C’è più tempo del previsto per riuscire a limitare i danni di un ictus cerebrale. Per esattezza circa 9 ore dopo la comparsa dei primi sintomi. Queste sono infatti le ultime indicazioni che arrivano dagli esperti che si sono riuniti nell'ultimo congresso dell’European Stroke Organization (Esoc2019). L’ictus cerebrale è una patologia che, nel nostro paese, colpisce circa 150.000 persone ogni anno. E’ causato dall’improvvisa chiusura o rottura di un vaso cerebrale e dal conseguente danno alle cellule cerebrali dovuto dalla mancanza dell’ossigeno e dei nutrimenti portati dal sangue (ischemia) o alla compressione dovuta al sangue uscito dal vaso (emorragia cerebrale). Si stima che il 10-20% delle persone colpite da ictus per la prima volta muore entro un mese ed un altro 10% entro il primo anno. Fra le restanti, circa un terzo sopravvive con un grado di disabilità spesso elevato, tanto da renderle non autonome.
Un terzo circa presenta un grado di disabilità lieve o moderata che gli permette spesso di tornare al proprio domicilio in modo parzialmente autonomo e un terzo, i più fortunati o comunque coloro che sono stati colpiti da un ictus in forma lieve, tornano autonomi al proprio domicilio. L’invalidità permanente delle persone che superano la fase acuta di malattia determina negli anni successivi una spesa che si può stimare intorno ai 100 mila euro. Sotto l’aspetto psicologico personale e familiare poi, i costi sono ingenti e non facilmente calcolabili.
Una proteina del batterio Escherichia Coli potrebbe aiutare a migliorare la vista nei casi di retinopatia. Si tratta del Fattore Citotossico Necrotizzante 1 (CNF1), già nel mirino dei ricercatori da diverso tempo. Ora un gruppo di ricercatori dell’Istituto superiore di sanità (Iss) ha creato un collirio contenente questa proteina batterica che si è rivelato in grado di migliorare le prestazioni visive in modelli animali di retinopatia ipertensiva, una condizione clinica che si riscontra in soggetti con elevati valori di pressione arteriosa sistemica che altera il corretto funzionamento della retina portando ad una perdita graduale della vista.
In futuro potremmo avere terapie antidolorifiche più efficaci e sicure. Uno studio condotto dall’Università Vanvitelli, in collaborazione con l’Università di St. Louis negli Usa, ha individuato un “interruttore” per spegnere il dolore. Si tratta di un particolare recettore cellulare, presente nel nostro organismo, che sembra essere il colpevole della comparsa del dolore che limita drammaticamente la qualità della vita dei pazienti neuropatici. Lo studio, condotto in questa prima fase solo sugli animali, è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
Nel mondo ci sono milioni di persone che soffrono di dolore cronico a causa di infortuni e malattie, tra cui lesioni del midollo spinale, diabete, sclerosi multipla e cancro. “Il dolore neuropatico può essere grave e non sempre risponde al trattamento”, dice la coordinatrice dello studio, Daniela Salvemini dell’Università di Saint Louis. “Antidolorifici oppioidi sono ampiamente utilizzati, ma possono causare importanti effetti collaterali - aggiunge - e portare i rischi di dipendenza e abuso. C'è un urgente bisogno di opzioni migliori per i pazienti affetti da dolore cronico”. Ecco perché questo studio mira a trovare altri sistemi per combattere il dolore neuropatico che siano alternativi all’uso dei narcotici.
Il trapianto di cellule staminali cerebrali umane potrebbe rappresentare un’opzione di trattamento per i malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una gravissima malattia per cui oggi non esistono cure. La procedura, infatti, è sicura anche a lungo termine. E sembra anche promettente. Ora finalmente ci si potrà concentrare sulla sua eventuale efficacia. Queste sono le implicazione dello studio conclusivo, coordinato da Angelo Vescovi, direttore scientifico di Revert Onlus e Irccs Casa Sollievo della Sofferenza, e da Letizia Mazzini dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Novara, e pubblicato sulla rivista Stem Cells Translational Medicine.
