Sembra una banale “americanata” raccontare che una diminuzione del consumo di sale abbia un impatto sanitario e addirittura economico, ma il nesso c’è. E ha ora ricevuto perfino l’avallo di un’articolata ricerca scientifica, pubblicata sul British Medical Journal. Ma al racconto va fatta un’aggiunta: nel nostro Paese il dato è già assunto come scontato, al punto da essere oggetto di concrete iniziative regionali, che peraltro meriterebbero un seguito di più ampia scala.
Ma andiamo per ordine. che si è messo A fare i conti in testa sul consumo di “sodio” (che si trova tipicamente nel sale, ma anche nel pane, latte, uova, carne, nonché naturalmente in una varietà di cibi industriali, e rappresenta un riconosciuto fattore di rischio di alta pressione, e quindi di patologie cardiovascolari, che costituiscono la principale causa di morte nel mondo) è stato un centro di ricerca di Boston: la “Tufts Friedman School of Nutrition Science”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ammontare “sano” del consumo di sale si attesta a un paio di grammi al giorno, l’equivalente di un cucchiaino. Intorno a quel paletto si sono mossi i ricercatori, indagando sui dati raccolti in varie ricerche in ben 183 Paesi. Dall’analisi è emerso che se si riducesse mediamente l’assunzione di sale di almeno il 10% in dieci anni, si salverebbero annualmente, e globalmente, 5,8 milioni di “anni di vita persi” – il cosiddetto Disability-Adjusted Life Year, unità di misura che somma il sacrificio temporale della morte patologica prematura.
Si morirebbe di meno, dunque, e ci si ammalerebbe molto meno. Di qui anche il calcolo economico, in base al quale il costo di tale decesso prematuro è calcolato in oltre 200 dollari l’anno a persona, in relazione alla perdita della sua “produttività” in senso lato. Sono stime naturalmente virtuali, che peraltro i ricercatori americani considerano “prudenti”, perché non tengono conto dell’aggravio ulteriore, quello dei costi sanitari della cura di chi si ammala.
In altre parole si valutano “finanziariamente vantaggiose” le eventuali politiche (e i relativi costi) per promuovere una riduzione del consumo di sale, perfino senza considerare le spese sanitarie conseguenti a, viceversa, la sua assunzione in eccesso. E c’è chi già si è materialmente mosso su questo, appunto in Italia, con un’intesa siglata tra la Regione Piemonte e l’Associazione regionale dei Panificatori per diminuirne, appunto l’impiego. Piccoli passi, ma che dicono parecchio, ben al di là dell’oggetto specifico dell’iniziativa. Ricordano che “investire nella prevenzione sanitaria” non è un costo, ma una fonte di risparmio, oltre che di beneficio per la nostra vita. E su questo, in Italia, da anni, anziché aumentare, colpevolmente si taglia.
Il problema dei tumori è spesso quello di arrivare tardi, a volte di arrivarci con una diagnosi poco accurata, altre ancora di mettere in atto trattamenti farmacologici verso i quali il corpo sviluppa alcune resistenze. In altre parole, il nodo prioritario è quello della rapidità, semplicità e accuratezza della diagnosi. Dinanzi a tutto questo si annuncia un’innovazione promettente, centrata su una biopsia liquida, e l’annuncio arriva proprio dal nostro Paese.
Lo hanno divulgato sulla rivista Oncogene (nell’ambito del portale della celebre Nature) i laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità, ovvero un gruppo di ricerca coordinato dal professor Ruggero De Maria e la ricercatrice Désirée Bonci, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma (in collaborazione con altri Istituti capitolini e torinesi). Si tratta di un “nuovo approccio”, dicono, già sperimentato su pazienti affetti da tumore alla prostata, e in corso di approfondimento per altri colpiti da cancro al polmone e al colon.
Tecnicamente, lo studio – che ha ricevuto un finanziamento del ministero della Salute destinato ai giovani ricercatori – ha identificato una correlazione tra l’attivazione dell’“oncogene-c-Met”, che innesca la metastasi, e un piccolo gene, il “miR-130b”, nell’ambito dei processi di progressione tumorale e di resistenza alla terapia ormonale. E così, è stata sviluppata la suddetta biopsia liquida, di semplice utilizzo, che permette di captare le vescicole rilasciate dal sangue nei tumori, le quali veicolano le aberrazioni molecolari.
“Questo tipo di biopsia, adeguatamente sviluppata, ci potrà permettere di avere un metodo non-invasivo per monitorare il tumore fin dall’esordio, per individuare tempestivamente le recidive e l’insorgenza di resistenza alle terapie”, spiega il professor De Maria. In altre parole, tale metodica consentirebbe “per la prima volta di valutare segnali proteici attivati e indicativi di tumore e dello stato molecolare del cancro in pazienti affetti da neoplasie al polmone, colon e prostata”.
“Tecniche innovative, sofisticate e sensibili”, aggiunge. Risultati in apparenza importanti e promettenti, dunque, che agiscono sul nodo di fondo della “difficoltà di individuare una terapia unica ed efficace”, nelle parole della dottoressa Bonci, considerando anche “la frequente imprevedibilità della risposta del singolo paziente ai farmaci”. Il passo avanti rivendicato, dunque, non è solo “tecnico-scientifico”, ma anche sul piano dell’approccio alla terapia. Da centrare davvero sulla logica del “trattamento personalizzato”.
“Non si deve abbassare la guardia”. Lo ribadiva alla fine dell'anno scorso il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e ne facemmo l'incipit di un altro pezzo che documentava al contempo i progressi nella scienza e l'urgenza del lavoro di sensibilizzazione sull'Aids. Insomma, la medicina avanza ma l'informazione no, e a farne le spese sono anzitutto i giovani. A rilanciare il tema sono ora gli esiti - preoccupanti - di un'indagine del Censis sulla sessualità tra i cosiddetti “Millennials”.
Emerge che l'età media per i primi rapporti sessuali completi si è oramai abbassata a 17 anni, eppure metà degli adolescenti ammette di avere idee assai confuse sulla sessualità, inclusi gli aspetti sanitari. Così, sebbene il 93% degli intervistati è esplicitamente orientato ad evitare il rischio di gravidanze indesiderate, solo il 70% delle giovani coppie usa il profilattico, nella convinzione che per proteggersi dalle malattie trasmissibili sia sufficiente evitare rapporti promiscui.
Su tali patologie, peraltro, la conoscenza è piuttosto scarsa. Il 90% dichiara di conoscere l'Aids, ma meno di un quarto degli interpellati sa qualcosa di sifilide, gonorrea, epatite, herpes genitale e così via. In particolare, solo il 15% conosce il papilloma virus, un'infezione capace di generare sia nella donna che nell’uomo lesioni che possono degenerare in forme tumorali.
