, Assogenerici, Federfarma Servizi, Associazione Distributori Automatici, nonché le Regioni Lazio e Lombardia, che da mesi hanno avviato iniziative “pilota”, con auspicabilmente il seguito di altri. “Un grande senso di responsabilità dimostrato da tutti”, sottolinea il presidente dell’Aifa Mario Melazzini. Da notare che il “tavolo” è supportato fin dall’anno scorso anche dai Carabinieri del NAS, che nel frattempo hanno già fermato e sanzionato alcuni operatori che hanno inaugurato illegalmente attività di esportazione propria, a danni del servizio e dei cittadini.
Al plauso, oltre che al tavolo e alla firma, partecipa anche Assogenerici, in prima linea in tale battaglia da tempo, tanto da aver lanciato l’allarme già a inizio anno, e anche da queste pagine. L’ultima statistica dell’Aifa riportava un campionario di circa 1200 “farmaci introvabili”, ovvero un elenco di un centinaio di pagine. Dati intollerabili, perché la fornitura di un farmaco è un “servizio pubblico”, non un’opzione che varia in funzione degli andamenti del mercato o di singoli interessi. Che si sappia, che lo sappia ogni cittadino che si trovi dinanzi ai dinieghi.
Che il testo “sia stato siglato da tutte le componenti del comparto nella sede dell’AIFA rappresenta la migliore garanzia offerta ai cittadini dal Servizio Sanitario Nazionale”, sottolinea il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, notando come le recenti misure già attuate, sul piano dell’attenzione degli operatori ma anche dei controlli, hanno finalmente condotto a un’inversione di tendenza, ossia “ all'evidente riduzione del fenomeno dei farmaci indisponibili testimoniato anche da Federfarma”. Una nuova tendenza alla quale contribuisce in modo rilevante l’ambito dei medicinali equivalenti, anche perché il tema della disponibilità non è scindibile da quello dell’accessibilità dei costi per i cittadini, al di là del “brand”.
L’intesa prevede inoltre, sulla scia dei progetti avviati in queste regioni, un monitoraggio sistematico delle indisponibilità, tale da rafforzare le attività di controllo. Una garanzia per i pazienti, così come per gli operatori (italiani in primis) che agiscono nella trasparenza. Sicurezza terapeutica, tutela del paziente, prezzo, lotta al pericoloso fenomeno della contraffazione, su cui – ricorda ancora Assogenerici - giace anche una direttiva europea. Perché in un quadro di etica, legalità e corretta informazione, l’assenza dei farmaci dagli scaffali non ha più ragion d’essere.
Che l’inquinamento faccia malissimo, a tutto, dai polmoni alla circolazione, dai rischi tumorali a, perfino, l’attività cerebrale, non è certo una novità, per la scienza quanto per le nostre stesse percezioni personali. Lo è peraltro un aspetto ulteriore, che aggrava i sacrosanti allarmi. Si tratta della scoperta che i danni al cervello non sono solo induzioni indirette, innescate dal respiro e dall’insieme dell’attività fisiologica danneggiata: si concretano perché le sostanze nocive vi arrivano concretamente.
La ricerca è stata condotta dagli scienziati di Lancaster, nel remoto nord-ovest dell’Inghilterra, gli esiti sono pubblicati sulla rivista statunitense “Pnas” (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America). Ed è internazionale anche il contenuto dello studio.
E’ stati infatti esaminato il tessuto cerebrale di 37 persone, 8 delle quali provenivano dalla città inglese (industriale) di Manchester, le altre da uno dei posti più affollati e inquinati al mondo, Città del Messico. Nel dettaglio, i primi avevano tra i 62 e i 93 anni, i secondi dai 3 e gli 85. E molti di loro erano deceduti a causa di malattie neurodegenerative. L’aspetto cruciale è che tutti contenevano grandi quantità di nano-particelle di ossidi di ferro nel cervello, e in misura inferiore sono emerse anche tracce di altri metalli, risalenti soprattutto alle marmitte catalitiche.
Sono dati impressionanti, e si tratterebbe della loro prima identificazione nel cervello. L’indagine fa seguito a un’altra, condotta localmente dagli stessi scienziati, che avevano scovato le particelle inquinanti nei capelli, nonché al seguito di ricerche compiute sulle patologie cerebrali rilevate in Messico, tra animali e persone giovanissime. “ Quando si fa un’estrazione magnetica si trovano milioni di particelle in un singolo grammo di tessuto – spiega la coordinatrice dello studio Barbara Mahler - e potrebbero favorire l’insorgenza di patologie come l'Alzheimer”. Entrano nei neuroni, e nel meccanismo di loro comunicazione, chiamato “sinapsi”.
Sono danni gravi, sui quali vi è dunque un crescente riscontro scientifico. “ Le polveri sottili provocano e accelerano i processi aterosclerotici ed arteriosclerotici”, segnala in questi giorni anche la Società Italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi. Con conseguenze perfino “sul cervello, che invecchia più velocemente”.
