Diabete=”malattia del benessere”. Qualcuno accredita questa equivalenza, sulla scia del fatto che è una patologia dilagante non solo nei Paesi avanzati e ma anche in quelli emergenti, in relazione all’aumento (e spesso peggioramento) dei consumi alimentari e alla loro “industrializzazione”. C’è qualcosa di vero e documentato in questo, ma la realtà è che vale anche e soprattutto il contrario, specie se si guarda all’interno del contesto dei singoli Paesi. Il diabete tende a colpire perlopiù i ceti deboli, per cause da accertare nel dettaglio, ma per certi versi facilmente intuibili.
Nei giorni scorsi, alla Camera dei Deputati la Fondazione Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo) ha presentato il suo rapporto annuale, realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), fornendo nell’insieme dati piuttosto allarmanti sul nostro Paese, del resto in linea con le tendenze globali documentate recentemente dall’International Diabetes Federation: nel mondo ci sono 415 milioni di diabetici, e si prevede che nel 2040 saranno addirittura 642 milioni.
In Italia sono 3,27 milioni (dati 2015), ai quali va aggiunta la stima di un altro milione di persone che sarebbero affette da diabete senza saperlo. Solo quindici anni prima erano un milione in meno. Pesa, di certo l’invecchiamento della popolazione, ma questo non spiega tutto, anche perché l’aumento non è solo in valori assoluti, ma anche in rapporto alla popolazione. I malati erano il 3,8% nel 2000, oggi siamo al 5,4%, e le proiezioni dicono che andrà ancora peggio. “Tra 10 anni, in ogni famiglia italiana vi sarà una persona con diabete o un soggetto prediabetico”, avverte il professor Domenico Cucinotta, coordinatore del rapporto.
Il dato può suonare sorprendente, visto che i dati riferiti all’ultimo quindicennio evidenziano anche una pur lieve diminuzione della mortalità associata alla malattia, in ragione del miglioramento delle cure farmacologiche. La spiegazione dell'aumento patologico è piuttosto nel titolo stesso del dossier, “Italian Diabetes & Obesity Barometer Report”, che mette la lente al contempo sulla malattia e sul problema del sovrappeso, col secondo che aumenta i rischi del primo. “Diabete e obesità sono oramai una pandemia”, nota Renato Lauro, presidente della Fondazione. E da questo punto di vista l’Italia sta messa comparativamente maluccio: ad esempio, la prevalenza dei bambini obesi, quasi al 10%, è ai vertici europei, trainata soprattutto dalle Regioni del Centro-Sud. Dati che, a detta della Fondazione stessa, indicano anche la strada della soluzione, quella della prevenzione alimentare, coinvolgendo le stesse scuole nell’educazione al cibo.
Una strategia per la quale esiste già una controprova, consistente nella diversa esposizione alla malattia in funzione dei livelli educativi. Secondo il rapporto, un laureato ha un rischio di ammalarsi tre volte inferiore a chi ha solo la licenza elementare, e la stessa sperequazione si nota sulla propensione al sovrappeso. Questione non di “titoli”, ovviamente, ma di tendenza a informarsi, e naturalmente anche di possibilità di accedere a cibo di qualità. Allora, altro che “benessere”. Si tratta in buona misura di una “patologia sociale”, che tende a colpire selettivamente (anche se non necessariamente) i più deboli. Il che rappresenta un richiamo agli stessi decisori, e non solo in ambito sanitario.
Ma perché i sardi vivono di più? Il quesito c’è, è sollevato da semplici dati demografici, ed è oggetto di crescente interesse da parte di scienziati di tutto il mondo. Senza andare lontano, una novità scientifica arriva proprio dalla Sardegna, ed è centrata – senza strane alchimie sul maestrale e altre leggende – sull’alimentazione, per certi versi spiazzando un po’ le aspettative, specie perché segnalerebbe che gli avi avrebbero mangiato più sano dei contemporanei.
L’indagine ha fatto leva su tecniche innovative di estrazione del Dna dalla placca dentale dei sardi vissuti 200 anni fa. L’esito, in sintesi, è che allora mangiavano più verdura e meno carne, a beneficio della prevenzione di diverse patologie croniche a carattere auto-immune o cardiovascolare. A partire dagli anni ’50 del secolo scorso c’è stato un cambio di indirizzo in favore della carne, sicché la percentuale di alcuni micro-organismi, i cosiddetti “batteri anaerobi” si è addirittura centuplicata.
“Il loro eccesso fa sì che possano attraversare le barriere tessutali ed entrino in circolo sanguigno esponendoci a malattie come l'artrite reumatoide, o patologie come l'aterosclerosi”, spiega il professor Germano Orrù, dell’Azienda universitaria di Cagliari. Al dato fa riscontro anche un recente studio dell’Università di Sassari, che sottolineerebbe il ruolo benefico di produrre “in casa” le verdure, la frutta, i formaggi, perfino il vino, senza troppi additivi chimici.
E poi ci sono gli studi internazionali, addirittura una società biotecnologica inglese ha acquistato una banca dati per analizzare le informazioni genetiche di decine di migliaia di sardi, dove i centenari sono percentualmente il doppio, ad esempio, di quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti. Insomma l’affascinante isola è entrata a pieno titolo nell’alveo delle zone “sotto osservazione” per l’eccellente longevità, al pari della giapponese Okinawa o della greca Ikaria. Il cui tratto comune, al di là dei miti, sembra essere proprio quello di un consumo relativamente limitato di proteine animali.
Lo studio cagliaritano sembra peraltro lasciare aperto un quesito. I benefici accertati si riferiscono a un paio di secoli fa, ma negli ultimi decenni, pur con abitudini apparentemente “peggiorate” per l’aumentato uso della carne, la longevità risulta aumentata, come altrove. La risposta sta un po’ nel miglioramento generale delle condizioni di vita dal dopoguerra. Ma sta anche in un altro dato di fatto: i centenari in Sardegna non sono un fenomeno odierno. A spulciare tra gli archivi delle parrocchie spunta tra l’altro il caso di un uomo, nato nel 1718 e morto nel 1842, e risposatosi a 110 anni. A leggere gli ultimi studi, il suo segreto non stava affatto nel maialino, ma in quel che semplicemente cresceva nel suo orto.
Uno “tsunami”, la definisce Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica. L’immunoterapia aggredisce le cellule tumorali stimolando le difese “autonome” del sistema immunitario del paziente stesso. Rappresenta una svolta di metodo, che trova riscontri scientifici e clinici sempre più convincenti. A essa è stato consacrato un apposito convegno la scorsa settimana a Roma, sulla scia dell’ultimo Congresso, tenutosi in autunno a Copenaghen, della Società Europea di Oncologia Medica (Esmo), che raggruppa 13mila specialisti del Continente.
