“La diffusione dei medicinali equivalenti e biosimilari è uno strumento prezioso per rendere disponibili con tempestività terapie dall’impatto significativo sulla vita dei pazienti e sulla tenuta dei sistemi sanitari e valorizzare l’innovazione”, esordisce in un comunicato il Direttore Generale dell'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) Mario Melazzini. Ma perché l'ente regolatore del settore si schiera così platealmente in favore dei generici?
La prima risposta è presto detta, e sta nelle cifre. Gli equivalenti rappresentano a livello europeo il 54% del volume di medicinali, proporzione che precipita al 21% in valore. Lo scarto tra le due cifre definisce l'entità del risparmio per i sistemi sanitari, stimato all'enorme cifra di 35 miliardi di euro. È una variabile dunque salvifica, a fronte della tendenza a costi crescenti nella Sanità legati al progressivo invecchiamento della popolazione.
Ed è la variabile che consente appunto di “valorizzare l'innovazione” migliorando le cure. L'ultimo rapporto Osmed ha documentato un rosso nella spesa farmaceutica, legato all'accesso di nuovi e importanti farmaci ma, se non vi fosse stato il cuscinetto degli equivalenti, tali medicinali sarebbero risultati del tutto inaccessibili.
Sul nodo dei prezzi, lo stesso Melazzini ha esplicitamente sollevato una problematica che grava sulle imprese produttrici di generici. “Sono sempre più sotto pressione per ridurre i costi, hanno visto infatti assottigliarsi i margini di profitto, e ciò ha generato complicazioni a livello produttivo, che in alcuni casi possono sfociare nel disinteresse a mantenere in commercio un determinato prodotto”. L'esito è a catena, a danno del consumatore, perché “quando un medicinale abbandona il mercato, la concorrenza si riduce e i prezzi tendono nuovamente a salire”.
Da qui la fotografia di un settore in buona crescita (anche in Italia, seppure lontana dai livelli di altri Paesi europei), ma ancora soggetto a “fluttuazioni”, lamentate anche dalla rivista Lancet. Servono azioni politiche, ma serve anzitutto, aggiunge il Direttore dell'Aifa, “la promozione di una vera e propria cultura del farmaco equivalente”, tramite un'informazione corretta “a far sì che i pazienti siano consapevoli di avere a disposizione farmaci con la stessa qualità, efficacia e sicurezza degli originator, a un prezzo inferiore”. Sono i pazienti dunque i primi destinatari del messaggio, gli stessi che spesso sono costretti a rinunciare alle cure a causa delle difficoltà economiche. E sono loro in effetti a mobilitarsi. “La salute è uguale per tutti”, è lo slogan di una mobilitazione pubblica lanciata nei giorni scorsi da Cittadinanzattiva, “a sostegno della tutela del diritto alla salute”. Il farmaco equivalente è un tassello essenziale di tale diritto, come perorato in molte campagne messe in atto dalla stessa rete associativa di pazienti.
A leggere le singole percentuali sembrerebbe un problema marginale, ma a metterle insieme emerge un quadro estesissimo quanto drammatico. I cosiddetti “malati rari” sarebbero almeno due milioni in Italia, secondo la rete Orphanet, e in due terzi dei casi si tratta di bambini in età pediatrica. Nei giorni scorsi si è tentata la carta del rilancio dell’attenzione al problema, celebrando l’apposita “Giornata Mondiale”, con eventi, congressi, campagne di sensibilizzazione e perfino una mostra fotografica all’europarlamento promossa dalla Federazione Italiana Malattie Rare.
Tecnicamente la malattia si definisce “rara” quando (nella definizione europea) coinvolge non più dello 0.05% della popolazione, ma il fatto è che ce ne sono tantissime, oltre settemila secondo i conteggi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ed è un numero in continuo aumento per il progredire della scienza, specie in ambito genetico, e correlativamente la possibilità crescente di diagnosticarle, nonché, almeno in parte, di curarle.
Ai grandi numeri si aggiungono i grandi problemi per molte delle persone colpite. In Italia un quarto dei pazienti attende da 5 a 30 anni per trovare una diagnosi appropriata e, per ottenerla, uno su tre deve spostarsi in un’altra Regioni. La buona notizia è che tali difficoltà si stanno pur gradualmente riducendo, tra i citati progressi scientifici, le stesse campagne di sensibilizzazione, l’aumento della copertura pubblica delle patologie nell’ambito dei Livelli Essenziali di Assistenza, e anche grazie a iniziative su malattie specifiche.
Una di queste è della Lega del Filo d’Oro che si occupa di pluriminorazioni psicosensoriali, aiutando i pazienti nella definizione della diagnosi e del percorso riabilitativo più adatto, essenziale anche per il fatto che si tratta spesso di patologie che presentano possibili ricadute anche al di fuori dell’area inizialmente lesa. Ebbene, il Centro Diagnostico, allestito dall’associazione assieme a centri ospedalieri e pediatrici di Ancona, testimonia che solo in tale ambito le malattie rare trattate sono state 150, in incremento del 17% negli ultimi dieci anni. Addirittura, un paziente su due, tra quelli che si rivolgono al Centro, soffre di una di tale patologie.
La loro diffusione è tale che, in qualche caso, escono dalla categoria delle “rare”. È ad esempio il caso del “linfedema”, che oramai colpisce circa 40mila italiani l’anno, un’incidenza quasi pari al tumore al seno. Provoca il rigonfiamento degli arti per una carenza di drenaggio della linfa sotto la pelle, innescando tra l’altro molto dolore. Il rapido aumento è dovuto al fatto che colpisce almeno il 20% dei pazienti sottoposti a terapie oncologiche che prevedono lo svuotamento dei linfonodi ascellari, inguinali e pelvici. Se ne fa il punto proprio in questi giorni in una conferenza al Policlinico Gemelli di Roma, nell’ambito di un’altra “Giornata Mondiale”, dedicata specificamente a questa malattia, alfine anzitutto di ricordare, a pazienti e anche ai medici, che con una diagnosi tempestiva i rimedi esistono. In particolare, le recenti tecniche di microchirurgia permetterebbero la riduzione del gonfiore e del dolore fino al 70%.
Il tema non è purtroppo nuovo, ma gli ultimi dati forniscono ulteriore, amara conferma. Non solo l’Europa ha perso la sfida lanciata vent'anni fa di eliminare completamente alcune patologie come il morbillo entro il 2015, ma si assiste a un’insidiosa recrudescenza, legata a un parziale calo vaccinale sotto la spinta di qualche campagna (interessata) e alcuni spauracchi infondati che hanno allontanato dalla copertura alcune famiglie, specie tra le fasce deboli e meno istruite.