Poca informazione, dunque, e perlopiù tratta sommariamente da amici o dal web – terreno anche di tante “bufale”. “Il nostro Telefono Verde Aids e Infezioni sessualmente trasmesse riceve oltre mille chiamate al mese, e di queste solo il 10% proviene dai giovani”, sottolinea il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, che aggiunge: “spesso pensano che le infezioni siano un problema legato a determinate fasce di popolazione e non causate da comportamenti a rischio”.
Sull'Aids il progresso mondiale nella prevenzione e nelle cure è stato in effetti vistoso. Nel 2005 fece due milioni di morti, e la cifra si è quasi dimezzata nell'arco di un decennio. Nello stesso anno le persone infettate furono due milioni e mezzo, nel 2015 eravamo ancora sopra i due milioni. Insomma il calo nelle infezioni è assai più lento di quello sui decessi, confermando che i passi avanti nella medicina sono stati ben più lunghi di quelli dell'informazione. Con esiti a volte quasi paradossali: un'altra indagine, effettuata negli Stati Uniti sugli omosessuali, rivela una netta tendenza alla diminuzione nell'uso dei profilattici, ed è un fenomeno spiegato proprio per la loro accresciuta fiducia nelle terapie. Invece bisogna arrivare prima, e dobbiamo ricominciare a dirlo, anzitutto ai giovanissimi.
Se “la salute è la prima cosa”, l’offerta di un medicinale è il più nobile dei doni, specie in tempi di difficoltà economiche. “Italia campione della solidarietà”, titolammo esattamente un anno fa, sulla scia degli ottimi esiti della Giornata di Raccolta del Farmaco. E se era vero allora, oggi lo è ancor di più. Alla diciassettesima edizione della ricorrenza annuale, celebratasi lo scorso 11 febbraio, la generosità ha fatto segnare nuovi e impressionanti record, pur nel silenzio di larga parte dei media – a fronte di un evento che aveva l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica e la collaborazione di istituzioni, aziende produttrici e rappresentanze professionali dei farmacisti.
In poche ore sono state raccolte oltre 370mila confezioni di medicinali, ossia il 4,6% in più rispetto alla Giornata del 2016, con identico incremento delle farmacie coinvolte su quasi tutto il territorio nazionale, 3850, con per giunta la donazione di quasi 600mila euro da parte dei farmacisti stessi.
Dietro al lavoro delle farmacie c’è però anzitutto quello di oltre 14mila volontari, nonché dei 1723 enti caritativi convenzionati con la Fondazione Banco Farmaceutico onlus, che dal 2000 promuove l’iniziativa, e negli anni successivi l’ha anche “esportata” in altri paesi europei, africani e asiatici. E l’impatto è enorme, considerando la stima di più di 580mila beneficiari italiani dell’aiuto, segnando anche qui un progressivo incremento rispetto agli anni precedenti.
La solidarietà cresce, dunque, ma anche la povertà sanitaria. "Nonostante siano tantissimi i farmaci raccolti durante la Giornata copriranno solo una parte di quel bisogno”, ricorda Paolo Gradnik, presidente di Banco Farmaceutico. Quel bisogno è conteggiato in oltre un milione di confezioni e, tra i problemi economici delle famiglie e i tagli alla spesa sanitaria, segna un’allarmante escalation. Solo l’anno scorso la richiesta di farmaci è salita del 16%, e le persone assistite addirittura del 37,4%. Non è solo un tema di “povertà assoluta” (che coinvolge oltre 4 milioni e mezzo di italiani), ma anche di quella relativa, tale da indurre oltre 12 milioni di persone – secondo un recente dossier dello stesso Banco Farmaceutico – a limitare le visite e i medicinali.
E’ dunque un tema drammaticamente esteso, che coinvolge l’intera politica sanitaria e le esigenze (riconosciute anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco, Aifa) di promuovere tra l’altro il ricorso ai medicinali che costano meno a parità di efficacia e sicurezza terapeutica, ossia i generici. Ed è un tema che non si risolve in una Giornata. Si può donare, sempre. Esiste anche un’app, chiamata “DoLine”, e soprattutto ci sono nelle farmacie aderenti degli appositi contenitori per la raccolta. “Donare un caffè” quando ci rechiamo al bar, anche lasciandolo al consumo di ignoti bisognosi, è una bellissima tradizione italiana. Si sappia per bene che possiamo fare lo stesso anche con i farmaci.
Signore e signori, oggi, 13 febbraio, ricorre la giornata mondiale dell’epilessia. Ebbene, pochissimi se ne accorgeranno, e pochi dedicheranno anche solo un marginale frammento di pensiero. Peggio (forse), qualcuno avrà anche un impercettibile moto di fastidio. La ragione è sempre quella: l’epilessia, o, come dice giustamente una fondazione italiana, “le epilessie”, sono ancora oggetto, anziché di attenzione, di un più o meno sottile “stigma”, per il banale motivo che quel che non conosciamo fa un po’ paura.
“Ancora una volta è utile ricordare quanto questa malattia sia accompagnata da pregiudizi, disinformazione e ignoranza“, commenta un’esperta italiana, Clementina Boniver, dell’Università di Padova. E del permanere dello stigma si parla purtroppo ogni anno. Quindi è bene ripetere. In senso stretto non è neppure una “malattia”, bensì una serie di condizioni neurologiche (“sono colpito da qualcosa”, dice genericamente l’etimo greco) di “eziologia” parzialmente ignota ma rintracciabile nell’elettrocardiogramma, che hanno in comune l’insorgere di crisi improvvise, perlopiù brevi, anche se accompagnate da manifestazioni motorie involontarie o addirittura perdita di conoscenza.
Una problematica solitamente non grave, e al contempo assai comune, perché coinvolge almeno 65 milioni di persone nel mondo, e circa 500mila solo in Italia. Ciononostante, la disinformazione permane, tant’è che, sebbene i primi attacchi si riscontrino spesso già dall’età scolare, la maggioranza degli insegnanti italiani, secondo recenti indagini, si rivela impreparata a gestirli.
E allora, come si affrontano gli attacchi epilettici? Senza pregiudizi e senza paura, ovviamente, e anche senza iperprotettività. Si tratta solo rassicurare la persona con gentilezza, evitare che cada o si faccia male, allentarle i vestiti stretti, non immobilizzarla o inserirle dita in bocca o anche darle subito farmaci, necessari solo se la crisi persiste per diversi minuti. Quasi sempre basta esserci, e un tocco o un abbraccio lieve (non soffocante) è la miglior terapia.
Niente paura, insomma, né per il paziente e i suoi familiari, né per chi si trova di fronte a qualcuno soggetto a una crisi. L’epilessia, nelle parole di Boniver, “è curabile e quindi compatibile con una vita normale nel 70% dei casi, andare a scuola, svolgere attività sportiva, lavorare ed avere dei figli”. Nulla di grave, dunque, lo sappiano tutti, epilettici e non epilettici: un attacco fa meno male del permanere dell'immotivato stigma.