Si chiama editing genetico, si fonda su scoperte degli ultimi decenni che evocano un notevole potenziale in ambito medico, che però attende ancora sostanziosi riscontri. Una novità arriva ora dalla Cina, e viene giudicata promettente anche dagli scienziati europei. Riguarda la possibilità di aggredire i tumori agendo sul Dna.
La tecnica si chiama “Crispr”, abbreviazione inglese traducibile in “Brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolari”, e sintetizzabile per i non addetti ai lavori in una procedura di “ taglia-incolla” genetico. Ora, i ricercatori dell'Università di Shenzhen riferiscono, con una pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature Methods, di aver sperimentato con tale metodica l’arresto della progressione dei tumori, facendoli per giunta rimpicciolire. Il test, portato su topolini, è stato duplice, modificando da un lato la struttura molecolare della Crispr in modo da attivare due geni oncosoppressori, nell'altro caso si è riprogrammata l'intera struttura cellulare per potenziarne l'insieme dei suoi meccanismi difensivi.
Da tali esiti incoraggianti gli stessi scienziati annunciano quindi che saranno i primi a testare la tecnica sulle persone malate di cancro. “ 'E' ancora presto per parlare di applicazioni sull'uomo”, commenta il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell'Università romana di Tor Vergata, notando peraltro che è “significativo che il nuovo traguardo sia stato tagliato da ricercatori cinesi”, avendo investito parecchio nel settore delle biotecnologie.
In ogni caso le speranze degli studiosi continentali sono molte. “ L'aspetto davvero interessante è l'aver utilizzato un sistema che risponde a segnali creati dalle stesse cellule tumorali nella loro crescita ”, spiega il biologo molecolare Andrew Sharrocks, dell'Università di Manchester. E lo stesso Novelli conviene: “ Questo metodo per la prima volta ci permette di controllare un complesso meccanismo metabolico a cascata, come quello del tumore, agendo su più livelli e su più geni contemporaneamente ”. In due parole, si tratta di “potenzialità straordinarie”.
Qualcuno in Italia l’ha già ribattezzata spiritosamente così. La “pigrizia” però stavolta non c’entra, mentre la “rivoluzione” sì. Stiamo andando fuori strada. Siamo in un contesto critico nel quale c’è il dramma della disoccupazione, al quale peraltro se ne affianca un altro: chi lavora, è costretto a farlo troppo.
Quando lo scrivemmo già nelle settimane scorse in un pezzo “ferragostano”, l’intento non era quello di un sereno incoraggiamento a godersi le vacanze. C’era della ricerca medica dietro, in particolare dalle Università di Bologna e Trento, che lanciavano l’allarme sulle conseguenze sanitarie dell’eccesso di carico lavorativo, il cosiddetto “workalcholism”. Adesso quell’allarme si amplifica in un’indagine dell’Università di Oxford, che fornisce indicazioni ancor più “restrittive” sui tempi e orari di lavoro. Nell’orizzonte della tutela della salute, ma anche di quella controversa variabile economica che è la “produttività”.
Nel mirino dei ricercatori britannici c’è infatti perfino il “normale orario d’ufficio”, quello dalle 9 alle 17, per molti in realtà comunque un miraggio, dovendosi dimenare su tempi ben più estesi, strampalati e irregolari. Ebbene, neppure i primi vanno bene. Sarebbe dannoso per il nostro “ orologio fisiologico” iniziare a lavorare prima delle 10. Le conseguenze sarebbero l’aumento di peso, il calo delle difese immunitarie, la perdita di attenzione e di memoria, nonché un peggioramento della qualità del sonno, definito dagli studiosi un’autentica “tortura”.
E tutto questo non riguarda solo il lavoro, ma anche la scuola. Se per i bambini dell’età delle elementari cominciare alle 8.30 può starci, il cambiamento cardiaco che si innesta con la crescita sposta alle 10 il limite inferiore tra gli adolescenti, e per le universitari addirittura alle 11. Non si tratta di dati gettati a caso, sono l’effetto di alcune sperimentazioni scolastiche, per giunta in collaborazione con l’American Academy of Pediatrics.
C’è qualche paese europeo che va in quella direzione, ossia verso una riduzione dell’orario di lavoro, ma il mondo, specie in un tempo di crisi, generalmente va altrove, e presenta quella direzione come un’ineluttabile “necessità del sistema”. A detta degli scienziati, stiamo sbagliando di grosso. Quel che noi chiamiamo “rivoluzione pigra”, gli inglesi lo definiscono “emergenza sociale”. Che chiama naturalmente in causa non solo le autorità sanitarie, ma l’insieme dei decisori.
I cardiologi sono generalmente bravi e tempestivi nel rispondere agli infarti dei pazienti, ma, come già segnalato in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ancora molto rimane da fare dopo, quando si viene sovente dimessi con un cuore ancora malato. L'appello è stato rilanciato nei giorni scorsi da un convegno scientifico organizzato dall'Università di Brescia, “Heart Failure - Drug development at the crossroad”.
