Un gruppo di ricercatori della Rutgers University (Usa) è riuscito a risolvere il mistero di come il grasso bruno ci protegge da obesità e diabete. Stando ai risultati pubblicati sulla rivista Nature, il grasso “buono” aiuterebbe a filtrare ed eliminare gli aminoacidi a catena ramificata (Bcaa) dal sangue. I Bcaa si trovano in alimenti come uova, carne, pesce, pollo e latte, ma anche negli integratori utilizzati da alcuni atleti e da persone che vogliono fare massa muscolare. In normali concentrazioni nel sangue, questi aminoacidi sono essenziali per una buona salute. In quantità eccessive, sono collegati al diabete e all’obesità.
Per proteggere la nostra salute ogni tanto bisognerebbe rinunciare al cibo. Il cosiddetto digiuno “intermittente”, infatti, ha un effetto anti-infiammatorio senza influire sulle capacità delle nostre difese immunitarie. A confermare nuovamente le proprietà benefiche di questo “regime alimentare”, che prevede brevi periodi di astinenza dal cibo, è stato uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Mount Sinai Hospital. I risultati, pubblicati sulla rivista Cell, spiegano il meccanismo con cui il digiuno riduce l’infiammazione e migliora le malattie infiammatorie croniche.
Mentre l’infiammazione acuta è un normale processo immunitario che aiuta a combattere le infezioni, l’infiammazione cronica può avere gravi conseguenze sulla salute. E’ infatti collegata a diverse patologie, come quelle cardiache, il diabete, il cancro, la sclerosi multipla e le malattie infiammatorie intestinali. “È noto che le restrizioni caloriche migliorano le malattie infiammatorie e autoimmuni, ma i meccanismi con cui una ridotta assunzione calorica controlla l’infiammazione sono poco conosciuti”, afferma Miriam Merad, direttore del Precision Immunology Institute presso la Icahn School of Medicine al Mount Sinai, nonché autrice senior dello studio.
Mal di testa, fiacchezza, sonno, stordimento, irritabilità. In una sola parola “sindrome da rientro”. Non è un malessere emotivo immaginario, ma reale. A viverlo sono purtroppo moltissimi italiani di rientro dalle vacanze. “Il ‘Post Vacation Blues’, è una sindrome di cui soffre almeno un italiano su dieci tornando dalle ferie”, conferma la psicoterapeuta Paola Vinciguerra, direttore scientifico di Bioequilibrium e presidente di Eurodap, Associazione europea disturbi da attacchi di panico. Per molti la sensazione è quella di non esser riusciti a staccare davvero la spina. Ma per molti altri ancora, generalmente quelli di soffrono maggiormente per il rientro, può essere un “campanello d'allarme” di un malessere ben più profondo.
“Quando il rientro dalle vacanze ci mette in crisi, dovremmo chiederci quanto la vita di tutti i giorni, lavoro, relazioni, routine, siano soddisfacenti”, spiega Vinciguerra. “Lo stacco dalla quotidianità, dai doveri e dalle responsabilità è doveroso, ma quando al ritorno dalle vacanze ci sentiamo più stressati di quando siamo partiti è decisamente un campanello d’allarme”, aggiunge. Ma non è niente che non si può affrontare e superare. “Rituffarci immediatamente in ritmi frenetici, scadenze, traffico e routine quotidiana non è mai una buona idea”, sottolinea Vinciguerra. “Molto meglio sarebbe tornare in città un paio di giorni prima di ricominciare a lavorare, ci potrebbe aiutare a sentirci meno stressati e più energici. Tornare immediatamente sui libri o al lavoro - continua - e avere poco spazio da dedicare a noi stessi, può tradursi in un malessere fisico generalizzato reale che renderà ancora più difficile il ritorno alla vita frenetica di ogni giorno”.
L’intelligenza artificiale potrebbe rivoluzionare il trattamento e la gestione dei pazienti affetti da cardiopatia coronarica. E’ infatti questo quello che promette il nuovo programma sviluppato nell'ambito del progetto SMARTool finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma Horizon 2020 e coordinato dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifc). La piattaforma messa a punto dai ricercatori utilizza intelligenza artificiale e tecnologia cloud per agevolare il controllo dei pazienti affetti da cardiopatia coronarica (Cad). La piattaforma include una serie di modelli multiscala e multilivello di caratterizzazione e di progressione della placca integrata con dati di varia natura specifici del paziente (sintomi, fattori di rischio, stile di vita, esami del sangue, dati genetici, profilo lipidico) ed elaborati da algoritmi di intelligenza artificiale.