“Il passo successivo ci permetterà di valutare l’efficacia”, spiega Vescovi. “Ci tengo infatti a specificare che non abbiamo trovato una cura, ma solo una strada molto interessante”, aggiunge. La prudenza è d’obbligo, specialmente perché la Sla è malattia neurodegenerativa terribile che colpisce i motoneuroni (le cellule del sistema nervoso che comandano i muscoli), determinando una paralisi progressiva di tutta la muscolatura. La Sla è letale e, a tutt’oggi, non esiste una terapia efficace. Sull’approccio di Vescovi sono riposte molte speranze. Lo studio, iniziato nel 2012, ha coinvolto 18 pazienti con una diagnosi definitiva di Sla, che hanno ricevuto trapianti multipli (da 3 a 6) di cellule staminali neurali umane nel midollo spinale lombare o cervicale. I pazienti sono stati monitorati prima e dopo il trapianto dagli staff clinici dell’ospedale Maggiore della Carità di Novara, dell'ospedale S.Maria di Terni, dell’Università di Padova e dell'Irccs Casa Sollievo Sofferenza di S.Giovanni Rotondo.
Nel mondo dei social sta spopolando una moda che potrebbe essere molto pericolosa. E’ quella della condivisione delle ricette per creare cosmetici in casa. Protagoniste sono le cosiddette “spignattatrici”, impegnate a smanettare in rete a caccia di ricette per creare creme, smalti, lucidalabbra e altro ancora. E con lo scopo di condividere le proprie. Può sembrare qualcosa di innocuo, ma in realtà questo fenomeno potrebbe rivelarsi insidioso per la salute. E’ l’allarme lanciato dagli esperti della Società italiana di medicina estetica, in occasione del congresso che si è tenuto di recente a Roma.
La filosofia alla base delle attività di queste “spignattatrici” non è affatto cattiva. Tutt’altro, la loro idea è quella di creare prodotti “green”, rinunciando quindi a comprare prodotti di bellezza costosi o nocivi nei negozi per abbracciare una cosmesi genuina ed economica, in cui le materie prime siano state tutte scelte con cura e rispetto per l’ambiente. Tuttavia, le buone intenzioni non rendono i cosmetici “fai da te” più sicuri. “I prodotti fatti in casa presentano rischi che sfuggono a quanto stabilito e sanzionato nel Regolamento 1223/2009 in materia di cosmetici – afferma l’avvocato Alexia Ariano – il fenomeno delle ‘spignattatrici’ nasce da internet, ma parte dalle aziende, che da un lato hanno creato dei prodotti personalizzabili che possono essere in parte ‘assemblati’ a casa dal consumatore e dall’altro hanno esasperato l’interesse per il ‘green’ usando strategie di marketing”.
Le persone che hanno bisogno di ricevere un trapianto d’organo devono essere doppiamente fortunate. Prima infatti devono avere la fortuna di trovare un donatore compatibile disponibile. Poi devono sperare che il proprio organismo non rigetti l’organo ricevuto. Sappiamo infatti che anche nelle condizioni più favorevoli, vale a dire di completa compatibilità delle caratteristiche genetiche dei tessuti (o caratteristiche HLA), una certa quota di trapianti viene rigettato comunque. Uno studio sui trapianti di rene, condotto dalla Università di New York e dall’Università di Torino, assieme alla Città della Salute di Torino, ha permesso di scoprire un gene - denominato LIMS1 - che, quando incompatibile tra donatore e ricevente, causa appunto il rigetto dell'organo Lo studio, pubblicato sulla rivista New England Journal of Medicine, consentirà di migliorare il successo dei trapianti e ridurre significativamente il rischio di rigetto, salvando così moltissime vite.
