Certo, a margine di qualche ragionevole quesito su casi e patologie specifiche, ci sono le polemiche, le “fake news”, le storie che confondono le acque senza portare nessun vantaggio alla cultura sanitaria dei Paesi avanzati, che a volte sembrano voler buttare a mare i traguardi raggiunti.
Troppo spesso, però, ci si dimentica che l’altra faccia del problema sono quei quasi venti milioni di bambini non vaccinati del pianeta: una carenza che tiene sotto scacco intere aree povere, impedendo il superamento di diverse patologie, già ampiamente debellate altrove. Il dato è risuonato nei giorni scorsi, in occasione, come oramai da tradizione a fine aprile, della Settimana dell'Immunizzazione, promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), sullo sfondo di qualche novità di rilievo dalla ricerca. E così, sono partite nuove campagne di sensibilizzazione da parte di diverse sigle di specialisti, nonché una linea telefonica diretta, allestita per l’occasione la scorsa settimana dalla Società Italiana di Pediatria (Sip), per rispondere alle domande e ai dubbi circa le diverse vaccinazioni, obbligatorie o meno.
Tutto questo anche perché il problema in realtà non riguarda solo qualche area africana o asiatica, bensì lo stesso Vecchio Continente. “Dei 10,7 milioni di bambini nati ogni anno in Europa, quasi 650mila non completano il ciclo vaccinale delle tre dosi di difterite, tetano e pertosse nel primo anno di vita”, lamenta il Presidente della Sip, Alberto Villani. E un'amara menzione speciale è dedicata proprio al nostro Paese. Gli ultimi dati consolidano quanto qui già segnalato in precedenza con riferimento in particolare al morbillo. Degli oltre seimila casi rilevati in tutta l'Unione Europea nell'ultimo anno, quasi un quarto si sono verificati in Italia, superata in negativo solo dalla Romania, tendenza che sembra accelerarsi nei primi mesi del 2017.
Tra un allarme e l'altro non mancano comunque le buone notizie. Secondo le stime dell'Oms i vaccini salvano ogni anno la vita a circa tre milioni di persone,. Numeri che potrebbero presto ingrossarsi con l'annuncio, da parte della stessa Organizzazione, del via al test su larga scala di un nuovo “vaccino anti-malaria” nell'Africa sub-sahariana (teatro di oltre il 90% dei circa 430mila decessi l'anno per l'infezione), e in particolare in Kenya, Ghana e Malawi. La profilassi, in base alle sperimentazioni, si è rivelata capace di prevenire 4 casi di malaria su 10. Obiettivo, da qui al 2020, immunizzare almeno 360mila bambini
Il tema della “salute” appassiona eccome, più di quanto si pensi. Basta prestare orecchio alle chiacchiere da bar: il tema è secondo solo allo sport e forse alla politica, tra disquisizioni a volta strampalate e perfino spudorate, con tanti che non esitano a esternare pubblicamente le proprie magagne, incluse prostate, problemi cardiaci o altro, nonché le proprie conoscenze scientifiche. E’ un argomento “popolare” per eccellenza, con l’attenzione che reclama per gli addetti ai lavori.
Da qui l’eccellente idea di un vero e proprio “Festival della Scienza Medica”, giunto nei giorni scorsi a Bologna alla terza edizione. Un evento che non si è confinato in qualche sala conferenze, ma ha coinvolto i palazzi e i portici dell’intera città in un’opera di confronto pubblico, intorno al filone della “tradizione e innovazione”. Visite museali, aperture ospedaliere, mostre, concerti, incontri con gli studenti, in un approccio spintamente “multidisciplinare”, tra ricerca e tecnologia, il tema medico e insieme sociologico della “medicina di genere”, i nodi economici, incluso quello dei costi dei farmaci e quindi dell’importanza del ricorso ai farmaci generici, i “nuovi” orizzonti terapeutici quali la “pet therapy”, e perfino l’apporto della scienza medica alla criminologia.
Tra esposizioni, curiosità e dibattiti, non sono mancati i contributi “alti”, sul piano scientifico e istituzionale: tra gli altri, il Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco Mario Melazzini, che è intervenuto proprio sul tema dei costi farmacologici. Presenti in massa gli studiosi tedeschi (la Germania era il “Paese Ospite” di quest’anno), e ben quattro Premi Nobel per la Medicina, Jules Hoffmann, Louis Ignarro, Thomas Lindahl ed Edvard Moser. Per giunta, con un epilogo postumo, il 22 maggio interverrà anche – a proposito dell’“interdisciplinarità” del tema-salute – un celebre Nobel per l’Economia, l’indiano Amartya Sen, che parlerà dell’“importanza dei sistemi sanitari universalistici per l'economia” stessa. Ovvero: perché l’obiettivo di curare tutti (e bene) non è un “costo”, bensì anzitutto un’opportunità, anche sul piano materiale.
Dietro a tutto questo un sottotitolo, reclamato dall’attualità, quello sul dilagare delle “bufale”, con i rischi che comporta per la salute di ognuno e di tutti. Da una recente ricerca internazionale dell’Università slovena di Maribor (“The Spreading of Misinformation Online”), emerge che circa l’80% dei pazienti si informa sul web. E in tale ambito “si tende ad accordare più fiducia all'aneddotica personale che ai dati scientifici”, commenta l’Ordinario bolognese Luigi Bolondi, con la conseguenza che “la comunicazione deve diventare sempre di più una priorità”. Un appello alla responsabilità, rivolto ai comunicatori, ma prima ancora ai medici stessi. “Il paziente ha bisogno di essere ascoltato e confortato dal medico”. Il rischio-bufale aumenta quando questo supporto viene a mancare.
Ci sono diversi tipi di colesterolo, tanto da ingenerare qualche confusione e dubbio, perfino tra gli addetti ai lavori, sulle possibilità, e talora anche sull’opportunità, di trattarlo. Un salto in avanti, di chiarezza e di possibilità terapeutica, è segnalato da una ricerca americana illustrata in questi giorni a un convegno a Washington, nonché sulla rivista New England Journal of Medicine.
Ricerca che convince anche gli scienziati italiani: “A questo punto non abbiamo più dubbi: il cattivo è lui, il colesterolo Ldl. E per i pazienti il beneficio clinico è proporzionale alla sua riduzione”, commenta all’AdnKronos Alberto Zambon, lipidologo all’Università di Padova. La novità – dal punto di vista terapeutico - è rappresentata da un anticorpo monoclonale che si sarebbe rivelato capace di aumentare la capacità endogena del fegato di diminuire i livelli di colesterolo dal sangue.
Le qualità del prodotto sono state testate su un campione estesissimo, più di 27mila pazienti di 49 Paesi, monitorati per oltre due anni, tra il 2013 e il 2015: nei pazienti che lo hanno utilizzato è stata registrata una riduzione media del colesterolo del 59%, rispetto ai partecipanti del “gruppo di controllo”, ai quali era stato somministrato solo placebo. A fronte della somministrazione è stata registrata anche una diminuzione dei rischi cardiovascolari, con una diminuzione del 27% per gli infarti e del 21% per gli ictus.
