Il diabete in gravidanza potrebbe essere molto più pericoloso di quanto abbiamo pensato fino ad oggi. Uno studio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma, e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS ha scoperto, infatti, un’altra possibile complicanza del diabete gestazionale: potrebbe compromettere le funzioni cognitive, per esempio la capacità di apprendimento e memoria, non solo del nascituro ma anche delle generazioni successive. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, ha anche concluso che è possibile “revertire” i danni al cervello mediante l’esercizio fisico e mentale.
Finora, gli studi sugli effetti delle malattie metaboliche sulla salute del cervello si sono concentrati sui pazienti stessi. “La nostra ricerca sottolinea come problemi metabolici durante la gravidanza possano ridurre la ‘plasticità’ del cervello anche nelle generazioni successive, compromettendone l’apprendimento e la memoria”, sottolinea Claudio Grassi, lo scienziato che ha guidato gruppo di giovani ricercatori dell’Istituto di Fisiologia Umana dell’Università Cattolica. Lavorando su modelli animali di diabete gestazionale i ricercatori hanno osservato che i cuccioli delle femmine con diabete in gravidanza avevano ridotte capacità di apprendimento e memoria, come pure i “nipoti” e i “pronipoti”. Insomma il diabete in gravidanza sembra incidere sulle capacità cognitive di tre generazioni. Gli esperti hanno visto che il diabete gestazionale lascia il segno sul Dna dei cuccioli, alterando il funzionamento di alcuni geni “vita natural durante”.
Abbiamo un motivo in più per limitare il più possibile l’utilizzo di smartphone e tablet. Uno studio della Oregon State University suggerisce che l’esposizione prolungata alla luce blu emanata dagli schermi di device, come i cellulari, tablet, computer e tv, accelera l’invecchiamento, riducendo così la longevità. I risultati, pubblicati sulla rivista Aging and Mechanisms of Disease, vanno ad aggiungersi a quelli di altri studi che già in passato hanno sottolineato gli effetti negativi dell’esposizione alle lunghezze d’onda blu prodotte dai diodi luminosi.
La più semplice regola di igiene è anche la più disattesa: lavarsi le mani. Sebbene ci siano molte prove che dimostrano che questa buona abitudine può ridurre la diffusione di malattie, in particolare dopo essere stati in bagno, prima di mangiare o dopo aver viaggiato con i mezzi pubblici, solo il 5% delle persone lo fa correttamente ogni volta. Ma se si pecca già nel momento del lavaggio, si sbaglia ancora più spesso nell’asciugatura. C’è chi le asciuga male o non lo fa proprio. Quello che molti non sanno è che e le mani bagnate hanno maggiori probabilità di diffondere batteri rispetto alle mani asciutte e che, quindi, è fondamentale asciugarle correttamente. Capita, infatti, di insaponare le mani, sciacquarle e poi andarsene con le mani gocciolanti. È un piccolo errore innocente, ma in questo modo si diffondono germi e infezioni. Ovviamente questo problema si amplifica nei bagni dei locali pubblici. A puntare i riflettori sull’importanza dell'igiene delle mani, specialmente nella fase dell'asciugatura sono stati gli esperti di Dottoremaeveroche, il sito antibufale della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici.
Può essere un marcatore prognostico nel tumore al polmone. La proteina CCRL2 può indicarci l’andamento e l’aggressività della malattia perché ha un ruolo cruciale nei meccanismi di difesa del nostro organismo. A scoprirlo è stato uno studio, sostenuto da Fondazione AIRC, diretto e coordinato dall'Università degli Studi di Brescia e Humanitas. I risultati, pubblicati che verranno pubblicati sulla copertina di novembre della rivista Cancer Immunology Research, dimostrano che CCRL2 è in grado di “proteggerci” contro i tumori del polmone, attivando nel nostro organismo una risposta immunitaria mirata.