Secondo l’ultimo bollettino, relativo a gennaio, diramato dal Sistema nazionale di sorveglianza presso l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), le Regioni hanno segnalato complessivamente 164 casi di morbillo. L’80% è concentrato in quattro regioni, nell’ordine Sicilia, Lazio, Calabria e Liguria. Oltre la metà delle persone coinvolte sono state ricoverate, circa il 40% ha sviluppato almeno una complicanza, e due pazienti sono addirittura morti. Costoro, insieme al 93% delle persone ammalatesi, non erano vaccinati.
Su scala europea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha documentato oltre 21mila persone infette nel 2017, e 35 decessi. Alcuni Paesi sono stati oggetto di specifico richiamo in relazione alla copertura vaccinale, e in particolare l’Italia, che ha segnato il record continentale di contagi (oltre cinquemila), superato solo dalla Romania. Niente allarmismi, comunque: come spiegano gli esperti le cifre contingenti possono essere legate a specifiche ondate, trattandosi di una patologia altamente contagiosa.
È però urgente riprendere il filo dell'informazione sull'importanza delle immunizzazioni, riconosciuta anche dai pochi medici scettici in materia. Lo stesso Iss, con un apposito approfondimento, ha stimato che le vaccinazioni principali hanno evitato tra il 1900 e il 2015 più di quattro milioni di contagi e decine di migliaia di morti in Italia. Il vaccino resta l’architrave dei successi della medicina contemporanea, che ha fatto raddoppiare la speranza di vita.
A proposito di buona informazione, ricorre proprio in questi giorni il ventennale della “fake news più celebre della storia". Coinvolgeva proprio il morbillo, e ricevette l'onore di pubblicazione dalla prestigiosa rivista Lancet (che poco dopo si scusò e cancellò l'articolo): un medico inglese avanzò l'ipotesi di un possibile legame tra il vaccino trivalente morbillo-parotite-rosolia e l'autismo. Precisò che si trattava solo un'ipotesi, ma trovò subito ampia eco mediatica, e lo stesso studioso suggerì cautelativamente l'impiego di vaccini monovalenti. Fu la “regina delle bufale”, una vera e propria “frode scientifica” - si commenta oggi unanimemente. Qualche tempo dopo la pubblicazione emerse un dettaglio in più: lo stesso medico, che gettò la pesante ombra sul trivalente, aveva fatto richiesta di brevetto per un suo vaccino monovalente.
“L’arte della medicina consiste nel divertire il paziente mentre la natura cura la malattia”, provocava lo scettico Voltaire. Lo stesso considerare la medicina come “un’arte” è per definizione scivoloso, per quel che doverosamente impone scienza all’intero ambito della ricerca e della terapia. Nondimeno c’è un aspetto cruciale della professione medica che, tra mille nozioni, paletti razionali e complessità fisio-patologiche, deve sempre conservarsi. È la sfera dell’intuizione, che non richiede di uscire dai paletti razionali che nei secoli hanno costruito la medicina contemporanea. Richiede piuttosto di prestare seria attenzione al singolo paziente, e ai possibili cambi di rotta che possono ricercarsi, soprattutto nei casi più disperati.
Lo ha fatto, con straordinario successo, un medico italiano, Nicola Laforgia, direttore dell’Unità di Neonatologia del Policlinico di Bari. Il caso era quello di una neonata affetta da “linfangiomatosi”, una malattia rara che consiste nella malformazione del sistema circolatorio linfatico che può interferire con vari organi vitali, a partire dall’ambito respiratorio, con tassi di mortalità elevatissimi.
Il problema era già stato diagnosticato durante l’ultima fase della gravidanza, e si è subito complicato dopo il parto, con la compromissione delle vie respiratorie. Dinanzi all’inefficacia di un medicinale solitamente utilizzato in questi casi, e dopo il pronto consenso firmato dai genitori, il medico ha tentato la strada di un semplice antibiotico immunosoppressore. Col risultato che la piccola sembra davvero del tutto guarita. “È il primo caso al mondo” per tale patologia e con un farmaco del genere, ha rivendicato Laforgia, suscitando l’immediato interesse della stampa scientifica internazionale.
“L’aggravamento del quadro clinico ha reso necessario l’inizio tempestivo di un trattamento terapeutico preferendolo a quello chirurgico perché è molto demolitivo e può residuare esiti invalidanti senza modificare le altre lesioni”, ha raccontato il medico, spiegando che, grazie all’idea dell’antibiotico “per l’intrinseco effetto di inibizione su alcuni fattori di crescita si è osservata una riduzione significativa non solo della massa laterocervicale, ma anche delle altre lesioni”.
Non è certo una novità che l’ambito intuitivo sia cruciale nella medicina. Già Ippocrate osservava che “gli uomini di esperienza sanno bene che una cosa è ma non sanno il perché; gli uomini d’arte conoscono il perché e la causa”. Più di recente, due studiosi contemporanei, l’americano Barrows e l’inglese Mitchell, nell’introdurre un manuale di neuroscienze, si sono dichiarati “sconvolti dall’uso prematuro ed eccessivo di test diagnostici come sostituti dell’attività del pensare al letto del paziente”. E hanno ricordato la storia di “intuizioni fruttuose avute in modo rapido o decisioni cliniche magistrali prese sulla base di dati incompleti da parte di medici accorti”. Il medico di Bari si aggiunge a queste belle storie.
È stata una amara conferma della più odiosa ed eloquente delle diseguaglianze: la Sanità italiana non è uguale per tutti, anzi è talmente sperequata che si riflette in differenze significative anche sulla speranza di vita delle persone. I dati sono stati illustrati dall’Osservatorio Nazionale della Salute, ideato e presieduto da Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
Tra le maggiori discrepanze rilevate dal rapporto, spunta quella che oppone i laureati ai non laureati. La differenza è significativa soprattutto tra gli uomini: i primi hanno una durata della vita media di 82 anni, per i secondi crolla a 77. Naturalmente a fare la differenza non è il “pezzo di carta” in sé, ma quel che tende a rilevare sulla situazione socio-economica della persona. Il dato conferma che le fasce più deboli in rapporto alla situazione socio-economica vivono di meno, e per giunta vivono peggio, palesando dati peggiori per quel che riguarda, tra l'altro, le cronicità e l'obesità.
Altrettanto grave quanto significativo il dato sulle rinunce alle cure. Accade almeno una volta nella vita di rinunciare ai trattamenti per motivi economici al 69% della popolazione nei ceti deboli, il doppio rispetto agli altri. Pesanti anche le differenze regionali. Al nord-est la speranza di vita media per gli uomini è di 81,2 anni, per le donne 85,6, mentre nel mezzogiorno si scende rispettivamente a 79,8 anni e a 84,1, ossia quasi due anni in meno.