Dati definiti “rivoluzionari” da molti, anche nel contesto italiano, dove l’ipercolesterolemia risulta crescere a ritmi vertiginosi, raddoppiando l’incidenza nell’arco di un decennio in base alle rilevazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, e superando oramai la quota di un terzo della popolazione. Con l’aggravante, nota lo stesso professor Zambon, che “è trattata in modo appropriato in meno del 50% dei pazienti ad alto rischio”.
Fa bene allo sviluppo del cervello, alla salute del cuore, alla prevenzione tumorale. I benefici del latte materno sono oramai riconosciuti e acclarati, sebbene permangano ancora quesiti e misteri sul dettaglio dei rapporti di causa ed effetto, nonché sulla specifica “chimica” così foriera di salute. Ed è proprio per gli esiti solo parziali dei “tentativi di imitazione” (oltre che per contrastare le pratiche commerciali assai controverse, messe in atto da alcuni produttori di latte in polvere, specie nei paesi poveri), che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità da tempo consiglia di utilizzare integralmente il latte materno almeno fino ai sei mesi.
Su tutto questo un salto di consapevolezza c’è comunque stato. L’Istat ha recentemente rivelato che tra i quasi tre milioni di donne italiane che hanno avuto figli negli ultimi cinque anni, la percentuale che ha allattato al seno è salita all’85,5%, rispetto all’81,1% del periodo precedente, così come si è prolungato il periodo medio di allattamento, da 6,2 mesi a 8,3. E la presa d’atto è stata anche “politica”, come documenta la direttiva del 3 febbraio scorso della Presidenza del Consiglio, che ha intimato le pubbliche amministrazioni a non ostacolare l’atto materno, sia per le lavoratrici che per le utenti dei servizi aperti al pubblico, sebbene la cronaca certifichi ancora il permanere di qualche tabù.
A promuovere tale salto sono state naturalmente soprattutto le donne, come quelle che da quasi 60 anni animano “La Leche League”, aiutando e informando le neomamme sui benefici e le buone pratiche di allattamento. La rete è distribuita su ben 72 Paesi, in Italia è presente dal 1979, con circa 120 consulenti con esperienza pregressa di maternità e allattamento stesso e formate grazie ad un tirocinio. L’attività di sensibilizzazione, indirizzata anche agli addetti ai lavori, è culminata nei giorni scorsi con tre giorni di convegno nell’area bolognese proprio in occasione proprio della “Giornata Mondiale dell’Allattamento”, celebrata il 21 aprile: l’evento – a conferma della presa di coscienza odierna – ha registrato il “tutto esaurito” con tre mesi di anticipo.
In un altro recente simposio scientifico internazionale, tenutosi a Firenze, nove tra i massimi esperti mondiali hanno fatto il punto sui benefici del latte materno accendendo i riflettori su Hamlet, detto anche“Golden Milk”, il complesso anti-cancro scoperto nel latte materno al centro dell’attenzione degli scienziati per essersi rivelato capace di uccidere in vitro oltre 40 tipologie di cancro nei ratti.
Anche in questa occasione è stato tra l’altro ribadito l’obiettivo di proteggere l’allattamento: “Per le prime due settimane dopo il parto le madri dovrebbero solo mangiare, dormire e allattare, lasciando letteralmente ogni altra incombenza ai padri”, dicono gli scienziati. E in caso di problemi, ci sono le “banche del latte”: in Italia sono 35 ed è un felice primato europeo. A gestirle sono donatrici e donatarie, sotto rigoroso controllo medico, tanto che la maggior parte sono istituite nell’ambito di strutture ospedaliere. Segno di civiltà. E di salute.
Sigle mediche e associazioni di pazienti non sono sempre dalla stessa parte. Stavolta, però è davvero così. E a cementare l’alleanza è stato il tema “caldo” delle vaccinazioni, in preoccupante calo anche sulla scia del fenomeno delle cosiddette “fake news”, che minimizzano l'importanza delle conquiste avvenute per la salute pubblica, tanto da contestarle e mettere a repentaglio i traguardi consolidati.
Per questo la Società Italiana di Medicina Generale (Simg) e la rete associativa di Cittadinanzattiva hanno siglato assieme un sintetico ma esauriente opuscolo informativo, disponibile on-line, e in arrivo in formato cartaceo negli ambulatori, nelle farmacie e nelle stesse sedi dell'associazione. Obiettivo: fugare “diffidenze e dietrologie”, ma anche rispondere ad alcuni dubbi, quali ad esempio l’utilizzo dei vaccini durante la gravidanza o in caso di malattia.
In altre parole, si tratta, puntando all'informazione, di invertire la rotta sulle vaccinazioni, che “hanno avuto un impatto dirompente senza pari a beneficio della salute”, nelle parole dello stesso ministro Beatrice Lorenzin. “Le percentuali, in età pediatrica, per molte gravi malattie infettive sono scese sotto la soglia limite di sicurezza del 95%, per la poliomielite, difterite e tetano è immunizzato solo il 93% dei bambini, su parotite, rosolia e morbillo siamo a meno dell’85%”, nota preoccupato il Presidente Simg, Claudio Circelli.
La conseguenza, già segnalata in questi sito, è ad esempio nel rinnovato allarme sul morbillo, ritornato in Italia a uno stato definito “endemico”, avendo già sfondato quota mille casi solo dall'inizio di quest'anno. Sui vaccini il pensiero va subito alle esigenze attuali e future dei bambini, ma il tema coinvolge tutte le fasce d'età, e in particolare gli anziani. A causa dell'influenza, ad esempio, “l'inverno appena terminato ha registrato un boom di decessi tra gli anziani, il 15% in più rispetto alle previsioni”, documenta ancora la Simg.
Fondamentale, dunque, immunizzarsi, levando di torno ogni dubbio in materia di sicurezza dei vaccini, del tutto immotivato data la natura strettissima dei controlli sull'intero settore farmacologico, in Italia e in Europa. “Basta diffidenze sui vaccini”, incalza anche Tonino Aceti, Coordinatore del Tribunale dei Diritti del Malato di Cittadinanzattiva. L'urgenza della sensibilizzazione in materia è dunque riconosciuta e condivisa, e per giunta va paradossalmente estesa agli stessi operatori sanitari italiani, anch'essi ai fatti piuttosto pigri. Da un'indagine divulgata in questi giorni emerge tra l'altro che oltre il 40% non si è sottoposto al richiamo per il tetano negli ultimi dieci anni, e meno di un terzo si è vaccinato quest'anno contro l'influenza.