La malattia coronarica (CAD) e la sua complicanza principale, l’infarto miocardico, è una delle principali cause di morte e disabilità sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Ogni anno si stima che uccida circa 70.000 persone in Italia. Numeri che giustificano un progetto così ampio e ambizioso. “La gestione delle informazioni ha avuto inizio circa 5 anni fa, quando è stata effettuata la prima collezione di esami diagnostici (Tac, prelievi, ecografie etc.) effettuati su pazienti affetti da cardiopatia coronarica”, riferisce Silvia Rocchiccioli, ricercatore presso l’Ifc e coordinatrice del progetto. “Le informazioni sono state quindi raccolte e analizzate da una intelligenza artificiale, che ha confrontato i risultati degli esami effettuati a distanza di tempo sugli stessi pazienti, verificando la predisposizione all’insorgenza della malattia e i fattori ad essa legati. In questo modo - continua - abbiamo potuto sviluppare un algoritmo diagnostico innovativo per il calcolo del rischio che ha presentato un’accuratezza dell’80%”. Un risultato notevole, che ha coinvolto 10 partner pubblici e privati, specializzati nella ricerca clinica e scientifica di 9 paesi europei, e 4 centri clinici di supporto per la raccolta dei dati che hanno lavorato a stretto contatto per tre anni e mezzo, coinvolgendo medici, biologici, chimici, informatici ed ingegneri.
Le probabilità di successo della fecondazione assistita per le coppie sterili potrebbero aumentare grazie a una nuova tecnica che consente di individuare gli ovociti più sani da utilizzare. Una collaborazione tra un gruppo di ricerca dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste e il reparto di Clinica ostetrica e ginecologica dell’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste ha messo a punto una sonda specifica che consente di fare analisi più dettagliate sull’ovocita, permettendo di studiare anche le proprietà meccaniche. I risultati sono stati pubblicati sia sulla rivista Acta BioMaterialia che sull’European Biophysics Journal.
“Uno dei momenti più importanti per determinare la fortuna di un processo di fecondazione è la selezione degli ovociti, oggi condotta in base a caratteristiche esclusivamente morfologiche: il medico sceglie la cellula da fecondare rispetto alla forma considerata indice del suo migliore stato di salute”, spiega Laura Andolfi, ricercatrice del Cnr-Iom. “Il criterio è però soggettivo e si basa fondamentalmente sull’esperienza dell’embriologo. L’obiettivo di queste ricerche - continua - è invece identificare un metodo più generalizzabile, non invasivo e capace di velocizzare il processo”. Il problema è che gli ovociti non possano essere trattati, al fine di preservarli, e non c’è quindi modo di capirne lo stato di salute. “Noi ci siamo chiesti se potessero essere usati come indicatori dello stato di salute degli ovociti le loro caratteristiche meccaniche, cioè la deformabilità, l’elasticità e la rigidità. La risposta è risultata affermativa”, dice la ricercatrice del Cnr-Iom.
Si chiama Inside, l’acronimo di Innovative Solution for Dosimetry in Hadrontherapy, ed è il primo sistema al mondo in grado di “fotografare” in tempo reale i fasci di ioni carbonio e protoni utilizzati nell’adroterapia oncologica in modo da rendere le terapie contro il cancro più precise. Verrà sperimentato su 40 pazienti dalla Fondazione Cnao di Pavia (Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica per il trattamento dei tumori), insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e al Dipartimento di fisica dell’Università di Pisa e alla Sapienza Università di Roma. I pazienti coinvolti sono sottoposti ad adroterapia per il trattamento di meningiomi e tumori del distretto testa-collo, tutti casi di cancro resistenti alla radioterapia tradizionale e non operabili.