La strada è stata aperta pochi anni fa dalla cura del melanoma, ma che alle ultime evidenze sembra poter aggredire efficacemente anche il tumore al polmone e alla vescica (oggetto del convegno romano). I risultati di alcuni principi attivi sono promettenti, in qualche caso superiori alla tradizionale chemioterapia, e per giunta possono costituire un’alternativa necessaria per i pazienti più anziani e fragili, per i quali il trattamento chemioterapico stesso è limitato dalla pericolosità degli effetti collaterali e dalla compresenza di altre patologie.
Per la vescica, in particolare, il trattamento immunoterapeutico è ritenuto il “primo passo avanti nella cura dopo trent’anni”, su una patologia che solo nel 2016 ha registrato quasi 27mila nuovi casi solo in Italia. “L’atezolizumab ha ridotto la massa tumorale in circa un quarto dei pazienti – documenta Paolo Marchetti, direttore dell’Oncologia medica all’ospedale Sant’Andrea di Roma - e la sopravvivenza mediana è stata di 15,9 mesi, quando generalmente in questi pazienti è pari a 9-10 mesi con la chemioterapia”. Medie che segnalano quasi un raddoppio nell’efficacia delle cure, e quindi delle possibilità di guarigione, per giunta con un miglioramento dei sintomi, ossia della qualità della vita.
Miglioramenti che del resto si ineriscono in un quadro piuttosto lusinghiero per la medicina italiana, che presenta percentuali di guarigione (78% per il tumore al polmone, 14,3% per quello al polmone) migliori rispetto alle medie continentali, come riconosciuto dalla stessa Esmo. Quel che purtroppo invece non cambia è l’esposizione alla malattia, alta come nel resto d’Europa.
E su ciò si rilancia il problema della sigaretta, responsabile fino al 90% dei cancri al polmone e di due terzi dei tumori alla vescica. Ma anche per questi la “rivoluzione” si annuncia efficace. “La risposta immunitaria risulta spontaneamente più forte contro mutazioni del DNA provocate da fattori esterni e che rendono le cellule tumorali 'aliene' al nostro organismo e quindi da rigettare”, spiega. Licia Rivoltini, direttrice all’Unità immunoterapeutica all'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Gli scienziati parlano di sfide ancora da affinare, ma con esiti potenziali già accertati, e quindi con la certezza sulla strada da percorrere.
Da precisare subito, dinanzi a qualche annuncio o esagerazione giornalistica: siamo ancora ancora alle parole, per gli atti concreti bisognerà attendere almeno un po’. La volontà politica, a livello statale e regionale, è stata comunque definita, così come il pieno consenso (e anzi il sollecito) dalla totalità degli addetti ai lavori – inclusi medici e associazioni - al “tavolo” aperto negli ultimi giorni presso l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa). Si punta a una semplificazione dell’accesso a ricette e cure per i circa dieci milioni di italiani affetti da qualche malattia cronica, e spesso costretti per giunta all’odissea di procedure costose e interminabili, oltre che almeno in parte non giustificate.
La realtà è che i pazienti cronici possono acquistare i farmaci necessari solo dopo la definizione di un “piano terapeutico” per il quale il medico di base non basta, necessitando il ricorso a uno specialista. Quindi sono costretti necessariamente a passare da un medico all’altro, per poter accedere a centinaia di prodotti di 32 diverse categorie terapeutiche.
Spese per i ticket per le visite, ore e giorni di attesa, che per giunta a volte non sono sufficienti per il protrarsi del ping-pong, come lamentano i medici stessi. “Spesso il paziente torna senza piano e con richieste di esami diagnostici da noi già effettuati che ovviamente lo specialista non conosce e siamo così costretti a rinviarlo allo stesso specialista dietro esborso di altri 50 euro”, racconta Silvestro Scotti, Segretario della Federazione Italiana Medici di Famiglia.
E non mancano le aggravanti: quel “piano terapeutico” va aggiornato periodicamente, a seconda dei casi e della patologia, e tale periodicità può ridursi addirittura all’arco di pochi mesi. Di più, alcune Regioni impongono che la prima dose di farmaci, e quindi il primo timbro sulla prescrizione, debbano passare per la farmacia ospedaliera, e solo dagli acquisti successivi sia possibile recarsi in quella sotto casa. Ancora, protestano i pazienti di qualche Regione, “i farmaci necessari per le cure mensili non vengono più prescritti in un’unica ricetta ma con più prescrizione settimanali”.
E così, si arriva talora a eccessi procedurali non-sense, ben al di là della sacrosanta necessità di tutelare l’appropriatezza e sicurezza terapeutica. Ai fatti, è una burocrazia che tende a caricare i pazienti di oneri, anche economici, e a scaricare quelli dell’ente pubblico, sia limitando la vendita dei farmaci (e quindi l’esborso per il Servizio Sanitario), sia incassando dai ticket.
Ora, la volontà di una rapida svolta c’è e, passa, secondo il tavolo all’Aifa, per una più stretta collaborazione tra specialisti e medici di famiglia, valorizzando il ruolo di questi ultimi anche nell’ambito della diagnostica. Questione di rapidità e di costi, tema al centro delle battaglie nel mondo dei Farmaci Generici. E a tal proposito, quando lo scorso settembre fu varato il primo “Piano Nazionale della Cronicità”, la rete di Cittadinanzattiva, tramite il Coordinatore del Tribunale del Malato Tonino Aceti, commentò, pur plaudendo, con un’annotazione: “La sfida sarà quella di attuarlo, anche perché non sono previste risorse aggiuntive”. Il nodo di fondo sarebbe anzitutto quello dei fondi, quindi, ma l’aggravare i pazienti di procedure e costi non è certo un risparmio.
Gli annunci dal mondo della scienza preludono solitamente a novità che, per arrivare alla concreta applicazione clinica, tra sperimentazioni e procedure d'approvazione, richiedono molti anni. Stavolta, invece, tutto fa pensare che i tempi saranno assai più brevi: secondo gli scienziati che lo hanno “battezzato” il “superscanner” capace di potenziare notevolmente le capacità di “vedere” all’interno del corpo umano, captandone anche i più piccoli malanni, dovrebbe essere operativo già entro il 2018.
Elaborato dall'Università della California, e presentato nelle scorse settimane con due articoli su altrettante riviste scientifiche e parecchi rimbalzi sulle principali testate divulgative globali, il prototipo - battezzato “Explorer” (Extreme Performance Long Research Cancer) – rappresenta una evoluzione della “PET Total-Body”, ovvero la Tomografia a emissione di positroni (Pet), capace di fornire immagini dettagliate sulla totalità degli organi corporei, utilizzando particelle radioattive che segnalano la presenza di patologie tumorali o neurodegenerative.