“E’ il male del secolo”. Lo si dice per la depressione, e per la verità anche per altre patologie, ma a leggere i dati rilanciati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che in questi giorni ha celebrato la propria “Giornata”, dedicandola proprio a essa, è un epiteto amaramente meritato. “E’ la causa principale di malattia e disabilità al mondo”, scrive l’Oms, segnalando come la depressione sia tuttora un problema pericolosamente sottovalutato, a fronte di un rapido aumento della sua incidenza. Il 50% dei pazienti non accede ad alcuna cura, e perfino nei Paesi ricchi i sistemi sanitari non dedicano alla depressione più del 5% delle proprie risorse.
Tale contesto sottolinea l’importanza delle novità scientifiche orientate a facilitare la diagnosi e l’appropriatezza terapeutica. Un annuncio interessante proveniente da un’Università texana è stato pubblicato sulla rivista “Psychoneuroendocrinology”, che ha approfondito l’analisi di una particolare proteina infiammatoria, la cosiddetta “proteina C reattiva”, captabile con una banale analisi del sangue.
Il suo nesso con gli stati depressivi era già stato identificato in recenti ricerche. La novità è ora che su tale presupposto è stata riscontrata la possibilità di predire in anticipo la combinazione di farmaci e il dosaggio più adatti al singolo paziente, tema tra i più complessi e delicati nel percorso terapeutico. I test per ora sono stati realizzati solo su alcune molecole e serviranno altri riscontri tuttavia le prospettive sono importanti proprio in relazione alla facilità dei rilevamenti dai test del sangue a fronte dell’estensione del fenomeno e della numerosità delle patologie di cui la depressione è “causa principale”, come sottolinea l’Oms.
Agli studi fin qui realizzati si è aggiunta recentissimamente una novità proveniente dalla ricerca italiana e riferita all’Alzheimer. Da uno studio condotto da istituti romani, apparso sulla prestigiosa “Science”, è emerso che la malattia, caratterizzata da irreversibili perdite di memoria, non avrebbe origine nella stessa area “mnemonica” del cervello, bensì piuttosto in quella “emotiva”, l’“area tegmentale ventrale”, che rilascia la “dopamina”, il cosiddetto “neurotrasmettitore dell’amore”. Ripristinandone i livelli, gli scienziati italiani hanno scoperto che le cavie recuperavano, al contempo, il ricordo e la motivazione.
Del peso specifico della depressione si nel frattempo accorto il business dell’Information Technology: al XXV Congresso dell’Associazione Europea di Psichiatria (Epa), svoltosi nei giorni scorsi a Firenze, ha tenuto banco ad esempio il dato riferito alle migliaia di “app” realizzate proprio per rispondere ai bisogni legati alla salute mentale, che rappresentano addirittura il 6% dei prodotti che appaiono negli appositi negozi informatici. Insomma il problema della depressione è serio, globale, collettivo e foriero di altri problemi di salute, e quindi non va gestito in silenzio. I modi per affrontarlo, prima e bene, ci sono, e sempre più sofisticati.
Diabete=”malattia del benessere”. Qualcuno accredita questa equivalenza, sulla scia del fatto che è una patologia dilagante non solo nei Paesi avanzati e ma anche in quelli emergenti, in relazione all’aumento (e spesso peggioramento) dei consumi alimentari e alla loro “industrializzazione”. C’è qualcosa di vero e documentato in questo, ma la realtà è che vale anche e soprattutto il contrario, specie se si guarda all’interno del contesto dei singoli Paesi. Il diabete tende a colpire perlopiù i ceti deboli, per cause da accertare nel dettaglio, ma per certi versi facilmente intuibili.
Nei giorni scorsi, alla Camera dei Deputati la Fondazione Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo) ha presentato il suo rapporto annuale, realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), fornendo nell’insieme dati piuttosto allarmanti sul nostro Paese, del resto in linea con le tendenze globali documentate recentemente dall’International Diabetes Federation: nel mondo ci sono 415 milioni di diabetici, e si prevede che nel 2040 saranno addirittura 642 milioni.
In Italia sono 3,27 milioni (dati 2015), ai quali va aggiunta la stima di un altro milione di persone che sarebbero affette da diabete senza saperlo. Solo quindici anni prima erano un milione in meno. Pesa, di certo l’invecchiamento della popolazione, ma questo non spiega tutto, anche perché l’aumento non è solo in valori assoluti, ma anche in rapporto alla popolazione. I malati erano il 3,8% nel 2000, oggi siamo al 5,4%, e le proiezioni dicono che andrà ancora peggio. “Tra 10 anni, in ogni famiglia italiana vi sarà una persona con diabete o un soggetto prediabetico”, avverte il professor Domenico Cucinotta, coordinatore del rapporto.
Il dato può suonare sorprendente, visto che i dati riferiti all’ultimo quindicennio evidenziano anche una pur lieve diminuzione della mortalità associata alla malattia, in ragione del miglioramento delle cure farmacologiche. La spiegazione dell'aumento patologico è piuttosto nel titolo stesso del dossier, “Italian Diabetes & Obesity Barometer Report”, che mette la lente al contempo sulla malattia e sul problema del sovrappeso, col secondo che aumenta i rischi del primo. “Diabete e obesità sono oramai una pandemia”, nota Renato Lauro, presidente della Fondazione. E da questo punto di vista l’Italia sta messa comparativamente maluccio: ad esempio, la prevalenza dei bambini obesi, quasi al 10%, è ai vertici europei, trainata soprattutto dalle Regioni del Centro-Sud. Dati che, a detta della Fondazione stessa, indicano anche la strada della soluzione, quella della prevenzione alimentare, coinvolgendo le stesse scuole nell’educazione al cibo.
Una strategia per la quale esiste già una controprova, consistente nella diversa esposizione alla malattia in funzione dei livelli educativi. Secondo il rapporto, un laureato ha un rischio di ammalarsi tre volte inferiore a chi ha solo la licenza elementare, e la stessa sperequazione si nota sulla propensione al sovrappeso. Questione non di “titoli”, ovviamente, ma di tendenza a informarsi, e naturalmente anche di possibilità di accedere a cibo di qualità. Allora, altro che “benessere”. Si tratta in buona misura di una “patologia sociale”, che tende a colpire selettivamente (anche se non necessariamente) i più deboli. Il che rappresenta un richiamo agli stessi decisori, e non solo in ambito sanitario.
Ma perché i sardi vivono di più? Il quesito c’è, è sollevato da semplici dati demografici, ed è oggetto di crescente interesse da parte di scienziati di tutto il mondo. Senza andare lontano, una novità scientifica arriva proprio dalla Sardegna, ed è centrata – senza strane alchimie sul maestrale e altre leggende – sull’alimentazione, per certi versi spiazzando un po’ le aspettative, specie perché segnalerebbe che gli avi avrebbero mangiato più sano dei contemporanei.