Tale differenza territoriale (rilevata tra l'altro in aumento negli ultimi dieci anni) è dovuta solo a differenze di reddito? Non proprio. Emerge anche una differenza nella qualità regionale della spesa, con riferimento anche ai farmaci. Le Regioni che spendono di più nei medicinali equivalenti sono anche quelle con le valutazioni migliori sul loro servizio sanitario: in Trentino la percentuale della spesa per i farmaci equivalenti, tra quelli a brevetto scaduto, è del 10.2%, ossia quasi il triplo che in Calabria. Il nesso è facile da spiegarsi: i risparmi generati dal ricorso ai generici consentono di ampliare la qualità delle cure e la platea dei pazienti.
L’imperativo suggerito dall’Osservatorio è proprio quello di superare tali diseguaglianze preservando la natura pubblica del Servizio Sanitario, notando peraltro che le stesse risultano ancora inferiori a quelle rilevate in tutti gli altri Paesi europei eccetto la Svezia. L’universalismo dell’offerta sanitaria “si sta inesorabilmente disgregando”, avverte comunque il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta. A margine, la stessa Fondazione ha anche emesso un comunicato in vista delle imminenti elezioni politiche, notando che “nessuna forza politica ha elaborato un piano di salvataggio del Servizio Sanitario Nazionale”.
Il quesito si ripropone, al variare delle stagioni: la montagna è tanto bella e tanto salubre, ma è davvero alla portata delle persone con seri problemi cardiovascolari, date le carenze di ossigeno in alta quota? Un gruppo di scienziati, guidati dal cardiologo Gianfranco Parati dell’Università Bicocca di Milano, ha fatto ora il punto, con una pubblicazione sulla rivista European Heart Journal sulle conoscenze fin qui acquisite dalla ricerca medica.
La risposta è sostanzialmente quella di un’ampia rassicurazione, purché all’interno di alcuni limiti e raccomandazioni da seguire per bene. Un “divieto” medico all’escursione in alta montagna permane, ma solamente per chi soffre di patologie coronariche gravi. Per tutti gli altri, l’attenzione va calibrata in funzione dell’altitudine.
Per le coronaropatie lievi praticamente le limitazioni di altitudine non sussistono, a meno di non voler raggiungere qualche vetta himalaiana; altrimenti, perfino le cime alpine sono sostanzialmente “innocue”. La vera differenza è rappresentata dalle patologie di media portata: per esse la raccomandazione c’è, sebbene “blanda”, in quanto si limita a sconsigliare di superare la considerevole quota dei 2.500 metri.
È a tale altitudine che si riscontra un calo rilevante dell’ossigeno, che innesca un aumento della frequenza respiratoria e della pressione sanguigna, con ricadute sull’intero sistema cardiovascolare.
Questo per quel che riguarda i pur modesti paletti sulle altimetrie. Per il resto, la raccomandazione è piuttosto nei comportamenti. “Il paziente cardiologico non deve necessariamente privarsi del piacere della montagna o del viaggio ma deve affrontare la situazione con serietà, consapevolezza, prudenza e preparazione”, spiega Parati.
In questo le priorità sono quelle di un minimo di allenamento fisico, un’ascensione in quota da effettuare gradualmente, un controllo preventivo sui propri valori, un eventuale adeguamento del supporto farmacologico in base alla valutazione personalizzata del medico, l’attenzione a una dieta leggera, con tanta acqua e vitamine, pochi grassi, evitando naturalmente fumo e alcol. Al resto ci pensa la montagna: se rispettata, non è un'insidia ma un toccasana per la salute, anche del cuore.
Un'altra, massiccia, dimostrazione di solidarietà degli italiani. Lo scorso 10 febbraio la Giornata di Raccolta del Farmaco si è conclusa con la raccolta di oltre 376mila confezioni. La tradizionale iniziativa del Banco Farmaceutico stavolta è stata “battezzata” perfino dal saluto del Papa che all’Udienza generale, in piazza San Pietro, ha ricordato l’attività della Onlus ramificata oramai in 101 province italiane, e impegnata nella raccolta di medicinali acquistati e donati dai clienti nelle farmacie.
L'enorme colletta viene poi consegnata ai 1.761 enti caritativi convenzionati, che provvedono alla distribuzione alle persone bisognose, stimate quest'anno in 535mila. Cifre impressionanti, sotto l'ombrello del patrocinio della Presidenza della Repubblica e con la collaborazione dei principali attori del settore, inclusa l'Agenzia Italiana del Farmaco, Federfarma e Assogenerici.
Quelle cifre sono ogni anno in aumento grazie anche al crescente coinvolgimento delle farmacie, ben 4.176, con un aumento dell'8,4% rispetto all'anno precedente. A questo dato si accompagna peraltro una piccola ombra, ossia il fatto che le donazioni medie effettuate nel singolo esercizio sono invece pur lievemente calate. La ragione, illustrata dal presidente della Fondazione Banco Farmaceutico, Sergio Daniotti, è amaramente semplice: “Il persistere, ormai consolidato, degli effetti della crisi”.
Si rilancia dunque il tema dei costi dei medicinali e l'urgenza del ricorso ai farmaci equivalenti per poter ampliare le possibilità di cura dei cittadini. Il 2017 è stato l'anno dello storico sorpasso dei generici rispetto ai medicinali di marca in Europa, arrivando a quota 62%, ma il loro impatto sui bilanci sanitari resta ancora basso, evidenziando più ampie possibilità di risparmio per le casse pubbliche e soprattutto per le tasche dei cittadini.
Significa potersi curare di più, e poter curare più persone. Il principio attivo è lo stesso, la differenza di prezzo è dovuta alla scadenza dei brevetti, che in questi anni tra l'altro sta interessando molti medicinali, spingendo il settore degli equivalenti ad un’ottima crescita. Pur tra resistenze di varia natura (incluse alcune psicologiche), il concetto è oramai acquisito dagli operatori sanitari. Negli Stati Uniti, alcune centinaia di ospedali si sono associate per acquistarli assieme, e addirittura per produrseli.
Non si tratta più di disquisire tra favorevoli e contrari, tra i più e i meno propensi allo sport, anche in riferimento alle scuole. Il tema non è ideologico: è solo sanitario. Lo ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, illustrando i dati preoccupanti sulla sedentarietà, eccessiva perfino tra i ragazzi, con quel che consegue per i loro stessi rischi fisici, nell’arco dell’intera vita.