Gli uomini che vogliono proteggere e migliorare la propria fertilità dovrebbero consumare ogni giorno grandi quantità di pomodoro. Più precisamente due cucchiai di passata di pomodoro concentrata al dì. A svelare questo insolito “antidoto” contro l'infertilità maschile è uno studio condotto dall’Università di Sheffield (Regno Unito) e pubblicato sull’European Journal of Nutrition. I ricercatori hanno scoperto che uno degli ingredienti principali della dieta mediterranea, immancabile condimento per pizza e pasta, può migliorare a qualità dello sperma di un uomo. Il pomodoro, infatti, contiene una sostanza antiossidante molto importante, chiamata licopene, collegata già in passato a numerosi effetti benefici per la salute, in particolare contro le cardiopatie e alcuni tumori.
Quando si soffre di depressione non ci si ritrova solo ad affrontare i sintomi già abbastanza invalidanti di questa malattia, ma è possibile anche imbattersi in molti altri disturbi. Uno studio australiano ha infatti scoperto che i pazienti con un disturbo dell’umore severo hanno un rischio dal 12 al 32 per cento più elevato di andare incontro a 22 patologie diverse. Stando ai risultati pubblicati sulla rivista Molecular Psychiatry, la depressione aumenta le probabilità di soffrire di asma, di disordini urinari, di patologie cardiovascolari, di ipercolesterolemia, di esofagiti, di gastroenteriti e così via.
In particolare, dall’analisi dei dati genetici di oltre 330mila persone è emerso che la depressione non è semplicemente associata a queste patologie, né è una loro conseguenza, ma piuttosto ne è una causa diretta. Senza contare che chi soffre di depressione grave ha un rischio di suicidio più elevato: dal 40 al 70 per cento dei pazienti ha pensieri suicidari, il 10-15 per cento dei gesti estremi si verifica in chi soffre di depressione. Per questo la Società Italiana di Psichiatria (Sip) chiede maggiore attenzione e risorse per i Servizi di salute mentale in modo da venire incontro alle necessità dei quasi 3 milioni di italiani con disturbi depressivi: oggi per questo settore si spende appena il 3,5 per cento della spesa sanitaria complessiva, a fronte di una necessità stimata in almeno il 5 per cento e un investimento dell’8-15 per cento negli altri Paesi del G7.
Tra i tantissimi benefici già noti dell’allattamento al seno, sia per il bambino che per la mamma, se ne aggiunge un altro: il latte materno, così come quello di Banca donato, proteggono il neonato da virus pericolosi nel periodo perinatale e da nuovi virus emergenti trasmessi da zanzare invasive da poco presenti in Italia. Lo dimostrano una serie di ricerche effettuate nell’ultimo anno presso la Città della Salute di Torino e recentemente pubblicate su prestigiose riviste scientifiche internazionali: l’attività antivirale contro Cytomegalovirus del latte umano è stata pubblicata sul Journal Pediatrics Gastroenterology Nutrition, quella sull'attività anti-Rotavirus (virus delle gastroenteriti) e anti-Virus Respiratorio Sinciziale (la prima causa di bronchiolite nel primo anno di età) verrà invece a breve pubblicata su Pediatric Research (). Altri due studi sull’attività antivirale del latte umano fresco e di Banca sono stati pubblicati su Frontiers in Pediatrics e Journal of Steroid Biochemistry and Molecular Biology.
E’ tanto dolorosa e fastidiosa quanto è diffusa. La cervicalgia colpisce ben 15 milioni di italiani, 6 connazionali su 10. Non ci sono differenze tra uomini e donne, entrambi possono essere colpiti da quel dolore al livello del collo che si irradia alle spalle e che,nei casi più gravi, alle braccia, rendendo difficoltosi i movimenti. La buona notizia è che per evitarlo o attenuarlo ci sono semplici accorgimenti che si possono seguire nella vita di tutti i giorni, oltre che farmaci e cicli di fisioterapia. A tutti questi rimedi è stato dedicati il 12esimo Trauma meeting dell’Otodi (Ortopedici e traumatologi d’Italia), che si è tenuto di recente a Riccione.