L’indagine ha fatto leva su tecniche innovative di estrazione del Dna dalla placca dentale dei sardi vissuti 200 anni fa. L’esito, in sintesi, è che allora mangiavano più verdura e meno carne, a beneficio della prevenzione di diverse patologie croniche a carattere auto-immune o cardiovascolare. A partire dagli anni ’50 del secolo scorso c’è stato un cambio di indirizzo in favore della carne, sicché la percentuale di alcuni micro-organismi, i cosiddetti “batteri anaerobi” si è addirittura centuplicata.
“Il loro eccesso fa sì che possano attraversare le barriere tessutali ed entrino in circolo sanguigno esponendoci a malattie come l'artrite reumatoide, o patologie come l'aterosclerosi”, spiega il professor Germano Orrù, dell’Azienda universitaria di Cagliari. Al dato fa riscontro anche un recente studio dell’Università di Sassari, che sottolineerebbe il ruolo benefico di produrre “in casa” le verdure, la frutta, i formaggi, perfino il vino, senza troppi additivi chimici.
E poi ci sono gli studi internazionali, addirittura una società biotecnologica inglese ha acquistato una banca dati per analizzare le informazioni genetiche di decine di migliaia di sardi, dove i centenari sono percentualmente il doppio, ad esempio, di quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti. Insomma l’affascinante isola è entrata a pieno titolo nell’alveo delle zone “sotto osservazione” per l’eccellente longevità, al pari della giapponese Okinawa o della greca Ikaria. Il cui tratto comune, al di là dei miti, sembra essere proprio quello di un consumo relativamente limitato di proteine animali.
Lo studio cagliaritano sembra peraltro lasciare aperto un quesito. I benefici accertati si riferiscono a un paio di secoli fa, ma negli ultimi decenni, pur con abitudini apparentemente “peggiorate” per l’aumentato uso della carne, la longevità risulta aumentata, come altrove. La risposta sta un po’ nel miglioramento generale delle condizioni di vita dal dopoguerra. Ma sta anche in un altro dato di fatto: i centenari in Sardegna non sono un fenomeno odierno. A spulciare tra gli archivi delle parrocchie spunta tra l’altro il caso di un uomo, nato nel 1718 e morto nel 1842, e risposatosi a 110 anni. A leggere gli ultimi studi, il suo segreto non stava affatto nel maialino, ma in quel che semplicemente cresceva nel suo orto.
Uno “tsunami”, la definisce Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica. L’immunoterapia aggredisce le cellule tumorali stimolando le difese “autonome” del sistema immunitario del paziente stesso. Rappresenta una svolta di metodo, che trova riscontri scientifici e clinici sempre più convincenti. A essa è stato consacrato un apposito convegno la scorsa settimana a Roma, sulla scia dell’ultimo Congresso, tenutosi in autunno a Copenaghen, della Società Europea di Oncologia Medica (Esmo), che raggruppa 13mila specialisti del Continente.
La strada è stata aperta pochi anni fa dalla cura del melanoma, ma che alle ultime evidenze sembra poter aggredire efficacemente anche il tumore al polmone e alla vescica (oggetto del convegno romano). I risultati di alcuni principi attivi sono promettenti, in qualche caso superiori alla tradizionale chemioterapia, e per giunta possono costituire un’alternativa necessaria per i pazienti più anziani e fragili, per i quali il trattamento chemioterapico stesso è limitato dalla pericolosità degli effetti collaterali e dalla compresenza di altre patologie.
Per la vescica, in particolare, il trattamento immunoterapeutico è ritenuto il “primo passo avanti nella cura dopo trent’anni”, su una patologia che solo nel 2016 ha registrato quasi 27mila nuovi casi solo in Italia. “L’atezolizumab ha ridotto la massa tumorale in circa un quarto dei pazienti – documenta Paolo Marchetti, direttore dell’Oncologia medica all’ospedale Sant’Andrea di Roma - e la sopravvivenza mediana è stata di 15,9 mesi, quando generalmente in questi pazienti è pari a 9-10 mesi con la chemioterapia”. Medie che segnalano quasi un raddoppio nell’efficacia delle cure, e quindi delle possibilità di guarigione, per giunta con un miglioramento dei sintomi, ossia della qualità della vita.
Miglioramenti che del resto si ineriscono in un quadro piuttosto lusinghiero per la medicina italiana, che presenta percentuali di guarigione (78% per il tumore al polmone, 14,3% per quello al polmone) migliori rispetto alle medie continentali, come riconosciuto dalla stessa Esmo. Quel che purtroppo invece non cambia è l’esposizione alla malattia, alta come nel resto d’Europa.
E su ciò si rilancia il problema della sigaretta, responsabile fino al 90% dei cancri al polmone e di due terzi dei tumori alla vescica. Ma anche per questi la “rivoluzione” si annuncia efficace. “La risposta immunitaria risulta spontaneamente più forte contro mutazioni del DNA provocate da fattori esterni e che rendono le cellule tumorali 'aliene' al nostro organismo e quindi da rigettare”, spiega. Licia Rivoltini, direttrice all’Unità immunoterapeutica all'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Gli scienziati parlano di sfide ancora da affinare, ma con esiti potenziali già accertati, e quindi con la certezza sulla strada da percorrere.
Da precisare subito, dinanzi a qualche annuncio o esagerazione giornalistica: siamo ancora ancora alle parole, per gli atti concreti bisognerà attendere almeno un po’. La volontà politica, a livello statale e regionale, è stata comunque definita, così come il pieno consenso (e anzi il sollecito) dalla totalità degli addetti ai lavori – inclusi medici e associazioni - al “tavolo” aperto negli ultimi giorni presso l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa). Si punta a una semplificazione dell’accesso a ricette e cure per i circa dieci milioni di italiani affetti da qualche malattia cronica, e spesso costretti per giunta all’odissea di procedure costose e interminabili, oltre che almeno in parte non giustificate.
La realtà è che i pazienti cronici possono acquistare i farmaci necessari solo dopo la definizione di un “piano terapeutico” per il quale il medico di base non basta, necessitando il ricorso a uno specialista. Quindi sono costretti necessariamente a passare da un medico all’altro, per poter accedere a centinaia di prodotti di 32 diverse categorie terapeutiche.
Spese per i ticket per le visite, ore e giorni di attesa, che per giunta a volte non sono sufficienti per il protrarsi del ping-pong, come lamentano i medici stessi. “Spesso il paziente torna senza piano e con richieste di esami diagnostici da noi già effettuati che ovviamente lo specialista non conosce e siamo così costretti a rinviarlo allo stesso specialista dietro esborso di altri 50 euro”, racconta Silvestro Scotti, Segretario della Federazione Italiana Medici di Famiglia.
