Va precisato da subito: le alte temperature non sono ritenute, di per sé, fattore di rischio di infarti o ictus, nemmeno in presenza di pregressi di interventi di angioplastica o bypass. Nondimeno il nostro corpo è oggettivamente sotto pressione, e vanno seguite alcune cautele, soprattutto tra i più fragili, maggiormente esposti a disturbi o complicanze di tipo cardiovascolare. “Il caldo può scatenare il colpo di calore ma può anche peggiorare le condizioni esistenti, come malattie cardiovascolari, respiratorie, renali o mentali”, ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).
La stessa Oms all’inizio di questa estate particolarmente calda ha ricordando le conseguenze piuttosto drammatiche di precedenti analoghe circostanze. All’ondata di caldo registrata in Europa nel 2003, ad esempio, furono attribuite ben 45mila morti. E le principali con-cause sono state riconosciute in variabili non tanto sanitarie quanto sociali: condizioni domestiche inadeguate (quindi con poche difese dalle alte temperature), l’età della persona e il suo isolamento. Il primo imperativo della prevenzione è allora per i familiari e vicini della persona a rischio: evitare di lasciarla sola.
Sul piano cardiovascolare, sebbene appunto non vi siano allarmi specifici legati al caldo, è bene fare attenzione soprattutto alla pressione. Le alte temperature tendono infatti ad abbassare i valori pressori, vasodilatando e incrementando la traspirazione, e innescando inoltre possibili sensazioni di vertigini e di fatica. Inoltre, il gran caldo può incidere sull’efficacia e gli effetti avversi di alcuni medicinali, sicché è utile un consulto medico sui loro dosaggi.
Per il resto, valgono sempre i vecchi consigli, dall’alto consumo idrico a un’alimentazione leggera, fino all’imperativo di evitare di uscire nelle ore più caldi e di esporsi agli sbalzi termici anche con un abuso dell’area condizionata. Questo riguarda tutti, anche chi non va in vacanza. Il governo americano, con un apposito report, ha esplicitamente esortato datori di lavoro e lavoratori a misure preventive.
Questo riguarda orari, tempi di esposizione alla luce solare, attrezzature, abbigliamento. La soglia ritenuta critica è di 32 gradi, ma i colpi di calore possono registrarsi anche a temperature più basse. “Senza le dovute precauzioni una giornata estiva con oltre 26 gradi può essere fatale”, si legge. Gli autori dello studio hanno rilevato infatti decine di episodi mortali legati al caldo. “Il rischio del colpo di calore sul luogo di lavoro è alto e poco apprezzato”, ricordano, citando in particolare le categorie più esposte, soprattutto i lavoratori in esterna, dall’agricoltura all’edilizia.
Fa caldo, per molti c’è la spiaggia, le alte temperature abbassano i bisogni di cibo e stimolano la sudorazione, qualche preoccupazione per il giro-vita costituisce un incentivo ulteriore a cercare di rimettersi almeno parzialmente in forma. Soprattutto, è il tempo di almeno un po’ di riposo, che di per sé aiuta a ripristinare l’assetto psicofisico e metabolico messo sotto pressione dalle fatiche quotidiane delle stagioni fredde.
Tutto vero, ma la realtà è che vale anche e soprattutto il contrario. Magari si nuota un po’, si fa qualche bella escursione in montagna e altrettanto importanti passeggiate in acqua, ma per molti l’estate è perlopiù tempo di “vacanza”, anche dalle attività fisiche. Poi ci sono i cambi repentini di abitudini, che rappresentano di per sé un fattore di stress. E ci sono gli “strappi”, che ci concediamo con maggiore disinvoltura, specie sull’alimentazione. Per tutto questo arriva però una pur parziale rassicurazione: a detta di qualche esperto, l’estate sarebbe il periodo peggiore, non il migliore, per pensare a qualche dieta.
“In inverno l'organismo 'spreca' moltissimo per mantenere la temperatura sui 36 gradi, facilitando la perdita di peso. Ciò non accade in estate, sicché le diete funzionano poco”, racconta ad esempio all’agenzia Adkronos il nutrizionista Ciro Vestita, aggiungendo una curiosità: “Molti nutrizionisti e dietologi non prendono neppure appuntamenti in questo periodo”. Meglio dunque rinviare la dieta a dopo l’estate, quando tra l’altro si recupera il pieno controllo della routine alimentare domestica.
“Diete” a parte, qualche buona norma estiva va comunque seguita, e lo ricorda anche il ministero della Salute. L’imperativo numero uno rimane l’alto consumo d’acqua. Poi, cercare di mantenere un po’ di regolarità nei pasti (a partire da una robusta colazione), tanta frutta e verdura, un’attenzione supplementare alle scadenze e alla conservazione degli alimenti sottoposti ad alte temperature, poco sale, meglio iodato, cibi freschi, senza esclusione (né esagerazione) di qualche buon gelato.
Una postilla riguarda i bambini, che in maggioranza tendono a tornare a scuola con qualche chilo di troppo. Dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale arriva qualche consiglio in più, centrato non tanto sugli ingredienti quanto sulle abitudini. Tra le priorità indicate, quella di cercare di mangiare in famiglia, e anche di coinvolgere i bambini nelle scelte e nelle azioni, dalla spesa alla cucina. La “socialità” sarebbe il primo argine alle cattive abitudini, prima ancora di “decaloghi” e diete.
“L’aspettativa di vita per i malati di tumore al pancreas non è sostanzialmente cambiata negli ultimi 40 anni, restiamo al 5% nei cinque anni, e ci sono pochissimi trattamenti e perlopiù palliativi”, ammettono gli studiosi dell’Università Mary Queen di Londra e dell’australiana Curtin, perorando l’urgenza di “nuovi obiettivi farmacologici e nuove strategie terapeutiche”. Il commento – riportato dalla rivista Oncogene – non rappresenta una semplice lamentatio, bensì la premessa all’annuncio di nuovi riscontri scientifici da un fronte parzialmente inatteso: la cannabis.
In sintesi, è stata sperimentata sui roditori una molecola della cannabis, il cannabidiolo, col riscontro ultimo che triplicherebbe la sopravvivenza dei pazienti, se applicato in aggiunta al trattamento chemioterapico: la gemcitabina. Esiti promettenti, vista anche la premessa deludente sulla ricerca in proposito degli ultimi anni.
Il cannabidiolo è un metabolita non psicoattivo della Cannabis sativa dotato tra l’altro di effetti rilassanti, anticonvulsivanti, antidistonici, antiossidanti, antinfiammatori, e oggetto di studi nell’ambito della ricerca contro la depressione e le malattie neurologiche anche alla luce del fatto che è lo stesso cervello umano a produrre sostanze, chiamate endocannabinoidi, analoghe a quelle della marijuana.
Il loro effetto antidolorifico è solidamente acquisito dalla scienza, sebbene non manchino preoccupazioni e polemiche, specie oltreoceano, sui possibili effetti di dipendenza. Il composto attivo della marijuana, il THC, è comunque base di uno “strumento per contrastare i disturbi legati al cancro e gli effetti collaterali delle chemioterapie”, secondo tra gli altri la Food and Drug Arministration statunitense. Del resto, nota anche l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc), “l'uso medico della cannabis risale a oltre 3.000 anni fa, e nel XIX secolo è stata introdotta in Occidente come antidolorifico, antispastico e antiepilettico”.