Russare non è solo un gran fastidio per chi ci dorme a fianco. Ma può essere qualcosa di ben più serio e cioè una “spia di allarme” di una patologia vera e propria che predispone all’ictus. A puntare i riflettori sulla necessità di non sottovalutare l’abitudine a russare quando si dorme è A.L.I.Ce. Italia O.D.V. (Associazione per la lotta all’Ictus Cerebrale). Secondo gli esperti, il semplice russamento può costituire il sintomo della cosiddetta Sindrome delle Apnee nel Sonno (OSAS - acronimo del termine inglese Obstructive Sleep Apnea Syndrome), con conseguenze plurime sulla qualità di vita delle persone.
Si tratta di un disturbo respiratorio che si manifesta esclusivamente durante il sonno, caratterizzato da episodi ripetuti di ostruzione delle vie aeree superiori complete (apnea) o parziali (ipopnea). Queste pause respiratorie, di durata superiore a 10 secondi e spesso riferite dal partner, sono accompagnate da russamento abituale, risvegli improvvisi con sensazione di soffocamento, sonno notturno agitato, necessità di urinare spesso durante la notte, sensazione di bocca asciutta, cefalea al mattino e, in misura minore, sudorazione notturna eccessiva. La qualità di vita di chi è affetto da apnee notturne risulta significativamente alterata: la riduzione frequente del livello di ossigeno nel sangue e la cattiva qualità del sonno possono provocare, come dimostrato da numerosi studi a livello internazionale, il rilascio degli ormoni dello stress che, come tali, si rendono responsabili, come fattore di rischio, se non addirittura causa, di malattie cardio e cerebrovascolari (ictus cerebrale, ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale, infarto) e dismetaboliche (diabete, obesità). Non solo. È una patologia che, portando ad alterazione del sonno ristoratore della persona, può provocare sonnolenza diurna: basti pensare che i colpi di sonno alla guida causati da questo disturbo sono la causa del 7 per cento dei circa 170mila incidenti stradali che si registrano ogni anno nel nostro Paese.
C’è una nuova strada per impedire che l'epatite B diventi cronica. Ad aprila è stato un gruppo di ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e dell’Università Vita-Salute San Raffaele che ha prima scoperto il meccanismo dietro l’inefficacia del sistema immunitario e poi ha trovato una molecola, l’interleukina-2, per “riattivare” le nostre difese contro il virus. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Nature, potrebbe diventare d'apripista per una nuova generazione di farmaci contro questa infezione che nel mondo colpisce più di 250 milioni di persone, risultando tra i primi fattori di rischio per il cancro del fegato. La ricerca è stata finanziata dallo European Research Council (https://erc.europa.eu/), da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e dalla Fondazione Armenise-Harvard.
Il virus dell’epatite B (HBV) si trasmette per contatto con sangue infetto, per via sessuale o da madre a figlio durante il parto. Quest’ultima forma di trasmissione è la più diffusa in paesi come Africa e Cina, dove non è generalmente disponibile il vaccino contro HBV, molto efficace e in grado di proteggere il bambino se effettuato tempestivamente. Il contagio con HBV può dare origine sia alla forma acuta della malattia, che in genere si risolve entro pochi giorni, sia alla forma cronica, per cui non esiste oggi alcuna cura definitiva, ma solo delle terapie antivirali di contenimento. Nei pazienti colpiti da questa infezione cronica il sistema immunitario non riesce a debellare il virus responsabile della malattia, che continua a sopravvivere e riprodursi all’interno delle cellule del fegato. Al contrario di quello che accade quando un adulto contrae il virus, oltre il 90% dei bambini che vengono contagiati alla nascita sviluppano la forma cronica di epatite B.
Che facciano bene alla salute era già noto da tempo, considerato il loro contenuto di vitamine, minerali, fibre e grassi insaturi. Ma la frutta secca è da sempre considerata “off limits” per chi teme di mettere su peso. In realtà, un consumo moderato avrebbe l’effetto opposto. Uno studio guidato da Deirdre K Tobias della Harvard University T H Chan School of Public Health di Boston, pubblicato sul BMJ Nutrition, Prevention & Health, suggerisce che qualche noce o nocciolina può aiutare a contrastare l’accumulo di peso che solitamente avviene con il passare degli anni. Gli adulti, in media, tendono ad ingrassare di mezzo chilo all’anno.