E non mancano le aggravanti: quel “piano terapeutico” va aggiornato periodicamente, a seconda dei casi e della patologia, e tale periodicità può ridursi addirittura all’arco di pochi mesi. Di più, alcune Regioni impongono che la prima dose di farmaci, e quindi il primo timbro sulla prescrizione, debbano passare per la farmacia ospedaliera, e solo dagli acquisti successivi sia possibile recarsi in quella sotto casa. Ancora, protestano i pazienti di qualche Regione, “i farmaci necessari per le cure mensili non vengono più prescritti in un’unica ricetta ma con più prescrizione settimanali”.
E così, si arriva talora a eccessi procedurali non-sense, ben al di là della sacrosanta necessità di tutelare l’appropriatezza e sicurezza terapeutica. Ai fatti, è una burocrazia che tende a caricare i pazienti di oneri, anche economici, e a scaricare quelli dell’ente pubblico, sia limitando la vendita dei farmaci (e quindi l’esborso per il Servizio Sanitario), sia incassando dai ticket.
Ora, la volontà di una rapida svolta c’è e, passa, secondo il tavolo all’Aifa, per una più stretta collaborazione tra specialisti e medici di famiglia, valorizzando il ruolo di questi ultimi anche nell’ambito della diagnostica. Questione di rapidità e di costi, tema al centro delle battaglie nel mondo dei Farmaci Generici. E a tal proposito, quando lo scorso settembre fu varato il primo “Piano Nazionale della Cronicità”, la rete di Cittadinanzattiva, tramite il Coordinatore del Tribunale del Malato Tonino Aceti, commentò, pur plaudendo, con un’annotazione: “La sfida sarà quella di attuarlo, anche perché non sono previste risorse aggiuntive”. Il nodo di fondo sarebbe anzitutto quello dei fondi, quindi, ma l’aggravare i pazienti di procedure e costi non è certo un risparmio.
Gli annunci dal mondo della scienza preludono solitamente a novità che, per arrivare alla concreta applicazione clinica, tra sperimentazioni e procedure d'approvazione, richiedono molti anni. Stavolta, invece, tutto fa pensare che i tempi saranno assai più brevi: secondo gli scienziati che lo hanno “battezzato” il “superscanner” capace di potenziare notevolmente le capacità di “vedere” all’interno del corpo umano, captandone anche i più piccoli malanni, dovrebbe essere operativo già entro il 2018.
Elaborato dall'Università della California, e presentato nelle scorse settimane con due articoli su altrettante riviste scientifiche e parecchi rimbalzi sulle principali testate divulgative globali, il prototipo - battezzato “Explorer” (Extreme Performance Long Research Cancer) – rappresenta una evoluzione della “PET Total-Body”, ovvero la Tomografia a emissione di positroni (Pet), capace di fornire immagini dettagliate sulla totalità degli organi corporei, utilizzando particelle radioattive che segnalano la presenza di patologie tumorali o neurodegenerative.
Attualmente la “scannerizzazione” è possibile solo per parti specifiche del corpo, e non per il suo insieme, il che costituisce un limite per la diagnosi e l'analisi di patologie multi-sistemiche, che hanno possibili ricadute e sintomi su varie parti del corpo, lontane tra loro. La nuova tecnologia consentirà di aggirare l’ostacolo e offrirà inoltre immagini di altissima risoluzione, che permetteranno di captare anche le più piccole tracce cancerogene, nonché altre tossine, inclusi i possibili effetti collaterali dei trattamenti farmacologici.
Explorer sembra dunque destinato ad avere un impatto enorme sia sulla capacità di diagnosi che sull’evoluzione della ricerca medica, anche alla luce delle rassicurazioni giunte dagli scienziati in tema di quantità di radiazioni utilizzate: “Con lo scanner total-body circondiamo il corpo di rilevatori, che fermano le radiazioni e le trasformano in segnale”, spiegano. Sottolineando anche che il sistema riduce le dosi radioattive necessarie, anziché alimentarle: “per un esame – concludono - saranno pari a quelle ricevute in un volo di andata-ritorno Los Angeles-Londra”.
La scienza medica avanza, ma avanza anche il rischio di ammalarsi. Secondo le proiezioni della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori (Lilt), solo l’anno scorso sono morti di tale patologia 1,3 milioni di europei, ed entro il 2025 i pazienti oncologici in Europa saranno oltre 20 milioni. Eppure, nell’obiettivo fissato dalla stessa Lilt, nell’ambito dell’appena celebrata Settimana Nazionale per la Prevenzione Oncologica, si punta a “ridurre l’incidenza dei tumori del 15% entro quella data, ovvero - nota il presidente Francesco Schittulli - nell’arco di soli otto anni”.
Come si fa? Arrivandoci prima. L’arma principale nella lotta al cancro rimane, infatti, quella della prevenzione. E in tal senso si spiega anche la scelta dei due testimonial d’eccezione, che hanno prestato la loro immagine all’ultimo evento: il signore del calcio, il 40enne Francesco Totti, e il re degli chef, Massimo Bottura, fresco del riconoscimento ottenuto dal suo ristorante modenese a New York, classificato come il migliore al mondo.
Totti e Bottura non sono solo “personaggi famosi” e per giunta con un bel curriculum di iniziative benefiche pregresse. Sono anzitutto “fuoriclasse della prevenzione”, incarnandone i due capisaldi: l’attività fisica e la qualità alimentare. Il loro mancato rispetto sta conducendo al dilagare dell’obesità. Nel 2030 in Italia, secondo le stime presentate dalla Lilt, sarà obeso un quinto della popolazione maschile e il 15% di quella femminile. E non va meglio per i bambini, già affetti da obesità per il 14%, percentuali che tendono ad alzarsi ulteriormente nelle Regioni del centro-sud.
E “purtroppo un bambino obeso sarà un adulto malato”, avverte Schittulli: basti pensare che oltre un terzo dei tumori è causato da una scorretta alimentazione. E’ qui, oltre che nella lotta alla sedentarietà, il cuore della sfida della prevenzione, naturalmente in aggiunta alla guerra al consumo eccessivo di alcol e al fumo, prima causa di morte per tumore.
Oltre che dai volti di Totti e Bottura, la Settimana è stata peraltro animata da circa 20mila volontari, nonché dai professionisti prestatisi per fornire informazioni e visite gratuite nei 400 centri di prevenzione allestiti in tutta Italia e nelle sedi provinciali della Lilt. L’associazione ha così tra l’altro festeggiato i suoi 95 anni di onorata carriera, tra attività di sensibilizzazione, messa in rete delle strutture oncologiche e informazioni scientifiche indirizzate ai pazienti.
“L’economia italiana in difficoltà ha la popolazione più sana al mondo”: l’agenzia statunitense Bloomberg, specializzata sui temi economici, ha titolato così l’esito di una sua classifica globale sulla salute dalla quale emerge che a trionfare è proprio il nostro Paese, ancora alla faticosa ricerca dell’uscita dalla più grave crisi del dopoguerra.
