Da questi spazi abbiamo già lanciato l’allarme sul problema sociale, e anche sanitario, di un fenomeno che oramai è oggetto dell’attenzione allarmata degli scienziati e di terapie specifiche, anche negli ospedali italiani. Il termine medico è “Internet Addiction Disorder”, che genera effetti a catena dal piano emotivo a quello interpersonale, oltre che impennare i rischi di sedentarietà. Crolla “l’empatia”, sale la “dipendenza” da, in particolare, le interazioni sui social network. Negli ultimi anni quei rischi si sono impennati per la proliferazione di un’ulteriore tecnologia, quella degli smartphone, sicché il tema ora incombe potenzialmente su ogni attimo della nostra esistenza.
La problematica è stato approfondita in questi giorni dall’Università di San Francisco, con uno studio, pubblicato sulla rivista NeuroRegulation, che evidenzia analogie con l’uso di oppiacei. “La dipendenza dall'uso di smartphone inizia a formare connessioni neurologiche nel cervello in modo simile a quelle che si sviluppano in coloro acquisiscono una dipendenza da farmaci oppioidi per alleviare il dolore”, spiegano gli studiosi.
Hanno reclutato 135 studenti, rilevando che quelli che utilizzavano diffusamente i telefoni – anche mentre mangiavano o studiavano - palesavano maggiori sintomi di depressione e ansia, oltre che solitudine. Le ragioni sono in parte facilmente intuibili, nella propensione stessa a sostituire la relazione sociale a quella virtuale, in apparenza meno “impegnativa”, o anche nel gesto stesso di abbassare la testa e incollare gli occhi sullo schermo, perdendo il contatto con il mondo circostante.
I ricercatori californiani forniscono però una chiave di lettura anche “etologica”. I “push” del telefonino attiverebbero percorsi neuronali analoghe a quelli che anticamente ci avvisavano di un pericolo incombente, come l’attacco di un predatore. Con una differenza non da poco: “Quei meccanismi che una volta ci proteggevano ora ci dirottano verso le informazioni più banali”, spiegano. Ci consegnano, cioè, verso una modesta, sedentaria alienazione.
L’articolo statunitense è interessante anche perché suggerisce anche tecniche per tenersi alla larga da tale insidiosa dipendenza, alcune piuttosto curiose, sperimentate dagli stessi medici. Una studiosa racconta ad esempio che quando si ritrova in un bar con gli amici, mettono tutti i loro telefonini al centro della tavola. Il primo che lo tocca… avrà l’onere di pagare le consumazioni. “Dobbiamo recuperare un po’ di creatività per affrontare le nuove tecnologie in modo da poterle dominare, anziché subirle e farci trascinare fuori dal mondo reale”, spiega.
“Col web la disinformazione circola rapidamente ed è pieno di pifferai magici a cui è facile credere”, rimarcava nelle scorse settimane Piero Angela elogiando la costruzione di un nuovo portale da parte dell'Istituto Superiore della Sanità. “La scienza non è democratica, non prevede par condicio, non è la stessa cosa dire che la terra è quadrata oppure che è rotonda”, ha ricordato il decano dei divulgatori italiani. Tra gli obiettivi dichiarati del sito c'è proprio quello di contrastare le “bufale”, e l'ultimo dei capitoli coinvolge uno degli ambiti più rilevanti per la salute, quello dell'attività fisica, esso stesso esposto a un'enormità di fake news.
Tra le più diffuse - a volte dette scherzosamente ma non troppo - c'è il concetto che “faccio sport non per la pancia ma per poter poi mangiare di più”. Errore, perché se si sbilancia l'attività fisica con un'alimentazione scorretta si aggrava il corpo di una serie di corto-circuiti. Meno goliardicamente, si pensa talora che l'esercizio fisico sia “efficace se doloroso”. Il sacrificio, la fatica, sono importanti, ma il dolore, invece, è piuttosto il “mezzo con cui il corpo ci indica che si sta lavorando male oppure che si sta facendo uno sforzo troppo intenso".
Ma è “la linea” il tema prevalente nelle “bufale sportive”. “Più sudo più dimagrisco”, si pensa, magari preferendo le comode saune all'attività fisica. Sbagliato, perché “attraverso il sudore perdiamo solo liquidi e sali minerali”, e non il grasso, perché non lo contiene. Analogamente, non si butta giù la pancia con i soli esercizi addominali, che tonificano i muscoli “ma non comportano la perdita del grasso che li ricopre”.
Altri preconcetti sbagliati riguardano i presunti divieti sportivi per alcune categorie deboli, quali gli anziani e le donne in gravidanza, che invece non sussistono (salvo naturalmente la necessità di far uso di adeguata cautela), o anche il fatto che i bambini facciano sufficiente attività fisica giocando. Qui l'errore è grave, con l'esito che i bimbi italiani in sovrappeso risultano oramai ai primi posti in Europa. Dovrebbero invece fare sport almeno tre volte alla settimana, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).
A tal proposito la stessa Oms, proprio in questi giorni, ha aggiornato le proprie stime sulla sedentarietà in Europa, e sono piuttosto preoccupanti. Il 42% della popolazione non svolge un'attività fisica adeguata (conteggiata in almeno 150 minuti alla settimana per gli adulti, un'ora al giorno per bambini e giovani). E a esser maglia nera è proprio l'Italia, dove i sedentari salgono al 60%. In questo sta l'allarme e, forse, il più grave pregiudizio da superare. Lo sport è una medicina e una variabile fondamentale di prevenzione, ma per conseguire i suoi benefici non basta un'occasionale “sudata”. Si tratta di muoversi, senza eccessi ma con costanza, ovvero con un minimo di regolarità organizzata.
Bambini troppo coccolati, viziati, “atomizzati” da eccessi di attenzione, scarsa responsabilizzazione, pochissima cessione di autonomia. I rischi ci sono, gli errori possibili sono molteplici, e altrettanti i loro effetti sullo sviluppo psicofisico della persona che cresce. L’educazione pediatrica è materia infinitamente complessa e soggetta nell’ultimo secolo a parecchi scossoni, rivoluzioni e controrivoluzioni. Ma tra tante ideologie e teoremi si perde talora il senso di qualche verità inconfutata, a iniziare da quella che tale autonomia non si costruisce negando l’attenzione dei genitori, ma anzi rassicurandone la presenza.
Una conferma arriva da un’interessante pubblicazione sulla rivista Pediatrics, che spiega gli esiti di un’estesa sperimentazione effettuata a New York. I pediatri hanno seguito un insieme di bambini per anni, dalla nascita fino all’età scolare.
Alcuni sono stati sottoposti per tre anni a un programma (“Video Interaction Project”), in cui i genitori leggevano ad alta voce delle storie ai figli e giocavano a “fare finta di” (con infinite varianti possibili), mentre venivano filmati, per poi confrontarsi con gli esperti, sulla base dei video. L’osservazione è durata per oltre tre anni e ha incluso anche altri bambini, rimasti estranei a tale progetto, tutti seguiti per un follow-up ulteriore di un anno e mezzo dopo la conclusione del progetto.
La differenza è risultata “molto significativa” su tutti i parametri considerati. Il gruppo seguito in tale progetto ha palesato rischi notevolmente diminuiti, rispetto agli altri, di manifestare, crescendo, deficit di attenzione, iperattività, comportamenti aggressivi o scarso autocontrollo. Gli autori dello studio commentano sottolineando il potenziale dell’attività genitoriale di lettura e di gioco “per lo sviluppo emotivo e sociale del bambino”.