Il consesso ha ribadito la posizione italiana di “capitale” continentale del settore, sulla scia del recente Congresso romano della Società Europea di Cardiologia, preludio a quello della sezione nazionale che si terrà a dicembre, sempre nella capitale (proprio in questi è in scadenza la presentazione degli “asbstacts” per la Conferenza). Un primato che si ribadisce nell'efficacia crescente di molti degli interventi di emergenza nel nostro paese, grazie a buoni livelli di tempestività, chirurgie di precisione e farmaci salvavita adeguati.
Ma c'è un dato che viceversa non migliora, ed è quello della mortalità nei primi sessanta giorni dopo le dimissioni dall'ospedale al seguito di un infarto. Era ed è, dieci anni fa come oggi, mediamente del 4%, proporzione che sale al 10% per i pazienti ritenuti ad alto rischio.
Il nodo critico è soprattutto nell'“insufficienza cardiaca”, in cui il cuore non riesce a pompare abbastanza sangue per le esigenze dell'organismo. Oltre i 65 anni è la prima causa di ricovero in Italia, dove ne soffrono 600mila persone all'anno, con una frequenza che raddoppia all'avanzare di ogni decade d'età, arrivando al 10% tra gli ultrasessantacinquenni. Ebbene, i rischi tendono ad aumentare al seguito di un infarto.
Per prevenirli, è anche la scienza a dover compiere dei passi dinanzi alla varietà e complessità dei disturbi cardiaci, spiega la cardiologa Savina Nodari, presidente del Congresso bresciano: “ Abbiamo farmaci capaci di correggere meccanismi come l’attivazione dei sistema simpatico e del sistema renina-angiotensina, ma – aggiunge - non abbiamo terapie mirate sui meccanismi alla base ”. Servono insomma sperimentazioni e terapie meno generalistiche e più “personalizzate ”. E serve forse anche un'attenzione supplementare di tutti alla cautela post-operatoria. In assenza, l'effetto è quello di “nuovi ricoveri, una condizione di salute in costante peggioramento e per molti di essi la morte per arresto cardiaco”. In ciò non c'è alcuna “efficienza” sanitaria, oltre che alcuna cura.
Le “cronache sulla salute”, si alimentano di periodici allarmi epidemici, o addirittura pandemici, tra il recente Zika, l’oramai “vecchio” (ma tuttora in agguato) Hiv, e altri, a ritmi quasi stagionali. Il problema sanitario però sta perlopiù altrove, specie in paesi avanzati. Sono le cosiddette “malattie non trasmissibili”, innescate spesso e volentieri da cattive abitudini, quali il fumo, l’alcol e la sedentarietà. Su di esse è perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) a lanciare l’allarme. E lo lancia proprio per l’Europa.
Oggi, 12 settembre, all’occasione dell’avvio della sua conferenza continentale a Copenaghen, l’Oms presenta un vero e proprio “Piano d’Azione”. Il dato di base è che alcuni buoni risultati mettono in ombra l’enormità del potenziale delle politiche (scarsamente attuate) di prevenzione apparentemente “minori”, che sarebbero di decisivo impatto per il nostro avvenire. “ Le persone che moriranno nella mezza età nel 2030 per cause prevenibili sono i giovani adulti di oggi”, ricorda la direttrice regionale per l'Europa, la dottoressa Zsuzsanna Jakab.
I casi dell’alcol e del tabacco sono emblematici. A livello complessivo la “tendenza va nella giusta direzione”, nota il “Piano”, ma diversi dati regionali risultano “insoddisfacenti”. L’alcol è ad esempio “ la prima causa patologica nell’Europa orientale, con segnali preoccupanti soprattutto tra i giovani”.
Ancor più serio, e forse significativo, il dato sulle sigarette. Si fuma di più non tra i ricchi (benché, si pensa, potrebbero più facilmente buttare denari invano), ma soprattutto nei paesi poveri, e in particolare tra coloro che soffrono di problemi mentali.
Altissimo è dunque il potenziale di alcuni accorgimenti politici di semplice implementazione. Campagne di prevenzione contro fumo e alcol “targetizzate” soprattutto sui ceti deboli. Poi programmi di “riabilitazione cardiaca” (il cui ambito è la principale causa di morte in Europa) per il recupero da attacchi di cuore e ictus: si salvano molte vite con gli interventi emergenziali e chirurgici, ma la terapia post-operatoria è sottoutilizzata. E ancora, politiche fiscali per promuovere un’alimentazione che riduca i grassi saturi. La Francia si è già mossa preparando una “tassa” che bersagli i cibi preconfezionali in base alle loro calorie. A detta dell’Oms, non è affatto una cattiva idea, considerando i danni portati dal cosiddetto “junk food”.
C’è un allarme che serpeggia qua e là. E’ quello sulle “scorte” di antibiotici che sarebbero in esaurimento, e questo riguarderebbe soprattutto alcune infezioni difficili da trattare. Lo ha lanciato periodicamente qualche scienziato, ma adesso arriva una rassicurazione, più importante delle altre, perché fa leva sulla scoperta di una fonte inesauribile: il nostro corpo.