La stessa Bloomberg aveva del resto già promosso il nostro Servizio sanitario ai primi posti nella classifica dell’”efficienza”, incrociando i dati sull’aspettativa di vita con quelli relativi ai livelli di spesa, sottolineando l’ampiezza della copertura sanitaria ma anche la scarsità dei fondi dedicati al settore rispetto ad altri Paesi avanzati.
In questo caso, oltre a collocarci al vertice assoluto, l’indagine si restringe al dato secco su come realmente stiamo, valutando la longevità e l’incidenza di varie patologie. Dietro di noi, Islanda, Svizzera, Singapore, molto più indietro americani e inglesi. Paesi e popolazioni, cioè, con una situazione economica più favorevole ma con più alti livelli di colesterolo e pressione sanguigna, e anche molto più colpiti da disturbi psichiatrici.
Il segreto? “Anzitutto la dieta mediterranea”, afferma Bloomberg, citando la ricchezza di prodotti freschi, verdura, frutta, pesce, “grassi sani” come l’olio extravergine di oliva. Poi l’ampia presenza di medici: perfino “troppi”, argomenta l’analisi. E a rallegrarsi è anche Beatrice Lorenzin. “I segreti della longevità italiana sono la dieta, gli stili di vita, all’aria aperta, un Servizio Sanitario pubblico e universalistico”, rivendica il ministro della Salute, parlando di “obiettivi da consolidare e non dare per scontati”.
Oltre a non essere scontati, alcuni dissentono che siano stati davvero raggiunti. Sulle “classifiche della Felicità” - celebrata il 20 marzo in sede Onu - che tengono conto di variabili sanitario-depressive, l’Italia resta indietro, anche in ambito europeo. Lo stesso emerge dall’“Euro Health Consumer Index”, che valuta i livelli di soddisfazione dei cittadini sull'assistenza sanitaria, in Italia piuttosto basso. Dati che, incrociati, confermano un Paese in difficoltà e non certo pago delle tutele esistenti ma che nel complesso resiste e mantiene un buono stato di salute.
L'allarme c'è, ed è multiplo, con dati e moniti che arrivano dal governo italiano, dall'Unicef e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il morbillo, mai del tutto debellato, sta rialzando la testa. E' una tendenza già rilevata negli ultimi anni nel nostro paese, ma che ora sta palesando un'accelerazione, con particolare riferimento a Lazio, Toscana, Lombardia e Piemonte.
Solo dall'inizio di quest'anno sono stati rilevati dal Ministero della Salute oltre 700 nuovi casi, mentre in tutto il 2016 erano stati 844, il che si traduce in un incremento tendenziale di oltre il 230%. Al contempo non ci sono misteri sulla “diagnosi” del fenomeno, che gli addetti ai lavori attribuiscono al calo di vaccinazioni, a sua volta dovuto alle scelte di alcune famiglie, vittime di qualche disinformazione sulle loro presunte controindicazioni. Controindicazioni che – spiegano i medici – non sussistono, e, anche laddove si levassero elementi di dubbio, sarebbero infinitamente meno gravi rispetto all'insorgere della patologia stessa.
“Nel 2015 la copertura vaccinale contro il morbillo nei bambini a 24 mesi è stata dell’85,3%, lontana dal 95% che è il valore-soglia ritenuto necessario ad arrestare la circolazione del virus nella popolazione”, lamenta lo stesso ministro Beatrice Lorenzin, esortando gli operatori sanitari, a iniziare dai medici di base e dai pediatri, al lavoro di sensibilizzazione.
Il tema è globale, ma l'Italia, tra i Paesi avanzati, sembra particolarmente a rischio, dati alla mano, tanto da ricevere qualche bacchettata perfino dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. In base alle statistiche europee (sul 2013), siamo addirittura al secondo posto nel Vecchio Continente per numero di contagi, superati solo dalla Romania. E che il nodo sia anzitutto sulle vaccinazioni è documentato perfino dai dati positivi: secondo l'Unicef la mortalità da morbillo nel mondo è diminuita del 78% tra il 2000 al 2012, proprio per l'estensione dei vaccini anche nei Paesi meno abbienti.
Eppure, nel pianeta si continua a morire di questa patologia, con oltre 130mila decessi l'anno. “Il morbillo non è un banale raffreddore – ricorda Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia - e nei bambini più piccoli e con difese immunitarie più fragili può avere complicanze letali”. E a questo si incrocia il fatto, ricordato dal Cnr, che esso ha “un tasso di contagiosità quattro volte più elevato di quello dell’influenza”. Insomma il problema c'è, e c'è anche la soluzione: quella di andare avanti, anziché tornare indietro.
Anche nel contesto dell’ultimo otto marzo ricordammo come la “medicina di genere” non sia più un’istanza ideologica ma un’esigenza accertata dalla scienza e oramai riconosciuta dagli stessi decisori, richiedendo un’attenzione specifica alle peculiari esigenze biologiche femminili, mentre la terapia, sin dalla ricerca sperimentale, è ancora largamente effettuata al maschile. A tutto questo si aggiunge un dato ulteriore, ossia che ci sono diverse malattie che tendono selettivamente a colpire in modo grave perlopiù le donne stesse.
Ebbene, l’elenco di tali patologie ora si allunga, includendo il diabete di tipo 2. Lo ha ricordato la stessa Società Italiana di Diabetologia (Sid), a recente Congresso a Riccione, invocando un salto nell’attenzione terapeutica per l’universo femminile, del resto in linea con l’International Diabetes Federation che ha deciso di dedicare la sua prossima “Giornata” (a novembre) proprio alle diabetiche.
La differenza non sta nell’incidenza della patologia, sostanzialmente alla pari tra i sessi, ma sulle sue conseguenze. “Quasi tutti i rischi legati alla malattia nelle donne sono più alti del 30 per cento o anche raddoppiati”, fa sapere Giorgio Sesti, presidente della Sid, in riferimento, tra l’altro, alle malattie cardiovascolari. Per l’ictus, ad esempio, è stato documentato che il rischio sale del 27% tra le diabetiche rispetto ai pazienti maschi. E per gli infarti si arriva al triplo.
Ad aggravare il quadro c’è il fatto che si tratta di una differenza “non percepita dai medici né tanto meno dalle pazienti”. “Poche mammografie e pap-test, sebbene la malattia esponga ad un rischio doppio di tumori”, nota ad esempio il presidente della Fondazione Diabete Ricerca Enzo Bonora. “Le donne spesso non riconoscono i sintomi dell'infarto, che in loro sono diversi – spiega Giovannella Baggio, docente di Medicina di genere all'Università di Padova - hanno meno dolore e invece provano magari forte ansia e mancanza di respiro”, esponendosi così a maggiori rischi di morte.