Come ogni anno l’influenza arriverà. Forse un po’ prima del solito con virus lievemente meno contagiosi, ma quest’anno pare saranno particolarmente insidiosi. Secondo Assosalute saranno circa 6 milioni gli italiano che verranno messi ko dall’influenza, un po’ meno degli anni scorsi. “A oggi la stagione influenzale in arrivo non sembra essere pesantissima, con un numero di casi leggermente sotto la media”, conferma il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore del Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Milano.
Meno contagi, tuttavia, non significa che bisogna sottovalutare l’influenza. Anzi, i virus che circoleranno quest’anno sembra saranno più insidiosi. In particolare due varianti dei virus influenzali H3N2 (A/Kansas) e H1N1(A/Brisbane) che possono provocare maggiori severità e rischio di complicanze. “Oltre a questi due virus, saranno presenti anche i virus B/Colorado e B/Phuket, che sono varianti già conosciute nelle passate stagioni”, dice Pregliasco. C'è solo un modo di prevenire il contagio ed è vaccinarsi. “La vaccinazione è un’opportunità per tutti, ma ha un’impellenza sempre più alta al crescere della fragilità del soggetto”, sottolinea Pregliasco. Sono le categorie a rischio per cui la vaccinazione è fortemente raccomandata perché può fare per davvero la differenza tra la vita e la morte. “Il vaccino contro l’influenza - dice il virologo - non ci mette a riparo da tutti i virus in circolazione, ma il suo successo va misurato in ottica salvavita. L’obiettivo principale è proprio quello di dare copertura ai soggetti fragili e ridurne la mortalità associata”.
Sono stati già legati a un aumento dei livelli di colesterolo, allo sviluppo di alcuni tumori e all’infertilità. Ora tra gli effetti dei Pfas (sostanze perfluoro-alchiliche) va aggiunto anche il rischio osteoporosi. Infatti, una ricerca coordinata da Carlo Foresta, ordinario di endocrinologia presso l'Università degli Studi di Padova, ha rilevato che i Pfas interferiscono anche con il recettore della vitamina D, altrimenti detta “vitamina del Sole”, favorendo l’osteoporosi. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Endocrine. I Pfas sono una famiglia di composti prodotti da decenni come sostanze idro e olio repellenti utilizzate nell’industria degli arredi e del vestiario. Per la loro resistenza termica vengono anche utilizzati come componenti delle schiume ignifughe. Studiati attentamente solo negli ultimi anni, i Pfas si sono rivelati pericolosi per la salute.
Con il caro vecchio test da carico di glucosio (OGTT) è possibile avere diagnosi più precoci e accurate di diabete. Uno studio internazionale, a cui hanno preso parte anche gruppi di ricerca italiani suggerisce che, con le dovute rivisitazioni, l’OGTT potrebbe diventare il test diagnostico più sensibile a nostra disposizione. I risultati, presentati in occasione della 55esima edizione del congresso dell’EASD (European Association for the Study of Diabetes), potrebbero avere risvolti importantissimi contro una delle patologie attualmente più diffuse, anche e soprattutto in Italia.
I dati più recenti dell’Osservatorio ARNO Diabete, nato da una collaborazione tra Società Italiana di Diabetologia (Sid) e CINECA, documentano che il tasso di prevalenza totale del diabete in Italia è pari al 6,34%. E accanto ai casi noti non rilevati da queste fonti (prevalentemente pazienti in terapia solo dietetica, privi di esenzione ticket e mai ricoverati in ospedale) ci sono i casi di diabete misconosciuto che secondo stime recenti corrispondono a circa il 20% del totale. Quindi la prevalenza complessiva del diabete si attesta ragionevolmente intorno all’8%. Estrapolando il dato all’Italia si tratta di circa 4 milioni di casi noti e circa 1 milione di casi misconosciuti. Inoltre, circa 10 milioni di persone hanno una forma di "prediabete" (alterata glicemia a digiuno e/o ridotta tolleranza glucidica), un pregresso diabete gestazionale o familiarità primo grado per diabete o obesità o sovrappeso centrale. Di questi circa 2 milioni svilupperanno il diabete nei prossimi 10 anni se non faranno qualcosa per evitarlo.