Se lo chiamiamo “l’amico migliore dell’uomo” ci sono ottime e conclamate ragioni. Il cane ha capacità di affetto e fedeltà talmente generose da non essere scalfite neanche dai più gravi torti subiti dall’uomo. Se a questo si aggiungono le sue doti di forza, coraggio e fiuto, il quadrupede diventa anche il più prezioso alleato nelle attività di protezione civile, ordine pubblico, gestione dei soccorsi. A detta di tanti, peraltro, quei soccorsi non si limitano solo alle emergenze – quando si tratta di trovare e salvare qualcuno – ma anche al nostro quotidiano benessere psico-fisico, proteggendo la nostra salute fino ad allungarci la speranza di vita.
Su questa base sono proliferate negli ultimi anni, in Italia come altrove, tante belle iniziative e organismi spontanei, di studiosi e appassionati, quali l’“Associazione Internazionale Educazione Cinofila e Cani Sociali”, orientata all’organizzazione di attività cinofile a favore della disabilità e all'educazione dei cani a tale scopo, o l’associazione “Pet Theraphy”, dedicata specificamente alla promozione della “terapia canina” in ambito sanitario.
La base scientifica c’è, ed è stata rilanciata in questi giorni anche in Italia. Si tratta in particolare dei risultati di uno studio curato dall’American Heart Association per la rivista “Circulation”, che ha tentato di mettere insieme la letteratura scientifica pregressa di rilievo per trarne delle indicazioni. La conclusione di massima è che la “Pet Therapy” sembra funzionare davvero. Chi ha un cagnolino e soffre, in particolare, di patologie cardiovascolari, vivrebbe (in media) sensibilmente più a lungo.
Dalla versione integrale dello studio emergono tuttavia precisazioni, cautele e la necessità di approfondimenti. Non sono chiari i rapporti di causa ed effetto, né risultano certezze sull’incidenza per diverse patologie, a eccezione di quelle al cuore, e delle ragioni del beneficio, a eccezione degli accertati benefici dell'induzione all’attività fisica. Tecnicamente, la presenza di un cane non andrebbe quindi considerata come “un imperativo sanitario primario”.
Insomma, non si sa bene il perché, ma sta di fatto che, a una significativa evidenza statistica, avere un cagnolino risulta far bene, al punto da allungare la vita a molti, specie grazie a quello stimolo motorio, affettivo e psicologico da lui infuso. Ed è una verità che viene ora presa sul serio perfino da strutture ospedaliere, anche italiane. Da questo mese il Centro Cuore degli Istituti di ricovero e cura Iseni-Sanità di Malpensa annuncia l’avvio della “Pet Therapy”, aiutando i pazienti ad adottare un animale abbandonato. Una bella notizia, per il paziente, e probabilmente anche per il suo prossimo “miglior amico”.
Quasi tremila trapianti eseguiti solo l'anno scorso, quasi due milioni di italiani che hanno firmato il loro consenso alla donazione. Il primato già ampiamente celebrato del nostro Paese - tra la competenza degli operatori e la generosità dei cittadini - si è arricchito negli ultimi giorni si è arricchito di ulteriori novità che nobilitano la medicina italiana.
A Roma, all'Ospedale pediatrico Bambino Gesù, è stato effettuato il primo trapianto di fegato con la tecnica “domino” su due pazienti pediatrici. E cioè, l'organo asportato a un adolescente – che aveva ricevuto una donazione da cadavere – è stato utilizzato per un suo coetaneo, affetto da altra patologia. L'esito è stato ottimo, senza alcun problema post-operatorio, tanto che entrambi sono stati presto dimessi.
A garantire il successo è tra l'altro la peculiare natura “plastica” del fegato stesso, rispetto ad altri organi vitali. E anche su questo arrivano specifiche di rilievo dalla medicina della Penisola. In particolare è emerso, da studi effettuati per la prima volta direttamente sull'uomo, come il fegato rallenti il proprio processo di invecchiamento se trapiantato in una persona più giovane del donatore, palesando anzi notevoli proprietà di rigenerazione.
Come si legge sulla rivista Aging Cell, gli studiosi dell'Università di Bologna e dell'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma hanno individuato “nuovi marcatori di invecchiamento e l'incremento di alcune piccole molecole di RNA attive nella regolazione dell'espressione dei nostri geni”, che hanno poi evidenziato “segni di ringiovanimento indipendentemente dall'età del donatore”.
L'esito è rilevante, tanto più che è stato riscontrato tramite biopsie da donatori nell'arco dell'estesa fascia d'età tra i 12 e i 92 anni. Di più, a detta degli studiosi, aprirebbe le porte a “ulteriori filoni di ricerca nella valutazione dell'invecchiamento dell'organo”. Il riferimento è anche all'ambito della “perfusione”, che con appositi macchinari alimenta artificialmente la rigenerazione circolatoria e l'ossigenazione dei tessuti. Il fegato, però, come appunto dimostra la chirurgia e la ricerca italiana, ha comunque le doti che servono per farcela da solo.
Non è un tema “burocratico”, e neppure di complicata comprensione. Il nodo degli sprechi nella Sanità è collocato al cuore delle esigenze dei cittadini non solo dalle agenzie internazionali e da scoop giornalistici, ma anche dalle associazioni dei consumatori e dei pazienti, che al contempo lo incrociano con gli appelli a un maggior ricorso ai farmaci equivalenti. E’ il caso ad esempio della principale rete associativa italiana del settore, Cittadinanzattiva, che lo scorso anno – e non è la prima volta – ha posto al cuore della sua festa annuale, “SpreKo”, il lancio di una campagna nazionale (“IoEquivalgo”) in favore dei generici.
E adesso arriva la lente d’ingrandimento dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che sugli sprechi offre alcune utili comparazioni internazionali nel rapporto “Tackling Wasteful Spending on Health”, interessanti per aiutare il decisore pubblico (ma anche il cittadino) a capire come e quanto si può fare di più. Frodi ed errori sanitari hanno un impatto sulla spesa totale stimato globalmente al 6%; un cittadino su tre ritiene la Sanità un ambito di grave corruzione. E l’Italia è al vertice dei Paesi avanzati anche per il ricorso inappropriato ai Pronto Soccorso (20%).
Un capitolo speciale viene dedicato proprio ai medicinali generici, sia per il loro impatto sul risparmio – ad assoluta equivalenza nei principi attivi e nell’efficacia e sicurezza terapeutica – sia per le enormi differenze tra Paesi, con una penetrazione che varia dal 10% all’80%. Di nuovo l’Italia si ritrova amaramente nelle posizioni peggiori. “Deospedalizzare l’assistenza e utilizzare più frequentemente i farmaci generici” è il cuore del suggerimento che l’Ocse regala ai Paesi stretti nella tenaglia delle difficoltà economiche e delle crescenti esigenze di cura dovute all’invecchiamento della popolazione.