Questo tuttavia non significa che si curino di meno degli uomini. I dati e le tendenze discusse al Congresso, tra consumi farmacologici e aderenza terapeutica, non sembrano affatto dimostrare tale discrepanza. Il problema, evidentemente, è anzitutto altrove. Gli stessi medicinali non raggiungono per le donne gli stessi obiettivi, nella fattispecie su emoglobina glicata e glicemia. “Sono fatte diversamente”, sul piano ormonale e molto altro. Ed è tempo di tenerne davvero conto.
“Un’epidemia silenziosa”, la definisce l’editorialista di Repubblica Concita De Gregorio, ammettendo peraltro la colpa dei media stessi di aver (di nuovo) trascurato la ricorrenza, lo scorso 15 marzo, dedicata a una delle piaghe più drammatiche e dilaganti del disagio psicologico e sanitario giovanile (e non solo), quello dei disturbi alimentari. Colpiscono, si stima, tre milioni di italiani, quasi tutti giovani, e in larghissima parte, per oltre il 95%, donne.
Per questo è stata lanciata una campagna fa leva su un sito informativo curato da una rete associativa, con patrocini governativi, ma ancora in attesa di riconoscimento ufficiale della “Giornata” dedicata nei giorni scorsi al tema. Insomma manca un’attenzione diffusa al fenomeno, alla sua portata quanto alla necessità di attenzione. Esiste comunque un “numero verde”, l’800180969, attivato nell’ambito della stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri.
“La patologia non riguarda più solo gli adolescenti, ma va a colpire anche bambini in età prepubere, con conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente”, spiega la Direttrice del servizio Laura Dalla Regione, specificando che i disturbi possano oramai iniziare sin dalla tenerissima età di otto anni. Questo per i disturbi più diffusi come l’anoressia o la bulimia, ma ce ne sono altri che possono incombere addirittura prima. E’ il caso del cosiddetto “Arfid”, ossia disturbo dell’alimentazione restrittivo, che colpisce già dai due anni, e consiste nell’eccessiva selettività alimentare del piccolo, il quale accetta solo cibi di una certa consistenza o colore. Si tratta di una forma “lieve”, che però, proprio per la tenera età su cui incombe, se non trattata adeguatamente può incidere sulla crescita, sulla salute e sulla socialità.
Sul più pericoloso dei disturbi, l’anoressia nervosa, i numeri sono tutt’altro che esigui, con almeno 8 nuovi casi l’anno su 100mila persone tra le ragazze, mentre per i maschi si scende intorno all’1, e per la bulimia la proporzione femminile sale sui 12 per 100mila. Globalmente, si stima che le forme più gravi di tali disturbi colpiscano oltre l’1% delle donne. Una piaga estesissima, dunque, che fa impennare fino a dieci volte il rischio di morte.
Si tratta per giunta di un settore che necessiterebbe più che mai di un approccio “integrato”, capace di incrociare le competenze di medici, psicologi e dietisti. Le strutture dedicate in Italia sono ancora relativamente poche, anche se qualcosa si è mosso negli ultimi anni. Dal 2008 il Ministero della Salute ha lanciato una mappatura, aggiornata sulla medesima pagina consacrata alla citata “Giornata del Fiocchetto Lilla”. E, come spesso accade, l’indagine stessa è foriera di un salto in avanti nella consapevolezza dei cittadini e addetti ai lavori. Sul concetto che quelle ragazze non possono essere lasciate sole.
L’annuncio ha il sapore di una svolta epocale, e arriva dall’Italia. Si apre la possibilità di restituire la vista a tante persone che l’hanno perduta a causa della degenerazione dei fotorecettori della retina, una delle principali cause di cecità tra gli adulti, finora largamente senza rimedio. La soluzione prospettata rileva dalla creazione in vitro di una retina completamente organica.
La scoperta è descritta sulla prestigiosa “Nature Materials”, ed è firmata dal Centro di Neuroscienze Sinaptiche (Nsyn) dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (Iit), in collaborazione con altri centri di ricerca del nostro paese. La composita équipe connazionale ha concepito un dispositivo biocompatibile capace di rimettere in moto le funzioni visive convertendo gli stimoli luminosi in segnali elettrici per il cervello.
Il nodo era dunque duplice, quello della compatibilità con i tessuti biologici, e quello della capacità di captare la luce connettendola al cervello. A quanto pare, gli studiosi italiani ci sono riusciti, sopperendo all’assenza di fotorecettori funzionanti nell’occhio. Dalla sperimentazione su animali ciechi è emerso il ripristino dell’attività visiva con una persistenza che raggiungeva i dieci mesi dall’impianto. Inoltre, la “retina organica” si è rivelata capace di potenziare l’attività complessiva dell’occhio, incrementando l’attività metabolica della corteccia, e tutto questo senza palesare alcun effetto avverso.
Il dispositivo elaborato è tecnicamente un “semiconduttore fotovoltaico organico”, denominato “rr-P3HT”. “Rispetto ai modelli di retina artificiale ora disponibili basati sulla tecnica del silicio, il nostro prototipo presenta vantaggi quali la spiccata tollerabilità, la lunga durata e totale autonomia di funzionamento, senza avere la necessità di una sorgente esterna di energia”, spiega il coordinatore del Centro Nsyn-Iit Fabio Benfanti.
Una durata definita “lunga”, ma non per ora definitiva, dunque. E tuttavia si tratta di un esito importantissimo, apparentemente foriero di ulteriori, specie per la natura biocompatibile del dispositivo. Tale passo scientifico, seppur parziale, potrebbe inoltre trovare applicazione concreta nel breve periodo. Ci sono già le date, negli auspici degli scienziati: la sperimentazione umana da compiersi nella seconda metà di quest’anno, i suoi esiti già all’inizio del prossimo.
I tumori globalmente sono ancora dati in aumento, ma ancor di più aumentano le possibilità di vincerli. Grazie ai progressi scientifici, ma grazie anche a una crescente sensibilizzazione sull’imperativo di una diagnosi precoce, essenziale per l’efficacia delle cure. E se dunque i progressi intervengono a facilitare la diagnosi stessa, assumono un’importanza decisiva. Un passo in tal senso viene annunciato dagli Stati Uniti, seppure ancora non ancora di immediata applicazione clinica.
Lo si legge sulla rivista Nature Genetics. Gli scienziati dell’Università della California-San Diego riferiscono di aver messo a punto delle nuove “biopsie liquide”, capaci di rilevare non solo la presenza di tracce di cellule tumorali, ma anche - e qui starebbe la principale novità - di “localizzarle”, con buona precisione, indicando la parte del corpo colpita.
“La scoperta è arrivata per caso – spiegano – mentre cercavamo segnali tumorali con l’approccio convenzionale, ma così facendo abbiamo captato anche quelli di altre cellule”. La chiave di volta sta infatti nella loro interazione. Lo sviluppo di una neoplasia induce a un conflitto tra le cellule malate e quelle sane, e queste ultime, morendo, rilasciano il loro DNA nel sangue. Morale, “se integriamo entrambe le serie di segnali possiamo determinare la presenza di un tumore e il posto in cui sta crescendo”.