Qual è il limite temporale sull’importanza di tale attenzione? In realtà non c’è, e anzi la stessa indagine ha mostrato come i benefici per la salute psico-fisica del piccolo tendano ad aumentare se si protrae il medesimo tipo di attività oltre il periodo considerato dal programma. Al di là delle mille variabili che determinano una buona pedagogia, la semplice verità è che lo sviluppo psico-fisico del bambino è alimentato dai genitori, mai dalla loro assenza. L’autonomia si trasmette con la presenza e l’empatia, guai a dimenticarcene.
Tra le tante caratteristiche della nostra epoca si tende a dimenticare la più evidente. Siamo nel pieno di una bomba demografica senza precedenti, che ha quadruplicato la popolazione nell’arco di un secolo. Al momento siamo circa 7,5 miliardi e, sebbene l’Onu da qualche anno parli di un rallentamento della crescita (per il calo dei tassi di fecondità in molte aree, a iniziare dalla nostra), ha dovuto, anche all’ultimo rapporto in materia, rivedere viceversa al rialzo le sue stime per i prossimi decenni. Sicché, già poco dopo il 2050 sfonderemo la soglia dei 10 miliardi di anime.
Il problema è non solo che siamo tanti, probabilmente troppi, e sempre di più, ma anche perché saremo sempre più vecchi, specie nel nostro continente, complice il passare degli anni per i cosiddetti “baby-boomers” nati intorno agli anni ’60. Nel prossimo mezzo secolo la popolazione europea in età lavorativa diminuirà del 14,2%, quella sopra i 65 anni (su cui l’Italia è già al vertice in Europa) salirà dal 17% a quasi il 30%, gli over-80 si triplicheranno. Le autorità europee da anni affrontano il fenomeno con la priorità dell’“active ageing”, anzitutto dal punto di vista del coinvolgimento sociale ed economico, ma il tema è anzitutto sanitario, come riconosciuto dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.
A determinare la piramide invecchiata è soprattutto il successo della medicina contemporanea, che ha allungato notevolmente la speranza di vita, ma è ora proprio il sistema-salute a essere sotto pressione, sui numeri, e anche sul cambio delle priorità e modalità dell’assistenza. Se n’è parlato nei giorni scorsi a Trieste (incantevole centro, curiosamente esso stesso ai vertici europei per l’età media degli abitanti), al 18esimo Congresso nazionale della Società Italiana di Riabilitazione Neurologica (Sirn).
"L'invecchiamento della popolazione è tipicamente accompagnato da un aumento delle malattie non trasmissibili come quelle cardiovascolari, il diabete, la malattia di Alzheimer e altre patologie neurodegenerative, tumori, malattie polmonari croniche ostruttive e problemi muscoloscheletrici”, nota Stefano Paolucci, direttore alla Fondazione S. Lucia-IRCCS di Roma, citando tra l’altro il caso delle persone affette da demenza nel mondo: se ne stimano attualmente 47 milioni, saranno oltre 130 milioni entro il 2050.
Alcuni numeri sono promettenti, come la tendenza alla diminuzione dell’incidenza degli ictus, ma non bastano a fermare una tendenza complessiva che dovrà porre sempre più al centro dell’attenzione alle patologie legate alla terza età, e farlo con un approccio multidisciplinare che coinvolga medico, fisioterapista, terapista occupazionale, psicologo, infermiere. “Stimolare corpo e mente, promuovere uno stile di vita atto a vivere in maniera sana, senza eccessi, come fumo, stress, malnutrizione e alcol”, riepiloga Carlo Cisari, presidente Sirn, ricordando che gli anziani malati, “lasciati a sé, perdono drasticamente le loro capacità”. Non deve più accadere.
“Un aumento così netto su tutti i fronti non si era mai registrato nel settore dei trapianti negli ultimi dieci anni”, annuncia il ministero della Salute, presentando gli ultimi dati in materia: “A crescere non solo i numeri sulle donazioni e i trapianti di organi, tessuti e cellule ma un’intera rete sanitaria, che dimostra di essere tra le più efficienti del nostro Paese”. Conclusione: “A beneficiare di questo trend positivo sono i pazienti in lista di attesa che, per il secondo anno consecutivo, registrano un calo”. Tra cronache di “malasanità” e bilanci sanitari al risparmio qualcosa insomma sembra funzionare piuttosto bene in Italia e, con l’adozione il dicembre scorso del nuovo Piano triennale, è un miglioramento destinato a proseguire, in quanto orientato a “uniformare sull’intero territorio nazionale l’individuazione del potenziale donatore e la segnalazione dello stesso”.
Tra le cifre: nel 2017 i donatori (viventi o deceduti) di organi sono stati 1741, con un incremento annuo del 9%, che sale al 29% rispetto a cinque anni fa. A guidare la classifica, nei numeri assoluti, è la Lombardia, mentre sul pro-capite la Regione più virtuosa è la Toscana, con menzioni speciali anche per Friuli-Venezia Giulia e Veneto. A incidere positivamente è inoltre il calo delle “opposizioni” alla donazione, scese di oltre 4 punti percentuali (al 28,7%). Immediata la ricaduta sui trapianti, che sono stati 3950 l’anno scorso, 252 in più rispetto al 2016, con prevalenza, nell’ordine, per reni, fegato, cuore e pancreas.
I dati si riflettono anche in quelli delle iscrizioni al Registro Italiano Donatori di Midollo Osseo, saliti a oltre 390mila, 12mila in più rispetto all’anno precedente. Al circolo virtuoso (al quale andranno recuperate anche le donazioni di sangue ed emoderivati, su cui abbiamo segnalato recentemente qualche difficoltà, specie in tempi di influenza, con riferimento soprattutto alle disponibilità dei giovani), contribuisce anche l’attivazione nei Comuni del servizio di registrazione di volontà sulla donazione di organi e tessuti nell’atto del rilascio o del rinnovo delle Carte d’identità, anche in virtù dell’adozione progressiva del documento elettronico.
Al processo si aggiungono, proprio questi giorni, novità importanti sul piano scientifico. A Padova è stata realizzata con successo la prima catena di trapianto di rene da vivente tra coppie donatore-ricevente incompatibili innescata da un donatore deceduto. Il cosiddetto “cross-over” funziona così: se il coniuge del donatario è incompatibile, effettua comunque la donazione a beneficio di ignoti, mentre il partner riceve l’organo da una persona compatibile, aumentando la rapidità ed efficacia dell’intero sistema. La prassi è in atto da tempo, ma la novità è che si è riusciti stavolta ad attuare il meccanismo utilizzando un soggetto deceduto. E questo apre la strada alla possibilità di “aumentare il pool di potenziali donatori compatibili da utilizzare per l’avvio di un numero maggiore di catene”, spiega il professor Paolo Rigotti, direttore del centro trapianti veneto.
Un’altra novità preziosa è annunciata dall’ospedale Molinette di Torino, in collaborazione col nosocomio di Brescia. Per la prima volta è stato eseguito in Italia un doppio trapianto di rene da paziente dializzato. Gli organi renali sono stati cioè impiantati a due diversi pazienti, e prelevati da un donatore deceduto per una patologia congenita, procedimento reso possibile grazie a una rivitalizzazione completa degli organi stessi.