Dalla ricerca anglo-australiana emerge peraltro qualcosa in più rispetto al sollievo dalla sofferenza. Il cannabinoido sembra anche avere potenziali di cura del tumore. Con ricadute che potrebbero essere di breve periodo, essendone già stato approvato l’uso clinico. “Potrebbe entrare in uso quasi immediatamente - incalzano gli autori dello studio - senza dover aspettare i tempi tecnici di approvazione di ogni nuovo farmaco da parte delle autorità regolatorie”.
Ė un filone ancora poco considerato e studiato in Italia, eppure il problema c’è ed è oramai riconosciuto dalla scienza. La “depressione post-partum” – che in realtà può iniziare già in fase pre-natale – colpisce molte donne, se ne stimano addirittura una su quattro. Ma il nodo è che ci si è per lungo tempo largamente dimenticati degli uomini. Anche loro ne sono esposti, sebbene non per ragioni direttamente “ormonali”, complice anche il drammatico cambiamento di ruolo imposto non solo dal lieto evento, ma anche dai mutati contesti familiari contemporanei.
Una conferma arriva dall’Università dell’Indiana, con una pubblicazione su Jama Pediatrics. Da un riesame di quasi diecimila visite familiari in cliniche pediatriche l’incidenza del problema è risultata del 4,4% tra i padri, solo qualche decimale in meno rispetto alle madri. Ė un problema individuale, dai risvolti comportamentali e anche cognitivi, che per giunta - come accade se la persona colpita è la mamma - possono ricadere in sintomi depressivi anche sui figli, specie nell’adolescenza.
Altri studi recenti avevano conteggiato una prevalenza ancor più alta del problema, oltre al 10%, con sintomi fisiologici – oltre che strettamente psicologici – dall’ambito gastrointestinale (vomito, costipazione, diarrea) ai disturbi del sonno, da cefalee a problemi cutanei, fino a far coniare la definizione della “sindrome del papà incinto”.
“In Italia non abbiamo ancora ricerche che facciano luce su questo nuovo disagio maschile”, nota il sociologo Roberto Fumagalli, che ha scritto un libro sulla paternità e sottolinea la problematica dei cambiamenti sociali contemporanei: una famiglia sempre più isolata, meno nonni in forze a disposizione nelle vicinanze, la madre che ha legittime aspirazioni e necessità lavorative. Alla nuova emozione, fatica e responsabilità si aggiunge un’incertezza ed evoluzione di ruolo: “Deve mettere all’angolo la figura del padre autoritario, maschio ed egemone, per trasformarsi in un papà ‘plastico’ e flessibile, capaci di essere accudente ed empatico, anche un po' ‘mammo’ per supportare la compagna”.
Il cambio è virtuoso, ma anche difficoltoso. “Nel periodo che precede la nascita l’uomo ha la funzione di contenimento: le ansie, preoccupazioni e le angosce materne sia prima e sia dopo il parto vengono limitate grazie alle rassicurazioni continue e le attenzioni del padre”, ricorda la psicologa Emmanuella Ameruoso. Il fatto è che le merita anche lui. L’American Academy of Pediatrics già raccomanda uno screening psico-fisico per ambedue i genitori dopo il parto. Ma c’è un ostacolo in più, sottolineato da tutti gli esperti: è l’uomo stesso a essere troppo restio a chiedere aiuto, mentre la verità è che ne ha davvero bisogno.
“Ho passato la vita a guardare negli occhi della gente, è l’unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un’anima”, diceva il compianto scrittore portoghese José Saramago. Che l’occhio sia “specchio dell’anima” è un concetto consolidato nella letteratura. Ma lo è anche per la scienza, che lo riconosce possibile sede di individuazione di vari disturbi, incluse gravi patologie. Di questi giorni l’annuncio dall’University College di Londra, con una pubblicazione su Jama Neurology, dell’esito di una ricerca che dimostra quanto l’osservazione della retina possa contribuire a una diagnosi tempestiva della demenza.
Sono stati coinvolti ben 32mila soggetti di mezza età, tra i 40 e i 69 anni, sottoponendoli sia a un normale “Oct”, un esame semplice e non invasivo per “fotografare” la retina (utilizzato ad esempio per la diagnosi della maculopatia), sia a una serie di test cognitivi di memoria. Gli esami sono stati condotti tre anni fa, e poi ripetuti di recente.
Nella ripetizione è emerso un doppio nesso che appare assai stretto. Gli oftamologi londinesi hanno riscontrato infatti che le persone con uno strato retinico più sottile sono maggiormente esposte non solo a piccoli deficit mentali nell’immediato, ma anche, nell'arco del tempo considerato, a un rilevante aggravamento dei problemi cognitivi, con un aumento di rischio di Alzheimer e altre forme di demenza stimato intorno al 100%.
Il fatto può scatenare, probabilmente a ragione, molte congetture di natura psicoterapeutica sull’importanza di “tenere gli occhi bene aperti”, di continuare a “guardare” il mondo, senza farsi blindare dalle fatiche, dalle paure e dai disturbi dell’età. Ma rinvia anche a un filone farmaco-scientifico cruciale. La ricerca sul declino cognitivo – nonché la lotta a varie patologie come l’Alzheimer – ha registrato negli ultimi anni parecchie delusioni e battute d’arresto. Ma c’è un tassello che rimane essenziale, e sta nella diagnosi precoce, cruciale per poter arginare tempestivamente il declino cognitivo.
E su questo si annunciano altre novità promettenti, anche in questi giorni, e anche dall’Italia. Lo si legge su Annals of Neurology grazie ad una ricerca coordinata dalla Fondazione-Gemelli-Università Cattolica di Roma, che ha subito ricevuto ampia eco internazionale . Si tratta di una metodica che, tramite un semplice esame del sangue combinato a un elettro-cardiogramma (quindi senza metodi invasivi od onerosi come Pet, risonanza magnetica o puntura lombare), permetterebbe di identificare, tra le persone con lieve declino cognitivo, quelle predisposte a sviluppare la demenza. L’accuratezza riscontrata è del 92%.
Dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) alla Società Italiana di Farmacologia (Sif), dai portali ospedalieri ai pediatri, l’estate è l’occasione per ricordarci l’abc del kit di medicinali imprescindibili che servono in casa, oltre che in vacanza. I consigli possono suonare a volte scontati, ma la realtà è che l’errore – a partire dalla sottovalutazione delle possibili necessità terapeutiche – è assai frequente. In particolare, ci si dimentica spesso che anche i farmaci vanno protetti dall’afa.
La prima raccomandazione della Sif è infatti quella di conservare il medicinale a temperature non superiori ai 24 gradi. Questo riguarda soprattutto le preparazioni liquide, per le quali si suggerisce addirittura il frigorifero. E se esistono alternative “solide” al medicinale, vanno preferite in quanto più resistenti al calore. I prodotti, inoltre, vanno difesi per quanto possibile dall’umidità, che può danneggiarne parecchi, dalle capsule ai cerotti.