Negli ultimi anni la ricerca di una cura contro il cancro ci ha portato a riconsiderare l’utilità di molti farmaci già in commercio e in uso per patologie diverse dal tumore. Uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS e sostenuto da Fondazione AIRC ci ha ad esempio suggerito che abbinare un farmaco antidiabetico a un farmaco antitumorale può essere di grande aiuto contro alcune forme di cancro. I dati, pubblicati sulla rivista Clinical Cancer Research, mostrano che la trabectedina, un farmaco antitumorale, in combinazione con il pioglitazone, un farmaco finora utilizzato per la terapia del diabete, spinge il differenziamento in adipociti di un tumore delle parti molli, la variante più aggressiva del liposarcoma mixoide. In altre parole, la combinazione dei due farmaci trasforma il liposarcoma da tumore maligno in tessuto simile a grasso normale.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno utilizzato cellule e animali di laboratorio insieme a tessuti di liposarcoma ottenuti da pazienti, dimostrando che la combinazione tra i due farmaci fa regredire il tumore e ne impedisce la ricrescita. Questo fenomeno è stato osservato anche in liposarcomi in cui la trabectedina da sola non era efficace perché il tumore era diventato resistente al farmaco. Attraverso questi studi si è ipotizzato che la sola trabectedina inducesse un parziale differenziamento del liposarcoma mixoide in adipociti, ma il suo effetto non era completo e dopo un periodo di trattamento più o meno lungo si esauriva.
Il cellulare non ha solo rivoluzionato il nostro modo di vedere il mondo, ma ha anche cambiato il modo con cui percepiamo noi stessi nel mondo e, addirittura, il nostro modo di essere. Ne sono un esempio emblematico i risultati di una ricerca condotta dalla Cass Business School di Londra. I ricercatori hanno scoperto che l'icona che indica la percentuale rimanente di autonomia della batteria sui nostri cellulari deforma la nostra percezione del tempo e dello spazio e che il fatto di mantenere il cellulare sempre carico o meno ci dice (e dice agli altri) chi siamo davvero. I dettagli dello studio saranno pubblicati sulla rivista Marketing Theory.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno coinvolto un gruppo di pendolari di Londra. Hanno così evidenziato che i partecipanti interpretavano il loro tragitto giornaliero in funzione del tempo e della distanza fra i luoghi che gli avrebbero permesso di ricaricare il proprio cellulare.”La gente non pensa più in termini di chilometraggio (10 chilometri da qui) o di fermate (10 fermate di metropolitana)”, afferma Thomas Robinson, docente di marketing alla Cass Business School e principale autore dello studio. “Pensa in termini di percentuale di batteria rimanente sul cellulare (resta il 50%)”, aggiunge. E’ come se tutti fossero presi da una sorta di “isteria” da cellulare scarico. “Durante i colloqui, i partecipanti hanno sottolineato come una carica completa della batteria li facesse sentire bene e come se potessero andare ovunque e fare qualunque cosa”, dice Robinson. “Mentre il fatto che restasse meno della metà della carica suscitava emozioni di profonda ansia e disagio”, aggiunge.
Non c’è cura immediata per superare il dolore causato da un lutto o dalla separazione da una persona cara. Ma un piccolo aiuto può arrivare da un amico che non ti aspetti, un cane o un gatto. La loro compagnia infatti può rivelarsi un ottimo antidoto per ridurre la depressione e la solitudine. Specialmente tra le persone più avanti con l’età. A riscoprire il valore di un amico a 4 zampe è stato un gruppo di ricercatori della Florida State University in uno studio pubblicato sulla rivista The Gerontologist.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato i sintomi depressivi e la solitudine tra persone di età pari o superiore ai 50 anni che avevano sperimentato la perdita del coniuge in seguito alla morte o a un divorzio. I dati sono stati estrapolati dall’Health and Retirement Study, uno studio sulla salute e l'età della pensione, a cui sono stati aggiunti altri dati raccolti tra il 2008 e il 2014. I ricercatori hanno confrontato tutte queste informazioni con i dati quelli relativi alle persone che invece erano state sposate in maniera continuativa. Dall’analisi è emerso che chi viveva un lutto o una separazione dal partner sperimentava livelli più alti di depressione. In chi non aveva un animale domestico, però, questi sintomi depressivi e il senso di solitudine erano maggiori. “Spesso il rapporto che abbiamo con il partner è il nostro legame più intimo e la perdita può essere davvero devastante”, evidenzia Dawn Carr, che ha guidato la ricerca. “Un animale domestico potrebbe aiutare a compensare alcuni di questi sentimenti. Ha senso - continua - pensare: ‘Almeno questo animale domestico ha ancora bisogno di me. Posso occuparmene. Posso amarlo e mi apprezza’. Quella capacità di restituire e dare amore è davvero potente”.