Si stima infatti che ogni anno nel mondo più di 130mila persone ricevono un trapianto di organo. In Italia nel 2018 sono stati fatti 3.718 trapianti. In generale, la loro efficacia è indubbia: per chi riceve un trapianto la probabilità di sopravvivenza è di circa 70% a 5 anni, rispetto ad una prospettiva che senza trapianto non lascerebbe molto spazio. Tuttavia, ogni anno, solo meno del 30% dei pazienti in attesa trapianto lo riceve: il primo problema è dunque incrementarne il numero tramite il reperimento di donatori deceduti che abbiano espresso in vita la volontà di donare, o – nel caso del rene – promuovendo i programmi di donazione da vivente. Il secondo problema è che una certa quota di trapianti smette di funzionare nel tempo, principalmente perché il sistema immunitario dell’ospite riconosce l’organo trapiantato come diverso e lo rigetta. Per questo motivo il 20% circa di chi aspetta un trapianto di rene lo sta aspettando per la seconda volta. Di qui l’importanza di migliorare l’abbinamento tra donatore e ricevente, selezionandoli per caratteristiche genetiche compatibili.
Nutre il tumore e lo protegge dall’attacco delle nostre difese naturali. La proteina TRF2 ha un doppio ruolo nel cancro e a individuarlo è stato uno studio condotto dall’Istituto Regina Elena di Roma. I risultati, pubblicati sia sulla rivista Embo Journal che sulla rivista Nucleic Acids Research, aprono la strada a nuovi approcci terapeutici.
TRF2 è una proteina espressa in eccesso in diversi tipi di tumori e in particolare nel cancro colonrettale, la forma tumorale su cui si sono concentrati i ricercatori italiani nel nuovo studio. Il cancro al colon-retto è la seconda neoplasia più frequente in Italia con 51.300 casi nel 2018 ed è il secondo tumore a cui sono attribuiti il maggior numero di decessi. Nel 2015 si calcola che, a causa di questa neoplasia, siano morte 18.935 persone. Da qui l’importanza di trovare nuove strategie più efficaci per combatterla.
Si entra in ospedale per essere curati e si finisce per ammalarsi ancora di più. Nel nostro paese è qualcosa che succede spesso. Troppo spesso. Negli ultimi anni, infatti, in Italia le morti causate dalle infezioni ospedaliere sono cresciute, passando dai 18.668 decessi all’anno del 2003 ai 49.301 del 2016. Un bilancio inaccettabile, soprattutto se consideriamo che il 30% delle morti per sepsi che si verificano nei 28 paesi dell’Unione Europea avviene nella nostra Penisola. A puntare i riflettori su questa situazione allarmante è il Rapporto Osservasalute 2018, presentato qualche giorno da a Roma.
“C’è una strage in corso, migliaia di persone muoiono ogni giorno per infezioni ospedaliere, ma il fenomeno viene sottovalutato, si è diffusa l'idea che si tratti di un fatto ineluttabile”, sottolinea Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio nazionale sulla salute. In 13 anni, cioè dal 2003 al 2016, il tasso di mortalità per infezioni ospedaliere è raddoppiato sia per quanto riguarda gli uomini sia per le donne. Il fenomeno riguarda tutte le fasce d’età ma in particolar modo i soggetti over 75. Ma questa “strage” non sembra essere uguale in tutte le regioni. Il rapporto Osservasalute mette in evidenza che i tassi di mortalità per infezioni ospedaliere presentano un’alta variabilità geografica. In generale si registrano più decessi al Centro-Nord rispetto che al Meridione. Nel 2016 al primo posto per numero di morti si è piazzata l’Emilia Romagna, seguita dal Friuli Venezia Giulia. Le posizioni più basse della classifica sono invece occupate da Campania e Sicilia. Questo vale sia per le donne che per gli uomini. Ma non significa necessariamente che in alcune parti dell’Italia gli ospedali sono meno sicuri che in altre. L’Osservatorio per la Salute sottolinea infatti che questa discrepanza può essere dovuta ad una maggiore attenzione da parte delle strutture ospedaliere del Nord nel riportare la causa di morte nel certificato.