Fondamentale, dunque, la protezione del farmaco mentre si viaggia, cercando i punti del veicolo meno esposti al calore. Se il mezzo di trasporto è l’aereo, peraltro, la raccomandazione è speculare. Il medicinale va preferibilmente inserito nel bagaglio a mano, in quanto, se finisce nella stiva, può ritrovarsi in volo a parecchi gradi sotto lo zero, e anche questo può essere un fattore di rischio.
Un altro errore diffuso, specie quando si va in vacanza, è quello di liberarsi delle “carte”, dalla prescrizione medica al foglio illustrativo, dalla tessera sanitaria (ed eventuali documenti assicurativi) fino alla confezione del farmaco. Va invece conservato e portato con sé tutto, soprattutto se si è lontani dal proprio medico curante, perché tali carte possono essere preziose se si deve consultare qualcun altro, o anche perché descrivono in dettaglio indicazioni, posologia ed eventuali effetti avversi, e, non ultimo (nel caso della scatola), in quanto riportano la data di scadenza, che in presenza di alte temperature è ancor più cogente.
Sul problema dell’afa va inoltre ricordata una postilla, non meno essenziale. Essa può rappresentare un fattore di rischio non solo per l’integrità dei farmaci, ma anche per la nostra reazione agli stessi, e questo vale naturalmente soprattutto per i più fragili. “Gli effetti del caldo sull’organismo possono essere acuiti dall’assunzione di farmaci che interferiscono con alcuni processi quali la termoregolazione – ricorda ad esempio il presidente dell’Aifa Melazzini - causando, specie in soggetti più a rischio, come chi soffre di problemi cardiaci, circolatori e respiratori, conseguenze a volte anche gravi”.
La parola chiave (ahinoi di nuovo in inglese) è “misperception”. Uno studio italiano, pubblicato sulla rivista Obesity, rilancia il problema del sovrappeso, specie tra i più giovani, a partire da una diversa angolatura, quella della percezione dei genitori. Che risulta gravemente errata. In altre parole, tra le tante variabili che incidono sulla crescente obesità infantile nel nostro Paese, si aggiunge anche quella della mancata presa di coscienza del problema all'interno della famiglia di appartenenza.
Lo studio è stato condotto dall'Università di Padova, sotto il coordinamento di Dario Gregori, sulla base del monitoraggio di oltre 2700 bambini tra i 3 e gli 11 anni in dieci Stati, tra Europa, Sudamerica e Asia. Tra loro, ben 774 sono risultati in sovrappeso o obesi, e la proporzione maggiore – quasi la metà dei ragazzi sul totale nazionale – è stata rilevata in India. Il dato potrebbe sorprendere, considerando gli alti livelli di indigenza che permangono nel Paese di Gandhi, ma costituisce in realtà una conferma del fatto che il problema coinvolge soprattutto le economie emergenti, per i rapidi – e non sempre salubri – cambiamenti alimentari indotti.
Ma il guaio è anche nella scarsa consapevolezza. In Italia, in particolare, ben “l'80% dei bimbi in sovrappeso sono stati percepiti dalle madri come normopeso”, riferisce il professor Gregori. La sottovalutazione è colpevole anche perché si rivela tra l'altro foriera di una minore propensione a intervenire tramite percorsi dietetici e/o motori. Il che naturalmente rilancia l'esigenza di politiche di sensibilizzazione e informazione, rivolte alle stesse famiglie.
La tendenza all'aumento dell’obesità infdantile presenta cifre drammatiche. Nei mesi scorsi, con una pubblicazione su Lancet, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha rivelato che il numero di bambini e adolescenti obesi (tra i 5 e i 19 anni) si è addirittura decuplicato negli ultimi quarant'anni. Sarebbero oggi oltre 123 milioni nel mondo, a fronte – drammatico paradosso – del perdurare della malnutrizione, che ancora terrebbe sottopeso altri 200 milioni di ragazzi circa.
Da una recente ricerca, condotta anch'essa in ambito Oms, emerge inoltre che, nell'ambito europeo, i tassi di crescita maggiori dell'obesità infantile sono rilevati nei Paesi meridionali, ossia nei templi della dieta mediterranea, celebrata per i suoi benefici per la salute. All'evidenza, complici le difficoltà economiche, si mangia peggio – tra merendine e alimenti a basso costo – e ci si muove di meno. Non è solo un problema di “girovita”, ma anche di maggiore esposizione alle più gravi patologie. Secondo il noto oncologo Nathan Berger, della Case Western Reserve University di Cleveland, l'obesità è associata a un aumentato rischio di ben tredici forme tumorali.
I Pronto Soccorso costituiscono forse il sito più amato, e al contempo odiato, della Sanità italiana. In entrambi i casi non dovrebbero generalmente esserlo. Si tratterebbe della struttura deputata alle sole emergenze, ma sovente vi si ricorre anche quando la reale emergenza non c’è, stretti nella tenaglia tra il legittimo timore suscitato anche da qualche piccolo malore e la consapevolezza dei tempi eccessivi delle liste d’attesa. Il problema è oramai endemico, ma quel che si tende a dimenticare è che l’estate non è affatto un periodo di “tregua”, bensì, al contrario, specie quest’anno, di accentuazione del problema del sovraffollamento.
Le ragioni sono molteplici. Una di esse è l’ampio e crescente fenomeno delle febbri estive, legate a decine di forme virali “parenti” dell’influenza vera e propria, con relative possibili complicanze. L’aumento, già rilevato a inizio stagione, è a sua volta dovuto soprattutto, secondo gli esperti, ai cambiamenti ambientali in atto, con un “clima subtropicale” che caratterizza oramai il nostro Paese, determinando repentini sbalzi di temperatura che indeboliscono le naturali difese del nostro organismo.
Un’altra ragione sta nel fatto che gli operatori sanitari vanno legittimamente in vacanza, sicché, nonostante gli tra sforzi di turnazione, l’estate risulta penalizzata. La “domanda” sanitaria non diminuisce dunque granché rispetto alla stagione invernale, mentre “l’offerta” un po’ sì. Inoltre, le ferie degli uni o degli altri inducono a frequenti slittamenti negli appuntamenti e talora perfino alla chiusura di qualche reparto ospedaliero, alimentando ulteriormente la pressione sui Pronto Soccorso.
“Più passano gli anni più il problema aumenta”, riconosce Sandro Petrolati, Coordinatore della Commissione emergenza Anaao-Assomed, conteggiando “un 20-30% in meno di personale medico” in tali strutture, e sottolineando che “non basta sostituire gli operatori con contratti atipici o a gettone”. Scarso turnover, poco personale specializzato, il nodo generale dei tagli alla Sanità, spiega Petrolati, citando in particolare “la politica della chiusura dei posti letto nei reparti, senza offrire una reale alternativa, il che fa esplodere il Pronto Soccorso, trasformato in un luogo di ricovero, dove il paziente viene curato in barella”, anziché essere condotto appunto nell’apposito reparto.