Apporto energetico, formazione muscolare, coagulazione sanguigna, sistema immunitario. Le proteine sono una variabile essenziale della salute del nostro corpo. Eppure, non bisogna esagerare, come in ogni ingrediente, anche se salubre. Da decenni è in corso un dibattito, tra gli stessi studiosi, su quale sia il “punto di equilibrio”, fermo restando il criterio della “personalizzazione”, ossia il fatto che ognuno di noi, per definizione, abbia esigenze diverse, per fascia d’età, attività motorie, abitudini alimentari complessive.
Negli Stati Uniti, in particolare, pur tra pareri assai diversi (salvo il comune riconoscimento di un generale eccesso proteico nelle abitudini nazionali), le autorità federali hanno fissato un parametro (riconosciuto generalmente anche in Europa), che consiste nell’assunzione di 0,8 grammi di proteine al giorno per ogni chilo del proprio peso al giorno. Alcuni, però, suggeriscono che tale soglia possa addirittura raddoppiarsi. Un documento dell’American Dietetic Association, Dietitians of Canada e l'American College of Sports Medicine, lo sostiene con particolare riferimento agli sportivi. Molti altri perorano un’integrazione proteica anche per il mantenimento e lo stimolo muscolare tra gli anziani.
Ed è su questo che il Brigham and Women's Hospital di Boston, con una ricerca pubblicata su Jama Internal Medicine, ha compiuto un estesa verifica scientifica. Sono stati ingaggiati 78 uomini di almeno 65 anni, sottoponendoli per sei mesi a diversi regimi alimentari.
L'esito è stato piuttosto chiaro e univoco. Il gruppo che consumava più proteine di quelle raccomandate dal citato parametro non mostrava differenze significative con riferimento a nessuno dei criteri considerati, ossia la massa e la forza muscolare, la massa grassa, le funzionalità fisiche e l'esposizione alla fatica.
“È sorprendente come gli esperti continuino a consegliare agli anziani diete ad alto contenuto proteico, e lo facciano sulla base di evidenze finora poco consistentii”, commentano gli autori dello studio, chiamando i nutrizionisti e gli altri specialisti a un'inversione di rotta. Che un'alimentazione iperproteica sia d'aiuto per gli anziani esposti a fragilità o a patologie croniche rappresenta un mito non suffragato, agli ultimi riscontri, da alcuna evidenza.
Tra convegni e nuove ricerche scientifiche si parla molto del fegato in questi giorni. E lo si fa sulla scia di dati piuttosto preoccupanti sulle patologie che lo coinvolgono, nonché del nesso, sempre più evidente, sull'incidenza di un'alimentazione sbagliata. Il cosiddetto “fegato grasso” - in termini scientifici la “setaosi epatica non alcolica” (Nafld) - include un ampio gruppo di malattie al fegato (che possono culminare nella cirrosi), definite da una presenza di grassi che supera il 5-10% del peso dell'organo stesso. Ebbene, se ne calcola oramai una prevalenza del 20-30% nei Paesi occidentali, e non risparmia i bambini, stimati al 10%.
“La NALFD ha raggiunto livelli di epidemia e ha un impatto sostanziale sulla salute pubblica”, ricordano gli scienziati del Framingham Heart Study, nel Massachusetts, che hanno pubblicato nei giorni scorsi, sulla rivista Gastroenterology, gli esiti di una corposa ricerca condotta su 1521 pazienti, seguiti per sei anni.
Da notare che nessuno dei partecipanti aveva una storia di eccessivo consumo di alcol, proprio per concentrare l'attenzione sull'ambito della sola alimentazione. In breve, è emerso un nesso strettissimo tra una dieta eccessivamente ricca di grassi e l'alterazione di tutti i principali marcatori della salute del fegato. Specularmente, un miglioramento nella qualità alimentare ha determinato un beneficio diretto sugli stessi parametri.
Gli scienziati americani avvertono inoltre che la Nafld aumenta i rischi di altre patologie al fegato, incluso il tumore e l'epatite. Il problema è estesissimo negli Stati Uniti, ma lo è anche nel nostro Paese, nonostante una dieta complessivamente più salubre: si stimano oltre due milioni di casi l'anno di epatite B o C, e circa 20mila decessi. I dati sono stati ricordati nei giorni scorsi dall'associazione EpaC Onlus, che ha promosso un convegno scientifico alle Terme di Chianciano intorno alle parole d'ordine della “personalizzazione della cura”, nonché della “multifattorialità e multidisciplinarietà della malattia epatica”.
Per quel che riguarda i tumori, in Italia sono rilevate quasi 13mila nuove diagnosi l'anno (con prevalenza maschile). Anche su questo, non mancano le novità dalla scienza: recentemente, ad esempio, l'Università elvetica di Basilea ha annunciato la scoperta di una proteina (chiamata “Lhpp”), che avrebbe la capacità di “disattivare” la crescita incontrollata delle cellule tumorali nel fegato e, a detta dei ricercatori, potrebbe rivelarsi utile anche per altri tipi di cancro. La medicina fa dunque i suoi passi, ma la realtà è che la lotta alle patologie epatiche è responsabilità di ciascuno di noi, a iniziare dalla tavola.
“La medicina, fin dalle sue origini, ha avuto una impostazione androcentrica relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti specifici correlati alla riproduzione”. Non è l'esordio di un pamphlet femminista, bensì di uno spazio dedicato nel portale del ministero della Salute. La “medicina di genere” è uscita dall'equivoco di una valenza ideologica, per approdare al significato concreto di un'esigenza riconosciuta, almeno nelle parole, praticamente dalla totalità degli addetti ai lavori, istituzioni incluse.
E il prossimo 22 aprile ricorrerà la terza edizione della Giornata nazionale dedicata alla salute femminile, con una serie di eventi e iniziative che andranno ben al di là delle parole e della giornata stessa. In particolare, nell'intera settimana sarà possibile per le donne ricevere visite e consulti gratuiti in oltre 180 strutture ospedaliere riconosciute dall'Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) con i “bollini rosa”, grazie alla loro attivazione di servizi e comportamenti adeguati alle specifiche esigenze femminili.
E saranno ben quindici le aree specialistiche coinvolte: diabetologia, dietologia e nutrizione, endocrinologia, geriatria, ginecologia e ostetricia, malattie e disturbi dell'apparato cardio-vascolare, malattie metaboliche dell'osso, medicina della riproduzione, neurologia, oncologia, pediatria, psichiatria, reumatologia, senologia, sostegno alle donne vittime di violenza. A questo si aggiunge l'annuncio di un monitoraggio rafforzato da parte dello stesso Osservatorio, che ha appena allestito su base permanente delle “Antenne” su base regionale, coinvolgendo per ora Basilicata, Calabria, Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Toscana, Trentino Alto-Adige e Veneto.
L'esigenza di un'attenzione personalizzata scaturisce da una catena di dati di fatto: le donne vivono di più, ma soffrono di più, per la stessa aspettativa di vita allungata, ma anche per la maggiore esposizione a diverse patologie, negli ambiti coperti dalle aree specialistiche citate. Al contempo, l'intera ricerca scientifica, fino agli ultimi anni, è stata sostanzialmente incentrata, anche sul piano sperimentale, sul corpo e le sintomatologie maschili.