Attualmente la “scannerizzazione” è possibile solo per parti specifiche del corpo, e non per il suo insieme, il che costituisce un limite per la diagnosi e l'analisi di patologie multi-sistemiche, che hanno possibili ricadute e sintomi su varie parti del corpo, lontane tra loro. La nuova tecnologia consentirà di aggirare l’ostacolo e offrirà inoltre immagini di altissima risoluzione, che permetteranno di captare anche le più piccole tracce cancerogene, nonché altre tossine, inclusi i possibili effetti collaterali dei trattamenti farmacologici.
Explorer sembra dunque destinato ad avere un impatto enorme sia sulla capacità di diagnosi che sull’evoluzione della ricerca medica, anche alla luce delle rassicurazioni giunte dagli scienziati in tema di quantità di radiazioni utilizzate: “Con lo scanner total-body circondiamo il corpo di rilevatori, che fermano le radiazioni e le trasformano in segnale”, spiegano. Sottolineando anche che il sistema riduce le dosi radioattive necessarie, anziché alimentarle: “per un esame – concludono - saranno pari a quelle ricevute in un volo di andata-ritorno Los Angeles-Londra”.
La scienza medica avanza, ma avanza anche il rischio di ammalarsi. Secondo le proiezioni della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori (Lilt), solo l’anno scorso sono morti di tale patologia 1,3 milioni di europei, ed entro il 2025 i pazienti oncologici in Europa saranno oltre 20 milioni. Eppure, nell’obiettivo fissato dalla stessa Lilt, nell’ambito dell’appena celebrata Settimana Nazionale per la Prevenzione Oncologica, si punta a “ridurre l’incidenza dei tumori del 15% entro quella data, ovvero - nota il presidente Francesco Schittulli - nell’arco di soli otto anni”.
Come si fa? Arrivandoci prima. L’arma principale nella lotta al cancro rimane, infatti, quella della prevenzione. E in tal senso si spiega anche la scelta dei due testimonial d’eccezione, che hanno prestato la loro immagine all’ultimo evento: il signore del calcio, il 40enne Francesco Totti, e il re degli chef, Massimo Bottura, fresco del riconoscimento ottenuto dal suo ristorante modenese a New York, classificato come il migliore al mondo.
Totti e Bottura non sono solo “personaggi famosi” e per giunta con un bel curriculum di iniziative benefiche pregresse. Sono anzitutto “fuoriclasse della prevenzione”, incarnandone i due capisaldi: l’attività fisica e la qualità alimentare. Il loro mancato rispetto sta conducendo al dilagare dell’obesità. Nel 2030 in Italia, secondo le stime presentate dalla Lilt, sarà obeso un quinto della popolazione maschile e il 15% di quella femminile. E non va meglio per i bambini, già affetti da obesità per il 14%, percentuali che tendono ad alzarsi ulteriormente nelle Regioni del centro-sud.
E “purtroppo un bambino obeso sarà un adulto malato”, avverte Schittulli: basti pensare che oltre un terzo dei tumori è causato da una scorretta alimentazione. E’ qui, oltre che nella lotta alla sedentarietà, il cuore della sfida della prevenzione, naturalmente in aggiunta alla guerra al consumo eccessivo di alcol e al fumo, prima causa di morte per tumore.
Oltre che dai volti di Totti e Bottura, la Settimana è stata peraltro animata da circa 20mila volontari, nonché dai professionisti prestatisi per fornire informazioni e visite gratuite nei 400 centri di prevenzione allestiti in tutta Italia e nelle sedi provinciali della Lilt. L’associazione ha così tra l’altro festeggiato i suoi 95 anni di onorata carriera, tra attività di sensibilizzazione, messa in rete delle strutture oncologiche e informazioni scientifiche indirizzate ai pazienti.
“L’economia italiana in difficoltà ha la popolazione più sana al mondo”: l’agenzia statunitense Bloomberg, specializzata sui temi economici, ha titolato così l’esito di una sua classifica globale sulla salute dalla quale emerge che a trionfare è proprio il nostro Paese, ancora alla faticosa ricerca dell’uscita dalla più grave crisi del dopoguerra.
La stessa Bloomberg aveva del resto già promosso il nostro Servizio sanitario ai primi posti nella classifica dell’”efficienza”, incrociando i dati sull’aspettativa di vita con quelli relativi ai livelli di spesa, sottolineando l’ampiezza della copertura sanitaria ma anche la scarsità dei fondi dedicati al settore rispetto ad altri Paesi avanzati.
In questo caso, oltre a collocarci al vertice assoluto, l’indagine si restringe al dato secco su come realmente stiamo, valutando la longevità e l’incidenza di varie patologie. Dietro di noi, Islanda, Svizzera, Singapore, molto più indietro americani e inglesi. Paesi e popolazioni, cioè, con una situazione economica più favorevole ma con più alti livelli di colesterolo e pressione sanguigna, e anche molto più colpiti da disturbi psichiatrici.
Il segreto? “Anzitutto la dieta mediterranea”, afferma Bloomberg, citando la ricchezza di prodotti freschi, verdura, frutta, pesce, “grassi sani” come l’olio extravergine di oliva. Poi l’ampia presenza di medici: perfino “troppi”, argomenta l’analisi. E a rallegrarsi è anche Beatrice Lorenzin. “I segreti della longevità italiana sono la dieta, gli stili di vita, all’aria aperta, un Servizio Sanitario pubblico e universalistico”, rivendica il ministro della Salute, parlando di “obiettivi da consolidare e non dare per scontati”.
Oltre a non essere scontati, alcuni dissentono che siano stati davvero raggiunti. Sulle “classifiche della Felicità” - celebrata il 20 marzo in sede Onu - che tengono conto di variabili sanitario-depressive, l’Italia resta indietro, anche in ambito europeo. Lo stesso emerge dall’“Euro Health Consumer Index”, che valuta i livelli di soddisfazione dei cittadini sull'assistenza sanitaria, in Italia piuttosto basso. Dati che, incrociati, confermano un Paese in difficoltà e non certo pago delle tutele esistenti ma che nel complesso resiste e mantiene un buono stato di salute.
L'allarme c'è, ed è multiplo, con dati e moniti che arrivano dal governo italiano, dall'Unicef e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il morbillo, mai del tutto debellato, sta rialzando la testa. E' una tendenza già rilevata negli ultimi anni nel nostro paese, ma che ora sta palesando un'accelerazione, con particolare riferimento a Lazio, Toscana, Lombardia e Piemonte.