Per colpire i tessuti tumorali l’adroterapia oncologica utilizza fasci di protoni o ioni carbonio che, rispetto ai raggi X impiegati nella radioterapia tradizionale, hanno la capacità di rilasciare la loro energia solo in prossimità della massa tumorale, riducendo al minimo l’impatto sui tessuti sani circostanti e i conseguenti effetti collaterali. Inside è uno strumento posizionato vicino al letto dove il paziente riceve il trattamento con adroterapia e si compone di due rilevatori (un sistema di imaging bi-modale, con uno scanner per la Tomografia a Emissione di Positroni-PET e un tracciatore di particelle cariche) in grado di misurare le particelle secondarie prodotte durante il trattamento facendo capire con un brevissimo scarto temporale dove si sta rilasciando l’energia e se il volume tumorale, in seguito al trattamento, si modifica.
Potremmo avere già gli strumenti per diagnosticare una delle patologie più complesse da individuare, ovvero l’autismo. Un semplice elettroencefalogramma (Eeg), infatti, può consentire di rilevare in fase precoce e in maniera pressoché automatica se un bambino è affetto o meno da disturbi dello spettro autistico. Attraverso l’utilizzo di sofisticati sistemi di intelligenza artificiale, si possono riuscire a sfruttare tutte le informazioni necessarie per arrivare a distinguere i bambini autistici dai bambini affetti da altre patologie neuropsichiatriche e dai bambini a sviluppo tipico. Almeno questo è quello che suggerisce uno studio italo-americano pubblicato sulla rivista scientifica Clinical EEG and Neuroscience. Firmato dalla Fondazione VSM di Villa Santa Maria Centro di Neuropsichiatria Infantile Onlus di Tavernerio, dal Centro Ricerche Semeion di Roma e dal Tarnow Center for Self-Management di Houston, in Texas, lo studio è stato realizzato utilizzando dati raccolti nell’arco di cinque anni.
L’autismo è una malattia complessa, caratterizzata da gravi disturbi della comunicazione, del comportamento e dell’interazione con gli altri. Nelle forme più gravi, le persone affette non parlano, tendono a isolarsi e presentano comportamenti stereotipati e disabilità intellettuali. Ci sono però anche forme più leggere in cui, nonostante i problemi nella comunicazione, le capacità intellettive e di linguaggio non sono compromesse. La nuova ricerca si è svolta con l’analisi dei dati grezzi della registrazione elettroencefalografica attraverso un sistema di reti neurali sviluppato dal Centro Ricerche Semeion. Il metodo si chiama I FAST. Per cominciare sono stati considerati gli Eeg di due diversi gruppi di bambini americani con età compresa tra i 4 e i 14 anni, ciascuno costituito da 20 soggetti, i primi affetti da disturbi dello spettro autistico e i secondi da altri disturbi neuropsichiatrici, simili per età e rapporto maschio/femmina. In questo caso il sistema è stato in grado di distinguere i bambini, separandoli in base alle diverse diagnosi, con un’accuratezza tra il 93% e il 97,5%, a seconda dei diversi algoritmi utilizzati.
Il peso può influire sulla nostra salute in tantissimi modi diversi. Può ad esempio cambiare i tempi e i modi in cui il cervello invecchia. Uno studio della University of Miami Miller School of Medicine ha scoperto che avere qualche chilo di troppo a 60 anni d'età accelera il declino cognitivo. In particolare, stando ai risultati pubblicati sulla rivista Neurology, il cervello invecchia più velocemente se si è in sovrappeso. “Le persone con una vita più grande e un indice di massa corporea più elevato avevano maggiori probabilità di presentare un assottigliamento nell'area della corteccia del cervello, il che implica che l'obesità è associata a una ridotta materia grigia del cervello”, spiega l’autore dello studio Tatjana Rundek.
Gli indicatori utilizzati dagli studiosi sono l’indice di massa corporea, che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato, e l’ampiezza del girovita. Lo studio è stato condotto su 1.289 volontari americani con un'età media di 64 anni. Di questi 346 (54% donne) avevano un indice di massa corporea inferiore a 25 e un girovita di circa 84 centimetri. Invece, 571 erano in sovrappeso (56% femmine), cioè avevano un indice di massa corporea compreso fra 25 e 40 e un girovita di circa 91 centimetri. E 372 erano obesi (73% donne), ovvero avevano un indice di massa corporea superiore a 30 e un girovita di 104 centimetri. Sei anni dopo l'inizio dello studio, i ricercatori hanno misurato con risonanza magnetica lo spessore della corteccia cerebrale dei partecipanti, cioè la “sostanza grigia” coinvolta in numerose funzioni cognitive quali il linguaggio, la motricità e la memoria.