Non ultimo, come ricorda lo stesso ministero, la donna è essa stessa “health driver”, facendosi carico della salute della famiglia, dall'ambito farmacologico a quello alimentare, oltre al complesso degli “stili di vita”. Questo riguarda non solo i figli, ma anche la cura dei malati, disabili e anziani, per i quali – ha notato un rapporto del Censis – il caregiver è nel 70% dei casi femmina. A margine, in un'altra Giornata recente (il 7 aprile, dedicata dall'Oms alla salute nel mondo), le istituzioni Onu hanno ricordato il caso di una donna deceduta in Italia: era la nigeriana Beauty, bloccata alla frontiera di Bardonecchia mentre cercava, incinta e malata, di raggiungere la sorella. Poi il decesso, dopo aver dato il figlio alla luce.
Da qualche settimana l'Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha irrobustito il proprio lavoro di divulgazione medica sul web, terreno di parecchie fake news sulla salute – a cui ha dedicato un'apposita sezione – ma anche di una fondata quanto estesa domanda di contenuti e di risposte da parte dei cittadini, specie sulle problematiche più delicate e complesse. Il mal di testa è uno di esse, presentando sintomi e origini assai diverse tra loro, con le difficoltà che conseguono sul piano della diagnosi e della cura, anche per i circa sette milioni di italiani coinvolti.
Anzitutto va premessa una distinzione, su cui si fa spesso confusione. La “cefalea” e l'“emicrania” non sono sinonimi. La seconda è caratterizzata da un dolore pulsante di intensità media o anche grave, e può richiedere un serio approfondimento medico. La cefalea (“di tipo tensivo”) è invece quella che definisce il più diffuso, e moderato, malessere, che solitamente non compromette le normali attività quotidiane, in assenza di aggravanti quali l'apparizione “a grappolo”.
La stessa cefalea, comunque, può avere molteplici cause, non tutte legate allo stress. Tuttavia, esso rimane una variabile di primissimo piano, come riconosciuto in questi giorni anche da una pubblicazione dell'organizzazione di ricerca americana Mayo Clinic. E nell'elenco stilato dall'Iss dei “10 fattori scatenanti più comuni” prevalgono proprio gli aspetti psicologici e comportamentali.
In primis si cita la “cefalea da week-end”, che compare nel crollo subitaneo degli ormoni dello stress che innesca un rilascio dei neurotrasmettitori, i quali alterano i vasi sanguigni provocando il dolore. A ciascun punto del decalogo si accompagna un consiglio, che in questo caso è quello di non omettere di ritagliare spazi di rilassamento nei giorni lavorativi, onde evitare di “scaricare” tutto all'arrivo del riposo. Tra gli altri fattori, si ricorda la “rabbia repressa”, per il suo impatto diretto, e anche per quello alimentato da comportamenti correlati, come il digrignare i denti, che affatica i muscoli mascellari (oltre ai denti stessi) con possibili ricadute cefaliche. Sui comportamenti, viene citata anche la “postura scorretta” al lavoro - specie se curvi per ore al computer - che provoca tensioni muscolari dalla schiena al collo, fino a coinvolgere la testa.
Poi, ci sono alcune voci in parte sorprendenti, quali “l'esposizione a profumi” (inclusi quelli di detergenti e altri prodotti industriali), per le sostanze chimiche che possono attivare le cellule del naso e l'area cerebrale connessa, o anche la presenza di “luci troppo intense” per un meccanismo analogo a partire dagli occhi. Addirittura viene riconosciuto il “mal di testa da sesso”, che colpirebbe alcuni, sembra per l'aumento della pressione sulla muscolatura del collo e della testa stessa. Infine c'è il capitolo alimentare, in quanto vi sono diversi “cibi a rischio”, dai formaggi fermentati e stagionati agli insaccati, dal cioccolato agli alimenti confezionati, per gli additivi chimici che contengono. Questo coinvolge anche le bibite dietetiche, specie se consumate a temperatura bassissima; anche il gelato può essere infatti causa di un improvviso mal di testa, sebbene tenda a dileguarsi altrettanto rapidamente.
Almeno trenta milioni di casi l’anno, più di sei milioni di decessi. Sono le stime impressionanti di una strage quotidiana e largamente negletta, che colpisce principalmente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), soprattutto le zone a reddito medio o basso, ma non risparmia affatto le altre, Italia inclusa. Nel nostro Paese si stimano annualmente circa 250mila episodi (spesso all’interno delle stesse strutture ospedaliere), con incidenza di mortalità non lontana dalle regioni più povere.
La ragione è che si tratta di una grave reazione infiammatoria, innescata dall’ingresso di alcuni patogeni, che può coinvolgere risposte endogene a danno anche di organi vitali, con possibili ulteriori effetti a catena, inclusa la coagulazione del sangue e la meningite. “Un’emergenza sanitaria globale”, dice l’Oms, che, oltre a promuovere campagne di sensibilizzazione (inclusa la Giornata mondiale del 13 settembre) indica la priorità di una diagnosi tempestiva: “La sepsi è spesso sotto-diagnosticata allo stadio iniziale, quando è ancora potenzialmente reversibile”. Dopo è spesso troppo tardi, anche perché, si legge, “si tratta di infezioni che sovente resistono agli antibiotici”.
In questo sta l’importanza del buon esito di una ricerca, divulgata dalla rivista Nature, condotta dal Massachusetts General Hospital di Boston, che avrebbe elaborato un test capace di individuare nell’arco di poche ore la patologia tramite una sola goccia di sangue. La sperimentazione è stata condotta su 42 individui - alcuni malati, altri no - e si è conclusa con un’accuratezza, definita in “specificità e sensibilità”, del 95%.
È intrigante e innovativo anche il metodo impiegato per giungere a tale risultato, in cui la chimica si è incrociata con le nanotecnologie e l’informatica. È stato infatti concepito un apparecchietto composto da una sorta di labirinto di microscopici canali. Viene quindi applicata la goccia di sangue e se ne osserva il comportamento, ossia le modalità con cui essa si muove all’interno della struttura, identificando così, con l’ausilio di un apposito software, le eventuali anomalie.
La percentuale di successo è notevole, considerando che, a detta degli stessi studiosi americani, l’errore diagnostico è finora riscontrato, con gli strumenti attuali, addirittura nel 30% dei casi, con le inevitabili conseguenze in termini di scelta di terapie sbagliate (in particolare l’impiego non idoneo di antibiotici) e rischi di complicanze. Si tratta di un esito comunque preliminare dato il campione limitato della sperimentazione effettuata, che andrà quindi verificato con un numero ben più ampio di soggetti. E si spera che lo stesso test possa presto incrementarsi anche in velocità. Considerando che i rischi di mortalità sono stimati in crescita dell'8% per ogni ora di ritardo nel trattamento, anche quelle “poche ore” a volte possono non bastare.
“Abbandonare il fumo, praticare regolarmente l'attività fisica, mangiare bene”. La Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, al culmine della Settimana nazionale per la Prevenzione Oncologica, ne ha ribadito i capisaldi, con la voce delle sue 106 sedi provinciali e i circa 400 centri di prevenzione, con la partecipazione di noti nutrizionisti e blogger, e perfino del campionato di serie A. Un focus è stato dedicato in particolare al tema alimentare, rilanciando le priorità della verdura e della frutta, e sottolineando un dato di rilievo: si stima che il 35% dei tumori dipenda proprio da una cattiva alimentazione.