Solo dall'inizio di quest'anno sono stati rilevati dal Ministero della Salute oltre 700 nuovi casi, mentre in tutto il 2016 erano stati 844, il che si traduce in un incremento tendenziale di oltre il 230%. Al contempo non ci sono misteri sulla “diagnosi” del fenomeno, che gli addetti ai lavori attribuiscono al calo di vaccinazioni, a sua volta dovuto alle scelte di alcune famiglie, vittime di qualche disinformazione sulle loro presunte controindicazioni. Controindicazioni che – spiegano i medici – non sussistono, e, anche laddove si levassero elementi di dubbio, sarebbero infinitamente meno gravi rispetto all'insorgere della patologia stessa.
“Nel 2015 la copertura vaccinale contro il morbillo nei bambini a 24 mesi è stata dell’85,3%, lontana dal 95% che è il valore-soglia ritenuto necessario ad arrestare la circolazione del virus nella popolazione”, lamenta lo stesso ministro Beatrice Lorenzin, esortando gli operatori sanitari, a iniziare dai medici di base e dai pediatri, al lavoro di sensibilizzazione.
Il tema è globale, ma l'Italia, tra i Paesi avanzati, sembra particolarmente a rischio, dati alla mano, tanto da ricevere qualche bacchettata perfino dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. In base alle statistiche europee (sul 2013), siamo addirittura al secondo posto nel Vecchio Continente per numero di contagi, superati solo dalla Romania. E che il nodo sia anzitutto sulle vaccinazioni è documentato perfino dai dati positivi: secondo l'Unicef la mortalità da morbillo nel mondo è diminuita del 78% tra il 2000 al 2012, proprio per l'estensione dei vaccini anche nei Paesi meno abbienti.
Eppure, nel pianeta si continua a morire di questa patologia, con oltre 130mila decessi l'anno. “Il morbillo non è un banale raffreddore – ricorda Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia - e nei bambini più piccoli e con difese immunitarie più fragili può avere complicanze letali”. E a questo si incrocia il fatto, ricordato dal Cnr, che esso ha “un tasso di contagiosità quattro volte più elevato di quello dell’influenza”. Insomma il problema c'è, e c'è anche la soluzione: quella di andare avanti, anziché tornare indietro.
Anche nel contesto dell’ultimo otto marzo ricordammo come la “medicina di genere” non sia più un’istanza ideologica ma un’esigenza accertata dalla scienza e oramai riconosciuta dagli stessi decisori, richiedendo un’attenzione specifica alle peculiari esigenze biologiche femminili, mentre la terapia, sin dalla ricerca sperimentale, è ancora largamente effettuata al maschile. A tutto questo si aggiunge un dato ulteriore, ossia che ci sono diverse malattie che tendono selettivamente a colpire in modo grave perlopiù le donne stesse.
Ebbene, l’elenco di tali patologie ora si allunga, includendo il diabete di tipo 2. Lo ha ricordato la stessa Società Italiana di Diabetologia (Sid), a recente Congresso a Riccione, invocando un salto nell’attenzione terapeutica per l’universo femminile, del resto in linea con l’International Diabetes Federation che ha deciso di dedicare la sua prossima “Giornata” (a novembre) proprio alle diabetiche.
La differenza non sta nell’incidenza della patologia, sostanzialmente alla pari tra i sessi, ma sulle sue conseguenze. “Quasi tutti i rischi legati alla malattia nelle donne sono più alti del 30 per cento o anche raddoppiati”, fa sapere Giorgio Sesti, presidente della Sid, in riferimento, tra l’altro, alle malattie cardiovascolari. Per l’ictus, ad esempio, è stato documentato che il rischio sale del 27% tra le diabetiche rispetto ai pazienti maschi. E per gli infarti si arriva al triplo.
Ad aggravare il quadro c’è il fatto che si tratta di una differenza “non percepita dai medici né tanto meno dalle pazienti”. “Poche mammografie e pap-test, sebbene la malattia esponga ad un rischio doppio di tumori”, nota ad esempio il presidente della Fondazione Diabete Ricerca Enzo Bonora. “Le donne spesso non riconoscono i sintomi dell'infarto, che in loro sono diversi – spiega Giovannella Baggio, docente di Medicina di genere all'Università di Padova - hanno meno dolore e invece provano magari forte ansia e mancanza di respiro”, esponendosi così a maggiori rischi di morte.
Questo tuttavia non significa che si curino di meno degli uomini. I dati e le tendenze discusse al Congresso, tra consumi farmacologici e aderenza terapeutica, non sembrano affatto dimostrare tale discrepanza. Il problema, evidentemente, è anzitutto altrove. Gli stessi medicinali non raggiungono per le donne gli stessi obiettivi, nella fattispecie su emoglobina glicata e glicemia. “Sono fatte diversamente”, sul piano ormonale e molto altro. Ed è tempo di tenerne davvero conto.
“Un’epidemia silenziosa”, la definisce l’editorialista di Repubblica Concita De Gregorio, ammettendo peraltro la colpa dei media stessi di aver (di nuovo) trascurato la ricorrenza, lo scorso 15 marzo, dedicata a una delle piaghe più drammatiche e dilaganti del disagio psicologico e sanitario giovanile (e non solo), quello dei disturbi alimentari. Colpiscono, si stima, tre milioni di italiani, quasi tutti giovani, e in larghissima parte, per oltre il 95%, donne.
Per questo è stata lanciata una campagna fa leva su un sito informativo curato da una rete associativa, con patrocini governativi, ma ancora in attesa di riconoscimento ufficiale della “Giornata” dedicata nei giorni scorsi al tema. Insomma manca un’attenzione diffusa al fenomeno, alla sua portata quanto alla necessità di attenzione. Esiste comunque un “numero verde”, l’800180969, attivato nell’ambito della stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri.
“La patologia non riguarda più solo gli adolescenti, ma va a colpire anche bambini in età prepubere, con conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente”, spiega la Direttrice del servizio Laura Dalla Regione, specificando che i disturbi possano oramai iniziare sin dalla tenerissima età di otto anni. Questo per i disturbi più diffusi come l’anoressia o la bulimia, ma ce ne sono altri che possono incombere addirittura prima. E’ il caso del cosiddetto “Arfid”, ossia disturbo dell’alimentazione restrittivo, che colpisce già dai due anni, e consiste nell’eccessiva selettività alimentare del piccolo, il quale accetta solo cibi di una certa consistenza o colore. Si tratta di una forma “lieve”, che però, proprio per la tenera età su cui incombe, se non trattata adeguatamente può incidere sulla crescita, sulla salute e sulla socialità.