In effetti, i dati raccolti ad esempio nella Regione Lazio mostrano che due terzi dei pazienti in Pronto Soccorso sono in “codice verde”, ossia in uno stato “poco critico, assenza di rischi evolutivi, prestazioni differibili”. Nell’aumentata pressione, incrementa anche il rischio d’errore, che poi ricade sull’operatore stesso, oltre che sulla persona trattata.
Proprio di recente due infermieri sono stati condannati in Cassazione per omicidio colposo, e il “sovraffollamento” non è stato ritenuto un’attenuante. Da notare che qui il problema non riguarda solo le Regioni più in difficoltà, bensì anche quelle più virtuose nell'assistenza.
Ė un nodo centrale della Sanità italiana, che reclama risorse e un efficientamento della spesa, anche farmacologica.
Qualche cambiamento si annuncia a partire dalla nomenclatura: i “codici” non saranno più associati a colori, bensì a numeri, da 1 a 5, a seconda della gravità. Obiettivo: una razionalizzazione del sistema che, dirottando i pazienti con problemi minori verso percorsi specialistici, riesca a trattare il 95% delle emergenze entro un’ora.
Stop ai “trionfalismi” dalla narrazione sulla lotta al tumore al seno, specie se in fase metastatica. Lo hanno chiesto quest’anno, in una lettera aperta alle redazioni italiane, un gruppo di circa 200 pazienti che dicono basta al silenzio in materia ma anche agli annunci di “vittorie di Pirro”, e invocano, invece, risposte concrete, e possibilmente definitive.
Il tumore al seno rimane infatti la prima causa di morte oncologica nel nostro Paese: le donne in cancro metastatico sono 30mila e, a ben vedere dai dati dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica, quelle “definitivamente guarite”, ossia con rischi di mortalità analoghi alle coetanee mai colpite da tumore, sarebbero solo il 16%.
Nondimeno, i passi avanti ci sono e sono reali, sicché la sopravvivenza media a 5 anni dalla diagnosi tumorale è oggi salita a circa l’87%. Migliorano i farmaci, e prendono al contempo il largo nuove metodiche, impensabili fino a pochi anni fa. In particolare, si fanno strada due approcci di tipo immunoterapeutico, che fanno leva sull’uso delle difese naturali del paziente, sollecitandone le cellule tramite terapia farmacologica oppure lavorando sulle cellule immunitarie. A quest’ultimo proposito una équipe del Maryland ha annunciato si annuncia l’esito notevole di una sperimentazione con quest’ultima metodica, tramite “linfociti T”, su una paziente ritenuta oramai “incurabile”, non avendo reagito a nessun altro trattamento, e ora, a due anni dalla guarigione, è del tutto libera dalla malattia, senza dover più ricorrere ad alcun farmaco.
“Lo studio è in fase sperimentale, ma poiché questo nuovo approccio all'immunoterapia dipende dalle mutazioni, non dal tipo di cancro, il progetto potrà essere esteso ad altri tipi di tumore”, spiegano i ricercatori americani. Ad avanzare, comunque, è anche l’efficacia delle terapie cosiddette “tradizionali”. Al Policlinico di Modena è stata trattata una donna con un raro carcinoma maligno in entrambi i seni, diagnosticato al quarto mese di gravidanza. Ė stata quindi calibrata una terapia chemioterapica, adattata per evitare danni al nascituro e al contempo ridurre la dimensione dei moduli prima dell’intervento, effettuato dopo il parto, con l’esito, anche qui, di una completa guarigione.
Non sempre va così bene, ma sono proprio i “casi limite” a raccogliere l’interesse della medicina, in quanto forieri di potenziali indicazioni sulle dinamiche che li determinano”. Al dipartimento di Oncologia dell’Università di Verona è stata dunque attivata un’unità consacrata ai cosiddetti “exceptional responders” . “Stiamo abbinando la diagnostica molecolare all'identificazione di sottogruppi di pazienti che rispondono meglio, o anche peggio, a determinati trattamenti” in relazione a vari tipi di tumore, spiega l’ordinario Giampaolo Tortora.
La ricerca quindi si muove, e i risultati ci sono, per un numero crescente di donne.
A dover ancora avanzare, comunque, è anche la prevenzione. Si stima che quasi il 10% dei nuovi casi di tumore al seno sia in fase metastatica già al momento della diagnosi. Numeri troppo elevati, per una malattia su cui la tempestività terapeutica rimane una variabile che può rivelarsi decisiva.
Sull’impiego degli schermi, e in particolare dei contemporanei dispositivi digitali, la lista delle possibili controindicazioni è oramai entrata nel linguaggio medico, a partire dalla concetto di Internet Addiction Disorder, già ricordato più volte in questi spazi. I problemi peraltro non compaiono solo in presenza di “abusi”, ma perfino in coincidenza con l’atto, in apparenza “creativo” o quantomeno “documentale”, dello scatto di una fotografia.
Lo spiega in questi giorni uno studio dell’Università della California-Santa Cruz, pubblicato sul Journal of Applied Research in Memory, che ha monitorato una quarantina di propri studenti impiegati in una visita virtuale a un museo. In particolare, è stato confrontato l’impatto cognitivo tra coloro che si limitavano a osservare le opere e quelli che invece le fotografavano con il loro smartphone.
Il confronto può far sobbalzare qualche professionista dello scatto, convinto (per ottime ragioni) che la fotografia possa aiutare a “guardare meglio” e a cogliere particolari che a occhio nudo potrebbero sfuggire, oltre a “rendere eterno” l’oggetto o lo scenario immortalato. L’esito di tale ricerca, eseguita tramite test mnemonici successivi alla visita, rovescia tutto. Chi fotografa sembra ricordare meno di ciò che ha visto rispetto a chi si limita a osservare, ed è una differenza netta, conteggiata in un calo mnemonico medio di circa il 20%. Lo scarto si attuava perfino tra coloro che usavano lo “Snapchat”, sapendo cioè che le immagini avrebbero avuto una durata di soli dieci secondi. La ragione, spiegata dagli studiosi, è l’attivazione di quel che viene chiamato “scarico cognitivo”, o “disimpegno attenzionale”, in cui l’attenzione cerebrale viene ridotta, in quanto “delegata” al dispositivo.
Il fenomeno concettualmente rimanda a un’altra ricerca, pubblicata in queste settimane sulla rivista Psychological Science, condotta dall’Università dell’Arizona sull’impatto della “chiacchiera futile” e superficiale sul benessere psichico. Studi precedenti l’avevano derubricata a fonte di infelicità, nel paragone con l’esercizio di discorsi “importanti e impegnativi”. Adesso arriva la smentita: anche la più banale delle interazioni è necessaria. Gli studiosi lo spiegano con una metafora sui farmaci. “Ognuno ha un principio attivo, e non potrebbe esserne privo – spiegano – e lo stesso riguarda le chiacchiere, sono in tutti casi un tassello essenziale della nostra vita sociale”, purché avvengano nella fisica prossimità.
Sui pericoli di “dipendenza” nell’era digitale la letteratura è estesa, con moniti rivolti in particolare ai più giovani, per la duplice ragione di trovarsi nell’età dello sviluppo e per il fatto di non aver sperimentato il mondo che c’era prima di tale era. Spunta peraltro una buona notizia. Uno studio sudcoreano, tra gli altri, ha recentemente documentato come il processo dell’Internet Addiction Disorder, con i relativi danni cognitivi, sia rapidamente reversibile, tramite appositi percorsi di “terapia cognitiva-comportamentale”. L’importante è saper riconoscere il problema, e possibilmente prevenirlo.