Nella lunga e difficile lotta al cancro, un gruppo internazionale di ricercatori, guidati da scienziati italiani, ha individuato un nuovo possibile bersaglio. Si tratta della proteina MS4A4A che sembra giocare un ruolo importante nell'impedire la formazione di metastasi, cioè delle "colonie" del cancro che lo rendono letale. Lo studio, diretto e coordinato da Humanitas e Università Statale di Milano, è stato reso possibile grazie al sostegno della Fondazione Airc per la ricerca sul cancro. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Immunology.
MS4A4A , coperta in cellule del sistema immunitarie, chiamate macrofagi, si associa al recettore Dectina-1, controllandone la funzione. Ma la molecola individuata è anche essenziale per attivare un dialogo tra i macrofagi – cellule primitive del sistema immunitario che nei tumori hanno un significato prognostico – e le cellule Natural Killer, che sono in grado di uccidere le cellule tumorali. “Abbiamo scoperto il gene responsabile di MS4A4A 10 anni fa nei macrofagi associati al tumore, ma il ruolo della proteina da esso codificata si è chiarito da poco”, racconta Massimo Locati, docente di immunologia all’Università degli Studi di Milano e responsabile del Laboratorio di Biologia dei Leucociti di Humanitas, coordinatore dello studio e corresponding author dell’articolo insieme a Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e docente di Humanitas University.
L’anoressia è qualcosa di più di un problema psichiatrico. Questo devastante disturbo alimentare è infatti collegato anche a un problema metabolico. A rivelarcelo è il Dna di chi ne soffre, come mostra uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Genetics. I ricercatori, 200 in tutto che lavorano in 27 centri sparsi per il mondo, hanno eseguito l’analisi genomica del Dna di quasi 17.000 pazienti con anoressia nervosa, messi a confronto con più di 55mila soggetti sani. Insomma si è trattato del più ampio studio sull'anoressia nervosa noto fino ad oggi, a cui hanno partecipato per l’Italia le università di Firenze, Padova, Perugia, Pisa, Campania e Salerno.
“Lo studio, di eccezionale valore per la dimensione del campione analizzato - spiegano Sandro Sorbi, direttore della Scuola di specializzazione in Neurologia dell’Università di Firenze, e Benedetta Nacmias, docente di Neurologia dell’ateneo fiorentino – evidenzia che l’anoressia, malattia complessa e grave, ha radici sia psichiatriche che metaboliche. La scoperta di questi nuovi marcatori genetici ci aiuta a capire meglio la biologia di questa patologia”. Questo potrebbe suggerire il perché ad oggi il trattamento dell’anoressia non è molto efficace, anzi spesso fallisce. Il solo approccio psichiatrico al disturbo sarebbe dunque insufficiente.
Per la prima volta al mondo un vaccino per l'influenza creato interamente da un'intelligenza artificiale verrà testato sugli esseri umani. Ad annunciarlo è stata la Flander Univercity, in Australia, che ha sviluppato l’algoritmo che è stato capace di creare un farmaco per immunizzare le persone dall’influenza. Presto il vaccino verrà testato su 240 volontari negli Stati Uniti.
E’ già partita una nuova ondata di calore. I termometri hanno iniziato a schizzare in alto. Una bella notizia per chi questa settimana è in ferie al mare. Tuttavia, il caldo può rivelarsi un nemico piuttosto fastidioso e, a volte anche molto pericoloso. Per questo il ministero della Salute ha pubblicato nel nuovo Piano Nazionale di Prevenzione quali possono essere gli effetti del caldo sulla salute, invitando in questo modo alla prudenza.