Il dato essenziale è che oltre l’80% degli adolescenti tra 11 e 17 anni fa poca o nessuna attività fisica: questo genera un effetto negativo per la salute conteggiato in un rischio aumentato di morte di quasi il 30%, incrementando l’esposizione a problemi cardiovascolari, ictus, diabete e perfino cancro. “Studiare incentivi fiscali per chi svolge la pratica sportiva e, soprattutto, aumentare le ore di educazione fisica nelle scuole, affinché questa materia non sia più una cenerentola, ma un volano decisivo per rendere la nostra società più attiva e in buona salute”, commenta la stessa ministra della Salute Lorenzin.
Il nodo è che fin qui non si è fatto nulla, mentre sarebbe il caso di agire con urgenza. Secondo l’ultimo rapporto europeo in materia, gli italiani risultano tra i più sedentari, col 60% che di chiara di non fare attività fisica, mentre la media europea continentale scende al 42%, e in Paesi come la Svezia arriva addirittura sotto il 10. Per quel che riguarda le scuole, in Francia si conteggia una media di 108 ore di educazione fisica per anno scolastico, mentre da noi sono poco più della metà, e non vi sono ancora linee guida cogenti in materia.
Permane in Italia solo l’indicazione del minimo di un’ora alla settimana, mentre l’indicazione della scienza è che alla crescita sana dei giovanissimi servirebbe almeno un’ora al giorno di attività fisica. Il problema è anche nei costi, pubblici e privati. Un’altra (ex) ministra, l’olimpionica Josefa Idem, aveva lamentato il fenomeno dei “progetti integrativi pagati dai genitori” per integrare le lacune scolastiche, perorando la necessita di affidare l’educazione fisica pubblica, sin dalla scuola primaria, a laureati nelle scienze motorie. Ne servirebbero circa ventimila, con un costo annuo stimato ad almeno 300 milioni di euro.
Si parla dei bambini, del futuro, ma attenzione, non è mai troppo tardi per iniziare qualche attività sportiva, o per evitare di rinunciarvi. Con cautela, naturalmente, ma un esercizio moderato è considerato un tassello essenziale della prevenzione, anzitutto cardiovascolare, anche in età avanzata.
Attenzione perché il tema è delicatissimo, rappresentando una vera e propria piaga socio-sanitaria in molte Regioni italiane, in particolare al nord, nonché in fasce della popolazione particolarmente a rischio. Nel consumo dell’alcol, in base agli ultimi dati dell’Istat, eccedono soprattutto gli ultra-sesantacinquenni, con larga prevalenza maschile (oltre un terzo della popolazione di tale età), nonché tra i giovani, con percentuali che sfiorano il 20% nella fascia tra gli 11 e i 24 anni, dove la differenza di genere permane anche se si assottiglia.
Sta di fatto che, entro limiti stringenti, si ribadiscono conferme scientifiche sul concetto che un pochino d’alcol sia non solo “digeribile” dal nostro corpo, ma abbia perfino qualche potenziale beneficio, non solo - come già noto - in ambito cardiovascolare ma, almeno stando alle ultime conferme, anche nella sfera cerebrale.
Il dato emerge da uno studio pubblicato su Scientific Reports e realizzato dall’Università newyorchese del Rochester Medical Center, i cui studiosi in passato avevano già dimostrato il ruolo del liquido cerebrospinale nel pulisce il cervello, eliminando le tossine in eccesso, come ad esempio le proteine beta amiloide e tau, associate con l’Alzheimer.
Ora uno studio condotto su roditori esposti all’alcol ha ribadito il serio danno cerebrale determinato da un consumo di alcol elevato e protratto nel lungo periodo, data la sua incidenza su meccanismi infiammatori, ma ha rivelato anche che invece un basso consumo (calcolato nell’uomo in un paio di bicchieri al giorno), non solo non determinerebbe effetti negativi ma sarebbe capace addirittura di attivare il meccanismo di “purificazione” dai rifiuti garantito dal sistema linfatico cerebrale.
Non si tratta di una novità assoluta, ma documenta e spiega quanto già sporadicamente notato in precedenza, ad esempio da uno studio pubblicato lo scorso anno dall’Università di Graz, che attribuiva a quel paio di bicchieri al giorno anche qualche effetto positivo a livello cerebrale: secondo i ricercatori austriaci, infatti, un po’ di vino alimenterebbe, in particolare, la “fantasia artistica” e la capacità di risolvere i problemi sfuggendo dalle barriere razionali e trovando strade innovative.
Quando la fantascienza si fa scienza si arriva anche a realizzare quello che finora avremmo potuto definire solo un “miracolo”, ovvero la restituzione la vista. È accaduto all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, con un intervento di ben undici ore, in ragione tra l’altro delle comprensibili esigenze di massima precisione dell’intervento.
“È la prima volta in Italia che si impianta una protesi retinica, tra le prime al mondo”, spiega Marco Codenotti, direttore dell’équipe e del reparto chirurgico-vitroretinico che ha seguito l’operazione, ammettendo che “è stato l’intervento più complicato che abbia mai eseguito”. Col lieto fine, comunque, di “un sogno realizzato”.
La paziente, di 50 anni, di cui la metà trascorsi da non vedente, è stata presto dimessa: per il riscontro definitivo servirà ancora qualche giorno, ma la convinzione è che gradualmente potrà recuperare autonomamente almeno in parte la vista. Si tratta cioè di attendere un po’ per l’accensione del “microchip”, che dovrebbe aver luogo a circa un mese dall’intervento, in modo che l’occhio possa avere la piena facoltà di farne uso.
L’aspetto straordinario è infatti che l’organo potrà recuperare una capacità autonoma di funzionamento, senza bisogno di ausili esterni, quali telecamere o appositi occhiali. Un vero e proprio “occhio bionico”, spiega Codenotti, ossia una protesi sotto-retinica artificiale, ad alta definizione (contiene 1600 pixel), capace di stimolare il circuito nervoso endogeno che collega l’occhio al cervello, in sostituzione dell’attività solitamente svolta a livello cellulare dai fotorecettori della retina stessa.
L’occhio, a quel punto, è in condizione di “reimparare” gradualmente a vedere, quantomeno tramite una pur vaga distinzione tra luci e ombre. L’intervento ha dunque davvero i connotati dello straordinario, oltre che dell’impensabile fino ad ora. C’è un’avvertenza, comunque: la tecnologia non può restituire la vista alla totalità dei ciechi, ma solo a quelli che lo sono diventati al seguito di qualche malattia genetica come la retinite pigmentosa.