A supporto dell’obiettivo di incoraggiare l’uso dei generici equivalenti l’Ocse cita alcuni esempi recenti, ritenuti virtuosi: Francia e Ungheria, ad esempio hanno introdotto incentivi per i medici che li prescrivono, mentre in Grecia è stata fissata per gli ospedali una quota minima del 50% degli equivalenti, rispetto al volume totale. In Norvegia – citata più volte nel rapporto per l’efficienza e l’ampiezza dell’assistenza terapeutica – il ricorso nel settore pubblico a tali farmaci è stato assicurato tramite meccanismi di centralizzazione degli acquisti.
E il nostro Paese – che pur su altri fronti mantiene valutazioni positive sull’assistenza sanitaria – in questo conferma il ritardo. Da un altro rapporto dell’Ocse, riferito al 2015, emerge che il settore degli equivalenti rappresenta solo l’11% del mercato farmaceutico totale, meno della metà della media dei Paesi avanzati. C’è peraltro un rovescio della medaglia, segnalato in questi giorni da un rapporto Federfarma: un’accelerata tendenza al recupero. Nell’ultimo anno, infatti, tale percentuale è salita al 16% in valore, e a circa il 25% in volume (scarto che segnala esso stesso i potenziali di risparmio). Per i portafogli di tanti, così come per le casse pubbliche, è un recupero che può far la differenza nell’assicurare o meno le cure.
E’ il dilemma di tante mamme (e papà). Il bimbo sta maluccio, ma non malissimo, magari si sta riprendendo dopo qualche giorno di assenza, e sale la tentazione di rimandarlo subito a scuola. Il dilemma c’è ed è spesso comprensibile, date anche le esigenze lavorative dei genitori. Ed è un dubbio che coinvolge gli stessi pediatri, sovente messi sotto pressione per il rilascio del loro fatidico consenso al rientro in aula.
Al quesito ha dato ora un approfondimento di inchiesta e analisi un centro ospedaliero di ricerca dell’Università del Michigan, con l’epilogo di una serie di raccomandazioni alle famiglie che, viste dall’Italia, suonano per la verità assai “morbide”. Dal sondaggio, che ha coinvolto quasi 1500 genitori con almeno un figlio tra i 6 e i 18 anni, emerge che in oltre la metà dei casi essi scelgano di mandarlo a scuola anche se ha una leggera febbre, nel 42% se ha vomitato una volta, nel 20% se ha la dissenteria. Le proporzioni sfiorano poi il 90% in caso di tosse o raffreddore.
Insomma, emerge una notevole disinvoltura tra le famiglie americane, ma - e qui sta la sorpresa maggiore - la risposta degli scienziati del Michigan non pare affatto orientata a una “stretta”. Bene mandarlo a scuola, dicono, se ha solo il naso che cola senza altri sintomi di rilievo (appetito, letargia, problemi umorali), idem nel caso di un “picco di febbre”, purché poi non si protragga oltre le 24 ore, o anche in presenza di un episodio singolo di vomito se non accompagnato da dolore o febbre.
E’ un approccio che fa di certo sobbalzare gli esperti italiani, e le stesse famiglie, per la nostra maggior cautela dinanzi ai sintomi e ai rischi di complicanze e di esposizione ad altri contagi. “Raccomandazioni” così morbide possono rintracciarsi tra i portali scientifico-divulgativi italiani solo quando citano, per l’appunto, ricerche americane.
Da noi la parola d’ordine rimane invece quella di “non avere fretta a rimandare i figli a scuola”, e di attenersi alla tempistica suggerita dal pediatra, perfino per i ragazzi più grandi, quando i problemi e i rischi di ricaduta diminuiscono. Il precetto di almeno un giorno senza febbre dopo un’influenza, ad esempio, rimane un imperativo, così come l’assenza di altri chiari sintomi di malessere. Altrimenti si espone il figlio al rischio di malattie ricorrenti, nonché di diffondere il virus in classe. “Rischiare”, del resto, non ne vale la pena, anche perché sono le stesse scuole a chiamare anzitempo i genitori se si accorgono del malessere dell’alunno, e lo fanno perché hanno il dovere di tutelare la salute anche degli altri. Poi, certo, c’è il problema che oggi uno stipendio non basta e magari i genitori sono privi di “coperture” in caso di malattia del figlio. E questo è un problema reale, che chiama all’attenzione i decisori pubblici ben al di là del settore sanitario.
Che “l’elisir di lunga vita” sia anche, e anzitutto, a tavola è un concetto oramai abbastanza acclarato nell’opinione pubblica, oltre che tra gli addetti ai lavori, con menzioni speciali ampiamente riconosciute alla dieta mediterranea. C’è però chi si spinge oltre, sottolineando non solo i benefici di una dieta equilibrata e di qualche sacrificio, ma suggerendo addirittura di rendere perenni i sacrifici stessi.
L’ultimo segnale in tal senso arriva dalla rivista Nature, tramite una ricerca dell’Università del Maryland condotta su un gruppo di macachi. L’esito ultimo è presto detto: la restrizione calorica farebbe vivere i primati mediamente tre anni in più rispetto al normale (circa 26 anni), il che equivarrebbe a una decina di anni di vita in più per gli esseri umani.
L’indagine è iniziata negli anni ’80 ed è ancora in corso, ma l’evidenza ha indotto gli studiosi a rivelarne già gli esiti, seppur parziali, che tra l’altro contengono dati ancor più vistosi per le scimmie femmine che, con una dieta ipocalorica, vedrebbero estendere la propria longevità di ben sei anni, in alcuni casi superando addirittura la soglia dei 40. Sono dati accreditati anche da un esperto italiano di rilievo, Luigi Fontana, dell’Università di Brescia, che ha annotato tra le variabili decisive di tale scarto “tassi inferiori di malattie cardiache e tumorali”. Il “segreto” è dunque anzitutto in un fatto noto, ossia nell’importanza di una moderazione alimentare per la prevenzione di tali patologie.
Non mancano per la verità le obiezioni. Anzitutto, le “proiezioni” di tali indagini sull’essere umano sono essenzialmente esercizi matematici, senza ancora un’adeguata controprova medica. Insomma, il “passaggio” non è automatico, e alcuni ricercatori si dicono anzi delusi da tali esiti, notando che analoghe ricerche sui topolini avevano rivelato scarti ben più vistosi, con una longevità allungata fino al 50%.
E non mancano comunque gli appelli alla riflessione e ad evitare eccessi e controindicazioni. Arrivano addirittura dalla Calorie Restriction Society, pasdaran della prassi del “sacrificio”: il nostro corpo – ricordano - ha comunque bisogno di un adeguato nutrimento e perfino di un pur moderato contenuto di grassi. Ci serve per la forza, per l’umore e perfino per la libido, tutte variabili utili alla prevenzione sanitaria. “Restringere” ed eliminare le abbuffate può essere una scelta preziosa, ma solo se fatta bene, senza percorsi “fai da te” (ovvero privi di una consulenza professionale), e senza rinunciare all’altrettanto prezioso concetto di base: la tavola è e deve restare un piacere.