Il pane potrebbe non essere un alimento così genuino come molti credono. Perché la sua capacità di mantenersi sano e integro si dovrebbe a un comune additivo che si pensa possa favorire lo sviluppo dell’obesità e del diabete. Si tratta dell’acido propionico, un conservante acidificante molto utilizzato anche in altri prodotti da forno, come ad esempio i biscotti, per la sua capacità di inibire la crescita di muffa e di alcuni batteri. A scoprirlo è stato uno studio della Harvard T. H. School of Public Health condotto sui topolini e successivamente sugli esseri umani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine.
E' da tempo che la comunità scientifica si interroga sull’effetto di alcune molecole utilizzate per la conservazione del cibo. Ma solo pochi studi ne hanno analizzato e valutato l’effettiva azione sul metabolismo. Nel nuovo studio i ricercatori hanno deciso quindi di concentrarsi su uno degli additivi più utilizzati, arrivando a conclusioni che potrebbero cambiare la “buona reputazione” di alimenti molto consumati, tra cui il pane. In particolare, gli studiosi hanno somministrato il proprionato, un acido grasso a catena corta, a un gruppo di topolini. Hanno così scoperto che questo conservante è responsabile dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, causando un’impennata di ormoni, tra cui glucagone, la norepinefrina e l’ormone FABP4. Questo a sua volta portato a una condizione di iperglicemia, tratto distintivo del diabete. Non solo. Gli scienziati hanno scoperto che il consumo “cronico” di propionato da parte dei topi, cioè l'equivalente della quantità consumata dagli esseri umani, ha portato a un significativo aumento di peso e insulino-resistenza.
Nel nostro sangue circola una piccola molecola che potrebbe essere utilizzata come “spia” per individuare le persone che hanno maggiori probabilità di avere un infarto acuto. Più precisamente è un “piccolo messaggero” di Rna non codificante, conosciuto anche come microRNA, che si chiama miR-423. La sua espressione potrebbe rappresentare un importante biomarcatore dell’infarto. Almeno è questo quello che ha scoperto un gruppo di ricercatori guidati da Giuseppe Novelli, rettore e direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma , e da Francesco Romeo
), direttore della Cardiologia dell'Università di Tor Vergata. I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Plos One, aprono prospettive importanti nella prevenzione di uno dei principali killer.
E’ certamente un’impresa dura, specialmente per chi non è già fisicamente allenato. Ma prepararsi a correre in una maratona, per tutte quelle decine di chilometri, potrebbe valere il sacrificio. Uno studio condotto da Anish Bhuva della University College London, infatti, ha concluso che allenarsi per sei mesi per correre una maratona può “ringiovanire” il nostro sistema cardiovascolare. Più precisamente può “ringiovanire” le arterie, a partire dall’aorta, di ben 4 anni. I benefici maggiori si riscontrano a vantaggio degli “aspiranti maratoneti” più anziani e dei più lenti. Insomma, “meno maratoneti” si è all’inizio maggiori saranno gli effetti positivi dell’allenamento. I risultati sono stati presentati a Venezia in occasione dell’EuroCMR 2019, meeting della Società Europea di Cardiologia.
Lo studio ha coinvolto 139 aspiranti maratoneti di 21-69 anni d'età che si sono allenati per le maratone di Londra 2016 e 2017. Gli esperti hanno misurato la rigidità delle loro arterie (in particolare l’aorta, vaso maggiore che porta ossigeno ai principali distretti corporei) prima dell’inizio del programma di allenamento per la maratona (che prevedeva una media di 10-20 chilometri di corsa a settimana per un periodo di sei mesi) e dopo aver partecipato all’attesa gara. La rigidità delle arterie - ovvero la perdita di elasticità delle pareti dei vasi - è un segno di invecchiamento degli stessi. Quindi, per poter calcolare l’età biologica dei vasi sanguigni i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica, ecografie del cuore e dei vasi sanguigni, e misurazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca all’inizio e al termine dello studio.