E’ la popolare rivista Science a divulgare la scoperta scientifica. E la novità, spiegano, è che la salvezza “sta sotto il nostro naso, anzi, dentro”. E’ stato individuato cioè un batterio “buono” che dimora nelle narici. Lo hanno rinvenuto i ricercatori tedeschi dell’Università di Tubinga.
E’ stato battezzato Lugdunin, e rappresenta il primo esempio di una nuova classe di antibiotici peptidici. In un’epoca nella quale il principale “spauracchio” medico sembra oggi essere quello dei “super-batteri” capaci di resistere ai più potenti antibiotici, la scoperta sembra avere il significato di un cambio di rotta, medico e forse anche un po’ “filosofico”, quello secondo cui la resistenza può costruirsi a partire dalle nostre stesse difese.
Tecnicamente, dalla ricerca in Germania risulta che i nostri “batteri nasali” hanno una potente attività anti-microbiotica, anche verso il cosiddetto “stafilococco aureo” (S.aureus), un resistente batterio foriero di infezioni nella pelle, nell’apparato scheletrico, respiratorio, urinario, e perfino nel sistema nervoso centrale. Su 187 pazienti ricoverati ed esaminati tramite tampone nasale, è emerso che la colonizzazione di tale stafilococco era di quasi il 35% nei soggetti privi del “batterio buono”, mentre negli altri la proporzione crollava sotto il 6%.
Il dato è eclatante, specie nel contesto in cui si cercano assiduamente le fonti organiche degli antibiotici ovunque, dal sottosuolo ai fondali marini, e le si cercano con urgenza, dati gli ultimi allarmi circa l’accresciuta resistenza batterica all’antibiotico. Lo studio tedesco ci dice invece che dobbiamo smetterla di cercare chissà dove, il punto di partenza lo possiamo trovare semplicemente guardandoci allo specchio.
Non è roba da slogan o simili. Arriva, di nuovo, dal Congresso della Società Europea di Cardiologia svoltosi nei giorni scorsi a Roma. E' da qui che sono emerse verità sorprendenti sul cuore del centenari. Che, chissà forse anche per averne viste e superare tante, sta meglio di quello di persone più giovani.
Da un'ecocardiografia effettuata dall'ospedale San Giuseppe di Milano, comparando tra il 2010 e il 2015 un gruppo di 120 ultracentenari con un altro di pari numero tra i 75 e gli 85 anni, sono spuntati dati ben più salubri per i primi: inferiore prevalenza di diabete (19,1% contro il 41,7%), di fibrillazione atriale (19,1% contro il 37,5%) e di malattie coronariche (29,1% rispetto al 56,7%). Inoltre, “ i più anziani mostrano un minor diametro del ventricolo sinistro con un relativamente più alto spessore della parete muscolare e un minor volume dell'atrio sinistro ”, spiegano gli studiosi.
Il problema, si dirà, è che non è mica facile arrivarci, ai cent'anni. Attenzione, però, perché i centenari sono invece in rapido aumento: oggi in Italia sono oltre 16mila, il doppio rispetto a solo dieci anni fa. Di più, “nuovi studi prevedono che chi nasce oggi vivrà sino a 100 anni”, nota il direttore di Cardiologia dell'Ospedale di Arezzo Leonardo Bolognese, citando in particolare una recente ricerca danese.
Il fenomeno è in aumento grazie al miglioramento delle cure e dell'alimentazione, specie nell'ambito della dieta mediterranea, benché l'allungamento della speranza di vita sia riscontrato anche su scala globale. Numeri peraltro da confermare e consolidare tramite un'adeguata assistenza sanitaria, considerando che i dati sulla mortalità nel 2015 hanno segnalato a sorpresa un aumento della mortalità, per la prima volta nel dopoguerra.
E un posto centrale nell'assistenza va occupato dalla prevenzione. Una ricerca britannica, pubblicata sul Journal of the American College of Cardiology, ha documentato “l'ereditarietà” dei rischi cardiovascolari. Le nostre probabilità di sopravvivenza aumentano del 17% per ogni decade che almeno uno dei nostri genitori vive oltre i 70 anni. Sapere di tali rischi significa poterli prevenire meglio.
E' presto per cantare vittoria, ma la novità annunciata dall'Università americana del Niagara sembra avere il potenziale di migliorare la qualità della vita per milioni di pazienti diabetici. Ogni giorno sono costretti all'appuntamento fisso con l'iniezione di insulina, ma se la novità troverà ulteriore conferma sperimentale, quel fastidioso gesto potrebbe relegarsi al passato.
La ricerca è stata illustrata nei giorni scorsi al 252esimo Congresso nazionale dell'American Chemical Society di Washington, che con i suoi 157mila associati è il più esteso raggruppamento chimico-scientifico al mondo, depositario inoltre di una quantità notevole di raccolte dati e riviste accademiche. Ed è qui che è stata presentata una specie di “pillola” che potrebbe sostituire la puntura.