“Andare dal medico”: è anche la lingua a ricordarci un pregiudizio di genere che, in questa come in altre professioni, ai fatti non ha più ragion d’essere. La “rivoluzione culturale” c'è indubbiamente stata, ma adesso siamo per giunta prossimi al sorpasso, alla luce di alcuni numeri sugli addetti ai lavori e perfino di qualche indagine sulle loro capacità professionali. L'ultima, particolarmente significativa, è pubblicata sul Journal of American Medicine Asssociation, e documenterebbe “performance” migliori nei camici bianchi appartenenti al gentil sesso.
Gli studiosi dell'Harvard Medical School hanno riesaminato le cartelle cliniche di circa un milione e mezzo di pazienti trattati nel quadriennio tra il 2011 e il 2014, con risultati oggettivamente eloquenti. In generale, sono state riscontrate diagnosi mediamente più corrette da parte delle dottoresse, che rappresentano poco meno di un terzo della categoria negli Stati Uniti.
Ma le cifre più significative riguardano gli esiti terapeutici. I pazienti curati da donne hanno riscontrato un tasso di ricadute, con ri-ospedalizzazione entro il mese, ridotto del 5%. Il calo è del 4% sulla mortalità in tale lasso, ed è una differenza che viene conteggiata in cifre assolute sui 32mila decessi in meno nell'arco di un anno.
I dati sono interpretati dai ricercatori in relazione all'apparente maggior attenzione femminile agli aspetti psicologici e di prevenzione, oltre che a un maggior tempo dedicato alle visite. Ma c'è anche un'indicazione implicita, quella sulla fondata domanda di una “medicina di genere”, qui più volte segnalata, in relazione alle specifiche esigenze sanitarie dell'universo femminile, dalla ricerca alla terapia. E su questo, è facile intuire una sensibilità supplementare nel caso in cui il medico sia appunto una donna.
A tutto ciò fa riscontro un netto recupero femminile nel personale, anche in Italia. Le dottoresse sono già in maggioranza nella popolazione dei professionisti tra i 25 e i 50 anni, e si stima che lo diventeranno sulla totalità della categoria entro vent'anni. Lo sono già in alcune specializzazioni, come la pediatria e la neuropsichiatria infantile, anche se restano nettamente minoritarie in altre, come la chirurgia e la cardiologia. Tutto bene, dunque? No, purtroppo. I ruoli apicali restano largamente un quasi-monopolio dei maschi, che occupano ad esempio i vertici di 100 dei 106 Ordini dei medici italiani. Di più, da una recente indagine della sezione Giovani dell'associazione Anaao-Assomed, emerge che oltre la metà delle dottoresse lamenta una penalizzazione di carriera se diventano madri, e quasi la metà denuncia qualche discriminazione, nonostante la bravura ad esse generalmente riconosciuta.
“Niente paura”. Lo canta Ligabue, ma adesso è anche un rilevante consiglio medico. Una ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston in collaborazione con l’Icahn School of Medicine di New York, pubblicata sulla popolare rivista scientifica Lancet, ha infatti accertato i meccanismi di uno stretto legame tra l’iperattività di un’area cerebrale sensibile allo stress e l’esposizione ai rischi cardiovascolari.
Che il legame sussista non è propriamente una novità, ma gli scienziati statunitensi rivendicano di averne finalmente scovato le ragioni, aprendo così la strada a rimedi più appropriati. Per quattro anni hanno “fotografato” il cervello di 293 persone, seguendone le evoluzioni nelle situazioni di stress e osservando al contempo lo stato della milza e del midollo osseo. E qui è emersa la corrispondenza: l’iperattività di una specifica regione cerebrale era accompagnata da un analogo comportamento degli altri organi citati.
La conseguenza è dunque l’innesco di una sovrapproduzione di cellule immunitarie (globuli bianchi) e processi infiammatori a danno delle pareti delle arterie con conseguente aumento del rischio di formazione di placche arteriosclerotiche, e quindi di rischi cardiovascolari, inclusi l’ictus e l’infarto. Per verificare e dettagliare tali esiti l’esperimento è stato poi ripetuto su tredici soggetti con disturbi da stress post-traumatico, traendone piena conferma
La regione cerebrale coinvolta si chiama “amigdala”, proprio come l’antichissimo arnese di pietra fabbricato già dall’homo erectus, in quanto richiama vagamente la forma di una “mandorla”, da cui eredita l’etimo greco. Linguistica a parte, si tratta di un gruppo di strutture interconnesse che gestisce le emozioni, e in particolare la Linguistica a parte, si tratta di un gruppo di strutture interconnesse che gestisce le emozioni, e in particolare la paura. Cruciale tanto nell’elaborazione e nell’apprendimento emotivo quanto nella memoria, è lei a emettere salvifici segnali nelle situazioni di pericolo, ma anche a conservare i segni che vorremmo dimenticare derivanti dalle sofferenze pregresse.
Lo studio statunitense ha individuato anche effetti concreti dello stress sull’incidenza degli eventi cardiovascolari. Per questo i ricercatori suggeriscono di trattare lo stress, e soprattutto le situazioni post-traumatiche, alla stregua di altri fattori di rischio per il cuore, quali l’alta pressione o il fumo, nell’ambito della prevenzione. E intravedono un’altra frontiera: la possibilità futura – peraltro tutta da sperimentare - di curare farmacologicamente altre patologie gravi - dalle infiammatorie fino a quelle tumorali - agendo anche sui livelli di stress.
A volte la giusta diagnosi non basta, e non è sufficiente neanche lo sforzo fisico ed economico di recarsi in farmacia per accedere all’agognato medicinale. Si tratta poi di ricordarsi di assumerlo, nelle modalità suggerite dal medico. Ebbene, questo passaggio finale - tra dimenticanze e altro - è tutt’altro che scontato, con conseguenti effetti sul portafoglio e, soprattutto, sulla salute. Il tema dell’“aderenza terapeutica” è oramai prioritario nell’ambito dell’assistenza sanitaria, tanto da essere stato collocato al cuore di ben cinque giorni di iniziative realizzate a Milano dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), assieme ad altre otto associazioni e società scientifiche.
Al Winter Village si sono articolate, la scorsa settimana, ben quattro sezioni orientate ad abbracciare l’ambito della salute a tutto tondo: dall’area “food” all’esplorazione digitale del corpo (centrata sulla prevenzione, ossia sulla scoperta degli effetti nocivi dei comportamenti scorretti), dall’area salute in senso lato (teatro di dibattiti e consulenze) a quella concretamente – e gratuitamente – consacrata a check-up di ogni tipo.
Trasversale a tutto questo, il nodo dell’uso appropriato dei medicinali, che Onda ha rilanciato snocciolando i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: solo un paziente su tre segue correttamente la terapia prescrittagli, un altro terzo la segue solo in parte, e gli altri addirittura per nulla. Non va bene, e il danno può esser grave, specie per i pazienti. Nelle parole dell’Agenzia Italiana del Farmaco, “la scarsa aderenza alle prescrizioni del medico è la principale causa di non efficacia delle terapie farmacologiche ed è associata a un aumento degli interventi di assistenza sanitaria, della morbilità e della mortalità, rappresentando un danno sia per i pazienti che per il sistema sanitario e per la società”.