Il problema del cancro è in effetti lungi da esser debellato. Secondo le ultime stime, in Italia vivono oltre 1 milione e 300 mila persone con una diagnosi tumorale, e si tratta di un aumento addirittura del 24% rispetto alla prevalenza riscontrata nel 2010. Dietro al dato, comunque, si cela un aspetto positivo, ossia aumentano le speranze di guarigione. “La malattia sta diventando sempre più cronica grazie ad armi efficaci come l’immuno-oncologia e le terapie a bersaglio molecolare che si aggiungono a chirurgia, chemioterapia, ormonoterapia e radioterapia”, nota la professoressa Stefania Gori, presidente dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom).
Un po' di cifre: la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi raggiunge oramai il 91% nel tumore della prostata, l’87% nel seno, il 79% nella vescica e il 65% nel colon-retto. Si tratta di successi della medicina che però meritano un seguito adeguato. I pazienti, in rapido aumento, che resistono alla malattia hanno bisogno di un'attenzione particolare anche sui tanti effetti collaterali, e questo, all'esito di alcuni sondaggi rivelati dalla stessa Aiom, spesso non avviene.
Tra i disturbi più diffusi vi sono gonfiori, mancanza di appetito, diversi dolori, e sovente non vengono trattati. Il 54% dei pazienti ritiene che il medico di famiglia non sia un interlocutore adeguato sulle neoplasie e il 79% lamenta l’assenza di dialogo fra oncologi e medici del territorio. Lamentele in qualche modo confermate dagli oncologi. L'82% degli specialisti si dichiara preparato dinanzi a tali problematiche, ma il 39% ammette un problema di sottovalutazione, e al contempo il 94% dei medici di famiglia riconosce il nodo della mancanza di un canale diretto che faciliti il dialogo con lo specialista.
Rispetto alle problematiche legate ai tumori c'è insomma l'urgenza di un salto in avanti nella direzione di una “gestione integrata”, e magari anche di un aumento di personale. “Crescono i pazienti, diminuiscono i medici”, avverte l'Aiom. Lo stesso paziente ha un ruolo, comunque. Da un'altra indagine emerge che solo il 40% riferisce al medico dei propri piccoli disturbi quotidiani legati alla patologia. Bisogna dunque imparare, anche a chiedere aiuto.
“Ma perché dormiamo?”. Può suonare una domanda banale, eppure ha interrogato illustri specialisti di varie discipline, dall’etologia alla psichiatria, dai filosofi agli studiosi delle malattie neurodegenerative. Senza trovare ancora adeguata risposta. Konrad Lorenz, ad esempio, ipotizzava che fosse un retaggio antico, legato alla paura di essere divorati dagli animali predatori, sicché il riposo ci avrebbe protetto con l’arma di renderci immobili. Gli specialisti odierni della materia infine allargano le braccia. “Per quanto ne so io, vi è un solo motivo sicuro per il nostro bisogno di dormire: ci viene sonno”, ha sintetizzato William Dement.
Qualche passo, comunque, la scienza l’ho ha fatto, anche in questi giorni, non proprio sulla “causa prima” del sonno ma almeno sulla sua “funzione”. L’Università di Cambridge, con uno studio sperimentale pubblicato sulla rivista Neuron, ha analizzato i meccanismi di “manutenzione della memoria” nella fase più profonda del sonno, quella a onde lente, e lo ha fatto stimolando le connessioni neurali dei topi sottoposti a un’anestesia finalizzata a uno stato cerebrale simile a tale stadio del riposo umano.
Sul tema esistono diverse teorie, una delle quali sostiene che il sonno produca un potenziamento di tutte le connessioni neurali. Gli studiosi inglesi hanno scoperto qualcosa di analogo, ma in realtà di ben più sofisticato. Si attiva cioè un processo di selezione, orientata a “cementare” le connessioni più forti e allo stesso tempo rinunciando a quelle più piccole. È un meccanismo estremamente interessante, perché dimostra come il nostro cervello, messo a riposo, inneschi naturalmente delle procedure di “gerarchizzazione”. Dinanzi ai mille stimoli ricevuti, sceglie l’essenziale, quel che è più importante, e lo valorizza, anche cestinando le cose percepite come meno importanti: quel che è sciocco o inutile viene sacrificato per corroborare quel che conta.
Gli esiti non rappresentano una novità assoluta, e anzi sostanzialmente ricalcano i risultati, pubblicati nei mesi scorsi, di uno studio condotto da ricercatori italiani, tra gli Stati Uniti e l’Università delle Marche, sempre sui roditori. Indagando sulle connessioni neurali, hanno ricostruito ben settemila sinapsi, realizzando così il più grande database al mondo in materia. Con indicazioni analoghe. Quelle più importanti si consolidano, le altre si riducono. Il riposo, in altre parole, ci permette di “dimenticare” gli stimoli, raccolti qua e là, anche inconsciamente, durante la giornata, che si rivelano inutili, valorizzando gli altri.
Insomma, qualunque sia l’origine e la motivazione prima della sussistenza del riposo, la realtà è che esso è concretamente funzionale alle nostre facoltà cognitive. Poi ci sono i disturbi del sonno, nessuno sceglie di “dormire male”. Però i frenetici ritmi contemporanei ci inducono sovente a derubricare intellettualmente il riposo a una sorta di “lusso”, un inutile impiccio che riduce i tempi della nostra attività quotidiana. Fondamentale allora uscire dall’equivoco: quel riposo è viceversa un prezioso e intelligente alleato del nostro cervello, con tutto quel che consegue, per la nostra salute, e anche produttività.
Liste d’attesa interminabili, attese insopportabili, gli effetti collaterali dell’intasamento dei pronto soccorso. Gli annosi problemi della Sanità pubblica italiana purtroppo permangono, anziché risolversi, con un’aggravante tutt’altro che secondaria. Il vecchio, grande contraltare a tali problematiche, ossia – oltre alla qualità del servizio offerto da tantissimi professionisti, medici e infermieri – il costo contenuto rispetto al ricorso ai privati, viene spesso a mancare.
I dati sono stati divulgati da un sindacato, la Cgil, che ha commissionato la “Prima indagine su tempi e costi delle prestazioni sanitarie” al Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità (CREA Sanità), che da cinque anni riunisce un ente pubblico di ricerca (l’Università romana di Tor Vergata) e la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (Fimmg). E si tratta di uno studio piuttosto serio, tant’è che ha coinvolto un campione di oltre 26 milioni di cittadini, pari a quasi la metà della popolazione italiana, ossia la totalità delle affollate Regioni di Lombardia, Veneto, Lazio e Campania, prendendo in esame le prestazioni mediche senza esplicita indicazione di urgenza.
Il confronto, anche temporale, è risultato impietoso. L’attesa media nel settore pubblico è risultata di 65 giorni, a fronte dei 6 nell’intramoenia, 7 nel privato e 32 per il privato convenzionato. Ed è una forbice che si allarga: per una visita oculistica, ad esempio, solo tre anni prima il tempo medio era di 61 giorni, ora sono saliti a 88. A seconda delle prestazioni, l’attesa si è prolungata di almeno una ventina di giorni. Al contrario - si legge - “il privato riduce drasticamente i tempi di attesa per prestazioni mediche e anche il privato convenzionato garantisce un servizio notevolmente più rapido a quello del sistema pubblico degli ultimi anni”.