Da anni gli esperti ci stanno mettendo in guardia sul pericoloso legame tra il consumo di bevande zuccherate e le malattie cardiovascolari. Ora un gruppo di ricercatori del Sorbonne Paris Cité Epidemiology and Statistics Research Center ha ipotizzato l’esistenza di un altrettanto rischioso collegamento, quello tra le bibite dolci e il cancro, confermando il sempre maggior numero di evidenze che indicano come limitare il consumo di bevande zuccherate diminuisca i casi di tumore. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul British Medical Journal.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno deciso di monitorare le associazioni tra il consumo di bevande zuccherate e con dolcificanti artificiali (dietetiche) e il rischio di cancro in generale. Gli studiosi hanno così esaminato i dati relativi a 101.257 adulti francesi sani (21 per cento uomini, 79 per cento donne) con un'età media di 42 anni al momento dell'inclusione nello Assobibe. I partecipanti hanno completato almeno due questionari dietetici online, progettati per misurare l’assunzione abituale di 3.300 diversi alimenti e bevande, e sono stati seguiti per un massimo di 9 anni, precisamente dal 2009 al 2018. Sono stati calcolati i consumi giornalieri di bevande zuccherate e bibite con dolcificanti artificiali, confrontati con le cartelle cliniche dei pazienti e i dati relativi alle assicurazioni sanitarie. Sono stati anche presi in considerazione diversi fattori di rischio ben noti per il cancro, come età, sesso, livello di istruzione, storia familiare, fumo e livelli di attività fisica.
La ricerca di nuovi farmaci in grado di contrastare i sempre più diffusi batteri resistenti agli antibiotici ha portato alla scoperta di due promettenti molecole. Un gruppo di ricercatori francesi ha creato due nuovi potenziali antibiotici che sembrano in grado di sconfiggere batteri killer, come lo Stafilococco aureus multi-resistente e il famigerato Pseudomonas aeruginosa. Ottenute a partire da una tossina batterica, non sembrano a loro volta in grado di indurre lo sviluppo di resistenze. Lo studio è stato condotto dall’équipe francese di Brice Felden dell'Inserm (Institut national de la santé et de la recherche médicale), in collaborazione con l’Université de Rennes 1 insieme a scienziati del Rennes Institute of Chemical Sciences (ISCR). I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Plos Biology.
Secondo il nuovo rapporto di un’agenzia congiunta Oms e Onu - UN Ad hoc Interagency Coordinating Group on Antimicrobial Resistance (Iacg) - ogni anno 700mila persone muoiono per infezioni resistenti agli antibiotici, numero destinato a crescere fino a 10 milioni l'anno nel 2050 se non verranno presi provvedimenti. Tanto che qualcuno ha parlato di una sorta di “Apocalisse antibiotica”. Ai 230mila morti dovuti soltanto alla tubercolosi resistente si aggiungono quelli per infezioni del tratto respiratorio, quelle sessuali e quelle legate alle procedure mediche invasive, oltre a quelle legate al cibo. Il lavoro dei ricercatori franceci parte da lontano. “Nel 2011 abbiamo scoperto che una tossina prodotta dallo Stafilococco aureus, il cui ruolo è facilitare al batterio patogeno l’infezione, è nello stesso tempo capace di uccidere altri batteri presenti nel nostro corpo”, spiega Felden. “Quindi abbiamo identificato una molecola con una duplice proprietà, da una parte tossica e dall’altra antibiotica”, aggiunge.
Ci sono persone “geneticamente fortunate” che grazie al loro Dna possono vivere in salute e più a lungo di molte altre. Possono arrivare a soffiare 100 candeline o anche di più. Per questo è da moltissimi anni che i ricercatori stanno studiando il Dna di questi “super-nonni” e la caccia all'ambito segreto ha iniziato a dare i suoi frutti. Uno studio dell’Irccs Neuromed di Pozzilli, dell’Irccs MultiMedica di Sesto San Giovanni e dell’Università degli Studi di Salerno ha prima individuato il “gene della longevità” e poi ne ha replicato i suoi effetti nei topi e nelle cellule umane. Il gene si chiama LAV-BPIFB4 (“longevity associated variant”) e dai risultati dello studio sembra prevalere nelle persone che superano i cento anni di vita. I ricercatori hanno scoperto che questo “gene della longevità” determina una maggiore produzione della proteina BPIFB4, che quando è presente in alti livelli nel sangue ha una
funzione protettiva dei vasi sanguigni. In pratica, agisce "ringiovanendo" i vasi sanguigni e, quindi, contribuendo a prevenire e combattere le malattie cardiovascolari.