Detta così, suona un può colpevolizzante per i singoli. “Italiani birichini, indisciplinati”, sintetizzano anche alcuni media. Ed è su questo che Onda obietta, e chiama invece “l’intero sistema socio-sanitario a una migliore comunicazione, da un dialogo costruttivo medico-paziente alla semplificazione della terapia”. Si tratta di consigliare e seguire il paziente con la massima semplicità e chiarezza: se non lo si fa l’aderenza è evidentemente a rischio, specie per gli anziani, ossia la categoria più utilizzatrice di farmaci.
E infatti, una recente ricerca dell’Università di Gent ha fotografato una realtà ancor assolutamente preoccupante: solo il 17% degli anziani seguirebbe correttamente le prescrizioni, il 67% sotto-utilizzerebbe le terapie, il che farebbe aumentare del 26% le probabilità di ricovero e addirittura del 39% la mortalità. Sullo sfondo, c’è anche il nodo dei costi, tanto che l’anno scorso undici milioni di italiani hanno rinunciato alle cure per difficoltà economiche, rilanciando anche l’urgenza del ricorso ai generici. Insomma, la colpa della mancata aderenza terapeutica non è quasi mai dei pazienti.
Se ne parla poco, eppure è addirittura la terza causa di morte in Italia, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie, provocando oltre il 10% dei decessi, ed è addirittura la principale fonte di invalidità. L’ictus arriva così, e quando arriva è inaspettato quando deleterio. Tuttavia non tutto è dovuto al fato, e soprattutto non è che non si possa far nulla per prevenirlo. Questo vale soprattutto oggi, quando una ricerca ha scovato un enzima chiave nel suo innesco, e si tratta per giunta una ricerca italiana.
Lo studio ha meritato la pubblicazione sull’“Atherosclerosis Thrombosis Vascular Biology”, la rivista scientifica ufficiale dell'American Heart Association, ed è stato condotto da alcuni ricercatori dell’Università La Sapienza, sotto il coordinamento di Francesco Violi, direttore della Prima Clinica Medica del Policlinico Umberto I. In particolare, hanno individuato un enzima, il “Nox2”, che sarebbe responsabile dell’ostruzione della carotide, principale via d’accesso del sangue al cervello, che è la causa primaria del verificarsi dell’ictus.
“Era un enzima noto per l’utilità nella difesa dalle infezioni, tanto da esser presente nei leucociti dove svolge un’azione battericida, ma studi recenti hanno dimostrato che è presente anche nelle arterie”, spiega il professor Violi, ed è su questo che si è calcata la mano. Sono stati quindi studiati per cinque anni in vari centri italiani alcuni pazienti affetti da granulomatosa cronica, che consiste proprio in un deficit ereditario di tale enzima, una patologia rara quanto in apparenza estranea all’arteriosclerosi. Ebbene, si è così constatato che tale condizione invece si accompagna, rispetto ai soggetti sani, sia a una maggior dilatazione delle arterie sia a uno spessore inferiore della carotide.
Insomma il nocciolo del problema sembra essere ora identificato, tanto che viene ora annunciato l’imminente brevetto di un metodo per misurare la presenza di quell’enzima nel sangue, utilizzabile tanto per i soggetti ritenuti a rischio che per la popolazione generale. Di più, sono già state sperimentate negli animali alcune molecole capaci di inibire l’enzima e, correlativamente, la placca arteriosclerotica. Il test verrà presto effettuato sull’uomo, ma le premesse sembrano decisamente incoraggianti.
La scoperta non consiste naturalmente nell’“eliminazione dell’ictus”, ma nell’identificazione preventiva di uno dei principali fattori di rischio. E non è roba da poco, considerando appunto l’ampiezza del problema: circa 200mila casi ogni anno solo nel nostro paese, un’incidenza addirittura del 6,5% tra le persone sopra i 65 anni. Il senso è che si può arrivare prima, e una strada per arrivarci sembra ora tracciata.
Ma chi l’ha detto che lo sport, se praticato poco – il caso dei tanti adulti in età media o avanzata che si ritrovano una volta alla settimana a farsi una sgambata di calcetto o simili – faccia male? Beh, in realtà lo pensiamo quasi tutti, a ragion veduta. L’attività sporadica è di certo meno salutare di quella abituale, e alimenta inoltre i rischi di infortuni. Ciò detto, arriva dall’Australia una documentata rassicurazione per gli improvvisati. Il moto, anche quando raro, pare far bene lo stesso.
Come si legge sul Journal of the American Medical Association (Jama) Internal Medicine, gli scienziati dell’Università di Sidney hanno esaminato i comportamenti di quasi 64mila ultraquarantenni, suddividendoli in quattro categorie, gli “inattivi totali”, gli “attivi insufficienti” (che si muovono una volta al mese o poco più), i “guerrieri del fine settimana” e i “regolarmente attivi”.
Ebbene, la sorpresa maggiore arriva dai “guerrieri settimanali”, che hanno riscontrato rischi di mortalità tumorale ridotti del 18% rispetto agli inattivi, e addirittura di oltre il 40% per quella cardiovascolare, per una media complessiva del 30%. Per i “regolarmente attivi” essa arriva al 35%: ancora di più, dunque, ma neppure di troppo. Altro aspetto interessante, perfino gli “attivi insufficienti” presentano dati migliori, seppur lievemente, rispetto agli inattivi, configurando perciò una curva crescente fin dalle più limitate attività motorie. Il beneficio sanitario riconosciuto dalla scienza all’esercizio fisico è multiplo, e coinvolge i livelli di colesterolo, la qualità del sonno, il funzionamento cardiovascolare, il sovrappeso e l’esposizione al diabete e altro.
Ora, nessuno, neppure gli studiosi di Sidney (né quelli di Harvard, autori di un recente studio analogo), contesta l’importanza di un’attività sportiva regolare, né l’imperativo, suggerito anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sul minimo di 150 minuti di attività moderata settimanale (o in subordine 75 minuti di attività intensa). Il problema è che molti, per costrizioni lavorative e/o domestiche, non ce la fanno proprio. E il messaggio è rivolto proprio a loro: se qualcuno vi dice che lo “strappo” di uno sport praticato una sola volta alla settimana è roba che faccia male, ora potete rispondere, con piena cognizione di causa, che è falso.
Non tutti gli specialisti sono d’accordo a mettere in stretta correlazione lo stato d’animo delle persone e i loro rischi di ammalarsi. L’ultimo punto è segnato però dai sostenitori di tale nesso, tramite a una ricerca inglese uscita sul British Medical Journal, che sembra rilanciare il concetto: l’elisir di lunga vita starebbe anche nella nostra capacità di godercela.