Al contempo, si restringe la forbice sui costi, oramai vicinissimi, e in qualche caso addirittura in clamoroso sorpasso: restando sulla visita oculistica, il suo costo medio tra i privati era di 97, nell’intramoenia si sale a 98. Non manca qualche possibile lettura positiva, da parte dello stesso sindacato, con riferimento al settore privato stesso: “La sanità privata – nota la Cgil - fa riferimento all’offerta pubblica per calibrare la propria e rendersi competitiva, puntando sul rapporto qualità/prezzo e dunque accorciando notevolmente, con prezzi di poco superiori al ticket, i tempi di attesa”. Per il pubblico invece la sintesi è purtroppo una bocciatura: “La tempestività è garantita dal Servizio sanitario nazionale solo per le prestazioni urgenti, mentre è a pagamento nei casi restanti”, per giunta a prezzi non sempre concorrenziali.
La richiesta è quella di porre fine al “de-finanziamento” della Sanità pubblica, ma il nodo non è solo nella quantità di denari allocati, ma anche nella loro destinazione. L’ambito farmacologico è tra i più cruciali, tant’è che le Regioni che ricorrono di più ai medicinali equivalenti (perlopiù al Nord Italia) sono a ben vedere le stesse che poi riescono a offrire la migliore qualità complessiva del servizio sanitario. Quando non si fa, è in gioco l’accessibilità stessa alle cure, ed è un problema talora addirittura “fisico”: un altro ente, l’associazione Fiaba, ha denunciato in un dossier che due ospedali italiani non sono attrezzati a percorsi accessibili e spazi di assistenza adeguati per i disabili: “Che così, in ospedale, rischiano di essere disabili due volte”, protesta l’onlus.
La ricerca genetica ha grandi potenziali anche perché permette il riscontro dei fenomeni di alterazione che possono innescarsi nell’ambito di diverse patologie e la sperimentazione di strade inesplorate per trovare i rimedi adeguati.
È il caso perfino dei tumori, alcuni dei quali presentano una specifica alterazione genetica, la fusione dei cosiddetti geni NTRK (Neurotrophic Tyrosine Receptor Kinase). Secondo quanto documentato da una ricerca statunitense pubblicata sul New England Journal of Medicine, la loro disattivazione permetterebbe di bloccare la crescita tumorale. Il meccanismo consisterebbe nell’annientamento dei segnali deleteri innescato da una nuova molecola (denominata Loxo-101), che bloccherebbe la “via di trasmissione” del recettore “alterato”, e correlativamente la progressione cancerogena.
Sono stati coinvolti nella sperimentazione 55 pazienti tumorali in età adulta e pediatrica (dai quattro mesi ai 76 anni), tutti interessati dalla citata fusione. E’ emerso un riscontro assai positivo e duraturo, all’esito di un trimestre di “follow-up”, con un tasso di risposta del 75%.
Nel dettaglio, i benefici sono risultati insussistenti solo per 14 pazienti: in tutti gli altri il tumore si è ridotto o è addirittura scomparso. Secondo i ricercatori i dati sono tali da supportare non solo l’avvio al trattamento delle persone interessate da tale alterazione genetica, ma anche da “giustificare lo screening per le fusioni TRK (identificabili tramite il sequenziamento dei geni, ndr.) nei pazienti di tutte le età affetti da tumori solidi in stadio avanzato”.
Le fusioni geniche NTRK si verificano raramente (circa 1% dei tumori) ma possono coinvolgere varie tipologie, tra le quali il tumore dell'appendice, il tumore del polmone, il carcinoma mammario, il colangiocarcinoma, il carcinoma del colon-retto, il tumore stromale gastrointestinale, il fibrosarcoma infantile, il melanoma, tumore del pancreas. E in tutti questi casi, all’evidenza, la molecola sembra perlopiù funzionare.
In generale, si tratta di un filone di ricerca molto promettente, quello che incrocia la ricerca genetica alla medicina oncologica, anche perché l’ambito tumorale è estremamente complesso e richiede risposte altamente selettive, che mirino alla radice del problema e ai meccanismi specifici di mutazione, trasmissione e proliferazione delle cellule, dallo stato sano a quello tumorale. L’orizzonte è quello di una medicina di precisione e la genetica si annuncia come lo strumento essenziale per realizzarla.
Sono oltre 3 milioni, odiano il cibo, hanno una percezione alterata del proprio corpo e vivono come tragedie spesso sotterranee quei disturbi del comportamento alimentare (Dca) meglio note come bulimia o anoressia capaci spesso di condurre alla morte chi ne è affetto. Ad essi è stata dedicata giovedì 15, in tutta Italia, "Fiocchetto lilla", la sesta giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare, giunta in questi giorni alla settima edizione.
A promuovere per la prima volta nel nostro Paese fu Stefano Tavilla, padre di una diciasettenne genovese morta nel marzo 2011 per le conseguenze di un disturbo del comportamento alimentare, mentre era in lista d’attesa per entrare in una struttura residenziale, fuori dalla sua Regione.
Negli anni l’associazione fondata in ricordo di Giulia, “Mi nutro di vita”, ha raccolto una immediata e vasta adesione, in ragione dell’ampiezza del fenomeno che oggi coinvolge fasce d’età sempre più giovani, mentre resta ancora molto carente la rete dei servizi capaci di dare un adeguato supporto. Poche le strutture specializzate, pochissime le Regioni attrezzate: pazienti e familiari sono costretti ad affrontare odissee e costi immeritati, in relazione anche all’ampiezza del problema che si rivela con dati sempre più allarmati. Ai conteggi ufficiali risulta ad esempio che nel 2016 l'anoressia ha fatto 3.240 vittime e la patologia aggredisce persone sempre più giovani: “Si è abbassata moltissimo l'età di esordio, si ammalano bambini di 8-10 anni, con conseguenze più gravi”, nota Laura Dalla Regione, responsabile tra l’altro di un numero verde allestito presso la presidenza del Consiglio, l’800180969.
Anoressia e bulimia sono problematiche serie quanto complesse, e coinvolgono aspetti di natura strettamente psicologica, sicché non vanno confusi col tema generale della cattiva alimentazione. Quest’ultimo tema però c’è e costituisce un’aggravante di rilievo, a danno anzitutto, di nuovo, dei giovani.
Proprio in questi giorni il ministero della Salute ha ad esempio denunciato che gli italiani commettono il grave errore di eccedere nel consumo di sale: il 90% della popolazione ne assume più di 10 grammi al giorno (con prevalenza maschile), mentre il tetto stabilito dall’OMS è di 5 grammi al giorno e il consumo è più elevato nella fascia tra i 6 e i 18 anni. Poi c’è il “junk food”, la sedentarietà ma anche altri errori, a volte sorprendenti.
Da un altro studio dell’Università di Foggia emerge ad esempio che quasi la metà degli adolescenti consuma troppa caffeina, problema che si aggrava tra le ragazze. Segnali convergenti di una gioventù in ansia, e di una popolazione complessiva che, seppur depositaria della virtuosa “dieta mediterranea”, necessita, al di là dei disturbi patologici, di un’alimentazione oggettivamente migliore e di un’educazione seriamente adeguata allo scopo.