Sul più pericoloso dei disturbi, l’anoressia nervosa, i numeri sono tutt’altro che esigui, con almeno 8 nuovi casi l’anno su 100mila persone tra le ragazze, mentre per i maschi si scende intorno all’1, e per la bulimia la proporzione femminile sale sui 12 per 100mila. Globalmente, si stima che le forme più gravi di tali disturbi colpiscano oltre l’1% delle donne. Una piaga estesissima, dunque, che fa impennare fino a dieci volte il rischio di morte.
Si tratta per giunta di un settore che necessiterebbe più che mai di un approccio “integrato”, capace di incrociare le competenze di medici, psicologi e dietisti. Le strutture dedicate in Italia sono ancora relativamente poche, anche se qualcosa si è mosso negli ultimi anni. Dal 2008 il Ministero della Salute ha lanciato una mappatura, aggiornata sulla medesima pagina consacrata alla citata “Giornata del Fiocchetto Lilla”. E, come spesso accade, l’indagine stessa è foriera di un salto in avanti nella consapevolezza dei cittadini e addetti ai lavori. Sul concetto che quelle ragazze non possono essere lasciate sole.
L’annuncio ha il sapore di una svolta epocale, e arriva dall’Italia. Si apre la possibilità di restituire la vista a tante persone che l’hanno perduta a causa della degenerazione dei fotorecettori della retina, una delle principali cause di cecità tra gli adulti, finora largamente senza rimedio. La soluzione prospettata rileva dalla creazione in vitro di una retina completamente organica.
La scoperta è descritta sulla prestigiosa “Nature Materials”, ed è firmata dal Centro di Neuroscienze Sinaptiche (Nsyn) dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (Iit), in collaborazione con altri centri di ricerca del nostro paese. La composita équipe connazionale ha concepito un dispositivo biocompatibile capace di rimettere in moto le funzioni visive convertendo gli stimoli luminosi in segnali elettrici per il cervello.
Il nodo era dunque duplice, quello della compatibilità con i tessuti biologici, e quello della capacità di captare la luce connettendola al cervello. A quanto pare, gli studiosi italiani ci sono riusciti, sopperendo all’assenza di fotorecettori funzionanti nell’occhio. Dalla sperimentazione su animali ciechi è emerso il ripristino dell’attività visiva con una persistenza che raggiungeva i dieci mesi dall’impianto. Inoltre, la “retina organica” si è rivelata capace di potenziare l’attività complessiva dell’occhio, incrementando l’attività metabolica della corteccia, e tutto questo senza palesare alcun effetto avverso.
Il dispositivo elaborato è tecnicamente un “semiconduttore fotovoltaico organico”, denominato “rr-P3HT”. “Rispetto ai modelli di retina artificiale ora disponibili basati sulla tecnica del silicio, il nostro prototipo presenta vantaggi quali la spiccata tollerabilità, la lunga durata e totale autonomia di funzionamento, senza avere la necessità di una sorgente esterna di energia”, spiega il coordinatore del Centro Nsyn-Iit Fabio Benfanti.
Una durata definita “lunga”, ma non per ora definitiva, dunque. E tuttavia si tratta di un esito importantissimo, apparentemente foriero di ulteriori, specie per la natura biocompatibile del dispositivo. Tale passo scientifico, seppur parziale, potrebbe inoltre trovare applicazione concreta nel breve periodo. Ci sono già le date, negli auspici degli scienziati: la sperimentazione umana da compiersi nella seconda metà di quest’anno, i suoi esiti già all’inizio del prossimo.
I tumori globalmente sono ancora dati in aumento, ma ancor di più aumentano le possibilità di vincerli. Grazie ai progressi scientifici, ma grazie anche a una crescente sensibilizzazione sull’imperativo di una diagnosi precoce, essenziale per l’efficacia delle cure. E se dunque i progressi intervengono a facilitare la diagnosi stessa, assumono un’importanza decisiva. Un passo in tal senso viene annunciato dagli Stati Uniti, seppure ancora non ancora di immediata applicazione clinica.
Lo si legge sulla rivista Nature Genetics. Gli scienziati dell’Università della California-San Diego riferiscono di aver messo a punto delle nuove “biopsie liquide”, capaci di rilevare non solo la presenza di tracce di cellule tumorali, ma anche - e qui starebbe la principale novità - di “localizzarle”, con buona precisione, indicando la parte del corpo colpita.
“La scoperta è arrivata per caso – spiegano – mentre cercavamo segnali tumorali con l’approccio convenzionale, ma così facendo abbiamo captato anche quelli di altre cellule”. La chiave di volta sta infatti nella loro interazione. Lo sviluppo di una neoplasia induce a un conflitto tra le cellule malate e quelle sane, e queste ultime, morendo, rilasciano il loro DNA nel sangue. Morale, “se integriamo entrambe le serie di segnali possiamo determinare la presenza di un tumore e il posto in cui sta crescendo”.
Tecnicamente, gli scienziati hanno dunque incrociato i dati di “modificazione epigenetica” del DNA di diversi tessuti sani (fegato, intestino, colon, polmone, cervello, rene, pancreas, milza, stomaco e sangue) con i campioni di sangue di pazienti oncologici, alfine di costruire altrettanti marcatori capaci di evidenziare i vari tipi di tumore.
E così, si spalanca la possibilità di sostituire le tecniche diagnostiche tradizionali, incluse quelle più invasive, quali l’asportazione di tessuti, con una semplice analisi del sangue. Si tratta comunque di uno scenario futuro, in quanto la metodica richiede approfondimenti e perfezionamenti prima del suo uso clinico. La strada, a detta degli scienziati, è comunque tracciata. Per il momento, dicono, “abbiamo dimostrato il concetto”.
Se ne può discutere, fuori da ogni retorica, e se n’è discusso parecchio, tanto che non mancano le donne che dissentivano. Ma che l’8 marzo scorso sia stata una giornata “di lotta” più che “di festa”, sulla scia del movimento globale “Ni una menos” e degli scioperi messi in atto anche in Italia (e anche nella Sanità), è un fatto reale e consegnato alla storia, che per giunta ha collocato i temi della salute in prima linea. Le donne “sono fatte diversamente”, hanno esigenze specifiche di cura, mentre la ricerca, sin dalle sperimentazioni, è ancora largamente centrata sulla biologia maschile. Non va bene, tanto che l’istanza di una “medicina di genere” – qui più volte trattata – non ha più nulla di “ideologico”, bensì è oramai una conclamata priorità perfino in sede istituzionale.