Per rendere più efficaci i farmaci contro la depressione bisognerebbe stimolare contemporaneamente la capacità del sistema nervoso di modificare le relazioni tra i neuroni (le cosiddette sinapsi), di instaurarne di nuove e di eliminarne alcune. Uno studio preclinico condotto da Igor Branchi e Silvia Poggini presso l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), infatti, ha dimostrato che è possibile potenziare l’effetto degli antidepressivi stimolando la plasticità neuronale. I risultati, presentati per la prima volta al 32esimo Congresso dello European College of Neuropsychopharmacology (ECNP) a Copenaghen, potrebbero essere la chiave per trattare efficacemente tutte quelle persone, circa un terzo dei 322 milioni di pazienti a livello mondiale, che non rispondono come dovrebbero agli antidepressivi serotoninergici.
Il nostro intestino può essere considerato un “secondo cervello”. Insieme al microbiota, quella numerosa popolazione di batteri “buoni” che vivono in maniera simbiotica con l’uomo al suo interno, gioca un ruolo importante nel regolare l’umore dell’individuo e nell’aggravare disturbi come ansia e depressione. Ma finora non era chiaro come questi microrganismi potessero svolgere questa azione. A fare chiarezza è stato uno studio dello University College of Cork, in Irlanda, pubblicato sulla rivista Neurotherapeutics. I ricercatori irlandesi hanno evidenziato che il microbiota agisce sull'intestino favorendo o contrastando la produzione di alcune sostanze, i peptidi, che, secreti dalle sue pareti, entrano nel circolo sanguigno e arrivano al cervello, condizionando l’umore dell’individuo. L’esistenza di questo meccanismo apre la strada a nuovi trattamenti con “psicobiotici”, particolari probiotici che, modificando il microbiota, possono essere un valido aiuto nel combattere disturbi dell'umore come ansia e depressione.
Le bevande analcoliche non sono così innocue come si potrebbe pensare. Pur non contenendo alcol, potrebbero accorciare la nostra vita. Un maxi-studio coordinato dall’International Agency for Research on Cancer ha concluso che bere due o più bicchieri al giorno di “soft drink”, cioè di bibite analcoliche contenenti zucchero o dolcificanti artificiali, è associato a un maggior rischio di morte per tutte le cause. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Jama Internal Medicine.
Per osservare più da vicino un possibile legame tra bevande analcoliche e mortalità prematura, i ricercatori sono ricorsi ai dati della European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition, uno studio multinazionale che ha reclutato partecipanti dal 1992 al 2000 all'incirca 452mila uomini e donne provenienti da 10 paesi, compresa l’Italia (gli altri sono Francia, Germania, Grecia, Paesi Bassi, Norvegia Spagna, Svezia e Regno Unito). Lo studio ha valutato l’alimentazione, incluso il consumo di bevande analcoliche, all’inizio del periodo di osservazione. I partecipanti hanno anche compilato questionari con domande su fattori come livello di istruzione, fumo, consumo di alcool e attività fisica. Lo studio è durato in media 16,4 anni, durante il quale 41.693 partecipanti sono deceduti. Ebbene, coloro che avevano bevuto due o più bicchieri di bevande analcoliche al giorno mostravano il 17% in più delle probabilità di morire precocemente rispetto a quelli che avevano consumato meno di un drink analcolico al mese.