Ė una delle patologie in più rapido aumento nel mondo: si stima quasi mezzo miliardo di persone coinvolte. E quando si parla di diabete i fattori di rischio perlopiù indagati riguardano gli “stili di vita”, specie nelle economie avanzate e ma anche in quelle emergenti, tra sedentarietà e scelte alimentari “industriali”, con ricadute sugli indici di obesità e sui rischi metabolici. Ma c’è un’altra variabile che viene presa in sempre più seria considerazione, ed è quella dell’inquinamento.
A rilanciarne il nesso, rispetto all’esposizione al diabete, è ora un esteso studio internazionale condotto negli Stati Uniti, che ha quantificato i danni delle polveri sottili sulla capacità del corpo di regolare correttamente gli zuccheri nel sangue. “Fino a una decina di anni fa pensavamo che l’inquinamento atmosferico causasse polmoniti, bronchiti, asma e poco altro, ora sappiamo che può causare tra l’altro danni cardiovascolari, tumori al polmone e malattie croniche al fegato”, ricorda lo scienziato newyorchese Philip Landrigan.
Per quel che riguarda il diabete, si è oramai compreso come il particolato atmosferico possa raggiungere attraverso i bronchi la circolazione sanguigna, aumentando i livelli di infiammazione e riducendo la produzione di insulina. Nell’ultima stima, pubblicata sulla rivista Lancet, si ritiene che le polveri sottili abbiano contribuito ad almeno 3,2 milioni di nuovi casi nel solo 2016, pari al 14% del totale delle nuove diagnosi.
Un altro aspetto rilevante dello studio è che vengono prese di mira perfino le “soglie di sicurezza” stabilite anche nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Negli Stati Uniti, ad esempio, dove il limite è fissato a 12 microgrammi per metro cubo d’aria, emerge che il rischio di diabete aumenti già a partire da 2,4 microgrammi.
E mentre in tutto il mondo i lobbisti sono al lavoro per allentare i pur cauti vincoli stabiliti sulle emissioni nocive, sarebbe viceversa oramai urgente “l’implementazione di politiche e interventi urbanistici orientati a diminuire l’inquinamento e aumentare l’attività motoria, tra piste ciclopedonali, strutture sportive a buon mercato, veicoli elettrici, controlli maggiori sulle emissioni auto, aree chiuse al traffico”, incalza il professor Gary O’Donovan, dell’Università delle Ande di Bogotà, in Colombia, una delle città in maggiore sofferenza. Il nesso insomma c’è, è assai stretto e, attenzione, si attiva perfino prima della nascita: tre anni fa uno studio svedese ha documentato come i rischi di diabete aumentino con l’esposizione all’inquinamento delle donne in gravidanza.
A volte è una scelta “ereditata”, in altre il ricorso a “quel medico” è un atto di mera abitudine, indipendentemente dalla nostra valutazione, spesso e volentieri abbiamo un rapporto motivato di intima fiducia. In ogni caso prevale una certa “inerzia” dinanzi alla scelta di cambiare il proprio medico di base. Del resto, da una ricerca britannica, dell’Università di Exeter, la più estesa mai realizzata nel suo genere, emergerebbero benefici significativi da tale “resistenza”.
Riesaminando gli esiti di 22 studi pregressi in proposito, condotti in nove Paesi (con differenze notevoli sul piano dell’organizzazione e dell’assistenza sanitaria), gli studiosi inglesi hanno documentato come la “continuità” abbia una ricaduta reale sulla salute. In quasi tutti i contesti, chi non cambia il medico attingerebbe infatti a rischi di mortalità notevolmente ridotti.
Perché esiste tale nesso? I ricercatori ipotizzano una duplice motivazione. Vi sarebbe anzitutto una dimensione “psicologica” con effetti sull’appropriatezza e aderenza terapeutica. Diminuirebbe cioè lo “stress da visita”, e al contempo si consoliderebbe un rapporto empatico che rafforzerebbe nel tempo la conoscenza e la fiducia tra medico e paziente, migliorando sia la pertinenza diagnostica sia la propensione a seguire correttamente i consigli del professionista.
L’altra ragione è che una buona relazione tra medico di base e paziente condurrebbe anche a una maggiore propensione a farsi seguire con continuità dagli specialisti chiamati in causa dal problema del singolo. Si potenzierebbe cioè un “rapporto a tre”, con tutto quel che consegue sul piano dell’attenzione e della qualità terapeutica.
Nondimeno, la scelta del medico di famiglia va ponderata per bene, e quella di cambiarlo è un diritto riconosciuto. La principale rete associativa italiana di pazienti, Cittadinanzattiva, ha perciò elaborato un apposito vademecum. I consigli forniti sono alquanto semplici, ma a volte li si dimentica. Si tratta di analizzare gli elenchi istituiti presso le Asl (a volte anche on-line), che dal 2005 impongono anche il curriculum dei singoli medici, inclusa dunque la loro specializzazione. Non secondario, è bene informarsi sull’indirizzo, gli orari di visita, la disponibilità a consulti telefonici o a comunicazioni digitali col paziente. E se si decide di cambiare, è importante motivare la propria scelta: l’Asl, e il medico stesso, hanno diritto e dovere di conoscere le ragioni dell’eventuale “ricusazione”.
Che la salute del corpo e quella della mente vadano strettamente a braccetto è un concetto chiaro agli umani sin dai tempi di Aristotele. Ė la scienza contemporanea peraltro a specificare progressivamente le dinamiche di tale nesso. L'ultima novità in tal senso è annunciata dall'Università australiana di Curtin e pubblicata sulla rivista Health Psychology.
Viene documentato come l’impiego della “fantasia” abbia conseguenze immediate sulla qualità dei comportamenti personali in termini di “stili di vita”, con infine ricadute rilevanti sul piano della prevenzione. “Esistono forti legami tra le malattie croniche, come quelle cardiache e il diabete, e il comportamento, gli interventi basati sull'immaginario offrono un modo economico ed efficace per promuovere comportamenti positivi come l'attività fisica e un'alimentazione sana”, spiegano i ricercatori.
I vantaggi “economici” della psicologia, e in particolare i benefici di risparmio e di salute di un miglioramento della condizione psicologica della persona, costituiscono oramai una letteratura consolidata, anche in Italia. “Studi precedenti hanno mostrato come interventi finalizzati a stimolare l’immaginazione fossero utili a stimolare le performance degli atleti, dei piloti e dei pazienti al seguito di un ricovero, ora si dimostra come essi stimolino inoltre comportamenti utili alla salute personale”, rivendicano dall’Australia. Chi è stimolato all’uso dell’immaginazione infine mangia meglio, fuma e beve meno, ed è più orientato all’attività sportiva.
Attenzione pero: serve anche la volontà personale di procedere in questa direzione. Un altro studio, compiuto dall’Università americana di Stanford su centinaia di partecipanti, ha documentato come i percorsi di “apertura” a interessi diversi dal proprio quotidiano costituiscano una variabile essenziale per la capacità di sviluppare collegamenti e connessioni.