“We can. I can”, recitava lo slogan dell'ultima edizione della Giornata Mondiale contro il Cancro, coordinata dall'omonoma Unione Internazionale lo scorso 4 febbraio, sottolineando il potenziale odierno della sfida. I nuovi casi di cancro accertati ogni anno sono circa 14 milioni e si prevede che supereranno i 21 milioni entro il 2030; allo stesso tempo, però, aumenta anche l’incidenza delle guarigioni, soprattutto nel nostro Paese: nel 2000 erano il 40%, oggi sono salite a oltre il 60%, dati che ci collocano ai vertici della classifica europea.
Il “potenziale” sottolineato in particolare quest'anno è rappresentato in primo luogo dalla prevenzione, a partire dalla strategia che punta a modificare i comportamenti più nocivi, a partire dal fumo, ritenuto responsabile di circa un terzo di tutti i tumori. Tra le “regole d'oro” sottolineate dall'Associazione Italiana Oncologia Medica figurano però molti altri consigli, con un focus particolare dedicato all'alimentazione. Naturalmente gli imperativi sono quelli di evitare l’obesità e l’eccesso di alcol, nonché di seguire una dieta ricca di frutta e verdura, povera di grassi, carni (specie quelle conservate) e sale. Ma ci sono precise regole alimentari da seguire anche quando ci si ammala.
A tal proposito, il ministero della Salute, assieme alle Regioni, Aziende sanitarie e società scientifiche, ha divulgato delle “linee guida” destinate proprio all’alimentazione dei pazienti oncologici, trai quali si riscontrano perdite rilevanti di peso già in fase di diagnosi.
Il tema è serissimo, perché un’alimentazione inadeguata incide negativamente anche sull’efficacia e l’aderenza alle terapie, oltre che sul benessere generale della persona. Il documento raccomanda quindi una stretta collaborazione tra oncologi e nutrizionisti, anche per quel che riguarda le mense ospedaliere. Ai pazienti, il consiglio è anzitutto quello di evitare i digiuni. E se non si ha voglia di mangiare - consigliano gli esperti - meglio rinunciare alle abbuffate e moltiplicare invece i piccoli pasti. Con le solite priorità: tanta frutta, verdura e le proteine dei legumi.
No, non è finita. Sulla lebbra si sono fatti passi da gigante nell’ultimo mezzo secolo ma ha torto chi pensa che il mondo abbia chiuso i conti con la patologia.
La lebbra esiste ancora in più zone del pianeta, in particolare in India e in Brasile, per un totale di oltre 216mila casi l’anno (cifra 2016) e perfino il nostro Paese non ne è esente, con alcune decine di diagnosi annue. Insomma uno “spauracchio” apparentemente del passato che tuttavia reclama ancora attenzione, anche e forse soprattutto, per quel che rivela, dall’antichità a oggi, sul nostro modo di pensare al tema generale della salute.
Tecnicamente, ogni due minuti una persona ne è colpita, sostiene l’Associazione Amici di Raoul Follerau, che prende il nome dallo scrittore e attivista francese che ne promosse dal 1954 la Giornata mondiale, osservata anche nella scorsa ultima domenica di gennaio con la campagna #maipiù, per dire basta alla malattia ma anche “all’indifferenza”. Il tema cruciale è infatti questo: l’ostacolo ritenuto più grave è proprio il permanere di discriminazioni, pregiudizi e reticenze, a danno anzitutto della fascia più colpita, quella dei bambini, e a discapito della loro esistenza sociale oltre che delle possibilità di diagnosi e cura.
Attenzione, perché qua siamo al cuore non solo di un problema sanitario ma anche della cristianità segnata dal Nuovo Testamento: lo stigma sul lebbroso era ampiamente presente nella letteratura biblica e fu solo con l’arrivo di Gesù che si cambiò completamente rotta.
Come spiegano i sacerdoti e i filosofi, Gesù “purificò” il lebbroso, e lo fece “toccandolo”. Non fu solo una guarigione, dunque, ma anzitutto una vera e propria liberazione e rivoluzione culturale. Abolì la separazione netta tra “il puro e l’impuro”, che ordinava il pensiero dell’epoca e, a tutt’oggi ed esplicitamente, le società di miliardi di persone, a iniziare da quella dell’India, gerarchizzata in funzione alla “purezza” di ciascuno (abitudini e professioni incluse), ossia alla sua lontananza dalle possibilità di contatto con le fonti organiche di “inquinamento”.
Insomma, noi europei saremmo culturalmente liberati dal pregiudizio verso la malattia, ma la realtà è che non è proprio così. La stessa India, paradossalmente, ci insegna qualcosa, perché, pur nell’esplicitare ancora il pregiudizio, non lo nasconde, né nasconde la patologia e la morte, anzi ne fa oggetto di espliciti riti e discorsi quotidiani sull’ordinaria condizione umana. Noi quel pregiudizio verso i malati l’avremmo superato da un pezzo, da oltre duemila anni, ma dobbiamo fare ancora un passo in più per la piena e attiva integrazione sociale di chi è malato, senza reclusioni, esclusioni e diffidenze. La lebbra è solo il caso limite, il problema coinvolge tutte le malattie e le debolezze umane.
La mano si fa pallida, sembra disidratata, e così il padiglione auricolare o altro. Può essere uno dei segni più tipici della cosiddetta “ipossia”, una condizione di carenza di ossigeno che può condurre a sincope o a problemi cardiovascolari.
Ma se invece non si trattasse solo di un “sintomo”?
Una intrigante ricerca dell'Università di Cambridge assieme al Karolonska Institute di Solna, in Svezia, svela un ruolo essenziale della pelle nella regolazione dei processi cardiaci.
Nei nostri tessuti dimora una famiglia di proteine, chiamate “Hif”, che agirebbe sulla pressione sanguigna. Per accertarne la dinamica, come si legge sulla rivista E-life, gli studiosi hanno riprogrammato geneticamente alcuni topi, inibendone la protezione di tali proteine, sottoponendo gli stessi, assieme ad altri roditori sani, a un ambiente a scarsa produzione di ossigeno.
Ebbene, tra i topolini “normali”, nell'arco di dieci minuti si è constatata una notevole alterazione dell'attività cardiaca, che poi tendeva al ritorno alla completa normalità entro le 48 ore. Tecnicamente, i ricercatori – che fra l'altro rivendicano di aver esteso per la prima volta l'osservazione in materia al di là della decina di minuti iniziali – hanno notato una risposta “tri-modale” dell'organismo. La fase iniziale è tachicardica e ipertensiva, seguita però da un “rapido e profondo” rallentamento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca per 24 ore, prima del graduale ripristino dello stadio pre-ipossico.