Per dimostrarne il potenziale terapeutico della loro scoperta, gli studiosi italiani hanno replicato il gene LAV-BPIFB4 nel Dna di animali suscettibili all’aterosclerosi e, di conseguenza, più a rischio di sviluppare patologie cardiovascolari che alla fine sono responsabili dell’”accorciamento” della vita di una persona. Più precisamente, i ricercatori hanno inserito il gene nei topi di laboratorio attraverso un vettore virale, ovvero grazie a un virus modificato in modo tale da poter veicolare il suo genoma all'interno delle cellule bersaglio, senza dare malattia. I risultati, pubblicati sull’European Heart Journal, sono stati eccezionali. “Abbiamo osservato un miglioramento della funzionalità dell’endotelio (la superficie interna dei vasi sanguigni), una riduzione di placche aterosclerotiche nelle arterie e una diminuzione dello stato infiammatorio", riferisce Annibale Puca, coordinatore di un’équipe di ricerca presso l’Università di Salerno e presso l’IRCCS MultiMedica. In altre parole, l’inserimento del “gene dei centenari” nei modelli animali ha provocato un vero e proprio “ringiovanimento” del sistema cardiocircolatorio. Lo stesso effetto
Una doppia strategia per eliminare una volta per tutte il virus dell’Hiv. E’ l’impresa che sono riusciti a compiere un gruppo di ricercatori della Temple University a Philapelphia e dalla University of Nebraska Medical Center su modelli animali. I ricercatori hanno utilizzato sui topi sia gli antiretrovirali di ultima generazione che una tecnica di manipolazione genetica, la cosiddetta Crispr-Cas9, più comunemente conosciuta come editing genetico. Questa combinazione si è rivelata vincente: si è riusciti a eradicare il virus nei topi. I risultati di questo straordinario traguardo sono stati pubblicati sulla rivista Nature Medicine.
“Oltre 37 milioni di persone nel mondo sono infette dal virus HIV-1, l’agente causativo dell’AIDS”, riferisce Giovanni Maga, direttore del laboratorio di Virologia Molecolare presso l’Istituto di Genetica Molecolare del Cnr di Pavia. “Con oltre un milione di vittime ogni anno e altrettanti nuovi casi di infezione, la pandemia di AIDS non è, purtroppo, ancora sotto controllo. I farmaci - continua - molto efficaci oggi disponibili possono solo evitare la comparsa dell’AIDS, ma non guarire dall'infezione. Il problema principale è che il virus HIV-1 mescola i suoi geni con quelli della cellula infetta. Il risultato è che ogni cellula infetta porta dentro in modo permanente le istruzioni per fabbricare nuovi virus. Una parte di queste cellule rimane ‘silent’' all'interno del nostro corpo, costituendo un serbatoio da cui il virus può riemergere nell'ospite infetto per tutta la vita”.
E’ una male piuttosto comune, ma poco noto e senza cura. Si chiama demenza frontotemporale ed è una patologia neurodegenerativa, che è la seconda causa di demenza dopo la malattia di Alzheimer prima dei 65 anni d’età. Uno studio italiano potrebbe riaccendere la speranza di molti malati affetti da questa malattia. Ci sarebbe infatti una terapia che sembra in grado di rallentare la progressione della malattia, migliorando alcune funzioni cognitive e comportamentali dei pazienti.
“La demenza frontotemporale ha caratteristiche diverse dalla malattia di Alzheimer nonostante spesso vengono confuse con la conseguenza di diagnosi tardive e trattamenti non idonei”, spiega Giacomo Koch, neurologo e direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale della Fondazione Santa Lucia. “A differenza dell’Alzheimer la demenza frontotemporale - continua - colpisce in maniera selettiva alcune parti del cervello, prevalentemente lobo frontale e temporale, e dal punto di vista clinico i sintomi non interessano la memoria ma il comportamento: i malati cambiano personalità, diventano disinibiti, apatici o irritabili. In alcuni casi presentano deficit del linguaggio molto spiccati, forme di afasia progressiva con perdita della capacità di parlare e, in altri, anche un deficit intellettivo, la demenza semantica che comporta un’erosione di tutte le conoscenze acquisite nel corso della vita”.
Quel particolare sapore e odore pungente della rucola cela straordinarie proprietà anti-ipertensive. L’isotiocianato Erucina, un principio attivo prodotto da questa famosissima insalata, è in grado di abbassare la pressione arteriosa, contribuendo in questo modo a combattere l’ipertensione e le malattie cardiovascolari. La scoperta arriva dall’Università di Pisa, dove un team di farmacologi guidato da Vincenzo Calderone ha condotto uno studio in collaborazione con le università di Firenze e “Federico II” di Napoli e il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia (http://www.crea.gov.it/) di Bologna.