Si cura il proprio figlio per evitare che sviluppo gravi reazioni allergiche e si finisce per peggiorare le sue condizioni. E’ il paradosso della sensibilizzazione. Uno studio di revisione condotto da 5 centri internazionali, tra cui l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per l’Europa, ha concluso che la somministrazione di immunoterapia orale ai bambini con allergia all’arachide accresce il rischio di anafilassi e di altre reazioni gravi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet.
L’allergia alimentare colpisce circa 5 bambini su 100, con un picco nei primi 3 anni di vita, ed è scatenata dalle proteine contenute in alcuni cibi che - per un errore del sistema immunitario - vengono riconosciute come minacce, innescando la reazione infiammatoria. La forma più grave di reazione allergica ad un alimento è l’anafilassi. Colpisce soprattutto i bambini e gli adolescenti e in età pediatrica ha una prevalenza tra l’1 e il 3%. I suoi sintomi si sviluppano molto rapidamente: basta l’ingestione, il contatto, o la semplice inalazione di minime quantità dell’allergene per scatenare orticaria, edema e gonfiore del volto, prurito e gonfiore delle estremità, rinite, congiuntivite, mancanza di fiato, tosse convulsa. In circa 3 casi su 100 si arriva alla riduzione della pressione arteriosa e allo shock anafilattico. Nel 2018, in Italia, sono stati registrati almeno 2 casi di morte per anafilassi alimentare, una a Roma e una a Pisa.
Sembrava un obiettivo impossibile e irrealistico, ma non è così. L’Epatite C si può battere. E lo stiamo facendo. Le terapie con farmaci ad azione diretta contro l’Hcv eliminano completamente il virus in oltre il 96% dei pazienti trattati. Sono davvero confortanti le conclusioni a cui è giunta la Piattaforma italiana per lo studio delle Terapie dell’Epatite Virali (Piter), la piattaforma nata nel 2014 per studiare l’effetto del trattamento dell'infezione dal Virus dell’Epatite C con farmaci antivirali ad azione diretta (Daa) e informare le istituzioni sulle politiche sanitarie più appropriate.
“L’Italia ha raggiunto il primo target dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dell’eliminazione dell’Hcv: quello della riduzione al 65% delle morti Hcv correlate”, riferisce Stefano Vella, direttore del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto Superiore di Sanità. “Grazie al trattamento universale dell’infezione da Hcv senza restrizione, l’Italia si incammina quindi verso il raggiungimento degli altri obiettivi di eliminazione Hcv dell’Oms, a patto di mantenere alto il numero dei pazienti trattati nei prossimi anni”, aggiunge. Con oltre 180mila trattamenti, l’Italia può vantare una delle più vaste esperienze in questo ambito.
Due farmaci diversi che agiscono su una sostanza prodotta naturalmente dal nostro organismo potrebbero aiutare a migliorare la socialità e l’empatia delle persone affette da autismo. Il bersaglio di queste due promettenti terapia è la vasopressina, il cosiddetto “ormone della socialità”. Due trial clinici indipendenti, entrambi pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine, hanno dimostrato che la sua regolazione può scatenare effetti benefici nelle persone con autismo.
Che la vasopressina fosse fondamentale per i comportamenti sociali lo si era capito da tempo. Alcuni studi hanno dimostrato che deficit della vasopressina possono provocare problemi di comunicazione e interazione. A questo ormone è correlata anche la mancanza di empatia che non consente alle persone con problemi di autismo di mettersi nei panni degli altri, comprendere chi gli sta di fronte e interpretare lo sguardo altrui. La vasopressina, insieme all’ossitocina, è un ormone peptidico in grado di agire su diverse cellule nervose e su altri tessuti e organi del nostro organismo. Importante è la sua produzione durante il periodo del parto e dell’allattamento. Durante lo sviluppo e l’evoluzione dell’individuo permette di regolare i comportamenti sociali.