Quanto fin qui detto è interessante di per sé, perché chiarisce i meccanismi adattivi messi in atto dal nostro corpo al seguito di una carenza di ossigeno. Ma quel che è ancor più rilevante è che tale processo è risultato, invece, del tutto sconvolto tra gli animali privi della proteina Hif. E questo, a detta degli scienziati, dimostra come i tessuti periferici abbiano un ruolo fondamentale nell'adattamento cardiovascolare.
Da notare che la scarsa presenza di ossigeno può derivare dall'alta quota, dal fumo, dall'inquinamento o anche da uno stato di rilevante sovrappeso. La capacità adattiva del nostro organismo si è confermata qui notevole per limitare i danni. La natura, tuttavia, può fare tantissimo ma non i miracoli, sicché permane l'imperativo del no ai comportamenti nocivi, in quanto quei danni possono essere gravissimi, ben al di là del pur essenziale ambito cardiovascolare.
Piccolissimi, invisibili, quindi il problema non si vede, o comunque pare troppo piccolo perché possiamo farci qualcosa. Se il tema dell’“antibiotico-resistenza”, ricordato sempre più spesso come il potenziale “male del secolo” (più di qualsiasi patologia) dalle autorità sanitarie nazionali e mondiali, nonché sui nostri spazi, chiama giustamente alla responsabilità anzitutto gli addetti ai lavori dell’universo della sanità, tende a suonare non alla “portata di mano” di ciascuno di noi.
È un pensiero sbagliato, da correggere in fretta, perché è proprio sulle “mani” che invece si gioca tantissimo nel fenomeno della proliferazione dei batteri che si “adattano” fino a diventare inattaccabili anche da parte dei farmaci. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito da anni un'apposita Giornata Mondiale dedicata all'igiene: “Combattere la resistenza agli antibiotici è nelle tue mani”, è stato significativamente lo slogan dell'ultima edizione.
La sfida è anche nei farmaci, con l'imperativo dell'appropriatezza terapeutica da parte dei prescrittori e dell'aderenza da parte dei pazienti. E poi un'attenzione, già potenziata in Italia, anche negli ospedali: “Dall'osservazione puntuale del lavaggio delle mani fino all'istituzione di personale sanitario dedicato al controllo delle infezioni e di figure professionali per guidare un appropriato utilizzo di queste molecole”, spiega il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi.
Il tema dell'igiene a volte può prestarsi a letture ambigue e a messaggi in apparenza contraddittori. Gli stessi addetti ai lavori mettono in guardia dinanzi a qualche eccesso, con riferimento soprattutto ai bambini. Le autorità sanitarie americane, ad esempio, sconsigliano di fare la doccia completa ai piccoli sotto gli 11 anni più di due volte la settimana, in quanto hanno bisogno di costruire anticorpi mentre i detergenti possono inibire il processo. In altri contesti, si rivela come alcune formazioni cutanee, come le verruche, tendano a riprodursi in ambienti relativamente puliti, perché in quelli malsani vengono sopraffatti da virus ben più potenti.
Ma è proprio nell'apparente contraddizione che si svela la portata del problema. La forza adattiva di alcuni batteri può esser tale da sviluppare resistenza ai farmaci. E il nostro veicolo primario sono le mani, che toccano tutto, e con cui contaminiamo i nostri ambienti e il nostro corpo. Su questo non esistono “ma”, si tratta di lavarle, bene e sempre. In gioco è la salute, privata e pubblica, nel contesto di un amaro primato del nostro Paese in sede europea, con 300mila infezioni annue da germi resistenti. Cifra destinata a salire se nei comportamenti quotidiani dimenticheremo la priorità dell'igiene.
A volte, più o meno scherzosamente, negli uffici si reclama la natura fisicamente “usurante” del proprio mestiere, tanto da agognarne l’inclusione nelle apposite categorie riconosciute dall’Inps. Naturalmente l’usura è incomparabilmente maggiore nei lavori che richiedono un’assidua fatica fisica, per giunta a volte in ambienti molto inquinati. Nondimeno, il tema dell’usura vale anche per gli impiegati, tra posture scorrette, sedentarietà, sovraesposizione ai monitor e altro, tant’è che è stato oggetto di recente approfondimento presso lo stesso ministero della Salute.
Da una ricerca è emerso in particolare che otto impiegati su dieci hanno sofferto di disturbi legati al proprio lavoro negli ultimi tre anni. Quasi due terzi degli intervistati ha accusato mal di schiena, il 55% qualche mal d testa, quasi la metà dolori alle spalle, al collo o agli occhi, il 31% dolori al polso o al braccio. Cifre preoccupanti, che trovano facile spiegazione nelle abitudini seguite in ufficio: l’immobilità è ammessa dal 97% degli impiegati, il 90% sta in una posizione ingobbita, l’85% tiene le gambe incrociate.
I dati sono stati presentati alla stessa ministra Lorenzin. “Rendere salubre il luogo dove viviamo vuol dire renderci sani e rendere migliore la nostra vita: sono le piccole scelte a portare le grandi trasformazioni”, ha commentato. La presa d’atto del problema dunque c’è, almeno nelle parole, anche ai massimi livelli istituzionali, sicché non vanno presi con sufficienza alcuni possibili accorgimenti, di semplice attuazione, che possono fare la differenza.
In questi giorni, ad esempio, l’università gallese di Bangor ha rilanciato l’importanza della pratica dello yoga (anche in casa o in ufficio), anche se solo sporadica, tramite una ricerca che ha coinvolto 150 impiegati del servizio sanitario nazionale. Sono stati suddivisi in due gruppi: uno è stato istruito in un percorso formativo su come ridurre lo stress da lavoro e in particolare il mal di schiena; l’altro è stato concretamente sottoposto a otto sessioni di yoga, per un’ora sola una volta la settimana. Ebbene, risultati significativi sono stati rilevati solo nel secondo gruppo, in particolare con una rilevante riduzione del dolore lombare dopo otto settimane.
Meglio ancora, scrivono gli studiosi britannici, “spalmare” l’esercizio in una decina di minuti al giorno. L’obiezione che “non possiamo permettercelo” insomma è infondata. Vale anzi il contrario, il beneficio è anche economico: la ricerca gallese ha documentato che il gruppo che praticava yoga ha ridotto di ben venti volte le proprie assenze. In Italia, è stato stimato che i costi per assenteismo legati a disturbi posturali ammontino a oltre 3 miliardi di euro l’anno. Sono dati che dovrebbero far riflettere tutti, inclusi i datori di lavoro. L’Independent ha notato che circa un quarto degli imprenditori americani assicurano qualche sessione di meditazione o yoga ai propri dipendenti. All’evidenza, non si tratta di “gentilezza”, semplicemente hanno fatto un po’ di calcoli.