“Quando andai in Europa la prima volta per parlare di medicina di genere, mi dissero che costava troppo. Invece bisogna riconoscere che questo non è un fattore politico ma scientifico. Un tema italiano che abbiamo portato al semestre europeo e ora porteremo al prossimo G7 dei ministri della Salute in programma a Milano a novembre”, ha detto Beatrice Lorenzin, rivendicando inoltre “l’inserimento dell’endometriosi nei Livelli Essenziali di Assistenza, che in Italia colpisce 300mila donne”. Ministra che, a margine, ha celebrato la giornata rendendo omaggio, tra le altre, ai familiari di una compianta predecessora, Tina Anselmi, “madre” di una delle più importanti riforme della storia repubblicana italiana, quella che appunto istituì nel ’78 il Servizio Sanitario Nazionale.
E c’è un altro aspetto ricordato dalla stessa Ministra della Salute: le donne vivono di più – con uno scarto peraltro ridotto in tempi recenti, fatto di per sé eloquente - ma questo significa anche che soffrono di più, hanno bisogno di essere curate di più, e non di meno. Il che ha ricadute anche sui farmaci. “Ne usano il 10% in più rispetto agli uomini”, documenta la presidente del Comitato Prezzi e Rimborsi dell’Agenzia Italiana del Farmaco Paola Testori Coggi.
Ulteriore e sinistra concomitanza, guadagnano mediamente meno dei maschi. “Spesso non si curano perché non possono permetterselo”, ricorda allora Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), tema che rilancia l’urgenza del ricorso ai farmaci generici, meno costosi a parità di efficacia e sicurezza terapeutica. Lo stesso Onda ha lanciato il progetto dei “bollini rosa”, per premiare le strutture che praticano realmente la sanità di genere, ottenendo già il patrocinio di 20 società scientifiche e la costruzione di una rete di 248 ospedali nazionali.
E poi ci sono le campagne “social”, i convegni, gli appelli. Ma tra le tante parole di una celebrazione conclusa, c’è da ricordarsi che l’importanza sta naturalmente nei fatti. E che, passato l’8 marzo, è in arrivo un’altra ricorrenza di rilievo, il 22 aprile, consacrata dal Ministero della Salute proprio alla Salute della Donna, non a caso fissata nella data di nascita di una grande scienziata, Rita Levi Montalcini. “Il divario da colmare è ancora profondo”, ammise nella Giornata dell’anno scorso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
C’è una letteratura, fatta di libri, racconti, vissuti personali, che esalta un fenomeno apparentemente nuovo, almeno nella storia contemporanea. Si tratta della tendenza ad una maggiore presenza dei papà dopo (oltreché durante) la gravidanza: sempre più giovani genitori sono pronti ad alleviare alleviare le fatiche della madre e a contribuire all’accudimento del neonato. Tutto vero, bello, tenero ed encomiabile. Ma sulla strada della parità nel post-nascita ci sono ancora tanti ostacoli… Il primo tra tutti: a perdere il sonno è ancora sempre e solo la madre.
Lo rivela uno studio di larga scala, effettuato dalla Georgia Southern University (e presentato al 69mo congresso dell'American Academy della Neurology) su oltre 5.800 adulti fino ai 45 anni, per i quali è stato considerato come durata ottimale del sonno un periodo compreso tra le sette e le nove ore, definendo “strutturalmente” insufficiente un sonno inferiore alle sei ore.
Numerose le variabili utilizzate: reddito, occupazione etnia, ampiezza del nucleo famigliare, problemi respiratori e altro. Ma a risultare davvero rilevanti sul piano statistico sono stati la presenza di un nascituro e il sesso del genitore. Tra le donne con un figlio piccolo è emersa un’esposizione al sonno insufficiente superiore del 50% rispetto al resto della popolazione femminile compresa nel campione. E per gli uomini? Tutta un’altra musica: le differenze registrate in conseguenza della presenza o meno di figli sono rimaste vicine allo zero.
E il fatto che l’emergenza “sonno-neonato” è normalmente destinata a risolversi nei primi anni di vita, consentendo anche alle mamme di provare a “recuperare”, non deve far perdere di vista l’obiettivo di una buona dormita come indispensabile contributo al mantenimento dello stato di benessere.
Il sonno, ovviamente, non ha regole fisse, e varia in base alle esigenze fisiologiche di ciascuno e in rapporto all’età. Secondo le tabelle delle autorità americane, ad esempio, le esigenze di riposo progressivamente diminuiscono col passare degli anni. Si va dalle oltre 15 ore nei primi tre mesi alle 13 fino ai due anni, per poi diminuire gradualmente alle 10 ore fino alla prima adolescenza, a 9 ore fino ai diciott’anni, a 8 ore tra gli adulti e 7 tra gli anziani.
Cifre indicative da declinare secondo le esigenze psico-fisiche di ciascuno. Qualunque sia il parametro personale, comunque, è importante averne rispetto. La carenza di sonno conduce a rischi di diabete, obesità, patologie cardiovascolari e depressione. Rischi dai quali i neo-papà si tengono, inconsapevolmente, ben al riparo.
C’è una buona notizia, anche se un po’ meno buona di quanto viene per lo più titolato e tradotto, anche dalle agenzie italiane. La news è che esiste un trattamento immunoterapico contro le varie forme di rinite allergica, inclusa la cosiddetta “febbre da fieno”, e che, all’evidenza, fornisce esiti davvero incoraggianti. Il problema è che per ottenere questi risultati bisogna prolungare la terapia più di quanto si presumeva finora.
E’ quanto emerge da una ricerca realizzata dagli studiosi dall’Imperial College di Londra e pubblicata sulla rivista internazionale Jama. Lo studio ha coinvolto un centinaio di volontari, affetti da rinite, seguiti per diversi anni nel centro specialistico dell’ospedale Royal Brompton: una parte di essi è stata trattata con il prodotto in sperimentazione e una parte soltanto con un placebo.
L'esito è stato inizialmente deludente: la somministrazione, prolungata fino a due anni, conduceva sì a un effettivo sollievo, ma solo per un breve periodo. Ad un anno di distanza dalla sospensione della terapia gli effetti sembravano svanire del tutto. Si è visto però anche che prolungando il trattamento fino alla soglia di tre anni – del resto già suggerita da alcune agenzie internazionali – si ottengono risultati duraturi, che si protraggono per molti anni. L’esito dell'indagine – riferita specificatamente alla rinite allergica – sembra indirettamente ribadire il concetto generale dell'importanza dell'aderenza terapeutica. Abbandonare le cure prima del tempo prescritto perché ci si sente nel presente un po' meglio è una scelta deleteria, che ne inficia l'efficacia nel medio e lungo periodo.