Non è la prima volta che si prova a superare il principale dei problemi, che è lo stomaco, il cui ambiente ostile e acido fa generalmente degradare la pillola impedendole di raggiungere l'intestino e quindi la destinazione finale, ossia il sangue, al fine di gestire correttamente i livelli di zucchero. Un tentativo, di scarso esito, è stato allora fatto con l'insulina “inalabile”. Un altro, in corso di sperimentazione, prevede l'impacchettamento in un rivestimento polimerico.
La novità perorata dai ricercatori è invece quella di un involucro “naturale” e ancor più resistente. Si tratta di una particella neutra a base lipidica, battezzata “Cholestosome”. Essa sarebbe sufficiente a trasportare il farmaco senza altro rivestimento, una sorta di “mattoncino di grasso” a forma sferica e di piccolissima dimensione. In base a simulazioni al computer e ai primi test sui topolini, sarebbe dunque capace di superare la strenua resistenza dello stomaco, facendosi invece “riconoscere” dall'intestino, che quindi le assorbe nel flusso sanguigno rilasciando l'insulina.
Serviranno ulteriori sperimentazioni, animali e umane. Ma qualora dessero esito positivo, si spalancherebbe una metodica assai meno invasiva dell'iniezione, con rilevante sollievo per i pazienti. Per giunta uno strumento del tutto naturale, e ad alta biodisponibilità.
Che la sedentarietà sia un problema per la salute è un fatto abbastanza noto. Su “quanto” faccia male e “quanto” ne siamo coinvolti noi italiani, di ogni età, stanno convergendo una serie di ricerche scientifiche che alzano il livello d’allarme e ci chiamano alla responsabilità. Anzitutto verso noi stessi.
Il “centro di gravità” dove sono spuntate le ultime novità è stato il Congresso della Società Europea di Cardiologia tenutosi nei giorni scorsi alla Fiera di Roma. Con un evento d’eccezione, la visita di Papa Francesco, prima apparizione per un pontefice a un consesso medico. “ Quanta simbologia si nasconde in questa parola, cuore, e quante attese vengono riposte in quest’organo umano”, ha notato Bergoglio, assicurando l’appoggio, non solo morale, della Chiesa odierna alla scienza medica.
A margine dell’epocale visita, sono arrivati i preoccupanti numeri. Solo un italiano su tre, da un campione di adulti tra i 18 e i 69 anni, è “ realmente attivo”, svolgendo attività motorie in maniera costante. Un altro terzo risulta “completamente sedentario”. Troppo davvero, tanto più che il problema riguarda anche i bambini. Un quarto di loro non svolge alcuna attività motoria, e due bimbi su tre camminano non più di mezz’ora al giorno
Le conseguenze sono anch’esse evidenti quanto drammatiche. Da uno studio compiuto su quasi 40mila persone seguite per oltre 28 anni, è emerso un rischio di mortalità cardiovascolare ridotto, per gli “attivi”, addirittura del 23% rispetto agli “inattivi”. Cifre rilevanti, che hanno permesso di elaborare perfino un “algoritmo”, il Personal Activity Index (Pai), capace di quantificare i rischi connessi ai comportamenti motori personali. Non è un mero esercizio matematico. E’ un tentativo di risposta a quella che rappresenta una e vera e propria piaga: si stima che la “sindrome del divano killer ” uccida ogni anno cinque milioni di persone nei paesi occidentali, tanto da risultarne la quarta causa di mortalità e disabilità.
Fin qui i dati; poi c’è il nodo della cura e dei suoi costi, al centro delle preoccupazioni di chi si occupa di farmaci generici. E dello stesso Papa, che ha invocato “ uno sguardo di particolare intensità ai più poveri, ai più disagiati ed emarginati perché anche a loro giunga la vostra cura, come anche l’assistenza e l’attenzione delle strutture sanitarie pubbliche e private ”. D’accordo il presidente di Esc Fausto Pinto, che rilancia le cifre: “ In Europa 1,4 milioni di persone di età inferiore ai 75 muore prematuramente ogni anno a causa di infarti e ictus perché, in molti casi, non hanno ricevuto un aiuto sanitario tempestivo ed efficace ”. Una vera e propria “emergenza di salute pubblica”. In cui il problema dei costi dei medicinali è palesemente centrale.
Il giro d’Italia di Cittadinanzattiva in favore dei farmaci generici riparte, con uno slancio d’impegno che porterà la principale rete associativa italiana dei pazienti a toccare ben otto tappe nell’arco di pochi giorni. E’ una mobilitazione importante, sana, di divulgazione e sensibilizzazione, che trova il supporto delle principali sigle professionali, dai medici ai farmacisti, dai produttori ai pensionati, con il sostegno di Assogenerici e il patrocinio dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa).