“La commercializzazione è sempre più impersonale. La scelta dei consumatori è influenzata dai media di massa che utilizzano tecniche di persuasione molto sofisticate. Il consumatore non è solitamente messo in condizione di sapere se le preparazioni dei farmaci rispettino i requisiti minimi di sicurezza, qualità ed efficacia”. Era il 15 marzo del 1952, agli albori del boom del capitalismo post-bellico, quando John Fitzgerald Kennedy presentò al Congresso il suo storico discorso sui diritti dei consumatori, su cui aveva tra l’altro incentrato la sua campagna per l’elezione presidenziale. Una data poi divenuta ricorrenza annuale mondiale a fronte della presa d’atto che “siamo tutti consumatori” e in quanto tali meritiamo un’adeguata protezione.
Pochi però ricordano che uno dei passaggi cruciali dello storico discorso riguardò appunto l’ambito farmacologico, ambito che poi conosciuto gli sviluppi più rilevanti in materia di tutela e trasparenza. Ne sono un esempio, a livello europeo, la nascita e lo sviluppo di una sempre più intensa attività di farmacovigilanza e l’introduzione di una disciplina sempre più rigorosa per la commercializzazione dei medicinali. La disciplina comunitaria trova peraltro nel nostro Paese una tra le declinazioni più rigide, definendo obblighi stringenti in materia di informazione e promozione del prodotto (principi attivi, effetti collaterali eccetera) e regolando anche le modalità tecniche di realizzazione degli spot pubblicitari, ammessi peraltro solo per farmaci da automedicazione, che il cittadino può acquistare senza ricetta medica.
E c’è anche un altro aspetto che viene scarsamente ricordato del discorso del presidente americano, ossia il “diritto a un prezzo ragionevole”. Il tema è cruciale nel settore farmacologico, a partire dall’ambito dei generici, che hanno gli stessi principi attivi, qualità e sicurezza, con la sola differenza di un prezzo più basso, fattore che discende dal fatto che la licenza sul medicinale è scaduta, sicché il produttore non deve più scontarne i costi. Il settore è in crescita proprio perché consente di utilizzare prodotti di qualità garantita risparmiando sia ai singoli cittadini che ai servizi sanitari, come dimostrano le Regioni più virtuose, specie nel Nord Italia.
Ma siamo ancora al di sotto di altri Paesi europei, e permane qualche paradosso: le imprese che producono gli equivalenti, come conferma l’ultimo rapporto Nomisma-Assogenerici, hanno visto aumentare i ricavi meno dei costi: tradotto, si tende a scaricare sui produttori che salvano le tasche della Sanità e dei pazienti l’onere dei conti in rosso altrui.
Sono temi che i pazienti largamente conoscono, tant’è che le loro principali associazioni – a iniziare dalla rete nazionale di Cittadinanzattiva – si mobilitano assiduamente in favore dei generici. Permangono però ancora interessi avversi e resistenze psicologiche, ampiamente documentate. L’Istituto Nazionale di Sanità ha recentemente avviato un apposito portale sulle “fake news” nel settore, che sono tante e pericolose, propagandandosi nello sconfinato mondo delle nuove tecnologie di comunicazione. Una delle “bufale” più insidiose, per la nostra salute e le nostre tasche, è proprio quella di chi ancora obietta sulla completa equivalenza dei generici rispetto ai medicinali di marca, citando a motivazione paradossalmente proprio il minor prezzo, ossia il diritto dei consumatori.
Le appassionate disquisizioni sulla “miglior dieta” hanno ottime ragion d’essere: l’alimentazione è variabile fondamentale del nostro benessere generale e della specifica prevenzione di tante patologie mentre assistiamo invece ad una dilagante diffusione di “junk food” e obesità.
È tuttavia importante evitare gli eccessi “ideologici”, perché alcune scelte alimentari, pur legittime e motivate, possono portare a serie controindicazioni, e questo riguarda anche la fase per definizione più “vitale” e delicata di tutte, ovvero la gravidanza.
Un’allerta è stata lanciata in proposito nei giorni scorsi attraverso un Position Paper, curato dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) insieme alla Federazione Italiana Medici Pediatri e alla Società Italiana di Medicina Perinatale, che ha approfondito il tema dell’adeguatezza delle diete vegetariane in relazione allo sviluppo neurocognitivo dei bambini.
“Per un corretto sviluppo del nascituro, le diete latto-ovo-vegetariane e vegane sono inadeguate, soprattutto considerando l’ambito neurologico, psicologico e motorio”, sintetizza Andrea Vania, docente di Nutrizione Pediatrica all’Università La Sapienza, incoraggiando all’uso prevalente di alimenti vegetali, ma senza rinunciare del tutto a quelli animali, anche per quel che riguarda la vita neonatale: servono latte, uova, ferro e omega 3, nonché alimenti ricchi di vitamina B12.
Ed è in particolare su quest’ultima che suona il campanello d’allarme. Il deficit materno di tale vitamina è risultato, agli screening neonatali, triplicato nell’ultimo anno, in ragione proprio del dilagare delle diete vegetariane e vegane, seguite anche durante la gravidanza. Per il bimbo può comportare “danni neurologici molto gravi, ma in molti casi facilmente evitabili”, nota Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare, incalzando i medici, oltre agli stessi media sanitari, a un’informazione adeguata alle gestanti.
La vitamina B12, detta anche “cobalamina”, è appunto essenziale allo sviluppo del sistema nervoso centrale ed è contenuta negli alimenti di origine animale. Non a caso è una carenza che si riscontra anche in molti immigrati dall’Asia del Sud, dove è molto diffusa la dieta vegetariana. In gravidanza, all’evidenza, è una prassi pericolosa per il feto, quando la “domanda” vitaminica naturalmente aumenta. Se proprio non si vuol rinunciare a tale dieta, essa va pertanto comunque bilanciata – ricordano i medici – con la supplementazione di qualche adeguato integratore.
“Le cose sono migliorate, quando sono entrato io in ospedale, nel 1973, le siringhe erano di vetro, i pappagalli erano di vetro, solo i cateteri non erano di vetro, meno male…” Scherza così il popolare Giacomo Poretti, ex infermiere diventato comico (trovando la celebrità soprattutto nel trio con Aldo e Giovanni), e tornato ora alle origini con un esilarante monologo sulla professione, inscenato all’Auditorium Parco della Musica di Roma in occasione del Congresso della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (Fnopi).
“Non c’era neanche il monouso, e potevi fare l’infermiere così, senza preparazione, oggi richiesta”, ricorda ancora Poretti. Oggi più qualità e più professionalità, dunque, ma al contempo meno infermieri. Se ne stima una carenza di 50mila unità, tra professionisti ospedalieri e, ancor di più, quelli che servirebbero per rendere operativa la tanto agognata “sanità territoriale”, destinata a potenziare l’assistenza diffusa e magari ad alleviare il peso riversato sui Pronto soccorso e l’insieme dei servizi e delle strutture dei nosocomi.