Sopravvivere a un ictus, ma ritrovarsi con gravi deficit motori. Questa evoluzione è stata a lungo considerata, non senza buone ragioni, come un’ineludibile condanna. Non è però sempre così, e anzi non mancano i progressi nell’ambito dello studio sulla riabilitazione. Alcuni avanzamenti, decisamente rilevanti, sono annunciati in questi giorni proprio dal nostro Paese. In particolare, è stato pubblicato sulla rivista internazionale Transnational Stroke Research uno studio promettente dell’Università di Messina, in collaborazione con la Fondazione Santa Lucia di Roma, su un’innovativa terapia anti-neuroinfiammazione.
La ricerca ha coinvolto 250 pazienti colpiti da ictus, con leggera prevalenza maschile, di età media di circa 71 anni, in larga parte alle prese con danni diffusi. Sono stati quindi suddivisi in due gruppi, uno sottoposto a terapia tradizionale, l’altro sottoposto a una nuova molecola, chiamata PEALut.
La differenza è risultata davvero significativa. Dopo 60 giorni, il primo gruppo ha manifestato un recupero del 20%, negli altri è risultato più che raddoppiato. Benefici per la riabilitazione, dunque, ma non solo. “Si dimostra come la molecola sia in grado di prevenire il danno neuronale, e ritardando l'esordio della patologia, oltre a limitarne gli effetti se il danno si è già verificato”, spiega il farmacologo Salvatore Cuzzocrea.
Gli scienziati siciliani riferiscono inoltre di ricerche in corso sull’impiego della PEALut al seguito di trauma cranico, anticipando esiti a prima vista altrettanto promettenti. Qualcosa dunque si muove, e questo va anche al di là dello stretto ambito farmacologico. Un’altra Fondazione, la Don Gnocchi, su altri 250 pazienti colpiti da ictus, ha confrontato la terapia fisioterapica tradizionale con moderne tecniche di riabilitazione robotica (in aggiunta, e non in sostituzione della prima), in relazione in particolare al recupero degli arti superiori.
Gli effetti sono risultati notevolmente aumentati, sia sull’entità sia sui tempi di recupero, tanto da far parlare di una “rivoluzione nella riabilitazione”. Le “palestre robotiche” attrezzate dalla Fondazione si trovano a Roma, Milano, Firenze, La Spezia e in alcuni centri minori. La sfida è anche sui costi e su questo si fonda anche l’appello a istituzioni e industria a partecipare alla sfida: la moderna robotica, a detta della Fondazione Don Gnocchi, non solo è efficace, ma anche “economicamente sostenibile”.
Le precisazioni e i “ma” in tema di disturbi alimentari sono importanti quanto gli allarmi sugli stessi. Questo vale anche per il tema della celiachia, su cui il ministero della Salute ha aggiornato in questi giorni i dati ufficiali nella sua Relazione al Parlamento. Partiamo comunque da questi, che in effetti segnano una preoccupante escalation. Nel 2016 le nuove diagnosi in Italia sono state ben 15.569, oltre cinquemila in più rispetto all’anno precedente.
Si tratta di un aumento di oltre il 30%, che porta il numero di casi accertati presso la soglia di 200mila. E qui arriva però il primo “disclaimer”: i dati, seppur gravi, rappresentano solo una sottostima del fenomeno, tant’è che le proiezioni reali raddoppiano la cifra complessiva, tenendo conto dei soggetti che sono affetti senza saperlo.
Allo stesso tempo, l’incremento della casistica segnalata rappresenta anche un risvolto positivo poiché riflette, almeno in parte, un aumento della consapevolezza, pubblica e privata, sulla patologia. Lo conferma anche il dato regionale: ben un terzo delle nuove diagnosi è effettuato in Lombardia, proporzione di certo sospinta dalla qualità complessiva del servizio sanitario, anche in tema di diagnostica.
I “ma” proseguono col permanere di una certa confusione nelle percezioni del problema, a danno dei celiaci e dei non celiaci. È allora essenziale ricordare che la celiachia è una condizione particolare di origine genetica e di infiammazione cronica che richiede rigorosamente l’esclusione del glutine dalla dieta. Per chi non è affetto, invece, come avverte la stessa Associazione Italiana Celiachia, la tendenza crescente al “gluten-free” è solo una “moda”, da evitare per almeno due motivi: perché non fa affatto bene ai non celiaci (alcune ricerche recenti suggeriscono anzi rischi dal punto di vista cardiovascolare), e perché alimenta la confusione stessa sulla specificità del problema.
C’è peraltro un elemento ulteriore che complica il quadro. Il fatto che esista anche una “sensibilità non celiaca al glutine”. Anch’essa prevalente tra le donne, manifesta, all’ingestione di alimenti glutinati, sintomi analoghi alla celiachia (come dolori addominali, diarrea o costipazione, anemia, stanchezza cronica), sebbene sovente in modo più lieve, e senza l’innesco della risposta immunitaria nell’intestino tipica della celiachia stessa. Il fenomeno è sempre più riconosciuto e dibattuto nel mondo medico-scientifico, anche se permangono obiezioni a catalogare tale “ipersensibilità” come una “patologia” specifica, così come c’è chi ipotizza la presenza di un “effetto nocebo”, di natura psicologica, che inciderebbe sull’ampiezza del problema. Che comunque c’è, e va trattato seriamente in chi ne è affetto. Con l’imperativo della consultazione del medico, non solo per la dieta.
Stavolta hanno ragione quelle fiabe che tramite molteplici e simpatici personaggi “riscattano” gli spauracchi antichi e recenti sul mondo dei roditori. I timori legati all’igiene sono comprensibili e fondati, tuttavia alcune leggende secolari sul loro essere vettori di atroci patologie risultano sovente infondate.
Una ricerca italo-norvegese, svolta tra le università di Oslo e Ferrara, pubblicata sulla rivista Pnas, li “scagiona” infatti anche da una delle pandemie più devastanti della storia: la “peste nera” che esplose a metà del quattordicesimo secolo in Europa. Il nome stesso della patologia era ispirato “topo nero” delle città: l’epidemia fece nell’arco di meno di otto anni circa 25 milioni di morti, pari a circa un terzo della popolazione continentale dell’epoca.