La ricerca, pubblicata sul British Journal of Pharmacology, ha infatti dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina, lo stesso principio attivo che rende la rucola un tipo di insalata dal sapore unico.
“Quando le foglie di rucola vengono tagliate o masticate – spiega Alma Martelli, ricercatrice dell’Università di Pisa e prima autrice della pubblicazione – i glucosinolati e l’enzima mirosinasi, entrano in contatto generando l’isotiocianato Erucina. Se quest’ultimo per la pianta è un meccanismo di difesa che serve per allontanare ad esempio gli animali, per l’uomo è invece un principio attivo di origine naturale in grado di rilassare la muscolatura dei vasi e di abbassare la pressione arteriosa attraverso il rilascio di un gastrasmettitore, il solfuro d’idrogeno”. I ricercatori hanno dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina sia in vitro, in particolare su cellule di aorta umana e su vasi isolati, che in vivo, cioè su animali spontaneamente ipertesi.
Se è vero che fra una cinquantina di anni la popolazione italiana sarà per la maggior parte sempre più anziana, è altrettanto vero che ci si dovrà aspettare un'allarmante incidenza dei casi di fibrillazione atriale e tutte le conseguenze a essa associata. Più precisamente, nel 2060, si stima ci saranno ben 1,9 milioni di italiani affetti da questa forma comune di aritmia cardiaca. Il calcolo, che offre interessanti spunti di riflessione per il futuro, è stato effettuato grazie al progetto “FAI: la Fibrillazione Atriale in Italia”, realizzato dall’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) e dall’Università di Firenze. L’iniziativa è stata finanziata dal ministero della Salute, in collaborazione con la Regione Toscana, e le stime sono state pubblicate sulla rivista Europace.
Sappiamo già da tempo che la fibrillazione atriale presenta una stretta correlazione con l'età avanzata. La sua importanza è legata al fatto di aumentare di ben cinque volte il rischio di ictus cerebrale, seconda causa di morte e prima causa di disabilità nel soggetto adulto-anziano. “Attualmente in Italia si verificano ogni anno circa 200.000 ictus, con un costo per il Servizio sanitario nazionale che supera i 4 miliardi di euro”, spiegano il coordinatore scientifico Antonio Di Carlo dell’In-Cnr e il responsabile scientifico Domenico Inzitari dell’Università di Firenze. “Oltre un quarto sono attribuibili a questa aritmia che può provocare - continuano - la formazione di coaguli all'interno del cuore, in grado di arrivare al cervello causando un ictus che viene quindi definito cardioembolico. Rispetto agli ictus dovuti a cause diverse, quelli di origine cardioembolica hanno un impatto più devastante in termini di disabilità residua e sopravvivenza”.
Mare, montagna, frutta “zuccherina” e relax. Le vacanze sono un sogno che si avvera, il periodo dell’anno che quasi tutti aspettano con gioia. Ma il caldo, il sole e il sudore possono rivelarsi infimi nemici per chi è incline all’orticaria. Secondo gli esperti della Società italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic), nella stagione estiva i casi di orticaria tendono ad aumentare per il concentrarsi di fattori irritanti: balneari o dietetici, complice il maggior consumo di pesche, fragole, crostacei, coquillage e vino.
Nel nostro paese l’orticaria coinvolge circa 5 milioni di persone, mentre sono 600mila quelli che hanno un’orticaria cronica spontanea, che dura a lungo e che non ha una causa identificata. “L’estate è un momento critico per la pelle”, spiega Gianenrico Senna, presidente eletto Siaaic, Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. “La sudorazione aumenta il prurito, i raggi solari e l’acqua salata di mare irritano la cute, la temperatura elevata – continua - incrementa la vasodilatazione periferica e peggiora i sintomi cutanei: così ogni anno milioni di italiani vanno incontro ad almeno un episodio di orticaria acuta in estate. Per ridurre i fastidi aiutano le docce fresche con acqua dolce subito dopo i bagni in mare”, come pure conviene “ripararsi con cappelli e magliette quando il sole è particolarmente intenso e fare attenzione alla dieta, evitando ciò che ci si accorge può scatenare il prurito”.