Gli studiosi dell’University College hanno preso in esame quasi diecimila adulti, mediamente di 63 anni, seguendoli tra il 2002 e il 2006 con una serie successiva di questionari, al fine di determinarne i livelli di benessere “umorali” e le eventuali correlazioni con i tassi di mortalità, poi osservati fino al 2013. Attenzione, il tentativo di “quantificare la felicità” è una tradizione controversa e molto inglese, a iniziare dagli “utilitaristi” quali Jeremy Bentham, che oltre due secoli fa ne fecero addirittura l’architrave della loro intera costruzione politico-filosofica del mondo.
Gli scienziati londinesi, comunque, non si spingono così in là, limitandosi agli aspetti psichico-sanitari, e determinandoli con una serie di variabili ben più estesa rispetto ad analoghe ricerche passate e maggiormente centrata sugli aspetti di contesto sociale, dalla vita di relazione a quella familiare e lavorativa. Ebbene, la differenza tra i “felici” e i “non felici” è risultata evidente. Tra i 1310 morti registrati nel campione in tale lasso, prevalevano nettamente i secondi.
Divisi in quattro fasce di “godimento della vita”, i più soddisfatti palesavano una mortalità ridotta addirittura del 24% rispetto alla media. Tra loro, si è notata inoltre una prevalenza delle donne e delle persone coniugate, nonché l’incidenza dei livelli di reddito e di istruzione. Il dato preoccupante, per gli studiosi ma anche per i decisori politici, è che un quarto della popolazione monitorata dichiarava invece di non aver avuto in tale periodo “alcuna soddisfazione”, rilanciando l’importanza della vita sociale e attiva, specie tra gli anziani, ovvero di non lasciarli soli.
Il dibattito sui dettagli dei rapporti di causa effetto tra benessere psichico e sanitario è ancora aperto, ma che il nesso ci sia è un fatto oramai riconosciuto anche dai vertici sanitari internazionali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha del resto deciso di consacrare la prossima Giornata Globale della Salute, il 7 aprile, al tema della depressione. Colpisce almeno 350 milioni di persone, è la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni, e alimenta l’esposizione ad altri rischi sanitari. L’importante, dice l’Oms, sta anche nel fatto stesso di parlarne. Superando lo stigma, e superando anche il concetto che il nostro stato di salute non sia un problema di possibile origine o ricaduta psicologica.
Di “picchi influenzali” si parla a ripetizione, e non sempre a proposito. Ma stavolta sembra che ci siamo davvero. L’influenza quest’anno risulta più aggressiva ed è iniziata prima, arrivando al suo culmine altrettanto in anticipo, ossia proprio in questi giorni. C’è per la verità qualche mistero su tale tempistica e altro, e soprattutto permangono alcuni errori individuali sul come prevenire e affrontare il virus, che perciò merita qualche semplice, ma a volte essenziale, chiarimento.
Il fatto che ha destato qualche sorpresa è anzitutto sulle date dell’arrivo. Già prima della fine dell’anno la stagione influenzale era “ufficialmente aperta”, per i numeri che, pur con prevalenza nel centro-nord Italia, coinvolgevano la totalità delle regioni italiane, addirittura tre settimane in anticipo rispetto all’anno precedente. Di solito gli sbalzi termici e le basse temperature favoriscono il contagio, ma fino ad allora l’inverno era stato particolarmente mite.
Poi, comunque, il gelo è arrivato e, con il rientro al lavoro e, soprattutto, a scuola, l’ulteriore impennata c’è stata, tanto che la stima delle persone finora colpite sfiora i tre milioni, ossia il quadruplo rispetto a un anno fa, quando la stagione influenzale era appena agli albori. Morale, la settimana peggiore è ritenuta quella in corso, sebbene i “picchi” potrebbero rinnovarsi fino alla fine di febbraio, quando il bilancio complessivo potrebbe arrivare ai sette milioni di italiani complessivamente colpiti.
I fattori che spingono il contagio sono diversi, ma tra essi ce n’è uno che ci chiama in causa, ed è il calo registrato anche quest’anno nelle vaccinazioni, nonostante le campagne in proposito, con la parziale scusante che l’anno precedente era stato piuttosto “clemente”. Il risultato è nell’intasamento rilevato nei Pronto Soccorso di ogni latitudine. Si fa poca prevenzione, ci si ammala di più, con l’aggravante, segnalata dall’Istituto Superiore di Sanità, della presenza stavolta di varianti piuttosto aggressive (specie per il ceppo denominato A H2N2, originario di Hong Kong), che per giunta colpiscono in maniera severa soprattutto la categoria più esposta, ossia gli anziani, con conseguenze talora fatali.
La prevenzione, nonché la terapia, richiedono anche qualcos’altro. Gli imperativi sono sempre quelli, ma è bene ricordarli: una diagnosi tempestiva (riconoscendo i sintomi del naso chiuso, della stanchezza e dei dolori articolari) e ben mirata, con l’ausilio di un medico nei casi più gravi. Curare presto è importante, così come fare attenzione alle possibili ricadute successive. Bene naturalmente poi una dieta ricca di vitamine, il riposo, tenere la casa tiepida ma non caldissima, farmaci da non assumere a stomaco vuoto, evitando del tutto (salvo prescrizione contraria) gli antibiotici (inutili per l’influenza). Piccoli accorgimenti, ma cruciali al semplice e prioritario obiettivo di fondo: prevenire o curare l’influenza significa anzitutto rinvigorire il nostro corpo.
Lo anticipammo esattamente un anno fa, ma erano solo stime preliminari, per le quali lo stesso Istat invocò “cautela”. Sembrava che, per la prima volta dal dopoguerra, la speranza di vita degli italiani stesse diminuendo, anziché aumentare. Non era purtroppo solo un’impressione, tanto da venir poi presa sul serio anche dall’Istituto Superiore di Sanità nel suo rapporto “Osservasalute”, che ne sottolineava l’anomalia perfino a livello europeo. “Era successo solo nella Russia post-comunista, che invece di investire in prevenzione si è disgregata”, notava il presidente Walter Ricciardi.
La conferma definitiva è arrivata a dicembre, a cavallo delle feste, tanto da rimanere sottotraccia. Nell’Annuario dell’Istituto di Statistica, riferito al 2015, emergono non solo i dati prevedibili e oramai strutturali di una società che globalmente invecchia (seconda per anzianità solo alla Germania) e vede calare i propri tassi di natalità, ma dove inoltre si muore di più e prima.
Nel dettaglio, i decessi sono stati 647.571, 49.207 in più rispetto all’anno precedente, e sono cifre considerevoli, che rilevano non solo dall’incremento naturale della popolazione anziana, ma anche dalle stime sulla vita media, per l’appunto peggiorate: da 80,3 anni a 80,1 anni per i maschi e da 85,0 a 84,7 per le femmine.
Sul perché di tutto questo, e sul dettaglio dei confronti europei, l’analisi deve in parte ancora arrivare, e la “cautela” invocata dall’Istat vale ancora. Dopotutto, l’assistenza sanitaria italiana, anche nell’ultimo anno, è stata globalmente “promossa” dagli osservatori internazionali ai vertici mondiali. Inoltre, tendenze analoghe sulla speranza di vita sono emerse recentemente anche negli Stati Uniti, la cui economia, stando almeno alle cifre ufficiali, avrebbe reagito meglio di quelle continentali.