Solo tra il 2009 e il 2016 si son persi oltre 12mila infermieri, in relazione ai vincoli di spesa per le Regioni. “Il Paese ha bisogno di infermieri, eppure il Servizio Sanitario Nazionale vede un costante decremento dei professionisti in Sanità e conseguentemente una sempre minore capacità di rispondere ai bisogni di salute della popolazione”, nota Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, ricordando che “il rispetto della persona parte dal presupposto di farla vivere in buona salute”, e contestando “un’economia che per sostenere se stessa finora ha limitato e tagliato i beni primari della vita”.
“Blocco del turn over, blocco dei contratti, minutaggi sono state le principali leve del governo del Ssn messe in atto in questi anni”, protesta anche Tonino Aceti, Coordinatore del Tribunale dei diritti del Malato di Cittadinanzattiva, annunciando (a margine di varie mobilitazioni a sostegno dei farmaci generici) una collaborazione con la stessa Fnopi. E illustrando inoltre un apposito studio sulla professione, dal quale emerge una valutazione estremamente favorevole da parte dei pazienti sulla qualità, il servizio e l’attenzione umana dimostrata dagli infermieri, perfino al di fuori dell’ambito del ricovero ospedaliero. Insomma, pur tra fatiche aumentate, turni massacranti e domeniche spesso scomparse, loro ci sono sempre, amatissimi dagli italiani. E la stessa Agenzia Italiana del Farmaco ne riconosce l’alta professionalità, tanto da “aprire”, col Direttore Generale Melazzini, la prospettiva che possano essere essi stessi titolati a prescrivere i medicinali. Resta, e anzi si aggrava, il problema è che son pochi, e questo davvero non va bene.
L’eccesso d’ansia ci blocca, ci rende improduttivi, ci atterrisce, certo. Ma come ben sanno gli psicologi vale anche il contrario. L’assenza assoluta di un moto di stress, di qualche pur lieve paura può essere altrettanto paralizzante, tanto che a sua volta è un meccanismo difensivo messo in atto spesso dagli ansiosi stessi. Davanti al timore dello stress lo si annienta del tutto: si tende a uscire dal mondo per evitare il problema. L’aspetto curioso, rilevato ora da una ricerca tedesca, è che tali meccanismi non coinvolgono solo la psiche, ma anche gli aspetti più strettamente fisiologici, muscolo cardiaco incluso.
Lo si legge sulla rivista Clinical Research in Cardiology, dove gli scienziati della Technical University di Monaco di Baviera, riferiscono di uno studio nel corso del quale hanno monitorato e intervistato 619 pazienti nelle 24 ore successive all’uscita dall’unità di terapia intensiva, al seguito di un infarto miocardico.
Tra essi - riferiscono - il 12% soffriva di un disturbo d’ansia e proprio gli “ansiosi” hanno reagito più rapidamente degli altri, captando molto prima l’insorgenza del problema. Ed è una differenza tutt’altro che banale, visto che - ricordano i ricercatori - “ogni mezz’ora è cruciale per le probabilità di sopravvivenza dopo un infarto”. In questo caso il divario riscontrato è ben maggiore. Le donne che soffrivano d’ansia hanno raggiunto l’ospedale quasi due ore prima rispetto alle altre. Curiosamente, la differenza è risultata assai meno marcata tra gli uomini: “l’anticipo dell’ansioso”, in questo caso, è stato conteggiato in un tempo medio di 48 minuti.
Tutto questo non inficia comunque il fatto che tali benefici si accompagnano ad altissimi costi. Chi soffre d’ansia è pesantemente esposto a maggiore stress, senso di spossatezza estrema e malessere generale. L’ansia era e rimane un fattore di rischio cardiovascolare, anche se poi l’ansioso è più rapido nell’affrontare il problema, con quel che consegue per le probabilità di soluzione.
Ma la conclusione degli scienziati tedeschi è anche un’altra, e cioè che bisogna sempre ascoltare le persone, guai a snobbarne le preoccupazioni di salute, in quanto ritenute figlie dell’ansia. Vale l’esatto contrario. “I dottori dovrebbero prendere quelle preoccupazioni molto sul serio, tali pazienti possono essere ancor più utili e collaborativi quando sentono di ricevere una risposta alla richiesta di aiuto”. E vale qui anche il paradosso: “Una malattia può a volte proteggere da un’altra malattia ancor più seria”.
È un po’ come quando si parla di calcio. Chi lo detesta di solito tira in ballo, non a torto, l’enormità di parole (e interessi) che lo circondano, inclusa una notevole quantità di ciarlatani, magari aggressivi. La ragione è che, essendo lo sport più popolare, trascina a sé un po’ tutto, incluse visceralità, volgarità e mitologie. Accade lo stesso per la salute, in cima agli interessi degli italiani, e perciò foriera, specie sul terreno sconfinato del web, anche di parecchie bufale.
Il problema è che si tratta, appunto, di salute, ossia di un tema delicatissimo, sicché la “fake news” può recare un serio danno, agli individui e alla collettività, tanto più che, alle stime del Censis, almeno un italiano su tre si informa sulla medicina navigando in rete. Il dato, nell’insieme, è positivo, perché a portata di schermo e tastiera in effetti si può trovare tantissima informazione, inclusi contenuti scientifici, cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma al contempo presenta grandi insidie, perché s’infiltrano e, nelle ripetizioni e “condivisioni”, proliferano un sacco di falsità, che possono suonare vere quantomeno agli strati culturalmente più deboli della popolazione.
E così, l’Istituto Superiore di Sanità ha deciso di mobilitarsi, utilizzando il medesimo strumento potentissimo, il web, e annunciando in questi giorni l’apertura di un’apposita sezione del portale ISSalute, orientata proprio a smascherare le tantissime bufale sui temi della salute. E riferendo di averne già individuate, in breve tempo, ben 150 tra quelle più diffuse.
Alcune sono per la verità interessanti, anche perché tendono a essere acquisite anche tra le persone più informate. È il caso dello zucchero di canna, ritenuto solitamente più sano di quello bianco, eppure non c’è alcuno studio scientifico che lo comprovi, mentre contengono entrambi esattamente la stessa molecola (il saccarosio). Poi c’è il “ferro negli spinaci”, popolarizzato anche dallo storico “Braccio di Ferro”. Solo che, tra le tante virtù di quella verdura, manca tale sostanza, non perché assente, ma perché compresente ad altre che ne inibiscono l’assorbimento intestinale. Poi c’è il caso delle radiofrequenze generate dal wi-fi in casa, su cui la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha negato l’esistenza di riscontri scientifici che documentino alcun danno per la salute.
Infine ci sono i tanti “classici” delle bufale, inclusi quelli, pericolosissimi, contro i vaccini, tuttora essenziali per la salute delle persone e anche per la sostenibilità dei sistemi sanitari, oppure gli spauracchi sulle trasfusioni “poco controllate”, che invece lo sono rigorosamente, o ancora sui migranti, che riporterebbero malattie da noi scomparse come la tubercolosi (mai del tutto debellata, e agli esiti statistici senza alcuna incidenza dall’immigrazione). Non ultimo, i pregiudizi sulle raccolte fondi per la ricerca medica, che “chissà dove vanno”. Al contrario, un’Ong ha stimato che, per ogni euro donato, ben 74,2 centesimi vanno all’effettiva ricerca, il resto tra spese per le strutture, la gestione, e la campagna stessa: insomma, un’ampiezza e pertinenza di destinazione probabilmente senza pari.