E’ sufficiente una piccola scossa elettrica ben diretta verso la retina e il nervo ottico per suscitare miglioramenti visivi nei casi di ipovisione più o meno grave. E’ quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori e medici dell’Università Cattolica di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, in uno studio pubblicato sulla rivista Brain Stimulation. La ricerca ha coinvolto finora circa quaranta pazienti ipovedenti, cioè persone che hanno una capacità visiva molto ridotta rispetto al normale. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel mondo ci sono 217 milioni di ipovedenti e 36 milioni di ciechi, per un totale di 253 milioni di disabili visivi. Stando alle stesse stime, ben 1,2 miliardi di persone hanno bisogno d’occhiali.
Nel nuovo studio i ricercatori si sono avvalsi della “stimolazione elettrica transcranica”, una tecnica già in uso clinico per malattie quali la depressione maggiore. “Si tratta - spiega Giuseppe Granata, neurologo presso il Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS - di una stimolazione elettrica non invasiva con corrente alternata che si applica vicino agli occhi mediante degli elettrodi a coppetta che il paziente percepisce al massimo come un piccolo formicolio o una leggerissima scossa elettrica”. Lo scienziato ricorda, inoltre, che secondo studi recenti la stimolazione sarebbe in grado di eccitare la retina e in parte anche il nervo ottico. “Noi l’abbiamo testato su pazienti ipovedenti di varia gravità (da marcata riduzione del campo visivo alla cecità praticamente completa), colpiti sia da lesioni retiniche che del nervo ottico e cerebrali – aggiunge Granata – coinvolgendo a oggi circa quaranta pazienti”.
Malawi, Ghana e Kenya saranno i primi paesi al mondo ad avviare una massiccia campagna di vaccinazione contro la malaria che si baserà su un nuovissimo antidoto. Si tratta dell’ RTS,S, l’unico vaccino che si è rivelato efficace nella riduzione dell’impatto di questa malaria sui bambini. Il farmaco, negli studi condotti al culmine di una sperimentazione durata quasi trent’anni, ha dimostrato di poter ridurre fino al 40 per cento i contagi in età pediatrica. Ad annunciare questa prima storica è stata l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
La “Mal aria”, così definita in seguito alla credenza che venisse contratta dai miasmi malsani emanati dalle acque stagnanti delle paludi, è una grave malattia causata da protozoi parassiti trasmessi all’uomo da zanzare ad attività crepuscolare-notturna del genere Anopheles. Oggi la malaria è endemica in vaste zone dell’Asia, Africa, America latina e centrale, isole caraibiche e Oceania, con circa 500 milioni di malati ogni anno e oltre un milione di morti, minacciando nel complesso oltre il 40 per cento della popolazione mondiale, soprattutto quella residente in paesi poveri. Assieme alla tubercolosi e all’Aids, la malaria è oggi una delle principali emergenze sanitarie del pianeta. Oltre a essere endemica in molte zone del pianeta, la malaria viene sempre più frequentemente importata anche in zone dove è stata eliminata, grazie ai movimenti migratori, risultando in assoluto la prima malattia d’importazione, trasmessa da vettori, in Europa e negli Usa.
Sarebbe regolato da una coppia di enzimi il meccanismo attraverso il quale il nostro organismo accumula energie sotto forma di grasso che poi il nostro corpo può avere a disposizione in tempi meno fecondi. A scoprirlo Simona Pedrotti, del gruppo di ricerca guidato da Davide Gabellini all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, che hanno risultati della loro ricerca sulla rivista Science Advances.