Tecnicamente, gli scienziati hanno dunque incrociato i dati di “modificazione epigenetica” del DNA di diversi tessuti sani (fegato, intestino, colon, polmone, cervello, rene, pancreas, milza, stomaco e sangue) con i campioni di sangue di pazienti oncologici, alfine di costruire altrettanti marcatori capaci di evidenziare i vari tipi di tumore.
E così, si spalanca la possibilità di sostituire le tecniche diagnostiche tradizionali, incluse quelle più invasive, quali l’asportazione di tessuti, con una semplice analisi del sangue. Si tratta comunque di uno scenario futuro, in quanto la metodica richiede approfondimenti e perfezionamenti prima del suo uso clinico. La strada, a detta degli scienziati, è comunque tracciata. Per il momento, dicono, “abbiamo dimostrato il concetto”.
Se ne può discutere, fuori da ogni retorica, e se n’è discusso parecchio, tanto che non mancano le donne che dissentivano. Ma che l’8 marzo scorso sia stata una giornata “di lotta” più che “di festa”, sulla scia del movimento globale “Ni una menos” e degli scioperi messi in atto anche in Italia (e anche nella Sanità), è un fatto reale e consegnato alla storia, che per giunta ha collocato i temi della salute in prima linea. Le donne “sono fatte diversamente”, hanno esigenze specifiche di cura, mentre la ricerca, sin dalle sperimentazioni, è ancora largamente centrata sulla biologia maschile. Non va bene, tanto che l’istanza di una “medicina di genere” – qui più volte trattata – non ha più nulla di “ideologico”, bensì è oramai una conclamata priorità perfino in sede istituzionale.
“Quando andai in Europa la prima volta per parlare di medicina di genere, mi dissero che costava troppo. Invece bisogna riconoscere che questo non è un fattore politico ma scientifico. Un tema italiano che abbiamo portato al semestre europeo e ora porteremo al prossimo G7 dei ministri della Salute in programma a Milano a novembre”, ha detto Beatrice Lorenzin, rivendicando inoltre “l’inserimento dell’endometriosi nei Livelli Essenziali di Assistenza, che in Italia colpisce 300mila donne”. Ministra che, a margine, ha celebrato la giornata rendendo omaggio, tra le altre, ai familiari di una compianta predecessora, Tina Anselmi, “madre” di una delle più importanti riforme della storia repubblicana italiana, quella che appunto istituì nel ’78 il Servizio Sanitario Nazionale.
E c’è un altro aspetto ricordato dalla stessa Ministra della Salute: le donne vivono di più – con uno scarto peraltro ridotto in tempi recenti, fatto di per sé eloquente - ma questo significa anche che soffrono di più, hanno bisogno di essere curate di più, e non di meno. Il che ha ricadute anche sui farmaci. “Ne usano il 10% in più rispetto agli uomini”, documenta la presidente del Comitato Prezzi e Rimborsi dell’Agenzia Italiana del Farmaco Paola Testori Coggi.
Ulteriore e sinistra concomitanza, guadagnano mediamente meno dei maschi. “Spesso non si curano perché non possono permetterselo”, ricorda allora Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), tema che rilancia l’urgenza del ricorso ai farmaci generici, meno costosi a parità di efficacia e sicurezza terapeutica. Lo stesso Onda ha lanciato il progetto dei “bollini rosa”, per premiare le strutture che praticano realmente la sanità di genere, ottenendo già il patrocinio di 20 società scientifiche e la costruzione di una rete di 248 ospedali nazionali.
E poi ci sono le campagne “social”, i convegni, gli appelli. Ma tra le tante parole di una celebrazione conclusa, c’è da ricordarsi che l’importanza sta naturalmente nei fatti. E che, passato l’8 marzo, è in arrivo un’altra ricorrenza di rilievo, il 22 aprile, consacrata dal Ministero della Salute proprio alla Salute della Donna, non a caso fissata nella data di nascita di una grande scienziata, Rita Levi Montalcini. “Il divario da colmare è ancora profondo”, ammise nella Giornata dell’anno scorso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
C’è una letteratura, fatta di libri, racconti, vissuti personali, che esalta un fenomeno apparentemente nuovo, almeno nella storia contemporanea. Si tratta della tendenza ad una maggiore presenza dei papà dopo (oltreché durante) la gravidanza: sempre più giovani genitori sono pronti ad alleviare alleviare le fatiche della madre e a contribuire all’accudimento del neonato. Tutto vero, bello, tenero ed encomiabile. Ma sulla strada della parità nel post-nascita ci sono ancora tanti ostacoli… Il primo tra tutti: a perdere il sonno è ancora sempre e solo la madre.
Lo rivela uno studio di larga scala, effettuato dalla Georgia Southern University (e presentato al 69mo congresso dell'American Academy della Neurology) su oltre 5.800 adulti fino ai 45 anni, per i quali è stato considerato come durata ottimale del sonno un periodo compreso tra le sette e le nove ore, definendo “strutturalmente” insufficiente un sonno inferiore alle sei ore.
Numerose le variabili utilizzate: reddito, occupazione etnia, ampiezza del nucleo famigliare, problemi respiratori e altro. Ma a risultare davvero rilevanti sul piano statistico sono stati la presenza di un nascituro e il sesso del genitore. Tra le donne con un figlio piccolo è emersa un’esposizione al sonno insufficiente superiore del 50% rispetto al resto della popolazione femminile compresa nel campione. E per gli uomini? Tutta un’altra musica: le differenze registrate in conseguenza della presenza o meno di figli sono rimaste vicine allo zero.
E il fatto che l’emergenza “sonno-neonato” è normalmente destinata a risolversi nei primi anni di vita, consentendo anche alle mamme di provare a “recuperare”, non deve far perdere di vista l’obiettivo di una buona dormita come indispensabile contributo al mantenimento dello stato di benessere.
Il sonno, ovviamente, non ha regole fisse, e varia in base alle esigenze fisiologiche di ciascuno e in rapporto all’età. Secondo le tabelle delle autorità americane, ad esempio, le esigenze di riposo progressivamente diminuiscono col passare degli anni. Si va dalle oltre 15 ore nei primi tre mesi alle 13 fino ai due anni, per poi diminuire gradualmente alle 10 ore fino alla prima adolescenza, a 9 ore fino ai diciott’anni, a 8 ore tra gli adulti e 7 tra gli anziani.
Cifre indicative da declinare secondo le esigenze psico-fisiche di ciascuno. Qualunque sia il parametro personale, comunque, è importante averne rispetto. La carenza di sonno conduce a rischi di diabete, obesità, patologie cardiovascolari e depressione. Rischi dai quali i neo-papà si tengono, inconsapevolmente, ben al riparo.