Nondimeno che quella crisi “morda” parecchio e incida anche sui temi della salute è piuttosto evidente. Emerge dalle indagini sul peggioramento dei consumi alimentari degli italiani, nonché da quelle sugli italiani che rinunciano a curarsi a causa delle difficoltà economiche, 11 milioni nel 2016, 2 milioni in più rispetto a soli quattro anni prima. Il tema è quindi generale, ma le risposte possibili sono anche specifiche sull’assistenza e soprattutto prevenzione sanitaria. Ci sono risparmi miliardari ancora possibili grazie ad esempio al ricorso ai farmaci equivalenti, a identica efficacia e sicurezza terapeutica della “marca”, su cui l’Italia è ancora fanalino di coda europeo. E poi si tratta di difendere le conquiste generali pregresse nella Sanità. “Certo che c’è una correlazione tra il calo della speranza di vita e i tagli”, ha lamentato ancora Ricciardi. Non tagli ma più risparmi, la ricetta c’è, ed è ampiamente condivisa dagli stessi vertici sanitari nazionali. Insomma, si può fare, subito, e i medicinali equivalenti esistono per quello.
C'è chi è bravo, “sente” di aver esagerato nei consumi alimentari e nei comportamenti nocivi, specie in concomitanza con le abbuffate delle festività invernali, e quindi cerca naturalmente di porvi presto rimedio rimettendosi in moto. Per tanti, tuttavia, il nobile proposito rimane affogato nel bicchiere di spumante, e magari nel pagamento dell'iscrizione a una palestra, senza seguito concreto. Ebbene, quell'insana “pigrizia” ha ora ricevuto il timbro di una spiegazione scientifica.
La fornisce, sulla rivista “Cell Metabolism”, il National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases degli Stati Uniti. Il quesito di fondo, illustrato dai ricercatori, è il seguente: acclarati i benefici sanitari di una corretta attività motoria, perché le persone obese appaiono anche le meno propense a muoversi? La risposta intuitiva è senz'altro in parte corretta: c'è un circolo vizioso, con la sedentarietà che alimenta i rischi di sovrappeso, e con il sovrappeso che poi inibisce le capacità motorie.
Tutto qua? No, gli scienziati americani spiegano che c’è dell’altro. E lo hanno capito al seguito di un esperimento di 18 settimane su due gruppi di topolini, alcuni nutriti normalmente, gli altri sottoposti a una dieta ad alto contenuto di grassi. Ebbene, è emerso che in questi ultimi la tendenza a muoversi è diminuita dalla quarta settimana, già prima di registrare un aumento significativo di peso, e non dopo.
Ma allora, che altro c’è? Una risposta è stata trovata nella stessa ipotesi che aveva innescato questa ricerca. Il suo coordinatore, il professor Alexxai V. Kravitz, aveva notato in precedenza somiglianze comportamentali notevoli tra topolini obesi e quelli malati di Parkinson, spiegando l’analogia nelle disfunzioni rilevate in entrambi nel funzionamento di un neurotrasmettitore cerebrale chiamato “dopamina”, il cui difetto conduce anche a difficoltà motorie.
Da notare che la dopamina è un elemento ritenuto cruciale per il nostro benessere emotivo, tanto da meritare l’etichetta del “neurotrasmettitore dell’amore”. Insomma, nelle parole di Kravitz, per rompere quel circolo vizioso tra pigrizia e sovrappeso, “non basta invocare la forza di volontà, bisogna comprendere le ragioni psicologiche e neurologiche che la ostacolano”. Lo scienziato poi non lo dice esplicitamente, ma la ricerca ci ricorda una cosa in più: che una cattiva alimentazione non è nefasta solo per la nostra “linea”, ma anche, e anzitutto, per il nostro benessere mentale.
Sono casi da “Settimana enigmistica”, a volte buffi, talora drammatici, in ogni caso curiosi, perché sembrano almeno in parte sfuggire alle spiegazioni razionali della medicina. “Strani ma veri”, comunque, tant’è che è una rivista divulgativa quanto scientifica a dilettarsi tradizionalmente a raccoglierli. Non dall’aneddotica ma da accertate segnalazioni mediche. Si chiama “Livescience”, è un portale internazionale (sede centrale a Los Angeles), e nell’ultimo anno ha selezionato i 16 accadimenti ritenuti più “strani” degli altri, in un caso anche in Italia.
Uno lo raccontammo noi stessi nei mesi scorsi, ed era quello di una “cecità temporanea da smartphone” approfondita da uno studio che ha coinvolto diversi centri di ricerca britannici. La soluzione del mistero, qui come altrove, è infine risultata analoga a quella degli indovinelli, ossia più semplice dell’apparenza e poco legata al dispositivo citato. La “colpa” principale dei casi accertati non risultava infatti in qualche irradiazione emessa dal telefonino, ma nella prassi, evidente soprattutto nell’atto di coricarsi quando un occhio è coperto dal cuscino, di impegnare solo l’altro, concentrandone così a lungo l’attività e gli impulsi neuronali e “addormentando” provvisoriamente quella del primo.
Non tutti i casi, in effetti, sembrano forieri di particolare interesse medico. Lo stesso telefonino è indiziato di un altro evento, quello di un carcerato irlandese che lo ha inghiottito. La “stranezza” starebbe anche nel fatto che normalmente situazioni analoghe vengono risolte con l’uso di un apposito forcipe, mentre stavolta, dopo due giorni di vani tentativi, la “resistenza” del dispositivo ha reso necessario un vero e proprio intervento chirurgico.
Il caso italiano è tra i più drammatici, e più che un’anomalia scientifica segnala un amaro primato, il primo decesso in Europa, quello di una donna, a causa della puntura di una specie chiamata Ragno Eremita, pressoché assente nel continente. Altri destano invece comprensibile sorpresa tra gli addetti ai lavori, come l’irresistibile “cleptomania” lamentata da una donna dopo un intervento al cervello, risolta dopo qualche mese di graduale riassetto neurologico; oppure la perdita (anch’essa temporanea) di olfatto di un australiano al seguito del morso da un serpente; o ancora, le “allucinazioni” denunciate da una celiaca solo quando inavvertitamente consumava glutine; o il caso del “peperoncino fantasma”, una variante talmente piccante da aver creato un buco nell’esofago di un uomo.
Storie bizzarre quanto sovente dolorose, le cui spiegazioni sono talora intuitive, ma perlopiù parziali. La loro stranezza ci ricorda comunque qualcosa di essenziale, ovvero la complessità dell’essere umano, oltreché della sua casistica. E, insieme, l’umiltà della scienza dinanzi a essa, capace di sperimentare analisi, percorsi e rimedi, ma forse non di cogliere fino in fondo il mistero di tale stessa complessità, né ora né probabilmente mai.