È qui che entrano in gioco gli stili di vita, con un particolare riferimento alla proliferazione dei nuovi strumenti digitali, a partire da smartphone e tablet. Le utilità sono note, un po’ meno l’enormità dei rischi, soprattutto (ma non solo) per lo sviluppo dei più piccoli. Uno studio del Boston College ha dimostrato come i bambini, esposti a tali dispositivi, abbiano già smarrito l’85% dei livelli di creatività raggiunti dalle generazioni precedenti. Ė allora essenziale mettere dei paletti seri sul loro impiego, a tutela dello sviluppo cerebrale dei più giovani nonché, all’evidenza, della loro capacità di tutelare nel tempo la propria salute psico-fisica.
Si dice gran caldo e si pensa subito a ventilatori e condizionatori. Il contrasto alle alte temperature -con i loro effetti debilitanti e, specie per i soggetti a rischio, pericolosi - si gioca però anche a tavola. Non sempre i consigli che proliferano in questi giorni sulla stampa divulgativa sono davvero precisi e pertinenti, ma l'alta attenzione a una dieta corretta rimane una reale priorità, soprattutto nel pieno della stagione estiva.
Cruciale è anzitutto l'ambito dell'idratazione, che si alimenta non solo bevendo molta acqua, ma anche scegliendo cibi freschi come frutta e verdura. “Sono ricchissime d'acqua e permettono così una reidratazione più veloce del nostro corpo”, ricorda a Repubblica Loreto Nemi, nutrizionista all'Università Cattolica di Roma, che specularmente suggerisce la rinuncia agli alimenti di difficile digestione, quali “fritture e cibi molto elaborati e cotti come arrosti, spezzatini, bolliti o timballi”. Cuocere troppo tende ad appesantire, e anche a cancellare alcuni nutrienti essenziali. I peperoni, ad esempio, sono ricchi di vitamina C, la quale, nota il dietista, “è una vitamina idrosolubile che si perde durante la cottura”.
L'elenco di ciò che andrebbe “messo al bando”, o quantomeno limitato ai minimi, è del resto ben più lungo. Vanno evitati gli alcolici (che tra l'altro tendono a innalzare la temperatura del corpo e a favorire la disidratazione), i cibi precotti, che con l'afa sono più esposti a eventuali contaminazioni batteriche, l'eccesso di sale e di zuccheri, e anche l'acqua ghiacciata, che può innescare congestioni. Sono rischi da tenere in seria considerazione, in quanto il corpo è sotto stress, e lo è soprattutto nei giorni di repentino balzo delle temperature.
Non è tuttavia solo una questione di rinunce, la lista dei cibi suggeriti offre un’ampia scelta. “L’ideale è una tartare di pesce crudo per fare incetta di Omega 3 e proteine”, suggerisce Nemi. O ancora, un bel piatto di spaghetti con le zucchine, in quanto “ricche di potassio, acqua, acido folico, clorofilla e sali minerali”.
Prioritario è un alto consumo di vitamine, presenti soprattutto, per l'appunto, nella frutta e nella verdura fresca. Tra i mille benefici, Coldiretti ricorda anche quello dell'abbronzatura. In particolare, “i cibi ricchi in vitamina A favoriscono la produzione nell’epidermide del pigmento melanina che protegge dalle scottature e dona il classico colore scuro alla pelle”. L'organizzazione dei coltivatori stila anche una “classifica” tra gli alimenti che ne sono più ricchi. A primeggiare, nettamente, è la carota, seguita nell'ordine da spinaci e radicchio, poi albicocche, cicoria, lattuga, melone giallo, sedano, peperoni, pomodori, pesche gialle, cocomeri, fragole e ciliege.
“Ė una di quelle scoperte che aprono nuove frontiere nella medicina”, proclama La Stampa. E in effetti quel che è emerso da uno studio sviluppato dall’ospedale Molinette della città della salute di Torino (Dipartimento di Neuroscienze, diretto dal professor Riccardo Soffietti) insieme a un gruppo di studiosi di Madrid, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, sembra suggerire il potenziale di una decisa correzione di rotta nella ricerca oncologica, ben al di là dell’ambito specifico trattato.
L’obiettivo dello studio era quello di comprendere i meccanismi di crescita delle metastasi cerebrali, complicanza sempre più frequente dei tumori “solidi”, quali quello al polmone o alla mammella, difficilmente contenibile fino ad oggi con la semplice terapia farmacologica. “Sono stati studiati circa cento campioni di metastasi provenienti da interventi neurochirurgici”, spiega Soffietti.
L'esito, che sposta i paradigmi della ricerca materia, è che la crescita è risultata facilitata da un fattore molecolare presente non tanto nelle cellule tumorali quanto in quelle sane del cervello, finora ritenute, viceversa, una potenziale barriera difensiva alla metastasi stessa.
“Abbiamo dimostrato per la prima volta che i pazienti con espressione di Stat3 sugli astrociti reattivi hanno una sopravvivenza molto più breve – spiega Soffietti. – ovvero che questi specifici astrociti reattivi, quando esprimono l’antigene Stat3 esercitano 'un’attarzione fatale' sulle cellule tumorali, facilitando il loro ingresso nel cervello”.
Si apre pertanto, grazie alla ricerca italiana, un nuovo orizzonte farmacologico. L'obiettivo è ora quello di verificare, tramite studi clinici, la possibilità di bloccare l'azione della molecola identificata con specifici principi attivi.
Ci sono oltre 700 italiani che ogni anno perdono un braccio, a causa di incidenti stradali, domestici o sul lavoro. Per loro, solitamente, la speranza è perlopiù quella di una “protesi cosmetica”, insufficiente a compiere movimenti autonomi. La prospettiva sembra però poter cambiare, con la notizia di un intervento assai innovativo al Policlinico Campus Biomedico di Roma su una 27enne, che le permetterà, a quanto pare, di muovere l’arto solo grazie a impulsi cerebrali.
La prima parte dell’operazione è stata effettuata con successo, la seconda è prevista tra pochi mesi, e sarà seguita da un percorso riabilitativo per addestrare la paziente al nuovo dispositivo. La tecnica è quella della “reinnervazione muscolare mirata”, che permette di riattivare la “comunicazione” tra le terminazioni dei nervi e la protesi. Nel primo intervento “si è dovuto prima denervare il grande muscolo pettorale e altre fasce muscolari, quindi prendere dal plesso brachiale i tre grandi nervi residui, radiale, mediano e ulnare, che muovono mano e polso, e applicarli alle fibre muscolari”, spiega Giovanni Di Pino, co-responsabile del progetto.
Operazione delicata e complessa, dunque. “La protesi è di tipo modulare, ovvero costituita da più moduli per il ripristino delle articolazioni di gomito, polso e mano e, in fase sperimentale, anche di spalla”, spiega Loredana Zollo, responsabile ingegneristica del piano, citando anche l’impiego di sofisticati algoritmi per calibrare i segnali tra gli impulsi neurali e il braccio meccanico.