Superate da un po’ le credenze popolari che prendevano di mira streghe o minoranze religiose, adesso arriva l’assoluzione anche dei topi. I ricercatori hanno riesaminato i dati trasmessi su nove città europee, verificando e confrontando diverse ipotesi, dalla trasmissione aerea, magari veicolata dagli animali, a quella di pidocchi e pulci presenti sugli esseri umani e sui loro vestiti.
È emerso, con alta probabilità statistica, un andamento che seguiva “il modello dei parassiti umani”, a detta degli studiosi, che parlano di “conclusione molto chiara: sono stati i pidocchi umani”, notando al contempo l’alta improbabilità di una trasmissione così rapida tramite i ratti.
Talvolta il quesito, in questi casi, è “a cosa serva oggi” questo tipo di ricerche. Ebbene, c’è una risposta generale, e una molto specifica. La prima è che, sulla salute come su tutto il resto, la conoscenza del passato è cruciale per la comprensione del presente, incluse le odierne pandemie. La seconda è che la peste appare periodicamente ancora, in Asia, Africa e America Latina: tra il 2010 e il 2015 sono stati conteggiati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità 3.248 casi di contagio e 584 decessi.
Le cattive notizie tendono a far più “notizia” di quelle buone, anche sulla salute. Non è un caso dunque se l’annuncio di una multinazionale farmaceutica circa la rinuncia alla ricerca sull’Alzheimer ha trovato, purtroppo, un’eco ben più alta rispetto alle novità promettenti in materia.
“Se ci abbandonano anche le farmaceutiche siamo alla canna del gas”, commenta amaramente la presidente dell’Associazione italiana malati di Alzheimer, Patrizia Spadin, consapevole della crescente diffusione della patologia: già oggi in Italia i casi accertati di qualche forma di demenza sono oltre 1,6 milioni e i familiari coinvolti in qualche modo nell’assistenza sono circa il doppio.
Preoccupazione legittima anche se, per fortuna, come nota Il Sole 24 Ore Sanità, la rinuncia alla prosecuzione degli studi è una scelta isolata. Secondo il neurologo Paolo Maria Rossini, del Policlinico Gemelli di Roma, l’azienda interessata deve aver valutato di “essere un po' indietro nelle fasi di sviluppo, mentre ci sono tante altre grosse multinazionali che stanno sviluppando, anche a livello clinico, molecole nuove su questa malattia”.
Sulla ricerca generale si annunciano dunque nuovi passi e iniziative di rilievo. Il mese scorso, al ministero della Salute, in collaborazione con l’Agenzia Italiana del Farmaco, è stato annunciato un progetto, chiamato “Interceptor” che consiste in uno screening della popolazione a rischio da parte di diversi centri specializzati, partendo da un gruppo di 400 pazienti tra i 50 e gli 85 anni, per affinare la determinazione dei fattori di rischio della malattia di Alzheimer, e quindi per ottimizzare la distribuzione di nuovi medicinali annunciati nel breve-medio periodo. “Quando arriveranno saremo pronti a curare migliaia se non milioni di persone in modo appropriato e sicuro”, ha detto la ministra Lorenzin.
Una corretta diagnosi precoce costituisce in effetti uno degli strumenti più essenziali e immediati, su cui possono contribuire anche le nuove tecnologie. In questi giorni l’ospedale Molinette di Torino, capofila del progetto My-AHA (“My Active and Healthy Ageing) ha annunciato un’iniziativa internazionale in cui si valuteranno i rischi e l’evoluzione della patologia in 600 pazienti (80 nel capoluogo piemontese) utilizzando dispositivi come occhiali “sensoriali” e smartphone per assemblare rapidamente i dati sull’equilibrio corporeo, i movimenti oculari e le capacità cognitivo-mnemoniche.
“È la più grave epidemia di influenza stagionale in Italia dal 2004”, nota il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss) Walter Ricciardi. Insomma il problema si sta rivelando ben più esteso delle stime iniziali e – dicono gli esperti – se si inizia a vedere la curva discendente per i bambini, per gli adulti il virus continua a galoppare. Il bilancio è di oltre quattro milioni di italiani finora ammalati, almeno 140 casi gravissimi e 30 morti.
Fin qui le conseguenze dirette, senza contare le “complicanze” possibili, per se stessi e la collettività. Ma a causa dell’influenza sta emergendo anche un serio problema di carenza di sangue nelle strutture ospedaliere. Il donatore abituale, giustamente, si astiene dal donare mentre sta male, con ricadute perfino sulla possibilità di effettuare gli interventi chirurgici. In particolare, segnala lo stesso Iss tramite il Centro Nazionale Sangue in un appello alle associazioni attive nel settore, il problema si riscontra soprattutto nel Lazio, Puglia, Campania e Toscana, e a questo si aggiunge “l’indisponibilità delle Regioni solitamente eccedentarie a compensare e addirittura la carenza presso le Regioni Lombardia e Piemonte”.
Si è innescata di fatto una “reazione a catena, lasciando sguarniti i territori che chiedevano aiuto”, incalza su Avvenire il presidente dell’Avis Alberto Argentoni, rilevando comunque l’avvenuta attivazione, almeno parziale, di una risposta popolare alle richieste di donazione. “L’emergenza”, insomma, rientrerà. Attenzione, però, perché il problema non si esaurisce in queste fasi critiche che, in modo più o meno serio, tendono a essere ricorrenti nel mese di gennaio.
Il nodo è che “la cultura della donazione del sangue è cambiata”, nota Argentoni, spiegando che “i giovani donano, ma poche volte l’anno, al massimo due a fronte delle quattro consentite”. Insomma emerge un problema dalle nuove generazioni, tant’è che la stessa Avis ha avviato una propria strutturazione giovanile. I dati ufficiali lo confermano da un po’: dopo anni di crescita, il 2016 ha segnato un calo dei donatori, e questo riguarda soprattutto i giovani. Si assiste quindi - documenta il ministero - a “un progressivo invecchiamento dei donatori”.
È dunque tempo di rilanciare l’attenzione pubblica sull’importanza della donazione, già dai 18 anni (a fino ai 65). Del resto i dati regionali confermano alcune tendenze, ma anche la possibilità concreta di correggerle. Se le statistiche pro-capite sui donatori collocano in vetta una regione tradizionalmente ben strutturata dal punto di vista sanitario come il Friuli-Venezia Giulia, quelle sui “nuovi donatori” vedono ora al vertice la Campania. Servono campagne di sensibilizzazione e buone organizzazioni, ma serve anche qualcos’altro a tutela dei donatori: “L’Inps ci dice che solo il 20% dei lavoratori usufruisce dei permessi dedicati” alla donazione - la denuncia del presidente dell’Avis.