Si tratta di un sistema che si è sviluppato nel corso di milioni di anni di evoluzione dei mammiferi e della nostra specie ma che, a causa delle mutate condizioni in cui viviamo oggi è causa di un eccesso di formazione di grasso, e dunque ha un ruolo determinante nello sviluppo dell’obesità. Il meccanismo riguarda infatti tutte e due i tipi di grassi prodotti dall’organismo: il grasso bianco e il grasso bruno, entrambi hanno un ruolo chiave nei processi metabolici. Il più noto è il grasso bianco – al quale ci riferiamo tipicamente quando parliamo di grasso. Funziona come un deposito di energia e aumenta se assumiamo più calorie di quelle che bruciamo. Quando la sua presenza supera una certa soglia aumentano i rischi per la nostra salute e si può arrivare a una diagnosi clinica di obesità. Il secondo tipo di grasso è il grasso bruno, che è invece invisibile dall’esterno: si trova nascosto in alcuni punti del nostro corpo – vicino alle carotidi, ad esempio, o tra le scapole. Al contrario del primo, il grasso bruno ci aiuta a stare in forma: chi ha più grasso bruno – o ce l’ha più attivo – ha anche meno grasso bianco. Questo perché il grasso bruno consuma molta energia e lo fa soprattutto per produrre calore quando ci troviamo a basse temperature, un ruolo chiave per aiutarci a sopravvivere.
Sia che si vada a lavoro in bicicletta o che si abbia l’abitudine di fare jogging, sia che si faccia semplicemente una passeggiata o le scale a piedi, chi si muove di più vive anche più a lungo. Indipendentemente, quindi, dal tipo di attività fisica. E anche indipendentemente dall’età, dal sesso e dal livello di forma fisica iniziale. Uno studio condotto dalla Scuola svedese di scienze dello sport e della salute di Stoccolma ha dimostrato che per migliorare la propria forma fisica non è affatto necessario fare attività che non piacciano. E’ la più grande ricerca mai fatta prima sull’idoneità cardiorespiratoria nelle persone sane e i risultati sono stati presentati in occasione del Congresso EuroPrevent 2019 di Lisbona.
La fertilità si cura anche a tavola. Sono ormai sempre di più gli studi e le ricerche che evidenziano come una sana e corretta alimentazione possa fornire un supporto al mantenimento delle funzioni riproduttive, soprattutto nei maschi. Secondo le statistiche, quasi una coppia su sette, in Italia, ha problemi di fertilità. In un terzo dei casi, questi problemi sono legati a problemi di natura maschile. Se la dieta può avere un ruolo preventivo in entrambe i sessi, per i maschi sembra avere un ruolo ancora più importante. Secondo una un’ampia metanalisi apparsa nel 2017 su Human Reproduction Update, una dieta a base di cibi ricchi di vitamine (E, C, D e folati) aiuta a mantenere alta la funzione riproduttiva, con effetti diretti sulla qualità degli spermatozoi prodotti e sul rateo di gravidanza.
Tra le tante molecole utili a contrastare l’infertilità maschile, una sembra giocare un ruolo di maggior rilievo. Si tratta del licopene, un carotenoide, contenuto nei comuni pomodori a cui, la molecola, fornisce il colore rosso.
Si chiama octreotide ed è il primo farmaco al mondo che riduce la necessità di dialisi nei pazienti con rene policistico. A dimostrarne l’efficacia è stato lo studio chiamato ALADIN 2 condotto dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, in collaborazione con gli Ospedali di Bergamo, Milano, Napoli, Treviso, Agrigento e Catania. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Plos Medicine.
La malattia renale policistica autosomica dominante, comunemente detta malattia del rene policistico, è la forma più frequente di malattia ereditaria del rene. Il nome “rene policistico” è dovuto al fatto che il rene nel corso della vita viene progressivamente deformato dalla formazione di cisti, cioè di cavità riempite da un liquido che si sviluppano nel tessuto renale. All’esordio della malattia queste cisti sono poche e piccole, ma col passare del tempo aumentano di numero e dimensione, e possono arrivare a occupare interamente il rene, che aumenta notevolmente di dimensione. Queste cisti occupano e distruggono il tessuto renale, che perde gradualmente la sua funzione, fino al punto che occorre sostituirla con la dialisi. Si stima che il 10 per cento dei pazienti che si sottopongono a dialisi hanno perso la funzione renale a causa di questa malattia.