Dopo aver già attraversato il centrosud, la campagna “IoEquivalgo” toccherà Vicenza domenica prossima, appuntamento dalle 10 alle 18 al “villaggio” allestito in piazza Matteotti, pronto all’assistenza e all’informazione. Poi si riscenderà verso il centro, il 15 settembre a Senigallia, il 17 a Perugia, per continuare l’altalena a Campobasso, Crotone, Palermo, Udine, Chieti, e chiudere infine a Taranto il prossimo 14 ottobre.
Uno sforzo dunque notevole, che fa leva sulle fatiche anche locali delle associazioni, dei volontari e dei rappresentanti delle varie categorie degli addetti ai lavori. Uniti su un concetto non più prorogabile: il ricorso ai generici è un’urgenza di salute, di risparmio, e di civiltà. Il dato inaccettabile di base è che un italiano su dieci abbandona le cure a causa dei costi, come documenta un’inchiesta della stessa Cittadinanzattiva.
“Riceviamo ogni giorno segnalazioni dai cittadini- lamenta l'Associazione- che mostrano quanto i costi privati per i farmaci stiano diventando pesanti per loro (26,6%), spingendoli in alcuni casi anche a rinunciare alle cure, come accade al 9,5% degli italiani". Questioni di costo, di cui peraltro siamo colpevoli un po’ tutti, inclusi medici e pazienti. Ogni giorno gli italiani buttano alle ortiche due milioni e mezzo di euro, come si evince dal “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici, nella differenza di prezzo pagata per scegliere il farmaco di marca al posto degli equivalenti nei soli medicinali di fascia A, rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale.
Sprechi colossali, che pertanto toccano nel vivo le associazioni dei consumatori, anche al di là dell’ambito dei pazienti. Restando “al di qua”, il dato conclamato è duplice: da un lato ci sono gli amari raffronti con gli altri paesi europei, che sprecano molto meno (l’Italia è in fondo alle classifiche sul ricorso ai generici); dall’altro c’è la verità, confermata, verificata e documentata dalla stessa Aifa: quella dell’assoluta equivalenza del generico rispetto a “qualsiasi altro medicinale, in un’ottica di conformità ai requisiti di qualità, sicurezza ed efficacia” - nelle parole del direttore generale Luca Pani. Con per giunta il potenziale di “ un’opportunità per liberare risorse economiche da investire nell’ingresso dei nuovi medicinali”. E, soprattutto, consentire a tutti di curarsi adeguatamente, il che oggi ai fatti non avviene.
Un’altra novità preziosa nella lotta ai tumori, e ancora una volta arriva dall’Italia. E ancora una volta fa leva non su fantasmagorici antidoti escogitati a tavolino, bensì prospettando cure farmacologiche che prendano atto e valorizzino i meccanismi naturali di difesa già presenti nel nostro corpo. Il tema è il melanoma, ossia il più aggressivo dei tumori alla pelle, con un potenziale letale, nonché l’attività dei nostri nei. Spesso guardati con “sospetto”, quali possibili indicatori di un problema, essi contengono altresì difese essenziali. Da rinvigorire.
Lo studio è stato condotto dall’Istituto Pascale di Napoli, e finanziato (anche stavolta) dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc). La scoperta è quella di una piccola molecola. Per gli addetti ai lavori, si chiama “miR-579-3p”, della classe dei “microRna”. Quel che è importante (e comprensibile) è che essa funziona da soppressore della crescita tumorale, ed è presente in abbondanza nei normali nei. Per l’appunto, essi non sono “il problema”, ma anzi contengono la possibile soluzione.
C’è un “ma”. La sua quantità diminuisce man mano che il melanoma diventa più aggressivo, e questo per giunta si aggrava quando il melanoma diventa resistente ai farmaci inibitori. Tuttavia – e qui sta la novità promettente – se la molecola viene introdotta dall’esterno ripristina le proprie qualità, inibendo le cellule tumorali incluse quelle che resistono al medicinale, il che spalanca, secondo gli studiosi, a “ nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche”.
La novità ha l’ulteriore beneficio di incrociarsi in queste settimane con altre scoperte rilevanti, in particolare una annunciata da Israele. I ricercatori dell’Università di Tel Aviv (in collaborazione con il German Cancer Research Center di Heidelberg) hanno identificato il meccanismo con il quale il melanoma si diffonde agli altri organi, ossia la metastasi. E con esso hanno capito come fermarla.
L’indicazione è analoga, si tratta delle stesse molecole identificate a Napoli, il cui annientamento è appunto causa della crescita tumorale. Diventa metastasi perché si debellano le difese interne, e questo sin dalle fasi “preliminari” all’espansione cancerogena. E anche qui, come a Napoli, si è accertato che tale processo può essere fermato con l’iniezione di apposite sostanze chimiche. A questo punto trapela ottimismo. “Confidiamo – dicono gli scienziati israeliani – che tali risultati riducano il melanoma a una malattia facilmente curabile”.