“La nostra Costituzione stabilisce all'articolo 32 la tutela della salute come fondamentale diritto di ogni persona e come interesse dell'intera collettività […], un diritto pieno, non comprimibile, che attiene alla dignità e alla libertà di ciascuno, tanto che quello stesso articolo prevede la garanzia delle cure per coloro che si trovano in condizione di indigenza […] La sfida delle patologie meno conosciute, e delle risorse pubbliche limitate, non può esimerci dal ricercare, sempre, il pieno adempimento del dettato costituzionale”.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non poteva oggettivamente trovare parole migliori di quelle utilizzate della nostra Carta Costituzionale per sottolineare gli altissimi impegni in essa sanciti in tema di tutela della salute. E lo ha fatto parlando al Quirinale in occasione della giornata mondiale delle malattie rare, celebrata il 28 febbraio, quando rilanciato la sfida di tutte le sfide per tutti i sistemi sanitari mondiali, compreso il nostro Ssn: "Nessun malato, ovunque ma particolarmente nella nostra Repubblica, deve sentirsi invisibile o dimenticato".
Malati “rari”, non “invisibili”, insomma. Anche perché quell’aggettivo - “rare” - rischia di essere fuorviante. Per convenzione è definita tale una patologia che colpisce fino a cinque individui ogni diecimila. Ma, considerando che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tali patologie sono almeno seimila (senza contare quelle ancora non identificate dalla scienza), il dato aggregato sulle persone colpite è invece altissimo: se ne stimano 670mila solo in Italia.
Non mancano per la verità le buone notizie. Di recente l’Onu ha incluso a pieno titolo le malattie rare tra i diciassette principali “Obiettivi di sviluppo sostenibile” e il recentissimo decreto di aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza riconosciuti dal Servizio Sanitario Nazionale ha aggiunto ala lista 110 nuove patologie rare che prima non vi comparivano, come rivendicato in questi giorni dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
Un passo importante, anche se non risolutivo, alla luce anche dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss): le patologie finora catalogate con il codice di esenzione coprono meno di un terzo dei pazienti “rari”.
“Le malattie rare rappresentano una sfida paradigmatica – spiega il presidente dell’Iss Walter Ricciardi – che pone tra l’altro il problema dell’equità nell’accesso ai farmaci”. E proprio sulla questione dell’accessibilità salda l’alleanza tra i pazienti e il mondo dei farmaci equivalenti da cui è scaturita, lo scorso anno, l’intesa tra Assogenerici e la Fondazione Hopen, ospitata nella propria sede per promuove un network europeo delle associazioni che sostengono le famiglie colpite. “L’obiettivo – spiega Simona Bellagambi, referente di “Uniamo” (Federazione Italiana Malattie Rare Onlus per l'Italia, presente nella rete continentale di Eurordis) – è quello di dare vita a qualcosa di tangibile, di reale, di forte, che unisca tutti gli interessati verso un obiettivo comune. Quello di continuare a far considerare le malattie rare una priorità di sanità pubblica fino a quando i bisogni e i problemi legati a esse non saranno risolti”. Perché nessuno resti “invisibile”, appunto.
Mangiare bene è cruciale: lo sappiamo bene, anche se non sempre ci comportiamo di conseguenza. E che la dieta mediterranea fornisca probabilmente i “menù” più salubri al mondo è un fatto ampiamente riconosciuto dalla ricerca medica, a iniziare dall’ambito cardiocircolatorio, e perfino, come qui documentato un anno fa, a titolo di preziosa “profilassi” per la prevenzione influenzale. All’elenco di lodi per il nostro cibo se ne aggiunge un’altra legata all’accertamento scientifico di rilevanti virtù anti-depressive.
Titolare dell’approfondimento, tramite sperimentazione clinica, è una Università australiana, che ha pubblicato gli esiti dell’analisi sulla rivista BMC Medicine. I ricercatori hanno coinvolto 67 persone che soffrivano di depressione suddividendole in due gruppi e seguendole per dodici settimane: il primo ha mantenuto le proprie abitudini alimentari, l’altro ha invece virato verso i crismi della dieta mediterranea, dominata da cereali (specie integrali), frutta e verdura fresche, legumi, olio di oliva, uova, latticini non zuccherati.
Il primo gruppo, naturalmente, non ha riscontrato mutamenti umorali di rilievo al termine del trimestre. Il cambio di rotta è emerso nel secondo: un terzo dei partecipanti ha dichiarato un significativo miglioramento dei propri sintomi e del proprio umore. “Il sistema immunitario, la plasticità del cervello e un buon microbioma (l’insieme del nostro patrimonio genetico) sono cruciali non solo per il benessere fisico, ma anche per quello mentale”, commentano gli autori dello studio.
Non è per la verità una novità assoluta, tanto che la medesima rivista aveva pubblicato due anni fa un’altra ricerca in proposito, ancor più estesa nel tempo e nel campione coinvolto, svolta da un’Accademia spagnola delle Canarie che ha utilizzato i dati di migliaia di partecipanti, seguiti per oltre otto anni, ottenendo un esito analogo, ovvero la riduzione del 30% del rischio di depressione.
Quella “vecchia” ricerca poteva risentire di qualche variabile “di disturbo”, ad esempio il fatto che la “dieta mediterranea” – anche nella definizione datale dall’Unesco nel riconoscerla “Patrimonio dell’umanità” – non consista solo in un elenco di ingredienti specifici, ma anche di alcune abitudini “sociali”, in particolare dell’enfasi alla condivisione dei pasti attorno a uno stesso tavolo, fattore di per sé “anti-depressivo”. Nella ricerca australiana, invece, il test è stato puramente alimentare. E ci dice che la nostra tradizione culinaria fa davvero bene, anche all’umore, e non è roba da poco. Perché la salute non è solo assenza di malattia: se l’obiettivo è il benessere è assai di più.
Si tratta di una procedura ritenuta non priva di rischi, che al contempo molti collocano all’orizzonte della moderna medicina. È il cosiddetto “autotrapianto” di cellule staminali del sangue, che ora si sarebbe rivelato capace di fermare a lungo anche la progressione della sclerosi multipla, nell’ambito di uno studio che trova ancora una volta in prima linea gli scienziati italiani.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati nella rivista scientifica Jama Neurology, sulla base del lavoro condotto dai ricercatori dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze assieme a colleghi - anche connazionali- dell’Imperial College di Londra, che hanno esaminato i dati relativi a 281 pazienti – perlopiù selezionati tra quelli malati a uno stadio avanzato e poco rispondenti ad altre terapie pregresse - sottoposti ad autotrapianto nel periodo tra il 1995 e il 2006 in tredici Paesi e seguiti dopo la procedura per una media di circa sette anni.