Medicina, ingegneria e algebra insieme, dunque. In effetti l’ambito delle protesi ortopediche è in rapida crescita. Quelle al ginocchio si sono raddoppiate nell’ultimo anno in Italia, per la spalla si sono addirittura quintuplicate, anche se è l’anca a detenere ancora il primato, con oltre la metà degli interventi. In totale, ne vengono effettuati quasi duecentomila l’anno,solo nel nostro Paese. Dati che trovano riscontro anche negli Stati Uniti, con l’esito, rilevato dall’Università della Pennsylvania, che l’età media degli interventi si sta rapidamente abbassando.
Tutto bene? Sì, ma con un’avvertenza molto seria. Non si tratta di operazioni da scegliere con leggerezza, se non quando assolutamente necessarie. “L’artroprotesi non perdona errori, serve una protesi di qualità ma anche un chirurgo esperto e una riabilitazione adeguata”, ricorda la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia. Va insomma effettuata solo se strettamente necessaria, e non quando si tratta di disturbi e patologie su cui esistono alternative farmacologiche, terapie infiltrative, strategie ortopediche e altro. “Queste sostituzioni hanno una durata limitata – aggiungono gli esperti - con l’aggravante che la seconda operazione non ha lo stesso successo dell’intervento iniziale, richiede più tempo e il paziente ha vent’anni di più”, con rischi aumentati di complicanze.
Leucemia, novità ed eccellenze italiane
Francesco Lo Coco, 63 anni, palermitano di origine, ordinario di Ematolologia all’Università romana di Tor Vergata. A lui è andato il riconoscimento annuale dell’omonima Società Europea, riunita a Stoccolma, per l’importanza delle sue ricerche sulla leucemia. Il premio è dedicato a una leggenda, vivente, il tenore Josè Carreras, che dopo aver scoperto la malattia, oltre trent’anni fa, ha istituito un’apposita Fondazione, i cui riconoscimenti confermano le eccellenze italiane in materia. Ad aver già trionfato sono stati Lucio Luzzatto nel 2002 e Brunangelo Falini nel 2010.
Ma quel che è qui importante segnalare è il contenuto della ricerca premiata, che si aggiunge a un quadro generale oramai piuttosto promettente dei progressi scientifici in materia. Essa si è rivelata assai efficace con particolare riferimento alla leucemia promielotica acuta, una forma particolarmente grave e rapida, tanto che si stima che il 15% dei pazienti vada incontro a emorragie fatali (specie a livello gastrointestinale, del sistema nervoso centrale e genito-urinario) prima ancora di ricevere la diagnosi.
Gli esiti principali dello studio condotto da Lo Coco sono stati pubblicati già cinque anni fa sul New England Journal of Medicine. Nelle sue parole, “abbiamo messo le fondamenta di un nuovo paradigma diventato oggi standard di cura, senza chemioterapia: la combinazione di acido retinoico e triossido di arsenico, in grado di distruggere soltanto le cellule cancerose”. Nel concreto, per tale patologia “si può morire in 4 giorni, ma le terapie sono in grado di guarire i pazienti in oltre il 90 per cento dei casi, se viene identificata in tempi rapidi”.
Dal medesimo Congresso in Svezia si annuncia un’altra novità di rilievo, e anche in questo caso permette di evitare il ricorso alla chemioterapia. Coinvolge i malati di leucemia linfatica cronica, un altro tumore del sangue, più diffuso, specie tra gli ultrasessantenni, tanto che solo in Italia si contano ben tremila nuovi casi l’anno. Ė stato condotto un trial clinico su ben quattrocento pazienti in cento centri di cura di venti Paesi al mondo, incluso l’ospedale Niguarda di Milano. Ė stata testata l’associazione tra due principi attivi, il venetoclax e l’anticorpo monoclonale rituximab, risultata capace di determinare un calo del rischio di progressione della malattia o di morte del paziente dell’81% rispetto alle terapie tradizionali.
La ricerca dunque procede spedita, e questo riguarda anche la sfera della prevenzione. Con qualche sorpresa. L’Institute of Cancer Research di Londra, al seguito di una revisione degli ultimi trent’anni di studi sulla leucemia linfoblastica acuta, arriva a concludere che la “troppa igiene”, in particolare l’eccessiva protezione dai microbi nella prima infanzia, costituisce un fattore di rischio di contrarre tale patologia, il che in parte ne spiegherebbe inoltre la maggiore incidenza nelle società avanzate.
“Siamo in un’epoca di guerra”, arriva a dire il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), Walter Ricciardi, riepilogando le difficoltà economiche dei nostri tempi e fissando la priorità di salvare, anzitutto, il sistema-salute, urgenza rilanciata anche dai dati preoccupanti, divulgati dagli stessi medici, sul calo dei posti letto e del personale in Italia. Una problematica estesa, oltre che cruciale, che chiama alla responsabilità tutti gli attori del settore, incluso l’ambito delle scelte farmacologiche.
Ricciardi riepiloga le principali sofferenze globali, inclusa quella delle migrazioni, citando anche la separazione di migliaia di bambini dai loro genitori negli Stati Uniti. Soprattutto, sottolinea l’entità delle difficoltà economiche che hanno coinvolto l’Italia nell’ultimo decennio. “Nella Seconda Guerra Mondiale perdemmo il 7,5% del prodotto interno lordo, con questa crisi economica abbiamo perso il 10%”, nota il leader dell’Iss, avvertendo peraltro che la sfida del rilancio resta soprattutto nelle nostre mani. “Nessuno ci regalerà niente in quest’epoca geopolitica così complessa”, ha detto.
C’è una cosa che però possiamo e dobbiamo fare subito: salvare il Sistema sanitario, compito tutt’altro che agevole. “Dal punto di vista pratico molti cittadini, soprattutto al Sud, non accedono più a servizi essenziali, sono costretti a muoversi o a rinunciare ai servizi o a pagarseli di tasca propria”, lamenta Ricciardi, peraltro congratulandosi con la ministra della Salute Giulia Grillo, che ha avviato i primi passi per un piano nazionale che abbatta i tempi delle liste d’attesa, nonché con le Regioni che ci sono già riuscite: “L’Emilia Romagna di fatto ha quasi azzerato le liste”.
A riconoscere le criticità della Sanità pubblica sono anzitutto i medici. Il loro sindacato, in un dossier, conteggia la perdita di ben 70mila posti letto, rendendo impietoso il confronto con altri Paesi avanzati: ci sono 3,7 posti per mille abitanti, mentre in Francia si sale a 6, e in Germania a 8. “Tra le ragioni di questo declino, i tagli selvaggi, l’aziendalizzazione, il decentramento, le privatizzazioni” spiega Pina Onotri, segretaria del Sindacato Medici Italiani, che naturalmente sottolinea la criticità della carenza di personale: “Nel Ssn il ricorso al precariato è cresciuto tra il 2014 e il 2015 di circa 3.500 unità per complessivi 43.763 lavoratori, tra cui 9.500 medici, 1.500 solo in Sicilia”.