In realtà è il più bello, importante, memorabile anche se il piccolo che lo vive non lo ricorda affatto, non almeno a livello cosciente (a quello incosciente sì, tanto da lasciare tracce a vita, se le cose vanno male). E’ il giorno che suscita le più grandi emozioni e le più antiche filosofie e teologie (gareggiando in questo tuttalpiù con l’ultimo, quello della morte). E’ il momento della procreazione. Tuttavia, segnala l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), è anche e ancora il più pericoloso. Per il bebé, e per la stessa creatrice, la madre.
Ogni anno muoiono 303mila donne nel mondo durante la gravidanza e il parto. Si stima inoltre che ogni giorno circa 830 donne muoiono per motivi evitabili con un minimo di cura. E poi, 2,7 milioni di bambini muoiono nei primi 28 giorni di vita, altri 2,6 milioni nascono morti. Numeri che fanno rabbrividire e che, si noti, sono alimentati soprattutto dai paesi privi di un’adeguata assistenza sanitaria. Il 99% dei decessi delle gestanti avviene nei paesi in via di sviluppo.
In essi, anche le cifre ufficiali difettano, tanto da far temere che quelle reali possano essere il doppio, e da indurre l’Oms a divulgare nei giorni scorsi alcune direttive finalizzate quantomeno a una più precisa raccolta dei dati: sul sistema di classificazione (molti paesi non registrano le cause di morte, e nemmeno le patologie pregresse), sull’analisi della stessa, e sulle conseguenti indicazioni organizzative e cliniche.
Gli allarmi peraltro finiscono qua, le notizie per la verità sono anche positive, e non poco. Negli ultimi quindici anni, ad esempio, la mortalità materna è stata quasi dimezzata (-44%), e l’aspettativa realistica per i prossimi è quella di ridurla ulteriormente a un rapporto di 7 per 10mila nascite (oggi siamo a una proporzione poco meno che doppia).
Come si raggiunge l’obiettivo? La risposta è apparentemente semplice, ma ci riguarda tutti. Servono competenze e strutture mediche correttamente attrezzate. Semplice, ma va fatto. E va fatta anche un’altra cosa: nei paesi avanzati c come il nostro, dove i rischi sono ridotti vicino allo zero, grazie a medici, ostetriche e ospedali adeguati, quelle competenze e strutture non vanno “tagliate” ma difese.
Qualche giorno fa ci ha lasciati un signore che tra qualche giorno avrebbe compiuto 88 anni. Si chiamava Donald Ainslie Henderson, americano di origine scozzese, una figlia e due figli, e verrà ricordato nella storia dell’umanità, oltre che della medicina: è ritenuto a giusto titolo il “medico del vaiolo”, ossia colui che più di chiunque altro ha permesso al mondo di far sì che tale grave patologia sia oramai solo un drammatico ricordo del passato. Ma quel che è altrettanto interessante è “come” ci è riuscito, e quel che ci insegna il “tipo” di contributo, salvifico, che seppe fornire, e che indica la via anche per i nostri odierni comportamenti, individuali e collettivi.
Henderson era sì un medico, epidemiologo, ma seppe sconfiggere la malattia a livello globale per altre qualità, ossia quelle di educatore e organizzatore. A metà degli anni ’60, fu incaricato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità di dirigere una massiccia campagna di vaccinazioni, specie in Asia e Africa. Ci riuscì, tant’è che nel 1977 fu rilevato l’ultimo caso in Somalia, e tre anni più tardi la malattia fu ufficialmente dichiarata del tutto debellata. Tant’è che, anche da noi, quell’inconfondibile “marchio” applicato a vita vicino alla spalla, i giovani (oramai fino ai 40enni inoltrati) non ce l’hanno più.
Non è un risultato da poco, stiamo parlando di una piaga che, si stima, ha fatto mezzo miliardo di morti. Il sintomo era quello di gravi lesioni al viso e al corpo, aveva una trasmissibilità molto facile, anche per via aerea, e l’esito, nelle forme più gravi, era quello di un tasso di mortalità fino al 35% nell’arco di pochi giorni.
Henderson non fu dunque quello che inventò il vaccino. La prima sorta di “vaccinazione” fu escogitata in India, ossia la terra del suo focolaio, circa 3000 anni fa, e poi fu Edward Jenner, alla fine del ‘700, a formalizzare il meccanismo, ossia proprio quello di inoculare materiale del virus stesso. Una modalità che oggi qualcuno definirebbe “omeopatica”. Henderson non inventò nulla, il suo merito fu un altro, quello di portare parole e risorse per indurre tutti a vaccinarsi.
Il tema è d’attualità, perché fioccano polemiche, spesso infondate, sulla necessità di vaccinarsi. Il che è invece cruciale, non solo per se stessi ma per la collettività. Di questi giorni il lancio di una campagna di vaccinazione in Africa contro la febbre gialla, che ha già fatto 500 morti solo quest’anno. "Non c'è cura per questa malattia – nota Save The Children - e l'epidemia può diventare globale”. Sperando che a diffondere il concetto sia qualcuno che assomigli al dottor Henderson.