La procedura ha previsto il prelievo di cellule staminali tramite chemioterapia e somministrazione di farmaci che ne determinano la fuoriuscita dal midollo osseo nel flusso sanguigno: la prima distrugge il sistema immunitario difettoso; la seconda permette la rigenerazione del sistema immunitario stesso tramite cellule “bambine”.
Nel 46% dei pazienti più gravi – hanno riferito i ricercatori - “si è assistito ad un arresto della progressione della disabilità a 5 anni dal trapianto”, e per alcuni addirittura a un miglioramento dei sintomi, percentuale che sale addirittura al 73% sul campione complessivo. E’ un risultato notevole, che fa del resto leva su una prassi “largamente utilizzata da circa 30 anni per il trattamento di alcuni tumori del sangue e del sistema linfatico”.
Nonostante il risultato positivo permangono le raccomandazioni alla massima cautela: nei primi 100 giorni di trattamento, tra i 281 pazienti del campione sono stati regitrati anche otto decessi come conseguenza della repentina messa in fuori gioco del sistema immunitario. L’orizzonte di ricerca sembra però tracciato, con prospettive promettenti, che coinvolgono ancora il nostro Paese. È di questi giorni, infatti, anche la notizia di un bando vinto da un consorzio internazionale coordinato dall’Ospedale San Raffaele di Milano, mirato proprio all’individuazione di farmaci contro la sclerosi multipla progressiva tramite le cellule staminali.
Allo stato attuale, si tratta di una scoperta “alla portata di mano” più o meno come quella dei pianeti forse “vitali” localizzati nei giorni scorsi a qualche decennio di anni luce. Nondimeno c’è chi ci lavora seriamente, e questo avviene anche e proprio in Italia. Si tratta della sperimentazione di possibili sviluppi di una sorta di ibernazione nella lotta al cancro, e lo “stato dell’arte” è stato illustrato nei giorni scorsi a Boston nel Congresso annuale dell’American Association for the Advancement of Sciences.
Il nodo di base è lo studio della cosiddetta “ipotermia indotta”, e i suoi potenziali effetti benefici, anzitutto per la salute. A una temperatura normale le cellule – malate e non – necessitano di un regolare apporto di ossigeno. Ora, quando il cuore smette di battere, l’apporto sanguigno di ossigeno cessa, sicché lo stesso cervello può resistere non più di cinque secondi circa prima di subire danni irreparabili, se non perire. E tuttavia, a temperature più basse, il bisogno cellulare di ossigeno cala perché l’insieme delle reazioni chimiche si rallenta, tanto che non mancano aneddoti di persone sopravvissute dopo decine di minuti di assenza di attività cardiaca, in quanto si sarebbero trovate per qualche incidente, ad esempio, in un lago ghiacciato.
La novità annunciata dal professor Marco Durante, direttore dell’Istituto di Trento per le Applicazioni della Fisica Fondamentale (Tifpa), in collaborazione con colleghi dell’Università di Bologna, è la scoperta di un “modo di indurre uno stato di quasi letargo in animali che normalmente non ci vanno, come i ratti”, identificando una zona cerebrale che regola la temperatura del corpo. “Inibendo specifici neuroni si abbassa la temperatura”, inducendo una sorta di “torpore sintetico”.
Da tutto questo scaturirebbe un’implicazione clinica cruciale, ossia la possibilità di effettuare pesanti radioterapie antitumorali, o addirittura di aumentarne le dosi, senza incorrere negli ora inevitabili effetti collaterali, in quanto le cellule sane, giacché “ibernate”, potrebbero sopportarli assai meglio.
Nell’obiettivo degli scienziati, dunque, “si potrebbero trattare tutte le metastasi senza uccidere il paziente: lo svegli ed è curato”. C’è chi già tenta la strada avveniristica di “ibernarsi”, magari per “vincere la morte”. Si tratta però solo di cronache amare, senza l’avallo della scienza, che considera ancora non possibile ibernare in modo sicuro un corpo umano. Nondimeno l’orizzonte c’è, e secondo gli studiosi italiani potrebbe concretarsi entro una decina d’anni. Alfine non di conseguire l’eternità, ma di poter combattere meglio le patologie più gravi.
In alto i cuori, e la speranza dei bambini, tutti, e soprattutto di quelli che stanno male. Questo il senso del lancio contemporaneo di migliaia di palloncini da ospedali, scuole e piazze di decine di città italiane avvenuto lo scorso 15 febbraio. L'iniziativa era peraltro internazionale, delle 183 associazioni (anche del nostro paese) che compongono la “Childhood Cancer International” (Cci) e hanno animato la quindicesima edizione della Giornata Mondiale contro il Cancro Infantile.
Si tratta di un ambito su cui cala perlopiù un colpevole silenzio, oltretutto a fronte di cifre preoccupanti. La stima globale è di 215mila nuovi casi l'anno nella fascia d'età tra 0 e 15 anni, e altri 85mila tra i 15 e i 19. L'Italia risulta tra i paesi più esposti, con 1380 ammalatisi l'anno scorso e 780 adolescenti. E se per i primi si rileva un lieve calo, dell'1% su base annua, per i secondi la tendenza continua a salire, del 2%
Serve dunque un salto in avanti nell'attenzione pubblica al fenomeno. Tra le priorità fissate dalla Cci si sottolinea il “diritto” a cure tempestive e efficaci, che ai fatti rappresenta un diritto negato per migliaia di bambini nel mondo. “Il cancro pediatrico è una patologia troppo spesso trascurata”, si denuncia, oltre a costituire “un induttore di povertà delle famiglie che ne sono colpite”, invocando perciò un'assistenza e un aiuto concreto.
Non a caso sono proprio i genitori a mobilitarsi in prima linea sul tema, per il tramite, in particolare, della Federazione Italiana Associazioni Genitori Oncoematologia Pediatrica (Fiagop), in collaborazione con l'Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatica (Aieop). Tantissime le iniziative, tra eventi festosi e convegni pubblici, attivate nell'arco della Giornata, e anche nei giorni precedenti e successivi, molti dei quali centrati sul nodo della prevenzione, a iniziare dalle buone abitudini alimentari.
L'obiettivo non è peraltro solo quello di alzare l'asticella della sensibilizzazione sul problema, ma anche un salto di qualità nell'assistenza farmacologica. “Riconvertire ad uso pediatrico i farmaci concepiti per gli adulti porta a un utilizzo non del tutto adeguato del medicinale stesso a cominciare dalla modalità, dal dosaggio e soprattutto non tiene conto dell’individuo a cui viene somministrato”, spiega il presidente Fiagop Angelo Ricci, nell'appellarsi alle istituzioni e al mondo scientifico: per una medicina capace di calibrarsi davvero sulle esigenze specifiche dei piccoli.