Il sistema-salute richiederebbe un rilancio dal punto di vista delle risorse investite e dell’efficienza nella spesa, anche farmacologica, come recentemente sottolineato anche dal ministro della Salute, Giulia Grillo. I farmaci equivalenti consentono ai cittadini e alle amministrazioni un notevole risparmio che può generare un potenziamento dell’assistenza. Lo documentano anche gli ultimi dati, relativi al primo trimestre 2018. Il settore è in crescita costante raggiungendo il 21,72% del volume totale del mercato farmaceutico, e il 12,7% in valore (differenza che segnala, essa stessa, l’entità del risparmio), ma ancora lontano da altri Paesi avanzati. Soprattutto alla luce del perdurare di sperequazioni tra Regioni, con una corrispondenza: quelle che ricorrono di più ai generici sono tendenzialmente le stesse che conseguono i parametri migliori nella qualità del Servizio sanitario.
Un grido d’allarme, fondate ragioni di ottimismo, l’esigenza di potenziare la pubblica informazione e di sgombrare il campo dai molti equivoci, per migliorare la prevenzione e per anticipare i tempi di diagnosi e cura, variabile cruciale per l’efficacia terapeutica. Nei giorni scorsi la “Lega Europea Contro i Reumatismi” (Eular) si è riunita a Congresso ad Amsterdam, tracciando qualche punto essenziale in materia, con la partecipazione degli esperti della Società Italiana di Reumatologia (Sir).
L’allerta è nella proporzione del problema. “In Europa ogni anno spendiamo 200 miliardi di euro per l’assistenza socio-sanitaria ai malati reumatici, oltre 4 miliardi l’anno solo in Italia. Si tratta di malattie in netta crescita in tutto il continente”, nota Roberto Caporali, segretario nazionale Sir, che ammette la difficoltà a individuare tempestivamente la malattia: “Servono più strutture sanitarie specializzate attive nelle varie Regioni”. Più strutture, ma anche più informazione, ricorda la Sir, su questo impegnata in prima linea con la campagna itinerante “Reumadays” in diverse città italiane.
Il più diffuso luogo comune è sull’incidenza dell’umidità e del freddo. “Invece il meteo non c’entra nulla, non provoca malattie reumatiche”, taglia corto Luigi Di Matteo, direttore dell’Unità di Reumatologia all’AUSL di Pescara. Tuttalpiù può alimentare il sintomo doloroso modificando la pressione sulle articolazioni, in alcuni casi specifici. In altri può valere anche l’opposto: “L’eccessiva esposizione può far peggiorare l’attività delle malattie autoimmuni come il lupus eritematoso sistemico”, avverte l’esperto.
I fattori di rischio sono soprattutto altri. Anzitutto il sovrappeso, per i suoi effetti sul consumo delle cartilagini articolari specie di anche e ginocchia, ma anche “l’eccessiva magrezza, per l’osteoporosi – spiega Di Matteo - in quanto la scarsezza di massa muscolare si accompagna a una bassa massa ossea e a un’aumentata fragilità scheletrica”. Correlativamente, è importante seguire un’alimentazione equilibrata, evitare la sedentarietà, l’eccesso di alcol e anche le sigarette, ritenute l’“alleato” principale, in particolare, dell’artrite reumatoide. “Gli anticorpi anti-CCP, che identificano le forme più severe di artrite per capacità erosiva e di danno, si formano nel polmone per effetto del fumo e precedono anche di anni l’insorgenza dell’artrite”, ricorda Mauro Galeazzi, presidente Sir.
Ma l’equivoco più grande è nel fatto che non ci si possa curare. Da un recente sondaggio della stessa Sir emerge che il 45% degli italiani neppure sa dell’esistenza di terapie appropriate verso le varie patologie reumatiche. “Abbiamo sempre più armi terapeutiche a nostra disposizione che sono in grado di controllare e contrastare la progressione di patologie anche gravi come artrite reumatoide, spondilite o reumatismi extra articolari”, aggiunge Galeazzi. Da sapere però che le possibilità di guarigione dipendono molto dalla tempestività della cura. Invece la maggior parte dei pazienti tende a trascurare a lungo le avvisaglie. Sta a loro, anzitutto, di prenderle subito sul serio, e chiederne la pronta attenzione del medico.
Senza fobie, ipocondria inclusa, ma l’igiene domestica è una priorità da tenere nella giusta attenzione, specie se ci sono bambini. Non basta chiudersi in casa per tenere fuori l’inquinamento e lo sporco. Dal Congresso annuale dell’American Society of Microbiology arriva il nuovo monito da una ricerca, presentata dall’Università di Mauritius, che svela verità inquietanti sulla popolazione batterica che può annidarsi in diversi oggetti, con particolare riferimento allo strofinaccio da cucina.
Nel dettaglio, è emersa una quantità batterica “ad alto rischio” nella metà degli asciugamani da cucina impiegati, ossia quelli “polivalenti”, che servono ad asciugare mani, piatti e altro, con l’aggravante ulteriore che, essendo umidi, l’esposizione di per sé aumenta. Nel dettaglio, il 36,7% sviluppa “coliformi”, stessa proporzione per gli “enterococchi”, e il 14,3% gli “stafilococchi aurei”. Le percentuali tendono ad aumentare in proporzione alla popolazione domestica e comportano rischi, anzitutto, di disturbi e patologie gastrointestinali, da evitare, in particolare, in presenza di categorie deboli, quali anziani, neonati, diabetici o altre persone con deficienze nel sistema immunitario.
Ė allora utile ricapitolare qualche imperativo sull’igiene domestica. Essenziale, al proposito, limitare l’uso multiplo dello stesso strofinaccio: meglio averne due, uno per i piatti e l’altro per le mani. Sui vestiti, fare attenzione a un frequente ricambio, separare per bene quelli in uso e gli altri, e naturalmente lavarli spesso, possibilmente a temperature medio-alte. Cruciale, anche, curare un’adeguata ventilazione della casa, perché il “ristagno” favorisce la circolazione patogena. Fondamentale, di nuovo, la pulizia della cucina, possibilmente operando – se si hanno i capelli lunghi – con un fermaglio, e proteggendo l’igiene dei cibi stessi custodendoli negli appositi contenitori, rinunciando preferibilmente alla plastica, agente inquinante su cui è pur tardivamente in atto una presa di coscienza globale.
Il tema della plastica – contestualmente a quello dell’igiene – richiama infatti un’allerta ulteriore, quella che non si deve esagerare. L’uso eccessivo di detergenti, saponi, cosmetici e solventi domestici avrebbe un impatto inquinante non inferiore a quello del traffico urbano, secondo uno studio americano della National Oceanic and Admospheric Administration, pubblicato sul Science.
E non è solo un problema per l’ambiente esterno, ma anche per il nostro corpo. La rivista New Scientist ha recentemente rilevato come l’uso smodato di prodotti che contengono antibatterici stia concorrendo perfino ad aumentare la resistenza dei batteri agli antibiotici. Non si tratta allora di puntare patologicamente all’obiettivo di una “casa del tutto sterilizzata”, che non esiste. Virus, batteri e funghi abitano ovunque, e il nostro corpo è generalmente pronto alla convivenza. Il problema è negli eccessi. Seguire qualche fondamentale norma di igiene è importante quanto evitare di cadere in una mania che può essere ancor più deleteria, per l’ambiente e per noi stessi.