I nostri strumenti difensivi sono potentissimi, ma altrettanto lo possono essere le cellule tumorali. Nella drammatica e decisiva battaglia che talora si innesca intervengono anche meccanismi di “strategia” finalizzati a “confondere” e quindi debellare il nostro sistema immunitario. Li ha scoperti l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (Roma) assieme all’Università di Genova, con il sostegno dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc), ed è una scoperta che può aprire a nuovi, importanti, indirizzi di cura. Agire non – o non solo – con l’intervento “esterno” di attacco ai tumori, bensì potenziare le nostre difese “interne”, istruendole a evitare “l’imbroglio”.
La novità, pubblicata sul Journal of Allergy and Clinical Immunology, riguarda appunto le nostre cellule protettive, le cosiddette “ natural killer”, capaci di riconoscere e distruggere i più acerrimi nemici. Ora, la loro “sentinella” consiste in un recettore inibitorio presente sulla loro superficie, una specie di “interruttore”, chiamato PD-1, che segnala la presenza del pericolo. Ed è proprio in questa fase che è emerso il problema.
Nell’entrare in contatto con la “collega” rivale, ossia la superficie esterna della cellula tumorale (PDL-1), la sentinella della cellula sana viene “distratta”, è confusa dall’altra, come se fosse una “sirena che ammalia Ulisse”. L’“interruttore” viene perciò spento, e questo fa disattivare l’azione difensiva dando campo libero alla crescita del tumore. Quel recettore era già stato scoperto in precedenza sui “linfociti T”, altro “soldato” che ci difende, ma non sulle “natural killer”, che rappresentano “l’ultimo baluardo”, quando i linfociti vengono sgominati.
Alla scoperta si incrocia un’immediata indicazione operativa: prevenire quell’azione bloccante attivata dalla superficie tumorale è possibile. “ Questo è stato dimostrato non solo in laboratorio ma anche in pazienti affetti da alcuni tumori molto frequenti, quali il melanoma e i tumori polmonari, grazie all'uso di un anticorpo monoclonale ”, annunciano i ricercatori. Quell’anticorpo agisce sulla superficie difensiva, “mascherandola”, “ impedendole di interagire con il PDL-1 e di generare segnali che disattivano le cellule killer ”. Come la cera alle orecchie dei compagni di Ulisse, che così si sottraggono alle lusinghe nemiche.
Lo studio è stato compiuto in pazienti con carcinoma all’ovaio ed è potenzialmente valido anche per i tumori pediatrici, ma servono ulteriori riscontri per capire la totalità delle forme cancerogene sulle quali possa agire. La strada è comunque tracciata. Si tratta di integrare le cure convenzionali con l’ancor più importante potenziamento delle nostre difese naturali. Adesso si sa come fare.
Quantificare sul piano fisiologico o clinico i rischi depressivi o addirittura le tendenze suicide, è un esercizio che sembra appartenere più alla fantascienza che alla scienza, sollevando fondati scetticismi soprattutto tra gli psicologi. È la vita, è il mondo che ci circonda, ad avere un’influenza decisiva, il singolo non è un “superuomo”, non è in controllo di tutto, né con la sua psiche né nel suo stato biologico-sanitario. Tuttavia una ricerca australiana sembra davvero documentare la presenza di una concausa, di natura prettamente fisiologica.
Il tema è in effetti una “tradizione” della ricerca medica in Australia da almeno vent’anni. E nel 2013, alla Macquarie University di Sidney, è emersa una correlazione tra la sovrapproduzione di una piccola neurotossina, detta “acido quinolinico”, con il comportamento suicida.
La scoperta ha destato interesse in ambito internazionale, tanto da aprire a una collaborazione con un centro di ricerca svedese (il Karolinska Institutet) e uno statunitense (il Van Andel Research Institute). Da tale simposio è uscito un risultato ulteriore, e cioè l’identificazione di un enzima (l’Acmsd), la cui carenza è risultata ridurre la produzione di un’altra tossina associata ai medesimi effetti, l’“acido picolinico”.
Non sarebbero novità da poco, in quanto aprirebbero, a detta degli scienziati, a nuove direzioni la ricerca sugli antidepressivi. “Questi hanno solitamente un effetto limitato – spiega il neuroscienziato Gilles Guillemin, responsabile della ricerca – perché hanno come target solo la “seratonina” (che agisce su un senso ‘percepito’ di ‘benessere’. NdR), mentre ignorano l’altro ramo del “triptofano” associato alle infiammazioni”.
Il senso di fondo, tradotto per i non addetti ai lavori, sta nell’importanza cruciale, fin qui sottovalutata, dei processi infiammatori. “È oramai noto che le persone che tentano il suicidio hanno generalmente marker di infiammazione cronica nel sangue e nel fluido spinale”, spiega Guillemin, perorando la formulazione di esami del sangue orientati a individuarli. Sul “suicidio” esistono perfino trattati filosofici, ma quel che emerge dalla scienza contemporanea è l’incidenza rilevante del nostro stato di salute. Che inciderebbe, oltre che sulle tendenze a togliersi la vita, anche su quelle, importanti e curabili, alla depressione e alle malattie neurogenerative.